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Autore: hikarufly    02/03/2012    5 recensioni
Post "The Reichenbach Falls", Sherlock Holmes è scomparso e il dottor John Watson ha dovuto voltare pagina... eppure ci sono ancora misteri da risolvere e un nuovo capitolo della propria storia da affrontare: un incontro casuale diventa uno dei momenti più importanti della sua vita.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mary camminava avanti e indietro, le braccia incrociate sul petto, con il busto un po' chino. Guardava nervosamente, a intervalli sempre più corti, verso la porta del locale Fountain de Duchamp. Il nastro della polizia era stato rimosso con delicatezza, e quasi sembrava che non fossero stati rotti. Sherlock si era barricato dentro, e a nulla erano servite le proteste della ragazza.

«E di che esperimento si tratterebbe?» domandò Mary, mentre uscivano dal 2 moulin e si avvicinavano alla porta del Fountain.

«Ho trovato qualcosa, una sostanza, in entrambe le scene del delitto. Ne ho prelevato dei campioni per capire bene qual è l'effetto che può provocare» spiegò Sherlock, lavorando sui sigilli delle forze dell'ordine.

«Hai intenzione di avvelenarti?» chiese subito lei, costringendolo con mano ferma ma gentile a voltarsi verso di lei. Il suo viso era spaventato.

«Non è un veleno... di questo sono certo. L'unico problema è che non ho la mia attrezzatura» spiegò, leggermente più calmo, ma infastidito dal non poter lavorare come avrebbe voluto «e quindi devo fare un esperimento. Aspetterai fuori e farai ciò che ti viene detto» fu poi la secca risposta di Sherlock.

«E se ti dovessi sentire male e non potessi chiamare aiuto?» continuò Mary pronta a elencare altre possibili attenuanti al suo comportamento ribelle ai suoi ordini. Sherlock fu sul punto di risponderle per le rime, quando lei mise i pugni sui fianchi in assetto combattivo, ma lasciò perdere.

«Aspetterai fuori e farai ciò che ti viene detto» ripeté, deciso e serio. Lei incrociò le braccia, ora meno arrabbiata ma più preoccupata. Sherlock, forse poco avvezzo a capire la sensibilità degli altri ma decisamente capace di cogliere i dettagli, sospirò impercettibilmente.

«Lascerò la porta socchiusa, in modo che tu possa sapere cosa sta succedendo, e intervenire solo se necessario» replicò, ripensando bene anche all'ambiente che voleva ricreare per il suo esperimento «Solo se strettamente necessario. Siamo intesi?» soggiunse, sempre serio. Mary trattenne un sorriso rassicurato e annuì, stringendo le braccia come se avesse freddo.

Dopo qualche minuto di attesa vigile e tesa, Mary sentì la voce profonda di Sherlock emettere una nota lunga e molto simile a una richiesta di aiuto. Entrò di corsa, come se non aspettasse che un minimo movimento, e lasciò la porta un po' più aperta di quel che era prima. Dove giusto poche ore prima l'amica Brigitte, insieme a Olivier e Georges, suonavano, cantavano e intrattenevano, Sherlock si era sistemato come se fosse impegnato in una recita di Rudyard Kipling. I proprietari del Fountain avevano un amore innato per tutto ciò che era orientale, e di conseguenza avevano arredato il loro palco come se fosse il salotto di un inglese vittoriano che era vissuto per anni in India. Nella penombra rossastra dei grandi vetri oscurati dal tessuto color cremisi, Sherlock era sistemato su dei cuscini di velluto e altre sete preziose, appoggiati su dei tappeti dagli intricati dettagli, messi l'uno sopra l'altro. Al centro del palco, una piccola lampada che emetteva un odore acre e un fumo consistente che si stava spandendo tutto intorno. Solo verso il retro, dove lui aveva aperto qualche finestra per far circolare l'aria, l'odore era meno opprimente. Mary si avvicinò in fretta e si sedette di fronte a lui, oltre la lampada. Sherlock sembrò avere un attimo di lucidità nel vederla lì: uno sguardo preoccupato per lei e infuriato per la sua disobbedienza. Presto, però, la sua espressione si fece più rilassata e a Mary iniziò a girare un po' la testa. La ragazza si appoggiò sui cuscini e le sembrò che tutto, intorno diventasse sempre più leggero, indefinito, e sorprendentemente bello e tranquillo. Si sentiva come qualche settimana prima, al suo arrivo a Parigi, quando aveva bevuto un po' troppo assenzio e aveva iniziato a decantare Baudelaire a gran voce, in francese, e Sherlock l'aveva dovuta riportare a casa di peso.

Avevano entrambi gli occhi aperti ma lo sguardo perso nel nulla, come se non vedessero veramente oltre il loro naso, o non vedessero altro che quei pochi metri quadri nei quali erano sistemati.

«Ha già una conclusione, Mr Holmes?» domandò lei, facendo finta di non conoscerlo, e rendendosi conto di fingere.

«Dev'essere una droga, Miss Morstan, a giudicare dal fatto che basta inalarne i fumi e si inizia a non parlare più con molto senso» replicò lui, prima come se fosse di nuovo a Baker Street, solo più sorridente, e poi ridacchiando «non la vedo così allegra e rincitrullita da quella sera in quel localino più in alto su Montmartre...»

Mary aggrottò la fronte, quasi offesa.

«Erano solo due bicchieri e secondo me non era neanche un vero assenzio... piuttosto un pastis con troppa acqua...Que tricheur laide!» concluse urlando lei, allargando le braccia, e in questo modo perdendo l'equilibrio e scivolando sui cuscini con un timido “oh!”. I due presero a ridere come se non ci fosse niente di più divertente per poi rilassarsi qualche secondo.

«Ricordi la prima volta che ci siamo baciati?» chiese Mary, ora più tranquilla e fissando prima il soffitto, poi lui. Si sentiva ancora un po' intontita, e allegra. Ma di un'allegria molto più simile alla serenità di aver passato una giornata magnifica e di essere meravigliosamente stanca. Sherlock non si voltò verso di lei.

«Era il 17 agosto, a San Pietroburgo. Erano le 15:30, e qualche assassino contrariato dalle mie deduzioni ci stava inseguendo» iniziò a raccontare lui, fissando un punto sul soffitto come se la scena fosse proiettata sull'intonaco fresco «Ci siamo dovuti nascondere in un piccolo vicolo»

Mary chiuse gli occhi e si sentì tremare per un attimo.

«Ero così spaventata... eppure l'adrenalina mi teneva vigile e attenta» raccontò, la voce più lenta e sottile, riaprendo gli occhi. I ricordi riaffiorano come dei sogni: il cuore che le batteva talmente forte che aveva paura che sarebbe uscito dalla gola, le mano di lui sulle sue spalle, che la tenevano contro il muretto cadente presso il quale erano fuori portata visiva. Fu un attimo: vide il suo viso avvicinarsi, le loro labbra si sfiorarono e poi si unirono. Pochi secondi dopo dovettero tornare alla realtà, distratti da un rumore che non poterono ignorare: in pochi minuti erano di nuovo al sicuro, facendo finta che non fosse successo nulla.

«Poi ci fu la Cina...» continuò lei. I ricordi di entrambi divennero una sorta di vecchia pellicola di un film francese. I due si erano risvegliati in una stanza buia, e scura, ma entro pochi secondi una luce abbagliante li aveva assaliti. Sherlock era inginocchiato terra, con nient'altro se non un paio di jeans sdruciti. La prima immagine che Mary vide fu la schiena di lui: arrossata nell'area delle scapole, dove troneggiavano due artistiche ali da angelo in inchiostro nero. Si tirò su, sentendo che i pantaloni sul suo polpaccio erano strappati e stava sanguinando un poco. La pelle le pizzicava sulla schiena, all'altezza della cintola, dove una leggear maglietta di cotone la copriva; portò una mano dietro e cercò di focalizzare l'immagine che era stata impressa contro il suo volere: un ramo di mandorlo in fiore. Avevano la testa pesante, entrambi, ma riuscirono a voltarsi l'uno contro l'altra. Lui portò subito una mano al viso di lei, per controllare che stesse bene, e le sfiorò la fronte con il pollice dove aveva un taglio non troppo recente. Lei scosse la testa, come a dirgli di non preoccuparsi. Sherlock le girò intorno, un po' carponi dato che non sembrava avere del tutto il controllo dei propri arti inferiori, e si portò dietro, dove studiò, alzando appena la maglietta e sfiorandole la pelle, il disegno. Mary sentì come una scarica elettrica e un brivido attraversarle la schiena quando sentì le sue dita, ma lui si allontanò come se si fosse scottato. I loro occhi indeboliti dalla troppa luce si incontrarono, come qualche mese prima in Russia. Vennero sballottati, come se la stanza in cui si trovavano fosse un container o il rimorchio di un tir. Qualche altro scossone li rese sicuri di trovarsi su gomma.

Mary si alzò un po' malferma sulle gambe per poi sedersi di nuovo, a pochi centimetri dalla schiena di Sherlock, che la guardava con la testa voltata verso di lei. Lei posò le mani sulla sua schiena e la testa contro il suo collo, con gli occhi chiusi, come se ascoltasse qualche melodia meravigliosa al di sotto della sua pelle. Sherlock si sentì strano, per un attimo, finché non riuscì a discernere le sue emozioni. Per una volta, però, mantenne solo i suoi sensi vigili. Si girò lentamente, la strinse tra le braccia come se dovesse affrontare una legione di guerrieri e la luce scomparve ancora.

«Tuo fratello Mycroft fu terribilmente crudele, con quella gang cinese» ricordò Mary, sempre osservando il soffitto come faceva Sherlock. Lui sbattè lentamente gli occhi, come se annuisse.

«Ci diede la possibilità di scappare» aggiunse lui, come se stessero raccontando quella storia a qualcuno, anche se era quasi tutto nella loro mente.

«Non ero mai stata in Ungheria» ammise Mary, di nuovo nei ricordi provocati dalla strana droga che stavano inalando ormai senza controllo.

«Mi dissi che non credevi ci fosse l'estate, nonostante avessimo visto Mosca in fiore» replicò Sherlock, gli occhi aperti e vigili, per quanto la sostanza glielo permettesse.

Correvano lungo le strade affollate solo di auto, in mezzo a tanti edifici in stile Liberty, ognuno a uno stadio diverso di degrado o di splendore. Fuggivano, mano nella mano, per strade piccole e tortuose, scale antincendio mal costruite, corridoi di edifici non finiti e infine giunsero in un appartamento vuoto, che sarebbe stato occupato entro poco, arredato ma assopito sotto teli bianchi antipolvere.

Entrarono da una porta chiusa con una serratura facilmente scassinabile e la richiusero alle loro spalle, appoggiandosi con la schiena contro il legno massiccio. Scivolarono appena, ridendo come se avessero appena trovato il luogo perfetto per vincere a nascondino. In realtà, avrebbero avuto ben poco di cui rallegrarsi, se Sherlock Holmes non fosse stato Sherlock Holmes: avevano depistato i loro inseguitori e se non si fossero allontanati da lì li avrebbero presto seminati del tutto. Per la terza volta, i loro occhi si persero l'uno nell'altro, mentre l'adrenalina infuocava il loro sangue e il cuore tentava di tornare a un ritmo normale, senza successo. Le braccia di lei gli circondarono le spalle, mentre le mani di lui correvano sulla sua pelle, al di sotto del tessuto leggero di cui era fatta la sua maglietta. Sherlock la baciò sul collo, sulle spalle, mentre Mary lo trascinava verso qualsiasi cosa le sembrasse grande abbastanza per reggere il loro peso. Lui le sfilò la maglia, mentre lei gli sbottonava la camicia e se ne liberava. Le dita nervose eppure precise di entrambi aprirono i pantaloni di lui, il reggiseno e la gonna a pieghe di lei. Si lasciarono cadere su quello che sembrava un ampio divano, e il telo che lo celava nascose i due, mentre di nuovo le loro labbra si sfioravano, si incontravano e si univano, le loro dita sfioravano la pelle tesa e nuda dell'altro, i loro corpi si intrecciavano.

Mary, al Fountain de Duchamp, chiuse gli occhi e sembrò addormentata.

«Mary, concentrati... non devi dormire, per nessuna ragione...» disse lui, quasi nervoso. Stava iniziando a capire come funzionava la droga: risvegliava vecchi ricordi, vividi come se stessero succedendo, portando a una beatitudine simile a una bolla di sapone piena di felicità, per poi intorpidire la mente del tutto e facendo scivolare la vittima in un sogno eterno e senza sogni. Lei riaprì gli occhi lentamente.

«Se fossi stata più coraggiosa... più forte... forse avrebbe funzionato» spiegò Mary, in tono fermo, senza rimpianto e visualizzando, come una sorsata di tisana benefica, l'immagine di John.

«Eri coraggiosa, e forte. Ma non potevi esserlo sempre» replicò Sherlock.

Qualche mese dopo il loro ultimo giorno a Budapest, Sherlock e Mary erano ormai consci di tre cose: lui era a un punto di svolta nel suo piano principale, ovvero districare la ragnatela di Moriarty per poter tornare alla sua vita a Baker street; Mary aveva trovato la pace per la morte di suo padre ma aveva bisogno di tornare a una vita normale, semplice, lontano dal campo di battaglia, o sarebbe impazzita; e infine, che quello che c'era stato tra loro era ormai finito, qualunque cosa fosse stata.

«Che cosa è successo, poi?» chiese Mary, combattendo contro il torpore che la stava invadendo.

«John. John Watson» rispose Sherlock, chiudendo a pugno una mano. Il suo migliore amico era ancora convinto che lui si fosse suicidato. Non era dispiaciuto per questo, era meglio così. Ciò che più lo infastidiva, però, era aver perso la sua compagnia, la sua fedeltà e perché no anche il suo affetto. Rivoleva indietro la sua vita, nonostante una piccola parte di lui, quella che Mary aveva scatenato e conquistato, sapeva che riprendere il suo posto a Baker Street avrebbe provocato molta gioia e insieme molto dolore.

«Mi desti il tuo cappotto... credevi che fosse freddo, a Londra» ricordò lei con un sorrisetto «non lo facesti solo perché attirassi l'attenzione di John, per quanto tu possa negarlo»

Sherlock fece una risatina, suo malgrado. Lei e Mrs Hudson erano le uniche due donne che gli suscitassero quella sorta di cavalleria che la sua landlady aveva sempre avuto in esclusiva per sé. E un po' anche Molly: se l'era guadagnata.

«Mi manca, sai? Vorrei tanto essere a casa...» sussurrò Mary, scivolando nel torpore. Sherlock si riscosse immediatamente, e si alzò, prendendola in braccio di peso e uscendo di corsa. Di sicuro, John l'avrebbe torturato se fosse successo qualcosa a Mary, dimentico per un momento che lo credeva morto. E Sherlock stesso non se lo sarebbe perdonato, dopo averle proibito di aiutarlo.

La ragazza sembrò aver chiuso gli occhi per l'ultima volta... ma l'aria fresca dell'alba che si avvicinava e le tecniche di rianimazione di quello strano uomo la fecero tossire così forte da far uscire tutto il fumo di quell'orribile strumento di morte.

«Sai che cosa penso, Sherlock?» chiese lei, quando lui la aiutò a stendersi sul letto, nell'appartamento di Rue Cauchois. Il suo silenzio fu un invito a continuare.

«Moriarty ti disse che sei dalla parte degli angeli, e tu mi dicesti che non sei uno di loro. Avevi ragione, è vero. Non sei un angelo, non più. Hai perso le tue ali: Dio te le ha strappate via, perché eri troppo borioso e presuntuoso. Come Lucifero eri troppo orgoglioso di te stesso. Così, sei stato cacciato dal paradiso e sei costretto a camminare tra noi mortali, facendoci sentire così sciocchi. Eppure, per quanto tutti credano, e tu lasci loro credere che tu non abbia anima, cuore o sesso, sei molto più umano di quanto tu stesso voglia credere»

Sherlock ascoltò tutte le sue parole, soppesandole una ad una.

«Quando avrai esaurito la poesia» “e i vaneggiamenti” aggiunse lui, ma solo nella sua testa «ed espulso il resto della droga, mi accompagnerai ad arrestare questo colpevole. Poi sarà tempo di tornare a casa»

Da John.

   
 
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