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Autore: Rigel und Betelgeuse    02/03/2012    2 recensioni
Varpu Korhonen si era spenta alla tenera età di ottantatré anni, sola come la più poca delle cose sulla Terra, tumulata nella sua casa in Normandia dalla quale aveva smesso di uscire molti anni prima.
Breve storia di una vita, in due capitoli.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia di Varpu Annikki Korhonen
e di come Odile Goblet ne scoprì la vita




Dell'eburnea pelle di Varpu Annikki Korhonen le sorelle Aubry non conservavano memoria, loro che l'avevano conosciuta soltanto nella sua canuta decadenza. Quando morì, nel maggio del 2010, la signora Aubry costrinse le figlie a presenziare con lei al funerale. Annalise a Aude, che avevano quindici anni e non erano stupide, sapevano che nemmeno alla loro perbene madre era mai interessato nulla di quella vecchia, ma che a muoverla alle cerimonie era stata la dilagante tristezza che le mettevano addosso gli eventi. Varpu Korhonen si era spenta alla tenera età di ottantatré anni, sola come la più poca delle cose sulla Terra, tumulata nella sua casa in Normandia dalla quale aveva smesso di uscire molti anni prima. L'avevano trovata dopo che il ragazzo del Carrefour - quello che era pagato per portarle a casa la spesa - s'era attaccato al campanello per circa un quarto d'ora; poi, sbuffando, si era passato una mano sulla fronte prima di chiamare un'ambulanza, rassegnato all'evidenza che nessuno l'avrebbe mai pagato per quella consegna a vuoto.
I funerali glieli aveva organizzati il comune, con quel tenore dimesso con cui in genere il comune fa le cose. La signora Korhonen non aveva avuto una camera ardente, ma era stata comunque mostrata al pubblico - un pubblico piccolo piccolo, che contava in tutto una persona in più delle dita di una mano - nella desolazione abbandonata del suo funerale. Annalise e Aude non avrebbero voluto affacciarsi su quel sarcofago di legno chiaro ed economico, ma la mamma - di cui gli occhi erano lucidi non per un affetto particolare, ma piuttosto per una incorreggibile fragilità emotiva - le spinse discretamente entrambe sulla bara, e allora loro poterono bearsi di quella vecchiaia incredibilmente ben conservata; di quel viso che senza esagerazioni consideravano ultracentenario, e che pareva ricoperto di stropicciata carta velina. Da quel suo ridotto giaciglio, Varpu apparve loro come il ritratto di un ossimoro nella sua pelle dalla fragilità lapidea, nella sua antichità bambina. Per la prima volta da quando sapevano dell'esistenza della vecchia, le sorelle Aubry fecero esperienza dell'avorio di quella pelle, che ora da morta pareva ricordare colori di una lontana - lontanissima adolescenza, di cui pure le due nulla sapevano.
Attorno alla bare, assieme a loro, c'erano altre tre persone - tra cui l'officiante - e, tra queste, una sola pareva essere lì con un vero cordoglio. Le sorelle lanciarono alla donna due occhiate identiche, che scivolarono sulla sua schiena come i tremiti e le lacrime che tutta la scuotevano; e allora alle due venne, istantanea, una voglia matta di sapere perché. Perché piangeva, in primis; perché era lì, a seguire. E poi, da lì, un monte di altri perché: perché c'erano solo sei persone - tra cui l'officiante - al funerale di quella vecchia; perché nessuno - tranne quella donna piccola, raccolta, di mezz'età - piangeva; perché nessuna di loro due - né Aude, né Annalise - aveva memoria dell'avorio di quella pelle.



«Ci scusi?»
«Ci scusi»
Prima Aude, poi Annalise. La donna - piccola, raccolta, di mezz'età - alzò gli occhi gonfi su loro, trovando uno e uno sguardo, identici, bruniti, profondi.
«Sì» esalò, la voce che moriva dopo la esse, lasciava un fantasma di i accentata.
«Vorremmo sapere chi era»
Fu molto strano i modo in cui le sorelle Aubry finirono per sedersi nella casa trinata che era appartenuta a Varpu; talmente strano che nessuna di loro due si preoccupò troppo di soffermarsi a pensare a quella bizzarria. Si guardarono solo intorno - una da una sedia a dondolo in vimini, l'altra da una poltrona in legno di ciliegio foderata in verde vellutato - e constatarono entrambe, in silenzio ma nello stesso istante, che stare lì era un po' come stare dentro una piramide: un posto buio, segreto, un po' mistico e pieno di oggetti. La donna che al funerale aveva pianto, scoprirono, si chiamava Odile Goblet, e fece accomodare le gemelle in quella casa - che conosceva così bene in tutte le sue suppellettili, in tutte le sue trine, in tutte le sue crepe - la volta in cui andò a raccogliere quello che Varpu, nel testamento, le aveva lasciato - ovvero tutto.
Prima di cominciare a rispondere ai loro perché, Odile preparò loro una tisana di liquirizia - di quelle che Varpu beveva per pompare la pressione. Poi aprì una pesante tenda color bottiglia per fare entrare l'aria luminosa e distaccata di un pomeriggio normanno di fine primavera; si sedette e prese a rispondere.



Odile era stata la dama di compagnia dell'atavica Korhonen, in un senso molto vintage del termine. Era stata assunta sulla fine degli anni Ottanta come donna delle pulizie, ma aveva finito per diventare molto di più di una semplice colf. Per Varpu, Odile aveva spolverato, cucito, cucinato, letto, chiacchierato. Sul finire del suo servizio le aveva anche fatto da infermiera, e si sarebbe senza dubbio occupata di farle anche la spesa se le fosse bastato il tempo.
Quando l'aveva conosciuta, Varpu aveva sessantun anni e i capelli colorati di rosso. Odile raccontò come, in quei primi tempi, temesse molto la signora Korhonen: ne citò i modi burberi, la pochezza delle parole, le lamentele su lavori mal fatti. Per mesi, disse Odile, lei stessa rifuggì il dialogo con la padrona di casa come si rifugge uno scontro pericoloso, fin quando, una volta, prese il coraggio a due mani e le chiese se avesse letto il giornale di quella mattina. Varpu le aveva vociato contro che lei aborriva e vietata l'ingresso in casa sua di cose simili, perché del mondo esterno lei non voleva sapere nulla, che lo riteneva tutto un crogiolo di porcherie e nefandezze indicibili.
«Quindi lei non sa nulla di cosa succede fuori?» lo stupore, quella volta, era stato in Odile più vivo del timore.
«Non mi serve saperlo» le aveva risposto l'altra, e parve cogliere la domanda che la domestica covava - come fa a non affogare in tutta questa solitudine? - perché, a risponderle, le disse «Tutto il mio mondo l'ho rinchiuso in questa casa»



Odile poggiò la tazza a fiorami sul tavolino basso in cristallo, rimboccato in un uncinetto fine e pignolo, e sparì dal salotto per poi tornarvi carica di un baule quadrato di legno, che aveva l'aria di pesare come tutti gli ottantatré anni che Varpu era riuscita a portarsi addosso.
Annalise e Aude la videro poggiare in terra un vaso inverdito di fiori sintetici per far spazio alla scatola.
Dopo le suppellettili, le trine e le crepe, le gemelle scoprirono un altro pezzo di quel mondo che Varpu aveva imbottigliato con sé in quel mausoleo. In quel salvadanaio cellulose e sali d'argento, le sorelle Aubry - come Odile prima di loro - scoprirono che anche Varpu era stata giovane. Nelle fotografie la videro donna prima che vecchia; e prima ancora ragazza, adolescente, bambina. Ne ritrovarono la pelle d'avorio, ne scoprirono le chiome scandinave fini, lunghissime, bionde com'è bionda l'alba matura e umida di Normandia.
Riconobbero la rotondità del visto, che negli anni si era svuotato di morbidezze ma non aveva mai nascosto una fisionomia piena. Rividero il naso corto, molto meno affettato di quanto ricordassero; così come le labbra erano più gonfie, più colorate, più vive di cosa mai le sorelle avessero memoria. Da tutte quelle pile di Varpu che sfogliarono quel pomeriggio - bevendo tisana di liquirizia che pompava la pressione - le gemelle Aubry seppero che l'unica cosa che della vecchia avessero mai conosciuto erano gli occhi, uguali a ottantatré anni così come a cinque, anche se più o meno appesantiti dai tendaggi di pelle che nel tempo scivolavano verso il basso, a chiudere i sipari.
Lo sguardo di Varpu Korhonen era confezionato in mandorle tondeggianti e lontane una dall'altra, così che si sarebbe detto potesse raccogliere più spazio nel suo campo visivo. Se ne stavano lì, quegli occhi, tutti merlettati di ciglia invisibili sotto gli albori altrettanto chiari delle sopracciglia fini. Ovunque fosse, qualunque età avesse, Varpu pareva sempre mostrarsi all'obbiettivo come se fosse stata costretta ad essere lì in quel momento, ad avere quell'età in quegli anni. Il cipiglio di qualcuno che è viziato abbastanza per poter far velata mostra di capriccio, e al contempo di qualcuno che onora le regole abbastanza da non potersi sottrarre ai propri doveri.



A Odile, da quando le aveva chiesto del giornale, giorno per giorno la signora Korhonen concesse di vedere un pezzo del suo mondo, e costruì per lei un mosaico che le teneva compagnia e le dava da pensare mentre era in servizio in quella casa-mausoleo.
Odile rispose così al primo perché delle gemelle: aveva pianto perché anche lei, a suo modo, aveva fatto parte di quel mondo - un po' segreto e un po' mistico - che con Varpu perse il suo demiurgo.
Per rispondere a tutto il resto delle loro domande, la donna cominciò a raccontare loro la Storia del Mondo di Varpu.



Il nonno di Varpu era di quelli nati nell'ultimo ventennio del Diciannovesimo, ed era solito dire che, in Finlandia, i problemi scarseggiavano perché la gente se ne preoccupava prima ancora che diventassero problemi.
A confermare la saggezza Sami ci fu la diagnosi di predisposizione alla bronchite con cui il pediatra battezzò la cinquenne signorina Korhonen, di cui aveva appena ispezionato l'espettorato dopo averle chiesto di sputare in un fazzoletto ricamato con le iniziali di famiglia. Mamma Helga e la sua bimba furono congedate con il serafico consiglio di trasferirsi in un luogo più caldo; cosa che, per quanto nei loro poteri, non mancarono di fare. Sei mesi dopo, quando a Tampere l'aria non potevi toccarla per quanto tagliente fosse, i signori Korhonen avevano impacchettato pezzi della loro vita e avevano attraversato una gran fetta d'Europa fino a raggiungere le più diurne terre normanne. La famiglia Korhonen, tra quei nuclei di matrice aristocratica, poggiava su fondamenta di ricchezze monetarie tali da permettere loro l'acquisto di una casa non lontana dal mare, nella fragile Francia degli anni Trenta, dove la disponibilità immobiliare era molto più ampia di quanto non fosse la disponibilità d'acquisto dei francesi stessi.
La Normandia era terra d'umidità e vento ma, per quanto umida e ventosa, almeno nei mesi invernali vantava una luce che Tampere non conosceva veramente fino a marzo, e un rigore meno rigido nelle temperature.
In quella Francia convalescente Varpu crebbe da bambina normale, ben più agiata di molti, immersa nella Normandia come qualunque Marie o Cécile sue coetanee. Di quella terra imparò la lingua, gli atteggiamenti, le credenze. Si fece ragazzina nutrendosi di poesia maledetta e religione, in quanto al suo paese tanta era la credenza nei dettami cattolici e, insieme ai mercati e alle fiere, Varpu si univa alle sue compagne nelle messe della domenica. A casa, a dirla tutta, non c'era di che attingere su quel versante, poiché Helga era sempre stata luterana moderata e suo marito, Edvard, molto curioso di religione ma mai praticante.
Varpu crebbe composta e un po' aristocratica, attingendo dalla religione e dalla famiglia ciò che le rispettive istituzioni erano pronte ad offrirle. Divenne pudica, educata, ma cocciuta come un masso delle coste bretoni, fiera e severa, intransigente più con sé stessa che con gli altri. Varpu aveva amici, ma soprattutto amiche, di cui era molto innamorata ma inconsapevole di esserlo. A dieci anni conobbe Sophie che era bruna, così opposta a lei da sentirsene tanto attirata. Aveva un anno di più ma sembrava già grande, un cipiglio selvatico e gli occhi di fiera. Varpu se ne innamorò perché era bella, ribelle, un po' ragazzo. Aveva una cicatrice sulla bocca che le raccontò essersi fatta in bicicletta, cadendo in un roveto: Varpu pensava a quella cicatrice tutte le sere, prima di addormentarsi.
Nel 1939, quando il clima francese aveva raggiunto temperature storiche alte, Il signor Korhonen annunciò a Varpu che, d'accordo con Helga, si era deciso di fare ritorno a Tampere. La Varpu dodicenne piangeva e piangeva e piangeva di notte, e si addormentava senza più lacrime e con gli occhi gonfi. Quando partirono, nel maggio di quell'anno, Varpu carezzò la cicatrice di Sophie e Sophie la sgridò molto.
«Queste cose non si fanno, tra ragazze» la fulminò indignata, e Varpu si sentì morire e bruciare di vergogna. Abbassò gli occhi, si sentì di aver fatto una porcata, mormorò scusa. Sophie rimase seria, diffidente, distaccata.
«Fai buon viaggio» le disse asciutta «Poi boh, forse ti scrivo»
Non le scrisse mai.



Doverose note d'autrice: ho cominciato questa storia per un concorso del CoS a cui poi non l'ho fatta partecipare poiché non sono stata abile nel rispettare la consegna. Nasce da punti fissi dati dalla giuria e da un'immagine fornitaci, che serviva a costruire il protagonista della storia, di cui andava narrata la vita nell'interezza. Doveva essere una oneshot, ho preferito dividerla in due. Non so perché Varpu sia finlandese: mi piaceva la nazionalità e mi piaceva darle un nome che finisse con la u.
  
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