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Autore: Sylphs    02/03/2012    6 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rosso Eden

 
 
 
 
 
Vivian ruotò su se stessa con un movimento dalla leggiadria fatale, i veli rosso porpora della gonna che le svolazzavano intorno come fiamme lingueggianti, i riccioli scompigliati simili a piume corvine che spiccavano sul vermiglio, e saltò giù dallo sgabello foderato di velluto con il volto composto in un’espressione serena e sicura, la quiete del condannato.
Il laccio del Penjab si tese con un tremolio appena percettibile e il cappio che le vincolava la gola si strinse con un fruscio disgustoso, frenando bruscamente la sua caduta e mantenendola sospesa con i piedi nudi distanti di appena qualche centimetro dal pavimento. Il suo corpo alto e snello si irrigidì, sfuggendo con un guizzo alla volontà della mente salda e sicura, ed ebbe un primo, violento sussulto: le mani scattarono istintivamente e si avvinghiarono alla corda soffocante, i piedi si inarcarono in un potente spasimo e contrassero le dita, un soprassalto di sorpresa e di dolore le agitò i lineamenti composti e li trasfigurò in quella che viene comunemente ricordata come “la tragica smorfia dell’impiccato”. Gli occhi si sbarrarono fin quasi ad uscirle fuori dalle orbite, un rossore violaceo si diffuse come una reazione virale sul rosa sano delle gote e la bocca si aprì completamente nel tentativo di assimilare aria, mentre dalla gola emergevano gorgoglii mostruosi senza forma umana.
La giovane donna che pochi istanti prima torreggiava sopra lo sgabello come la reincarnazione di una splendida divinità scarlatta, con lo sguardo ardente di determinazione e la schiena dritta e orgogliosa, adesso penzolava appesa alla corda come un pesce fuor d’acqua, ed analogo a quello d’un tale animale era lo stupore dipintosi repentinamente sul suo viso paonazzo e congestionato, uno stupore che sarebbe parso quasi comico, se le circostanze non fossero state tanto tragiche. Le membra fremettero in una serie di sussulti e di spasimi sempre più forti e la lingua le spuntò ad un angolo della bocca, gonfia e violacea per l’asfissia. Gli occhi dilatati si erano rovesciati nelle orbite ed erano bianchi e inespressivi come chiare d’uovo.
Ella era divenuta, in quel momento, la grottesca caricatura di un essere umano, la mostruosa via di mezzo tra un cadavere e un vivente.
Erik, immobile a qualche metro di distanza, pallido quanto lei era paonazza, avvertì il suo cuore, per la prima volta da quando Christine lo aveva ridotto in pezzi, che si risvegliava prepotentemente dinnanzi all’orrido spettacolo e che diveniva un’entità a sé, separata dalla mente fredda e disincantata e altrettanto pressante e persuasiva. Era una creatura di istinto e di sentimenti, un lato di se stesso che credeva di aver perduto per sempre e che l’aveva spinto, anni prima, a rivelarsi alla piccola Christine sotto un’identità fittizia malgrado il buonsenso gli gridasse di non farlo, e in seguito a portarla nella sua dimora, una volta cresciuta. Adesso rinacque dalle ceneri con l’ardore convulso di una fiera in procinto di avventarsi sulla preda e riempì il suo corpo gelido e indurito di un calore sconvolgente e doloroso, di un fuoco che gli incendiava le vene ad ogni battito di cuore e che lo legava, indissolubilmente, all’altrettanto rovente fuoco che scorreva in Vivian. Tutto il suo essere palpitava di quella forza ritrovata nel momento di maggiore tensione e gridava a squarciagola il nome della ragazza, il cui calore rosso (adesso, finalmente, riusciva a vederlo) si affievoliva sempre di più, abbandonandole il corpo ancora in preda agli spasmi dell’agonia e lasciandolo freddo e inerte come era stato lui dopo la notte del Don Juan.
Sarebbe dunque stato necessario il sacrificio di Vivian, per riportarlo alla vita? Avrebbe dovuto donargli il suo fuoco, la sua forza vitale, e rimanere vuota e inanimata come la bambola che aveva fatto a pezzi?
“No!” dai polmoni gli fuoriuscì una primordiale esternazione della disperazione e dell’angoscia montati in lui con intensità dirompente e si lanciò sulla giovane con le mani tese verso di lei e gli occhi accesi da un luccichio di follia che ammiccavano da dietro la maschera.
Non gli importava di nulla, in quel momento. Le malefatte che avrebbe messo in atto, i brani che avrebbe composto e cantato, le migliorie che avrebbe apportato alla sua dimora, i torti che avrebbe raddrizzato, tutto era scomparso dalla sua anima, sostituito da un unico imperativo, un unico ordine: non perdere Vivian. Se l’avesse perduta, sarebbe stato tutto vano. Il suo amore per Christine, il suo odio per gli esseri umani, i suoi delitti, i suoi ricatti, gli abusi che aveva subito, i dieci giorni di novità e di pace appena vissuti, il tradimento di sua madre, l’orrore e il marciume della sua esistenza miserabile e gretta…
(…ho ucciso delle persone che non mi avevano fatto alcun male l’ho fatto senza motivo per pura brama di vendetta per mero sadismo le ho guardate negli occhi mentre morivano e…)
Raggiunse il corpo penzolante ansimando come un mantice, i capelli, il volto grondanti di sudore e la bocca che gridava parole senza senso, cercando di ignorare l’espressione grottesca che l’agonia le aveva conferito e il modo in cui le piccole mani che tanto dolcemente avevano sfiorato le sue la sera prima si artigliavano la gola, lacerando lo scollo dell’abito e scoprendole impudicamente i capezzoli rosa e la pienezza dei seni sussultanti, e l’afferrò per le gambe che scalciavano, nel tentativo disperato di sollevarla e attenuare il soffocamento.
(…mi è piaciuto vedere la luce che svaniva dalle loro pupille e la speranza che abbandonava i loro bei volti morbidi e ho impiccato un uomo proprio come lei si sta impiccando con questo laccio qui che le sta togliendo la vita l’ho inseguito nelle quinte dandogli il tempo di scappare anche se sapevo benissimo di poterlo acciuffare quando volevo e lui aveva paura di me e non mi aveva neanche visto in faccia…)
Strinse tra le braccia il corpo morbido e familiare della sua ospite, valutando quale fosse la maniera più rapida di caricarlo sullo sgabello, ma esso si ribellava con furore incontrollato alla sua presa e si dimenava convulsamente contro di lui, colpendolo, inavvertitamente, con calci e schiaffi vibrati a vuoto e mugolando rantoli strozzati che gli scivolavano, caldi, lungo la schiena. Ella non poteva aiutarlo, non poteva collaborare con lui e abbandonarsi al suo abbraccio, la sua mente e il suo corpo erano stati separati da una forza occulta che lui non era in grado di comandare e agivano ognuno per conto proprio. La serrò al petto con tutte le forze, sperando di sopraffarla e di impedirle di contorcersi così, mentre ripeteva come una lugubre cantilena: “No, Vivian, no, no!”
(…poi l’ho preso e gli ho passato intorno al collo questo laccio e l’ho lanciato sul palcoscenico senza alcuna esitazione e l’ho visto cadere ho visto le sue braccia e le sue gambe che si dimenavano e che poi ricadevano di colpo quando la corda terminava di svolgersi e tutti hanno urlato ma io sorridevo ed ero felice di quest’orrore di questa morte terribile…)
Cercò freneticamente con le dita della mano destra il profilo ruvido e pungente della corda stretta intorno al collo violaceo e continuò, come meglio poteva, a tenere alto il corpo che si contorceva sempre più debolmente, ringraziando la scarsa abilità della giovane nel fare i nodi, che le aveva impedito di compiere un’opera perfetta, grazie alla quale sarebbe morta all’istante. Il cappio non era troppo stretto e la stava soffocando lentamente. Afferrò il maledetto laccio, suo compagno e amico negli anni, sua mirabile creazione, adesso avversario potente e mortale, strumento capace di portargli via colei che l’aveva riportato alla vita e che gli aveva trasmesso il suo fuoco, e giurò a se stesso che non se ne sarebbe servito mai più, che l’avrebbe distrutto, scagliandolo nelle profondità del lago.
(…sempre con esso ho inchiodato il visconte ad un muro di sbarre e stavo per strangolare anche lui e l’unica mia preoccupazione era il tempo che Christine avrebbe impiegato a decidersi ma lui non aveva colpe fuorché quella di amarla era lei ad averlo scelto lei ad averlo preferito a me ma io non volevo accettarlo non volevo ammettere che era stata tutta una decisione della mia musa e me la sono presa con quel ragazzo)
Sciolse il nodo al quale Vivian era avvinta, combattendoci con tale furia da aprirsi tagli e graffi sulle mani tremanti, e le snelle membra di lei si abbandonarono all’improvviso alla sua presa, accasciandosi mollemente tra le sue braccia. Egli la sostenne prima che toccasse terra, prendendola sotto le gambe e circondandole le spalle, e la sollevò con viva ansia, stravolto e grottesco quanto lei: “Vivian!”
La ragazza non reagì. Il suo volto, divenuto cianotico, era disteso e inespressivo come quello di un cadavere e le labbra rosse, leggermente dischiuse, non producevano alcun respiro. Gli ampi squarci che s’era aperta nell’abito risaltavano tragicamente e le mettevano a nudo il seno, semicoperto dalla capigliatura arruffata. Grazie al cielo, gli occhi erano chiusi; il bianco fisso e assoluto della cornea era troppo arduo da sopportare.
“Vivian, no!” la voce gli venne fuori come un rantolo strozzato, e si volse con impeto verso la camera da letto che la giovane aveva occupato in quei dieci giorni, continuando a reggerla in braccio. Nella sua mente la rivide in quei momenti di serena tranquillità domestica, con le guance rosee, il viso acceso e divertito, gli occhi brillanti e passionali. Risentì la sua risata squillante e sgangherata, la sua voce forte e sicura, si figurò il suo sorriso, caldo e aperto, che mostrava tutta la dentatura e le illuminava il volto, provocando in lui un calore cui non era stato capace di dare nome. Ella aveva portato nel suo mondo freddo e buio luce e allegria, speranza e fiducia nel futuro, ma lui non aveva voluto capire, aveva preferito restare legato ad uno spettro, costringendola ad uccidersi per dimostrargli il suo amore. Invece di scaldarsi al calore del suo fuoco, l’aveva soffocato, l’aveva spento, negandosi il sogno di una possibile felicità, di un nuovo inizio, più luminoso, più leggero, più umano.
Scagliò da un lato la tenda di broccato che richiudeva l’ingresso della stanza, entrandoci con un’espressione insensata, con movenze quasi folli, e adagiò Vivian sul baldacchino a forma di cigno, deponendole con delicatezza la testa riccioluta sui guanciali. Ella non poteva essere morta. Se fosse morta, l’ancora che lo teneva legato al mondo, alla vita, ai sentimenti, alla ragione, si sarebbe spezzata bruscamente in due parti, l’avrebbe privato del suo sostegno, di un motivo per continuare a esistere, facendo volare la sua mente in un luogo fantastico e introvabile. Sarebbe impazzito…non avrebbe sopportato quella perdita, di cui egli era l’unico responsabile, non sarebbe riuscito, adesso che si era squarciata, a ricostituire la coperta e a nascondervi sotto quest’ultima, orribile colpa…il solo indugiare sulla sua pesantezza, sull’effetto che esercitava sulla sua anima (sempre che ne avesse una), provocò un tremito evidente nel suo equilibrio e fece vacillare qualcosa dentro di lui.
Intanto, la fanciulla continuava a non dare segni di vita. Un braccio nudo pendeva mollemente fuori dal letto, le dita inerti rivolte verso il basso, l’altro era appoggiato sul petto immobile, sul quale ricadevano lunghe ciocche di capelli neri, che le incorniciavano il volto bianco e inespressivo. Orride chiazze violacee le deturpavano il collo, rassomigliando ad una sciarpa maltessuta, e nessuna traccia del suo fuoco affiorava sui lineamenti distesi.
Erik le accarezzò convulsamente i capelli morbidi, scostandoli dal tenero viso e indugiando su di esso in una tremante, frenetica carezza, e le percorse le membra immobili con uno sguardo talmente allucinato da metter paura, le iridi di zaffiro dilatate al massimo: “Non sei morta” sussurrò su se stesso alla maniera di un mantra rassicurante: “Non puoi essere morta. Ce la farai, starai bene adesso. Ne sono sicuro. È stato solo un incidente, un dannato… indesiderato incidente. Ti riprenderai. So che ti riprenderai”.
Prese una caraffa d’acqua dal tavolino da notte, maledicendo la presa incerta con cui la induceva a tremare, e ne appoggiò l’orlo sulle labbra di Vivian, dandole da bere qualche sorso d’acqua.
Lei rimase immobile.
Qualcosa di bagnato si era ammassato sul viso mascherato di Erik e gli impediva di respirare con agio. Stava piangendo. Niente, dall’addio di Christine, era riuscito a strappargli una lacrima, eppure adesso gocce salate di quel liquido doloroso colavano dagli occhi stravolti e si impigliavano nelle piaghe della sua deformità, formando un contrasto affascinante e grottesco. Perché piangeva, dal momento che ella non era morta?! Si sarebbe ripresa, gli avrebbe sorriso come prima, aprendo i suoi meravigliosi occhi sbarazzini e mettendosi a sedere con l’antica energia. Doveva succedere ciò!
(…no, ti sbagli. È morta. E l’hai uccisa tu).
In un moto di rabbia e di dolore, gettò la caraffa contro il muro e la mandò in frantumi, provocando un frastuono che turbò il mortuario silenzio della Dimora sul Lago. Ciò che restava del contenuto si sparse a terra in una pozzanghera di lacrime e di sangue, e fu come se anche in lui si spezzasse qualcosa, forse l’ultimo vincolo che gli impediva di impazzire, l’ultimo brandello di ragione rimastogli. Si strappò la maschera dal volto, poiché soffocava e non resisteva più con quella indosso, ed emise un ruggito furibondo, afferrando Vivian per le spalle e scuotendola violentemente: “Svegliati, maledizione! Non puoi lasciarmi adesso! Non puoi abbandonarmi qui da solo! Hai detto che mi amavi, che mi volevi accanto! Hai promesso che saresti rimasta con me!”
Le lacrime gli rotolavano lungo gli zigomi deformi, gli entravano in bocca, riempiendola del gusto salato del dolore, rimanevano appese sul mento e poi cadevano, delicate e leggere, sul volto pallido di Vivian, bagnandole le palpebre abbassate, le labbra semiaperte, le guance defraudate del loro colorito acceso. Se fossero state magiche gocce di un prezioso elisir medicamentoso, non avrebbe esitato a piangere per giorni interi su di lei per guarirla, ma purtroppo non lo erano, si trattava soltanto dell’improvvisa, patetica manifestazione di umanità di un mostro, che non riusciva ad accettare di aver perduto l’unica creatura capace di risvegliare l’uomo dentro di lui. Anzi, probabilmente la stava contaminando, con esse, stava insozzando il suo corpo bianco e puro con quel liquido dannato e velenoso, che ricopriva in pari misura il volto di entrambi.
Le prese un braccio, sollevandolo dal giaciglio, quindi lo lasciò e lo osservò ricadere. Le diede un’altra piccola scrollata, meno convinta della precedente, e cercò inutilmente di metterla seduta: il corpo si accasciava puntualmente sul letto ogni volta che smetteva di sorreggerlo.
(…sto tentando di rianimare un cadavere).
Venne scosso da un tremito violento e indietreggiò incespicando dal baldacchino su cui giaceva il guscio vuoto della sua ospite. Era attonito, svuotato. Talmente vacuo, che pareva a sua volta un cadavere tenuto in vita da chissà quale oscuro incantesimo.
Cominciò a flagellarsi senza che nulla lo lasciasse supporre, con la stessa insensatezza che l’aveva spinto a distruggere la bambola di Christine e a frantumare gli specchi dopo che ella l’aveva abbandonato. Urlando come un forsennato e abbandonandosi al più cieco furore, conficcò le unghie nel suo maledetto viso deforme e si aprì tagli e ferite profonde e sanguinanti, lacerando la carne gelida e ossuta e desiderando, con quel gesto, di punirsi adeguatamente per i suoi crimini, di infliggersi il giusto castigo per aver fatto morire quella ragazza la cui unica colpa era stata amare l’uomo sbagliato, di strapparsi di dosso la lordura da cui si sentiva oppresso. Aveva diretto quell’odio, quella violenza, quella follia contro degli innocenti, contro un fantoccio di cera, protetto dalla coperta mentale, ma adesso essa era stata cancellata, e aveva compreso che il solo a meritarli era lui stesso, e che voleva ridursi proprio come la bambola, un ammasso informe e incapace di provare dolore. Così affondava più e più volte le unghie incurvate ad artiglio nella parte sana e nella parte piagata della sua faccia, trasformandole in un’uniforme maschera di sangue, la maschera più adatta a lui, si strappava ciocche di capelli castani che poi gettava a terra e faceva a brandelli gli abiti costosi. Voleva frantumarsi, fare a pezzi ciò che era e ciò che era stato, dividere gli orrori che, uniti, componevano la sua vera essenza, martoriarsi fino a morire per un colpo.
E, contrariamente a molti, era lieto di farlo da sé: in lui era rimasto ancora abbastanza orgoglio da aborrire la prospettiva di essere giustiziato da un altro. Morire per propria mano era la fine migliore che potesse immaginare.
Una vita cominciata col sangue non poteva che terminare allo stesso modo.
“Ma Vivian avrebbe potuto tenermi insieme” il pensiero lo ossessionava: “Avrebbe potuto impedire alla mia anima di andare in pezzi”.
Come evocata dall’intensità dei suoi desideri distrutti, ella gli apparve all’improvviso, afferrandogli la mano con cui seguitava a martoriarsi prima che potesse aprire altre ferite e pronunciando un deciso: “Basta!”
Erik si pulì freneticamente il sangue che gli aveva imbrattato il volto, folgorato dall’allucinazione, dal bellissimo miraggio giunto in suo aiuto sotto l’influenza della sofferenza e della follia, e scoprì con gioia infinita che era identico alla Vivian in carne ed ossa, che ogni particolare corrispondeva perfettamente alla vera ragazza, dal colore corvino dei capelli alla splendida risoluzione negli occhi. Ella era in piedi di fronte a lui, piccola ma fortissima come prima dell’incidente che l’aveva uccisa, il viso corrucciato e il seno che spuntava dalla veste rovinata, e l’uomo avvertiva il tocco delle sue dita sul polso come se fosse stato reale, tanto che tutto il suo sangue sembrava concentrarsi in quel punto.
Accolse il delirio della follia a braccia aperte. Non gli importava che quell’immagine fosse fittizia, che fosse tutto soltanto un sogno dai contorni sfocati: se gli dava la possibilità di vedere e toccare Vivian, era bendisposto a precipitarvi anche per sempre, a vivere in un mondo inesistente fino a morire di fame o di fatica. L’oblio di una mente insana era preferibile alla cruda consapevolezza della ragione.
Si immerse con languida beatitudine nella profondità delle sue pupille irreali e un sorriso di una felicità immensa e insensata si allargò sulla sua bocca piagata: “Vivian…”
Il miraggio strinse la presa sul suo polso, la mano tiepida ed eccitante contro la sua pelle indegna, e gli rispose, con il tono di qualcuno che ordina ad uno spirito disperato di fermare la sua brama di distruzione: “Erik”.
Egli chiuse gli occhi, assaporando il suono del suo nome pronunciato da lei. Gli dava un senso, lo rendeva tutto quello che avrebbe voluto essere che non era mai stato…lo risvegliava. Avrebbe voluto far ripetere al miraggio la parola fino allo sfinimento, per fondersi con essa, per sentirsi qualcuno il più a lungo possibile, e avvertì dentro di sé una smania improvvisa, irrefrenabile, una marea che cresceva, che si ingrossava, che abbatteva qualsiasi vincolo o catena.
“Ti amo, Vivian” non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo viso accigliato: “Mi hai sconfitto”.
Lei lo fissò intensamente, seria come non era mai stata, e le sue labbra si schiusero, forse per dargli una risposta irreale che Erik non desiderava ascoltare. Temeva che il miraggio sarebbe scomparso, che la sua follia non fosse tanto eterna da farlo vivere per giorni in quella dimensione onirica, e doveva dunque approfittarne finché lo percepiva nella sua interezza, assecondare, per la prima volta, la marea di sentimenti e di impulsi che troppo a lungo aveva represso.
Immerse le dita ferite tra i rigogliosi riccioli scuri di quell’immagine fittizia, attirandola a sé con un piccolo strattone, e chinò il volto su quello di lei, premendo le labbra sulle sue con impeto disperato e vorace. Non lo aveva mai fatto, in passato, perfino con Christine, era stata lei a servirsi di quell’incontro di respiri per salvare il suo fidanzato: per la prima volta, voleva godersi il momento senza che alcuna minaccia o compromesso lo guastasse, e assaporarlo in tutte le sue sfumature, per quanto fosse fittizio.
Vivian emise un gemito di sorpresa e di piacere allorché la bocca bramosa di Erik incontrò la sua, smorzando una risposta che non avrebbe mai potuto dare, ma non si irrigidì, non lo spinse via, non mostrò il timore classico di una fanciulla al suo primo bacio. Sicuramente, era dovuto alla sua natura di miraggio.
Gli circondò invece impetuosamente il collo con le braccia, facendo aderire i loro corpi frementi e desiderosi in un tutt’uno, e dischiuse prontamente le labbra, insinuando la lingua nella bocca di lui. Sapeva cosa doveva fare senza aver ricevuto alcun insegnamento di sorta, spinta dalla marea che li aveva avvinti entrambi, dalla forza di un sentimento che davano e ricevevano in egual misura.
La lingua di Erik la esplorò alla ricerca di un rifugio tiepido al freddo che sentiva dentro e le sue dita scivolarono sulla sua pelle bollente con desiderio disperato, dita che non avevano mai osato sfiorare una donna, saziarsi di lei, esprimere appieno il dolore della sua eterna solitudine. Vivian non palesava alcun accenno di disgusto, le sue carezze parevano accenderla ancora di più, risvegliare il suo sangue e la sua lussuria, farla tremare di piacere. Lo baciava con frenesia, le labbra rosse e doloranti, in una maniera totalmente diversa da quella che egli aveva sperimentato con Christine. Allora c’era stato solo un insipido incontro di labbra obbligato dalle circostanze e dal ricatto che aveva ordito, adesso nessuno dei due agiva per un motivo preciso e le loro mosse non avevano alcunché di sensato.
Lei gli lacerò la camicia, mettendogli a nudo il petto. Passò le piccole mani sui suoi muscoli ed Erik gemette, travolto da una felicità così grande, così insopportabile, che temette di morire. Non doveva reprimere ciò che volevano il suo cuore e la sua anima, non doveva temere il dolore di un rifiuto: capiva, dalla dolce bramosia con cui Vivian lo baciava e dal prorompente desiderio con cui lo toccava, che ricambiava i suoi sentimenti ed era pronta ad accoglierli.
Le sue labbra la ricoprirono di baci grati e frenetici, che andarono a posarsi sulle palpebre, sulla punta del naso, sugli angoli della bocca, sulla tenera carne del collo e infine sul seno, morbido e ansante, i capezzoli turgidi per il desiderio. Ella aveva le contusioni provocate dal laccio all’altezza della gola: com’era possibile? Come poteva averla immaginata provvista del segno tangibile della sua colpa? Si ritrasse, confuso e spaventato, ma lei lo attirò nuovamente a sé, carezzandogli i capelli e le piaghe: “Shh, va tutto bene, tutto bene”.
“Tu non…”
“Sono qui, Erik” Vivian parlò con voce leggermente roca, posando un bacio lungo e profondo sulla parte piagata del suo viso: “Sono qui con te”.
Egli comprese. Non era un miraggio. Non era un’immagine fittizia partorita dalla follia e dal dolore di averla persa. La ragazza abbandonata tra le sue braccia, il corpo nudo e fremente curvo sul suo petto, era la vera Vivian, viva, calda, nuovamente colma del fuoco che adesso condividevano entrambi. Il destino gliel’aveva restituita, gli aveva concesso di rimediare agli errori del passato, di salvare entrambi dai loro demoni…se avesse creduto in qualche dio, in quel momento l’avrebbe ringraziato con tutto il suo cuore.
“Sei qui” sussurrò tra i suoi capelli, chinandosi così tanto su di lei da confondere le lacrime di tutti e due in un unico pianto: “Sei viva!”
Lei sorrise, prendendogli una mano e posandosela sul seno: “Ho vinto. Adesso mi terrai con te”.
Erik non voleva più resisterle. Era pronto ad ammettere la sconfitta più dolce della sua vita, a lasciare che il liquore bollente e inebriante dell’amore gli entrasse in circolo, sbiadendo ogni cosa intorno a loro. Gli occhi di Vivian brillavano di una luce calda ed intensissima, entravano nei suoi fino a raggiungere un’anima di cui finalmente era consapevole, lo invitavano a scoprire un universo di delizie che non aveva mai conosciuto prima, in cui c’era spazio per la felicità, il riso, il sole e persino…il vero amore.
Lo esplorarono insieme, scrutandosi da principio come due belve affamate  e scegliendo strategie di attacco e di difesa che avrebbero portato ad una sola conclusione, perché l’attacco era invincibile e la difesa non aspettava altro che crollare. Tutto venne accantonato e dimenticato per far spazio al loro desiderio selvaggio e incontenibile, celebrato sul pavimento, sul letto, in piedi o aggrappati ai drappi…il fuoco che li alimentava e che divampava ad ogni bacio, ad ogni carezza, ad ogni languida parola sussurrata contro la pelle, li arse fino a consumarsi del tutto e per la prima volta nella loro intera, buia e amara esistenza, compresero cosa volesse dire essere davvero amati.

 
  
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