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Autore: Beatrix Bonnie    05/03/2012    2 recensioni
E se Silente avesse sbagliato i suoi conti? Se Harry, quel giorno a King's Cross, invece di tornare e combattere, avesse deciso di prendere il treno che lo avrebbe portato avanti?
Con un Voldemort al vertice del suo potere, il mondo magico nel caos e il Ministero della Magia definitivamente nelle mani dei Mangiamorte, uno sparuto gruppo di ribelli si oppone ancora all'autorità centrale: sono i membri dell'Ordine della Capra, i sopravvissuti della Grande Battaglia di Hogwarts.
Ma per sconfiggere Voldemort ci vuole ben altro: ci vogliono madri pronte a tutto per salvare i propri figli, una ragazza capace di mettere da parte il proprio egoismo per scendere in campo contro il dittatore e, soprattutto, la forza dell'innocenza di un bambino Veggente.
Storia prima classificata al "What if contest".
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Neville Paciock, Nuovo personaggio | Coppie: Dean/Luna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La saga del bambino Veggente'
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Il piccolo Auschwitz

Quello stesso giorno di novembre,
qualche ora prima



Sam non era proprio un bel bambino. Aveva una malattia cutanea, che nemmeno lui aveva ancora capito, per cui suoi i capelli faticavano a crescere e per questo sua mamma glieli teneva sempre tagliati corti corti. Inoltre la vitiligine (una malattia che causava mancanza di melanina, gli dicevano, anche se lui non aveva la più pallida idea di cosa fosse la melanina) gli provocava delle bizzarre macchie bianche sulla pelle, concentrate soprattutto sulle braccia e sulle mani. Perfino i suoi occhi avevano un qualcosa di strano: erano azzurri, ma di un azzurro chiarissimo, quasi ceruleo, e sempre sbarrati.
Complici le sue origini ebree e i difetti fisici, i bambini più grandi avevano cominciato a chiamarlo Auschwitz, soprannome che suo malgrado si era diffuso in tutta la scuola, anche tra i più piccoli, che nemmeno sapevano cosa fosse. Non si poteva dire che fosse un ragazzino molto amato: veniva escluso da tutti i giochi, scelto sempre per ultimo dai suoi compagni, lui, il piccolo Auschwitz, deriso da tutti e senza nessun amico.
Sam aveva imparato a convivere con la sua solitudine, sebbene gli adulti lo incitassero sempre a socializzare con gli altri. Perché avrebbe dovuto mostrarsi gentile con chi non lo era con lui? Durante la pausa mensa, si rintanava in un angolo a giocare con dei legnetti e questo certo non contribuiva ad aumentare la sua già scarsa popolarità, visto che lo faceva apparire agli occhi degli altri bambini anche più stano di quanto non fosse.
«Ehi, Auschwitz!» lo richiamò proprio in quel momento un ragazzino dell'ultimo anno.
Sam alzò gli occhi dai sassolini che aveva raccolto nel cortile e con i quali stava giochicchiando in solitudine, per ritrovarsi davanti John, il bulletto della scuola, spalleggiato dai suoi amici. «Che vuoi?» gli chiese in malo modo.
John si voltò verso gli altri e cominciò a sghignazzare. «Ho voglia di divertirmi. Perché non ti unisci a noi?» gli chiese con un sorriso maligno.
Per un attimo Sam assaporò l'idea di essere stato invitato da qualcuno, poi realizzò che non poteva essere vero: doveva trattarsi sicuramente di uno scherzo idiota. «No, grazie. Sto bene da solo» rispose, tornando a giocare con i sassolini.
John gli si avvicinò di un passo con aria piuttosto minacciosa. «Forse non hai capito: non era una domanda» gli latrò addosso, poi lo afferrò per il colletto e lo sollevò da terra.
«Lasciami!» gridò Sam, scalciando come un forsennato, ma era talmente smilzo e mingherlino che non aveva la speranza di competere con uno della stazza di John.
«Ai cessi!» esultò il bullo, incitando i suoi compagni come un vero condottiero.
Sam sapeva benissimo cosa significava: mettere la testa di qualcuno nel water era un divertimento piuttosto comune per quelle baby gang. Provò ad dimenarsi per riuscire a sfuggire alla presa di John, ma quello lo trascinò ai bagni come se fosse la sua bambola di pezza, mentre i compagni sghignazzavano divertiti.
«Allora, Auschwitz, le tue ultime parole prima della camera a gas?» lo derise John, scrollandolo con forza davanti al cubicolo in cui si sarebbe consumato il sopruso.
Sam sgranò gli occhi allucinato. «Sbarre!» esclamò con la voce più acuta del normale.
Tra le tante stranezze di Auschwitz, mai John avrebbe pensato che se ne sarebbe venuto fuori con una roba del genere, proprio prima di finire con la testa nel water. «Come?»
«Sbarre, sbarre, vedo tutte quelle sbarre intorno a te!» gridò Sam. Pareva terrorizzato, si agitava come un animale in gabbia. I suoi occhi erano spalancati e fissi su qualcosa che sembrava vedere solo lui. «Sei in prigione! Liberati, liberati!» strillò, cominciando ad ansimare come un forsennato.
John mollò la presa e si allontanò da lui di qualche passo.
Non appena Sam non fu più sostenuto dalla forza di John, si accasciò a terra, accartocciandosi su se stesso, e scoppiò a piangere.
«Tu sei fuori come un balcone!» commentò il bullo, scuotendo la testa. E avrebbe aggiunto altro, se non fosse stato interrotto da qualcosa di ben più strano delle visioni di Auschwitz. Nel momento stesso in cui il moccioso si era messo a piangere, tutti i rubinetti si erano aperti in contemporanea.
«Chiudeteli!» ordinò John agli altri ragazzi, ma per quanto questi ruotassero le manopole, l'acqua non smetteva di sgorgare. Presto si sarebbe allagato il bagno. «Via di qui!» gridò il capo branco, realizzando che le cose si stavano mettendo davvero male.
Sam restò rannicchiato a terra, terrorizzato da quello che aveva visto. Non si accorse dell'acqua che lo stava inzuppando. Restò lì, ad aggiungere le sue lacrime al lago che si era formato sul pavimento, finché non arrivò la maestra a portarlo via.

La signora Rachel Lechner era una normale casalinga inglese di mezza età. Abbigliamento semplice, a cui le piaceva aggiungere qualche dettaglio che desse un tocco eccentrico, capelli castani mossi dalla permanente, scarpe con un leggero tacco. Tre figli, di cui la più grande già indipendente, e una piccola villetta a schiera con un giardino curato. Insomma, una signora come tante.
Ma lei non era come gli altri, o almeno, non lo era stata. Un tempo le piaceva l'idea di sentirsi diversa, ma in quegli ultimi anni era diventato tutto più pericoloso, così era stata costretta a fare buon viso a cattivo gioco, nascondendo quella parte di sé che avrebbe potuto causarle guai. Meglio non rischiare e tornare a vivere come se niente fosse. Forse l'avrebbero lasciata in pace.
Ma non aveva messo in conto la possibilità che anche suo figlio Samuel fosse come lei.
Quando la maestra l'aveva chiamata a scuola, quel pomeriggio, dicendo che Samuel si era cacciato in un guaio, non si era preoccupata eccessivamente, perché in fondo suo figlio era un ragazzino tranquillo. Se anche aveva combinato qualcosa, probabilmente non era volontario.
Quando arrivò a scuola, una bidella piuttosto grassoccia la condusse all'ufficio della preside. Seduto su una seggiolina, con gli abiti inzuppati e il capo chinato a terra, stava suo figlio Samuel. Sembrava un condannato a morte in attesa del patibolo. Quando la vide arrivare, alzò lo sguardo: Rachel lesse terrore e smarrimento nei suoi occhi cerulei spalancati su di lei. La donna gli accarezzò teneramente la guancia, poi lo prese per mano e insieme entrarono nell'ufficio della direttrice.
La preside era una signora sui sessant'anni, con la faccia gentile. Fece accomodare mamma e figlio sulle due poltroncine davanti alla scrivania, poi annunciò: «Samuel ha allagato il bagno dei maschi al primo piano».
Rachel si voltò verso Sam con aria di rimprovero, ma lo sguardo disperato del figlio le fece capire che doveva esserci qualcosa sotto.
«Non sono stato io» piagnucolò il bambino, tirando su con il naso.
«Samuel, perché non racconti quello che è successo?» lo incitò la direttrice, con un tono gentile.
Gli occhi sbarrati di Sam si fissarono prima sulla preside e poi su sua madre, infine si piantarono a terra. «Lui, John, voleva farmi uno scherzo. Poi...» cominciò a raccontare, ma si interruppe subito. Rachel allora gli diede un buffetto sulla guancia che lo indusse ad alzare gli occhi su di lei. Il piccolo Sam fece un profondo sospiro e poi continuò: «Ho visto delle sbarre, c'erano tante sbarre intorno a John, come se fosse in prigione. Allora io ho gridato e lui mi ha lasciato andare, e io mi sono messo a piangere e poi i rubinetti si sono aperti, ma non si chiudevano più...»
«Basta così, Samuel» lo interruppe la direttrice, in un tono più duro di prima. «Non è il caso di dire le bugie».
Sam tirò su di nuovo con il naso. «Non sono bugie, signora» singhiozzò, torcendosi le mani.
«Vuoi dirmi che tu hai realmente visto delle sbarre attorno a John che nessuno poteva vedere e i rubinetti hanno cominciato a perdere tutti assieme?» chiese la preside, osservandolo da sopra i suoi occhialetti da lettura.
Rachel posò una mano sulla gamba del figlio e fece una leggera pressione. Cercò di mantenersi calma, anche se avrebbe voluto prendere in braccio Sam e scappare via. Lei sapeva perfettamente che cosa significavano le visioni di Sam: quelli erano i primi segni della magia. Samuel era un mago, come lei.
Rachel attese paziente che la preside decidesse la punizione per il figlio, poi chiese il permesso di portarlo a casa, usando come scusa il fatto che fosse un po' scosso. Ottenuto il consenso, la donna prese Sam per mano e lo condusse verso la stazione della metropolitana più vicina. Camminava con un passo svelto e si guardava costantemente intorno, come se temesse di essere seguita.
«Mamma, perché non prendiamo la macchina?» domandò Sam, indicando la loro automobile, che li attendeva parcheggiata davanti a scuola.
Rachel gli rivolse un sorriso tirato. «Non vuoi fare un giretto in metropolitana, Sammy?» gli chiese. In realtà, la sua vana speranza era che loro non li attaccassero in mezzo a tutti quei Babbani, non tanto perché fossero preoccupati di mettere in pericolo qualche insulso Babbano, quanto per non rischiare di far saltare la loro copertura e richiedere così l'intervento di numerosi Incantesimi di Memoria per riparare al danno. Economia di forze: fosse dipeso da lei, avrebbe sferrato l'attacco direttamente a casa, lontano da occhi indiscreti. E c'era da giurare che loro fossero altrettanto furbi.
Arrivarono alla villetta che era quasi ora di cena, perché avevano dovuto attraversare quasi tutta la città in metropolitana, con il traffico dei pendolari che avevano appena terminato il lavoro. Trovarono David che sgranocchiava l'ennesimo pacchetto di patatine davanti al televisore.
«David, chiama papà al lavoro e digli che deve tornare immediatamente a casa perché c'è un'emergenza» ordinò Rachel al figlio adolescente.
Lui sollevò gli occhi su di lei con aria insieme incredula e scocciata, come se la sua vecchia fosse troppo antiquata per capire certe verità universalmente conosciute. «Mamma. Stanno dando “Pimp my ride” su MTV» sentenziò, ficcandosi in bocca una manciata di patatine.
Rachel si piazzò davanti alla televisione e staccò la spina con violenza.
David trasalì. Non aveva mai visto sua madre comportarsi a quel modo: doveva essere successo qualcosa di veramente grave. Osservando il suo sguardo furente, il ragazzo non se lo fece ripetere due volte: si alzò dal divano con uno scatto impressionante per la sua considerevole mole e corse a chiamare il padre sul lavoro.
Rachel, nel frattempo, salì al piano di sopra, per riempire un paio di valige con qualche abito e cose di prima necessità.
«Mamma, che succede?» domandò il piccolo Sam, comparendo sull'uscio della sua stanza.
Rachel notò che i suoi occhioni erano spalancati per la preoccupazione e non poté evitare di rincuorarlo con un sorriso. «Niente, tesoro. Dobbiamo solo andare via per un po'».
«È per quello che ho fatto io oggi?» chiese il bambino, sospettoso.
Rachel si lasciò scappare un sospiro. Era dannatamente sveglio il suo bambino, per avere nove anni. Sì, certo che era per quello che aveva fatto lui oggi: una magia, segno che lui non era un semplice Babbano come suo padre o il fratello David. Era un mago, e l'avrebbero rintracciato.
Risalendo a lei, e a...
«Esther!» esclamò David dal piano di sotto, vedendo comparire la sorella dal nulla, al centro esatto del salotto.
La ragazza ignorò completamente l'atterrito fratello e corse al piano di sopra. «Mamma, mi hanno scoperta!» gridò, con il cuore in gola. «Non so come abbiano fatto, non...»
«Io sì» la interruppe Rachel, con un tono funereo. I suoi occhi erano puntati su Sam, ancora fermo sull'uscio della stanza.
Esther seguì la direzione del suo sguardo e si lasciò sfuggire un sospiro quando vide cosa stava puntando. «Oh, no...» mormorò.
Rachel annuì gravemente. Un tempo sarebbe stata contenta di sapere che anche il figlio più piccolo aveva poteri magici, ma quei tempi erano passati. Ora come ora, era meglio sperare di essere Babbani.
Rachel estrasse dal cassetto del suo comodino due bastoncini di legno e ne porse uno alla figlia, con un'espressione di profonda gravità dipinta sul volto. Esther deglutì, ma alla fine prese in mano la sua bacchetta.
«Si può sapere che diavolo sta succedendo?» esclamò di getto David, sbucando dal corridoio. Osservò per un attimo le bacchette che la madre e la sorella tenevano in mano, poi il suo viso paffuto cambiò. Una strana sensazione, come se avesse improvvisamente realizzato qualcosa, sciolse la sua rabbia e il volto divenne molle. «Allora era vero» mormorò in un sussurro. «Io... crescendo, mi sono convinto che fosse tutto frutto della mia fantasia, che doveva essere stato un sogno».
Il suo sguardo si fece consapevole e determinato. «Invece... era tutto vero. Tu hai davvero frequentato quella scuola di magia!» esclamò, puntando il dito contro la sorella.
«Sì, David, era tutto vero. Sia io che la mamma siamo andate a Hogwarts» rispose Esther, anche se, a dirla tutta, lei non aveva mai concluso gli studi.
«Io... santo cielo, credevo di essere pazzo perché mi ricordavo di quando la mamma spostava gli oggetti con quella bacchetta» sussurrò il ragazzo, scuotendo la testa.
«David, hai chiamato il papà?» domando Rachel in tono sbrigativo, chiudendo la questione.
Il ragazzo annuì, ancora troppo preso dai suoi ricordi per rispondere.
«Molto bene» sentenziò Rachel. «Ora, David, Samuel, andate a fare lo zaino con le vostre cose: prendete solo la roba indispensabile. Esther, stai di guardia alla porta sul retro. Io aspetto papà all'ingresso, poi partiamo».
Ci fu un attimo di gelo a quegli ordini così perentori, ma poi tutti si riscossero e si affrettarono ad eseguirli.
Solo Sam rimase immobile al suo posto. «Mamma?» chiamò con la sua vocina sottile, quando la donna era ormai uscita dalla stanza. «Sono anche io un mago, non è vero?»
Rachel rimase congelata sul posto, con le spalle rivolte al figlio. Le piangeva il cuore, ma non aveva la forza di voltarsi.
Sospirò.
«Sì, Sammy, sei anche tu un mago».







Eccoci qui con il primo capitolo!
Ora cominciate a conoscere un po' di personaggi... a proposito di questo, ho un paio di cose da dire: David NON è un Magonò; semplicemente, così come Lily è una strega mentre Petunia è Babbana, lui non ha sangue magico (tenete conto che sua madre è Nata Babbana, mentre il padre Babbano... insomma è verosimile!); l'aspetto fisico di Sam non ha nessun significato nascosto né ha a che fare con i suoi poteri magici: semplicemente l'ho sognato in questo modo, così come ho sognato David Babbano (ve l'avevo detto, no, che il sogno avrebbe avuto ripercussioni sulla storia!); infine, il fatto che la famiglia Lechner sia ebrea (il signor Lechner lo è, a dire la verità, Rachel no!) non ha alcuna valenza nascosta: è solo che volevo chiamare il personaggio femminile Ester e visto che si tratta di un nome ebraico, ho colto la palla al balzo.
Bene, credo di aver detto tutto! A dopodomani e grazie a quelli che hanno cominciato a seguire questa storia!
Beatrix

   
 
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