Chapitre
27
Look back on all those times
Era come il ricordo di un sogno.
Aveva sperato che la serata fosse perfetta, come lo erano stati gli ultimi tre mesi senza alcuna ombra minacciosa che gravava alle sue spalle: era al braccio di uno dei partiti più appetibili di Parigi, invidiata da qualsiasi esponente della razza femminile, ammirata da ogni uomo o ragazzo, applaudita dal suo pubblico – non c’era nient’altro che avrebbe potuto desiderare.
Lei, una semplice ballerina di fila, era diventata promessa sposa di un visconte. Un visconte!
Certo, il fidanzamento doveva rimanere un segreto: non erano ancora abbastanza al sicuro da poter vivere il loro tenero amore alla luce del sole.
Aveva creduto che sarebbe bastato non indossare l’anello al dito per essere tranquilla… Come era stata ingenua!
Proprio quando la masquerade aveva raggiunto il suo culmine, mentre stava per concedere un bacio al suo fidanzato per suggellare il loro tacito accordo, la musica era cessata bruscamente.
Qualcosa – forse una folata di vento? – aveva spento tutte le candele, non potendo nulla contro le sporadiche lampade a gas che davano l’impressione di essere simili a fuochi fatui sparsi nel buio.
Tutti coloro che erano stati impegnati nel ballo si immobilizzarono, sorpresi, preoccupati, spaventati, si guardavano l’un l’altro nella vana attesa che i direttori del teatro riaccendessero le luci e spiegassero lo scherzo agli invitati sollevati.
L’oscurità, la paura dell’ignoto, metteva a disagio.
Ma nulla di tutto questo accadde. Là, in cima alla scalinata principale del foyer, come sbucata dal nulla, si stagliava l’imponente figura di un uomo mascherato, ammantato di rosso dalla testa ai piedi, il volto coperto da una scarna maschera bianca che pareva il teschio di un morto.
I suoi occhi – sembravano fiamme ardenti – percorsero intimidatori la folla che si era assiepata alla base delle scale per osservare l’apparizione, il terrore sconfitto da una infida curiosità.
Lei sapeva chi stava cercando.
Spaventata, cercò di indietreggiare; ma in quel momento venne catturata dal suo sguardo, e a quel punto non poté più muoversi. Le parve di udire distrattamente al suo fianco Raoul bisbigliarle di non fare nulla, ma poi il visconte se ne andò chissà dove e lei rimase da sola a fronteggiare il suo incubo.
Essa scese le scale senza staccare un solo istante gli occhi dai suoi, come se temesse che, distogliendoli, potesse farla scappare, ma niente sarebbe riuscita a smuoverla da lì.
Qualcuno, lungo la sua discesa, allungò una mano per toccare il mantello rosso che si allargava alle sue spalle come una macchia di sangue, e questo l’uomo non lo tollerò: le sue dita guantate di nero strinsero il polso impudente dello sventurato, costringendolo a piegarsi in ginocchio e a gemere nell’implorare pietà, e nel lasciarlo andare lei lo sentì mormorare: «Non toccatemi! Sono la Morte Rossa.»
E poi le fu di fronte. Avanzare verso di lui fu così naturale che dimenticò tutto il resto, dimenticò i suoi timori, i suoi dubbi, i suoi tradimenti – probabilmente si sarebbe gettata giù dal tetto del teatro se solo lui glielo avesse chiesto, tanto era incondizionato e assoluto il potere ch’egli aveva su di lei.
Ma poi l’incanto si spezzò: gli occhi di brace vennero distratti da un movimento alle sue spalle ch’ella non poté vedere, ma che tramutò in una smorfia di furia cieca l’espressione dell’uomo. Allungò una mano verso il suo collo nudo, e lei riuscì solo a rabbrividire al contatto del cuoio dei suoi guanti prima che la catenina alla quale aveva appeso l’anello di fidanzamento a mo’ di ciondolo le venisse strappata via.
Con un ringhio, l’uomo glielo mostrò come la prova di un orrendo delitto.
«Le tue catene sono ancora mie», sibilò, furioso. «Tu appartieni a me!»
Insieme al dolore, la paura le crollò addosso con tutto il suo peso. Trattenne il fiato, indietreggiò nella vana ricerca di un aiuto, ma lui aveva concluso la sua visita ed era sparito in una nube di fumo e fiamme come inghiottito dalle viscere della terra.
Le occorsero parecchi minuti per riprendere a respirare normalmente.
Era
una fortuna che il braccio di Erik fosse così solido sotto
la sua stretta, come
uno scoglio durante un naufragio. Fu costretta ad aggrapparvisi per
evitare di
inciampare nell’orlo dell’ingombrante vestito, ma
le tempie continuarono a
pulsarle dolorosamente anche dopo che ebbe riacquistato
l’equilibrio.
«Tutto
bene?» La voce preoccupata del suo cavaliere la riscosse da
quella strana
trance, rendendola acutamente consapevole di tutto ciò che
li circondava.
Giulia cercò di annuire, raddrizzò la schiena, ma
il movimento le causò
un’altra ondata di nausea e un capogiro che la fece gemere,
dolorante.
Senza
neppure fingere di credere alla sua risposta, Erik le passò
un braccio intorno
alla vita per reggerla meglio qualora avesse avuto un altro mancamento.
«Vieni,
sediamoci un momento», propose gentilmente, ma con fermezza.
L’accompagnò
presso una nicchia appartata dietro lo scalone, facendola accomodare su
di una
poltrona libera e sistemandole premuroso un cuscino dietro la schiena.
Vista la
mancanza di altri posti a sedere, egli fu costretto ad inginocchiarsi
sul
pavimento dinnanzi a lei. «Va un po’
meglio?»
La
giovane chiuse gli occhi, piegando il capo all’indietro sullo
schienale della
poltrona e prendendo dei profondi respiri. Almeno adesso non aveva
più il
timore che le gambe tremanti la abbandonassero una seconda volta.
«Non so cosa
sia successo», confessò a mezza voce, sfilandosi
la maschera per riuscire a
respirare meglio. «Non appena ci siamo affacciati nel salone
ho avuto
l’impressione di aver già vissuto una scena
simile… Poi mi si è annebbiata la
vista e ho perso l’equilibrio.» Man mano che
parlava ritrovava il suo consueto
tono di voce, e si sentiva sempre più in imbarazzo.
Palesemente
sollevato, l’uomo le prese una mano e gliela strinse
dolcemente, immaginando il
suo disagio. «Sono cose che capitano», la
confortò, addolcendo il tono. «Soprattutto
vista tutta la tensione che devi aver accumulato in
quest’ultimo periodo.»
Giulia
annuì lentamente, sentendosi il viso gelido come per
l’assenza di sangue – era
forse vicina ad avere un collasso? Forse la strana sensazione che aveva
avuto
tutto il giorno era dovuta all’ansia, una sorta di campanello
d’allarme che
l’avvisava dell’imminente crollo fisico ed emotivo.
Tuttavia ciò non spiegava
la strana allucinazione – una sorta di déjà-vu?
– che aveva avuto prima del capogiro. Era come rivivere
un’intera scena del
proprio passato, con la sola differenza che, malgrado la perdita di
memoria,
era pressoché sicura di non averla mai vissuta. Anche
perché si supponeva, o
almeno così aveva detto il dottore, che tutti i suoi ricordi
le sarebbero
tornati gradualmente, magari nel sentire un odore, un sapore, e non di
certo dopo
aver visto un intero squarcio della sua vita antecedente
all’amnesia – cosa che
comunque non era accaduta, dato che continuava ad avere
l’inquietante
sensazione di aver appena rivissuto la vita di un’altra
persona.
Continuando
a riflettere in quel modo il mal di testa non le sarebbe mai passato.
La
mano di Erik, improvvisamente priva di guanto, si posò
dolcemente sulla guancia
pallida e fredda della giovane; ella sorrise, grata per la sua
vicinanza, e con
un sospiro si abbandonò contro quella muta carezza.
Tutt’a un tratto non era più
tanto propensa ad immergersi nella caotica folla danzante che gremiva
l’intero
teatro. Come se le avesse letto nella mente, l’uomo diede
voce ai suoi
pensieri.
«Preferisci
andare via? Possiamo tornare alla Dimora sul Lago e riposarci un
po’», propose,
osservando le dita sottili di Giulia che si intrecciavano
istintivamente alle
proprie. Mademoiselle Sanders apprezzava davvero tanto il modo che
aveva Erik
di parlare, quel proporle qualcosa ch’ella desiderava come se
fosse stata una
decisione di entrambi e non solo sua, così da non farla
sentire in colpa per la
sua improvvisa mancanza di voglia di partecipare al ballo. Tuttavia,
malgrado
l’idea di ritornare in dei luoghi appartati e tranquilli come
lo erano i
sotterranei del fantasma fosse
piuttosto allettante, si rese conto che non poteva essere
così manchevole di
garbo nei suoi confronti da privarlo di uno dei pochi divertimenti che
un uomo
come lui poteva avere. Dubitava che Erik fosse particolarmente avvezzo
a quegli
eventi mondani, e impedirgli di parteciparvi l’unica sera in
cui avrebbe potuto
svagarsi ed essere trattato come pari da quegli stessi individui che lo
avevano
sempre denigrato ed insultato, ecco, le sembrava ingiusto.
Per
cui scosse il capo, riuscendo a sorridere malgrado l’aria
seguitasse a mancarle
a causa del corsetto troppo stretto. «No, Erik, non ti
preoccupare. È già
passato», lo rassicurò, continuando malgrado
ciò ad aggrapparsi alla sua mano. «Ho
solo bisogno di bere un po’ d’acqua… o
qualcosa di più forte… E poi sarò tua
per tutti i balli che desideri.»
«Bada,
mi ricorderò di questa promessa»,
l’avvisò lui, con un finto tono minaccioso.
Ella rise e l’uomo si sentì subito sollevato: non
poteva dire di non essersi
spaventato quando l’aveva vista impallidire come se fosse
stata in procinto di
perdere i sensi.
Giulia
si raddrizzò, le labbra ancora arcuate in un sorriso, e
prese a risistemarsi la
maschera. Erik la osservava assorto: era trascorso appena
più di un mese da
quando si era mostrato a lei – come uomo, non come fils du Diable – e in quei
trenta giorni egli aveva sfiorato la
felicità tante di quelle volte da averne ormai perso il
conto. Diavolo, come
poteva essere possibile? Neanche molto tempo prima si era rassegnato
all’esistenza vuota e solitaria che era tipica di ogni
fantasma, mentre adesso,
invece, se allungava una mano era sicuro di sfiorare quella della
giovane. La
conosceva da poco, è vero, eppure gli sembrava trascorsa una
vita intera dalla
prima volta che l’aveva vista, priva di sensi e febbricitante
nei cunicoli che
portavano al suo dominio: non osava perdersi nei ricordi che
riguardavano la
sua esistenza antecedente all’arrivo di mademoiselle Sanders
– tutto era troppo
oscuro, allora, angosciante, disperato, vizioso che non valeva la pena
indugiarvi oltre. E pensare che all’inizio non
l’aveva praticamente degnata di
attenzione… Forse, se non fosse stato per la straordinaria
somiglianza con la
viscontessa De Chagny, l’avrebbe lasciata morire sul gelido
pavimento del
Cunicolo dei Comunardi.
No, non l’avrebbe
fatto. Poteva essere
anche un mostro, sì, ma ve ne erano di diversi tipi.
Qualsiasi
cosa si celasse nell’ignoto passato della ragazza, ad ogni
modo, a lui non
importava – così come a lei non importava quello
che si celava nel suo: ciò di
cui era certo, sicuro come l’Inferno, era che non le avrebbe
mai permesso di
lasciarlo. Lei, solo lei, era
soltanto sua, maledizione – nessun Dio poteva essere tanto
crudele da privarlo
anche di quell’unico raggio di sole!
Un
tempo aveva ucciso, sì, aveva torturato; le sue mani
grondavano sangue e la sua
spada, così come il suo cappio del Punjab, ispiravano un
sacro timore. Non si
vantava di ciò che aveva fatto, eppure non riusciva nemmeno
a pentirsene,
giacché tutti i peccati che gravavano sulla sua coscienza
erano dovuti ad un semplice,
e forse discutibile, istinto di sopravvivenza – tipico di tutte le bestie. Lei, questo,
sembrava averlo compreso, e
non avevano mai approfondito oltre la questione; tuttavia essa
attendeva lì, in
un angolo, sempre pronta a saltare fuori al momento meno
opportuno… come una
spada di Damocle appesa ad un filo sopra la loro testa.
Ogni cosa a suo
tempo.
«Un
soldo per i tuoi pensieri», lo richiamò proprio il
soggetto di essi, abbozzando
un sorriso.
L’uomo
lo ricambiò volentieri, alzandosi e scrollandosi
istintivamente i pantaloni. «I
miei pensieri non lo valgono, quel soldo»,
replicò, porgendole una mano e
aiutandola ad alzarsi benché l’espressione
contrariata di Giulia indicasse chiaramente
che non ne aveva bisogno. Quel lieve mancamento ingiustificato
l’aveva messa di
cattivo umore, malgrado stesse cercando di nasconderlo.
La
giovane aveva ormai capito che se Erik si rifiutava di rispondere
direttamente
a una sua domanda, sviandola argutamente o rispondendo con
dell’ironia, allora
non aveva nessuna intenzione di farlo. Per cui lasciò
perdere e abbandonò il
confortante rifugio della poltrona. «Ho assoluto bisogno di
bere qualcosa»,
desiderò ad alta voce, guardandosi intorno alla ricerca di
qualche cameriere in
livrea.
«Se
mi aspetti qui, vado a cercare qualcosa e torno in un
attimo», si offrì lui con
compassata galanteria, accennando un mezzo inchino.
«Niente
acqua, però, Erik», gli fece presente Giulia con
un sorriso.
La
leggera risata dell’uomo riuscì a scacciare il suo
malumore. «Come la mia
signora desidera.»
Erik
era appena sparito in mezzo alla folla, quando la giovane si
sentì tirare per
un lembo del vestito. Il suo cuore parve fermarsi ed ella si
voltò di scatto, ritrovandosi
ad osservare un costume con così tanti fiori, nastri,
merletti, perle e piume da
acuire la sua incomprensibile agitazione; ma quando infine vide chi si
nascondeva dietro quello stravagante travestimento non poté
fare a meno di
darsi silenziosamente della sciocca.
«Meg!»
La riconobbe, mentre l’amica sorrideva lieta del
riconoscimento. Sperando che Meg
non notasse il movimento, si portò una mano al petto come a
fermare i battiti
inferociti del suo cuore.
«Mio
Dio, chèrie, sei
splendida!» Fu la risposta
della giovane ballerina.
Giulia
si sfogò con una mezza risata liberatoria e scosse la testa,
prendendo una mano
dell’amica e facendole fare una breve giravolta su se stessa.
«Posso dire lo
stesso di te», replicò sorridente, ricambiando il
complimento. «Anche se non
riesco a capire da chi ti sei travestita!»
«Oh,
sono Titania, la Regina delle Fate», spiegò,
sollevando il mento con affettato
fare aristocratico.
Esibendosi
in un inchino esageratamente profondo, mademoiselle Sanders stette al
gioco. «In
tal caso vi porgo i miei più sentiti omaggi, Vostra
Maestà», dichiarò,
sforzandosi di rimanere seria.
Tuttavia
la successiva risata della Giry vanificò i suoi tentativi.
Prendendola
sottobraccio, condusse Giulia verso la lunga tavola imbandita sulla
quale faceva
bella mostra di sé un invitante buffet, che per fortuna non
era ancora stato
preso d’assalto grazie alla musica che spingeva i presenti a
danzare ignorando
i desideri del proprio palato. Assaggiando dei piccoli crostini alla
frutta, le
due ragazze spiarono con sincera curiosità la folla di
nobili che le
circondava.
«Allora,
c’è anche madame Giry o sei venuta da
sola?» Domandò Giulia, non resistendo a
un secondo dolcetto. Notò che l’amica arrossiva al
di sotto della maschera in
pizzo che le ricopriva la parte superiore del volto, ma per discrezione
non
infierì e lasciò che fosse lei a raccontarle
tutto.
«Suppongo
che maman ci sia, sai, deve
controllare la situazione e tutto il resto»,
esordì, con un gesto della mano
che indicava quanto fosse tipico quel comportamento da parte
dell’insegnante di
danza. «Ma ammetto di essere venuta accompagnata da qualcuno», aggiunse,
volutamente misteriosa.
«Meg,
e non mi racconti nulla? Potrei offendermi!»
Ribatté l’amica con un sorriso,
incrociando le braccia sul petto e attendendo il resto della storia.
Giulia
non aveva mai visto Marguerite Giry arrossire così tanto.
«Non
c’è nulla da raccontare», si
schernì, palesemente imbarazzata. «Rammenti
Emilien
Mercier? Il ragazzo che sostituisce il primo violino
dell’orchestra quando
questi è indisposto?»
Stringendo
gli occhi per individuare con gli occhi della mente il giovane in
questione, e
dopo averlo finalmente inquadrato, Giulia annuì.
«Se ho ben capito, è quel
ragazzo tanto carino con i capelli rossi che ti spia da dietro le
quinte
durante le prove dei balletti», la provocò con un
sorrisetto malizioso,
abbassando opportunamente il tono di voce.
«Ma
cosa dici!» Protestò Meg, ringraziando la maschera
che copriva almeno in parte
il suo imbarazzo.
Sforzandosi
di non ridere, Giulia la invitò a continuare.
«Sicuramente mi sto confondendo.
Dai, vai avanti», insisté, offrendole un altro
pasticcino per farsi perdonare.
Per
quanto poco convinta, l’altra annuì.
«Sì, dunque», riprese, accettando il
dolce. «Ebbene, mi si è avvicinato proprio
l’altro ieri, durante la pausa tra
un atto e l’altro del balletto, con… Oh, non
ridere… Con una maschera in una
mano e un fiore nell’altra, e me le ha porse entrambe
chiedendomi se poteva
essere così sfacciato da sperare che io non avessi ancora un
cavaliere per la
masquerade dell’ultimo dell’anno.»
Parlando,
Meg si era fatta sempre più vicina all’amica, fino
a ritrovarsi a bisbigliarle
l’innocente racconto ad un orecchio, o quasi.
«È davvero molto gentile, pensa
che è venuto fino a casa con una carrozza… Presa
dalle stalle del teatro, mi ha
detto, monsieur Girodelle, lo stalliere, gli ha permesso di prenderne
una… E
persino maman ha evitato di
storcere
il naso», concluse con una mezza risatina, portandosi dietro
l’orecchio un
boccolo sfuggito all’acconciatura.
«Ma chère, sono felicissima per
te»,
sorrise Giulia, sinceramente lieta per l’amica.
«Prima o poi dovrai
presentarmelo, però, voglio proprio vedere da vicino il
giovanotto che ti fa
arrossire in questo modo!»
«Non
hai bisogno di chiederlo», la tranquillizzò la
Giry con una pacca sul dorso
della mano. In un battito di ciglia, però,
l’espressione spensierata e
scherzosa che aleggiava nei suoi occhi grigi venne rapidamente
sostituita da
un’ombra scura e grave, tanto che l’amica si
ritrovò a guardarsi intorno per
paura che stesse accadendo qualcosa di male. Tuttavia i vari nobili
continuavano a bere, mangiare, danzare e ridere indisturbati, e
perplessa tornò
ad osservare Meg. «Cosa c’è?»
Le chiese.
«Tu
invece da chi sei stata accompagnata?» Mormorò la
ballerina, senza abbandonare
un solo istante i suoi occhi. Il suo tono e il suo intero atteggiamento
suggerivano ch’ella sapeva già perfettamente chi
fosse il suo cavaliere per la
serata, ma sembrava che chiunque glielo avesse riferito non fosse una
fonte
sufficientemente certa, così doveva essere giunta alla
conclusione che era
sempre meglio domandare alla diretta interessata.
Con
un sospiro, Giulia ricambiò altrettanto seriamente il suo
sguardo. «Esattamente
da chi pensi, Meg», fu la sua unica, laconica risposta.
Sforzandosi
di non lasciar trapelare nessuna emozione dalle espressioni del volto,
la
ballerina strinse appena più forte la mano
dell’amica. «Non mi hai mai
raccontato cos’è accaduto la notte di
Natale.» Fu solo un bisbiglio, ma l’altra
lo udì alla perfezione – forse perché
Meg continuava a starle vicina come se
fosse stata il suo mantello.
Si
allontanò dunque di qualche passo in modo da poter guardare
l’amica in viso,
cercando di intuire che cosa potesse passarle per la mente anche
attraverso il
travestimento che le impediva di decifrare per intero le sue
espressioni. «Questo
perché non è accaduto nulla,
Meg»,
puntualizzò Giulia, inarcando un sopracciglio. Temeva di
chiedere cosa volesse
insinuare, perché era pressoché certa che non le
sarebbe piaciuta la risposta.
Comprendendo
di essere andata oltre, Meg si affrettò a rettificare.
«Non volevo
sottintendere nulla, per l’amor del Cielo!» Fece,
arrossendo lievemente. «Solo…
Il saperti da sola con lui non mi ha fatto dormire sonni tranquilli, lo
ammetto»,
insisté, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Meg,
tu sai che ti voglio un bene infinito e che apprezzo la tua
preoccupazione e
tutto il resto», esordì Giulia, ricambiando
gentilmente la stretta della mano.
Il suo sguardo, tuttavia, si fece risoluto. «Ma la nostra
amicizia potrebbe
rovinarsi se tu e madame continuerete ad avere tutti questi pregiudizi.
Ti
prego, Meg, non mettermi in condizione di dover scegliere tra voi e
lui»,
concluse, con un accento disperato.
Per
quanto fosse poco convinta, la giovane Giry si sforzò di
sorridere. «Non lo
farei mai, chèrie. Non
mi
intrometterei mai nelle tue scelte se non pensassi di farlo per il tuo
bene, ma
comprendo anche che sei abbastanza adulta e responsabile da poter
gestire cose
simili da sola, per cui… Ti chiedo solo di perdonarmi se il
mio comportamento
in qualche modo ti ha offeso.»
Giulia
non resistette più e abbracciò forte
l’amica, sentendosi tremendamente in
colpa. «Sono io che dovrei chiederti scusa»,
ribatté, sussurrandole di nuovo
all’orecchio. «È da prima di Natale che
ho escluso tutti da ciò che mi
accadeva, compresa tu che qui sei la mia unica amica. Avrei voluto
confidarmi e
raccontarti ogni cosa, credimi, ma ciò di cui tu e madame
Giry eravate a
conoscenza per tutto il tempo mi ha trattenuto dal farlo
perché mi sono sentita
in un certo senso tradita…» Con un sospiro si
allontanò di poco, giusto il
tanto necessario da poter ricambiare il suo sguardo. «Niente
più segreti tra
noi, Meg, ti prego. Non sono una bambina che deve essere protetta
dall’uomo
nero.»
L’ultima
frase era stata pronunciata con un tono volutamente scherzoso,
così da
alleggerire l’atmosfera e liberare il petto di entrambe da un
pesante fardello
di rammarichi e dispiaceri.
Asciugandosi
discretamente una lacrima, Meg sorrise tremula. «Direi
proprio di no, cara la
mia Giulia», ammise, annuendo. «Propongo di
lasciare tutte queste brutte storie
all’anno vecchio che si conclude stanotte, e iniziare quello
nuovo con
propositi assai più generosi e amichevoli; concordi con
me?»
Mademoiselle
Sanders non poteva trovarsi più d’accordo.
«Assolutamente!»
Un
ultimo e sentito abbracciò sancì i loro progetti
per il milleottocento-settantotto,
cosa che avvenne sulle ultime note di chiusura di un’allegra
quadriglia. Solitamente,
ad ogni ballo di gruppo si alternava un valzer, dunque dame e cavalieri
si
disposero sulla pista in modo da lasciare ampio spazio alle coppie che
dovevano
esibirsi.
«Oh,
è il momento del cotillon… Devo andare a cercare
Emilien, è a lui che ho
promesso questo ballo!» Esclamò la piccola Giry,
guardandosi intorno con un
accenno di nervosismo; in effetti trovare il suo compagno in
quell’accozzaglia
di maschere, piume e sete preziose poteva non essere molto semplice.
«Allora
cosa aspetti? Corri prima che l’orchestra riprenda a
suonare», la esortò l’amica,
sorridendole complice e comprensiva. Dopo averle schioccato un bacio
affettuoso
sulla guancia, Meg scomparve tra la folla e Giulia rimase nuovamente da
sola.
E
adesso, dove era finito Erik? Doveva semplicemente cercare da bere, e
invece
era via già da un bel po’ di tempo –
doveva forse preoccuparsi? Approfittò del
fatto che tutti i presenti erano impegnati nelle danze per allontanarsi
dal
foyer e salire la scalinata principale: contava, dall’alto,
di poter
individuare il suo compagno anche in mezzo alla folla, anche
perché dubitava ch’egli
si fosse gettato nelle danze. Maledicendo ad ogni gradino la lunga
gonna del
vestito che le finiva in mezzo ai piedi, Giulia riuscì
finalmente ad arrivare
in cima senza cadere o inciampare. Visto che il fiato iniziava a
mancarle – Dio, Erik aveva stretto
davvero troppo i
lacci del suo corsetto – e che non poteva
allentarli, optò se non altro per
liberarsi della maschera che non la stava facendo respirare e le
accaldava il
viso. Una volta liberatasene sentì l’aria fresca
sul volto e sospirò,
sollevata: non voleva rischiare che le venisse un altro mancamento,
adesso che
non c’era neppure il suo Maestro a sorreggerla.
Là,
dall’alto della balconata, si poteva godere di una visuale
completa di ciò che
accadeva nel salone sottostante: Giulia vide Meg danzare con un bel
moschettiere,
che doveva essere senza ombra di dubbio il giovane Mercier di cui le
aveva
parlato. Con un sorriso soddisfatto e compiaciuto per
l’amica, lo sguardo della
ragazza vagò oltre, ammirando gli ornamenti e i festoni che
abbellivano il
teatro rendendolo molto meno spaventoso di quanto apparisse in genere,
durante
le sue escursioni notturne sotto la guida di Erik.
Ah,
eccolo finalmente!
Con
un sorriso sollevato vide sbucare l’uomo da una porta
secondaria, e dirigersi
con passo autoritario e deciso – come se fosse il
proprietario del teatro, cosa
che non si discostava poi tanto dalla realtà –
verso il punto in cui l’aveva
lasciata, minuti prima, e dove lei aveva incontrato Meg. In mano aveva
due
bicchieri, segno che non si era dimenticato di portarle da bere come
aveva
promesso, ma quando non la trovò si irrigidì e si
guardò intorno, preoccupato. Un
giovane in preziosi abiti orientali gli si avvicinò
immediatamente e gli mormorò
poche parole all’orecchio, e quando questi si
discostò dal suo signore Erik
alzò lo sguardo sulle balconate fino a posarlo su di lei. I
muscoli delle sue
spalle si rilassarono palesemente una volta che l’ebbe
individuata.
Giulia
lo salutò agitando una mano e sorridendogli, ma vedendo che
l’uomo si stava
dirigendo a sua volta verso lo scalone decise di aspettarlo
lassù invece di
raggiungerlo dabbasso – anche perché non voleva
perdersi una seconda volta in
mezzo alla calca.
Era
così concentrata a seguire i movimenti del suo compagno che
non si accorse
della figura ammantata che la stava spiando silenziosa da dietro una
colonna.
Jean-Louis
non riusciva a credere ai suoi occhi.
Cristo
santo, quella ragazza era proprio lei, era Giulia, sua sorella!
Malgrado il
costume in maschera che stava indossando e un’acconciatura
antica che,
personalmente, non le aveva mai visto portare neppure durante i gran
galà ai
quali partecipava la famiglia Gauthier al completo, non aveva alcun
dubbio che
si trattasse di lei. L’avrebbe riconosciuta tra mille, anche
al buio e con gli
occhi bendati!
Certo,
avrebbe avuto parecchie domande da farle, dopo averla riabbracciata.
Tanto per
cominciare, che cosa le faceva pensare di essere autorizzata a
partecipare in
gran segreto ad una festa in maschera quando a casa, a pochi metri da
lì, sua
madre e suo padre – e anche lui, maledizione – la
stavano piangendo come se
fosse morta? Inoltre, se aveva voluto scappare di casa come ormai
pareva fosse
di moda tra gli adolescenti di una certa estrazione sociale,
perché era rimasta
a Parigi – perché
proprio all’Opèra! –
dove chiunque poteva riconoscerla e riportarla dai suoi genitori?
Diverse
emozioni si susseguirono sul volto e nell’animo del ragazzo
– sollievo, per
averla trovata viva; rabbia, per averla vista divertirsi come se non le
riguardasse il dolore che aveva causato a tutti loro; gioia,
perché non poteva
impedirsi di provarla ogniqualvolta i suoi occhi si posavano su di lei;
e
delusione, perché era sempre stato convinto di essere il suo
migliore amico e
confidente e invece era stato tenuto all’oscuro di tutta
quella faccenda come
un estraneo qualsiasi.
Strinse
gli occhi, perplesso e sospettoso, nel vederla agitare una mano e
salutare
qualcuno nella folla: ah, dunque non era
neanche da sola! Certo, era possibile che si fosse sbagliato
e che quella
ragazza fosse solo una che somigliava alla sorella – forse
desiderava così
tanto ritrovarla che la vedeva da qualsiasi parte, chi poteva dirlo?
Però,
poteva sempre fare una prova.
«Giulia!»
La chiamò, in tono abbastanza alto da sovrastare la musica.
Vide la ragazza
sussultare e voltarsi di scatto, confusa, e impallidire poi quando i
suoi occhi
castani si accorsero di lui.
Che strano: non
sembrava aver dato segno di averlo riconosciuto.
Strappandosi
la maschera dal volto, perché credeva che fosse quello il
motivo della
perplessità della ragazza, Jean-Louis abbandonò
il riparo della colonna e colmò
i pochi metri che lo distanziavano da sua sorella. Una volta
raggiuntala, poi,
la afferrò per le spalle scrutandola severo negli occhi.
«Cosa
c’è, non mi riconosci più?»
Mormorò con voce roca, lasciando libera la rabbia e
tutta l’angoscia che aveva provato in quei due mesi di
separazione. Poi la
strinse in un ferreo abbraccio, senza prestare molta attenzione
all’espressione
turbata e sgomenta della giovane.
Lei
si lasciò stringere, inerte come una bambola.
Contrariamente alle aspettative del padre, la bambina imbronciò le labbra, scontenta.
«Cosa c’è, amore?» Le chiese la madre, incerta se ridere o preoccuparsi per quella reazione.
Incrociando le braccia e abbassando lo sguardo, sempre più triste, la bambina rispose decisa e con un tono arrabbiato: «Non mi piacciono le bambole di porcellana.»
Il fratellino, più grande di lei di qualche anno, scoppiò a ridere – ma un’occhiata severa del padre fu sufficiente a farlo tacere.
«Che cosa… Chi siete?» Balbettò, sbattendo con forza le palpebre e cercando di respingerlo.
Rammentava quella bambola di porcellana!
Trattenne il respiro, e l’istinto la fece aggrappare nuovamente agli indumenti del ragazzo.
Un altro Natale.
La bambina ora era una ragazzina ossuta, i capelli castani raccolti in una treccia, i vestiti rubati per dispetto dall’armadio del fratello. Con quegli abiti più grandi di lei sembrava ancora più piccola e magra.
«Mamma, che palle! Giulia ha preso ancora i miei vestiti!» Sbottò il ragazzo, entrando in salotto e lanciando uno sguardo irritato alla sorella. Per tutta risposta, lei gli fece la linguaccia.
Una donna dal portamento elegante e dagli abiti altrettanto accurati si affacciò dalla porta della cucina, con un sospiro rassegnato. «Giulia, tesoro, vai a cambiarti. Fra un po’ arrivano i nonni e non voglio che ti vedano vestita come un maschiaccio», decretò, con voce pacata ma inflessibile.
Sbuffando, la ragazzina si alzò dal divano e lanciò un cuscino sibilandogli uno degli insulti che aveva imparato solo recentemente, a scuola. L’espressione scioccata del ragazzo fu impagabile.
«Giulia, sono tuo fratello», rispose lui, allontanandosi da lei il tanto sufficiente da poterla guardare in viso: la rabbia iniziale era stata sostituita da un esitante scetticismo. «Sono Jean-Louis!»
Indossava una semplice maschera nera con dei sottili ricami rossi.
La sua sciarpa, la sua sciarpa preferita, quella rossa, era finita in mare.
Il vento gelido di Perros-Guirec non aveva avuto scrupoli a rubarla ad una ragazzina di appena tredici anni, facendola volteggiare sopra il bagnasciuga prima di spingerla oltre, verso le onde.
Ormai rassegnata, diede le spalle al mare e si incamminò verso suo padre che l’attendeva sul pontile, più avanti, ed era così triste che quasi non si accorse di quanto stava accadendo sulla strada che costeggiava la spiaggia. Si voltò solo quando vide un giovanotto vestito elegantemente che gettava gli scarponcini, la giacca e i guanti sulla sabbia e si gettava in acqua senza pensarci due volte.
La ragazzina trattenne il fiato, sorpresa e preoccupata e insieme a lei suo padre che nel frattempo l’aveva raggiunta.
Osservarono entrambi il giovane nuotare con furia fino a raggiungere la sciarpa, afferrarla con un grido di giubilo, fare dietro-front e ritornare a riva.
Padre e figlia si avvicinarono a lui, e una volta fuori dall’acqua l’uomo coprì il giovanotto con la sua grossa giacca. Egli porse la sciarpa bagnata alla ragazzina, che la accettò con un sorrisetto tremante e un luccichio negli occhi azzurri. «Come ti chiami?» Gli chiese, grata.
Ansimante, infreddolito e completamente fradicio, il ragazzino aprì la bocca in un sorriso così ampio che fu impossibile non notare la mancanza di un molare. «Sono Raoul!»
Una
marea di ricordi la travolse: fu come passare attraverso
un’intera vita – no,
forse due – in pochi secondi. Il
momento prima la sua memoria era una cavità vuota e
depredata da chissà quale
trauma, e quello successivo tutte le sue memorie, tutte le sue
emozioni, i suoi
sogni, i suoi incubi, la riempirono con la forza dirompente di un
uragano.
L’aria
le mancò dai polmoni come se fosse stata improvvisamente
spinta sott’acqua;
resistere oltre a quell’esplosione di immagini e echi del suo
passato fu
impossibile, il pavimento crollò sotto i suoi piedi e svenne.
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Io odio far svenire le mie protagoniste. Davvero. Non so, la trovo una cosa così melensa, da cliché, da romanzo harmony (e non sto criticando gli harmony perché personalmente ne ho una notevole collezione) - no, peggio, da fanciullina priva di spina dorsale! Però, insomma, delle volte non se ne riesce a fare a meno. Anche perché, e mi sono documentata, all’epoca era all’ordine del giorno che le donne di tutte le età perdessero i sensi – certo, con quegli odiosi corsetti era già un evento che non diventassero blu a causa della mancanza di aria! Per questo avevano sempre dei sali a portata di mano, nella borsetta. E poi, c’era chi sveniva e chi si ammalava di tubercolosi e moriva (vedere La signora delle Camelie), e dato che io all’incolumità della mia Giulietta ci tengo, dovremo accontentarci di vederla svenire ancora per un po’… O perlomeno fin quando non smette di vestirsi in quel modo.
Comunque, riflessioni inutili a parte, finalmente in questo capitolo succede qualcosa – non vedevo l’ora! Adesso che siamo giunti alla svolta, dopo tanto penare, posso tirare un sospiro un sollievo: chi avrebbe mai immaginato che ci saremmo arrivati, a questo punto? Io no di certo. xD E l’ho anche pubblicato dopo meno di una settimana dall’altro capitolo! Ecco, a tal proposito, non fateci l’abitudine. ù_ù
Anyway. Come al solito ringrazio tutti coloro che leggono, silenziosi ma sempre presenti, coloro che recensiscono e, di nuovo, chi continua ad aggiungere questa storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate! Grazie, grazie, grazie mille a tutte voi. :)
Ho notato che il brevissimo scorcio del passato di Bamdad vi ha incuriosito: non credevo che questo personaggio riscontrasse tanto interesse! Ma vi ringrazio a nome suo xD Per quanto riguarda il Lago dei Cigli, era da novembre (da quando l’ho visto a teatro) che morivo dalla voglia di infilarlo in questa storia, in un modo o nell’altro – e sono molto felice che l’idea vi sia piaciuta!
Orbene, credo di non aver nient’altro da dirvi per il momento; per qualsiasi dubbio e/o curiosità non esitate, fatemelo sapere u.u Non riesco mai a rispondere singolarmente a ciascuna delle vostre bellissime recensioni, ma prometto di farlo, prima o poi – intanto devo dire a Ellyra che l’idea che questa storia senza arte né parte si trovi stampata nella tua libreria mi ha fatto davvero commuovere! :’)
Un bacione grande a tutti, a presto – spero! Con tantissimo affetto, la vostra
Niglia.