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Autore: Niglia    06/03/2012    2 recensioni
Ottobre, 1878. Parigi.
Il Fantasma dell'Opera non è morto. Anzi, non è mai stato più deciso a vivere di adesso. Accompagnato da dei nuovi piani di vendetta, torna nella città dalla quale è stato costretto a fuggire due anni prima, un uomo vuoto, senz'anima, con solo un nome nella testa che lo spinge a tornare a Parigi, in quello stesso teatro che in fondo è sempre stato il suo regno, la sua casa, perchè non può essere altrimenti...
E così la storia sembra ripetersi, ma c'è sempre qualcosa con cui dimentichiamo di fare i calcoli; possibile che il Fantasma possa trovarsi di fronte ad una ragazza - incredibilmente somigliante alla sua antica musa - capace di risvegliare in lui quel qualcosa che credeva essere morto per sempre?
In uno strano miscuglio di passato e presente, la strana vicenda del Fantasma dell'Opera sembra continuare a stupire e terrorizzare anche attraverso il tempo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/The Phantom, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapitre 27

Look back on all those times
















    Rammentava di essere già stata in passato ad un ballo molto simile.
    Era come il ricordo di un sogno.
    Aveva sperato che la serata fosse perfetta, come lo erano stati gli ultimi tre mesi senza alcuna ombra minacciosa che gravava alle sue spalle: era al braccio di uno dei partiti più appetibili di Parigi, invidiata da qualsiasi esponente della razza femminile, ammirata da ogni uomo o ragazzo, applaudita dal suo pubblico – non c’era nient’altro che avrebbe potuto desiderare.
    Lei, una semplice ballerina di fila, era diventata promessa sposa di un visconte. Un visconte!
    Certo, il fidanzamento doveva rimanere un segreto: non erano ancora abbastanza al sicuro da poter vivere il loro tenero amore alla luce del sole.
    Aveva creduto che sarebbe bastato non indossare l’anello al dito per essere tranquilla… Come era stata ingenua!
    Proprio quando la masquerade aveva raggiunto il suo culmine, mentre stava per concedere un bacio al suo fidanzato per suggellare il loro tacito accordo, la musica era cessata bruscamente.
    Qualcosa – forse una folata di vento? – aveva spento tutte le candele, non potendo nulla contro le sporadiche lampade a gas che davano l’impressione di essere simili a fuochi fatui sparsi nel buio.
    Tutti coloro che erano stati impegnati nel ballo si immobilizzarono, sorpresi, preoccupati, spaventati, si guardavano l’un l’altro nella vana attesa che i direttori del teatro riaccendessero le luci e spiegassero lo scherzo agli invitati sollevati.
    L’oscurità, la paura dell’ignoto, metteva a disagio.
    Ma nulla di tutto questo accadde. Là, in cima alla scalinata principale del foyer, come sbucata dal nulla, si stagliava l’imponente figura di un uomo mascherato, ammantato di rosso dalla testa ai piedi, il volto coperto da una scarna maschera bianca che pareva il teschio di un morto.
    I suoi occhi – sembravano fiamme ardenti – percorsero intimidatori la folla che si era assiepata alla base delle scale per osservare l’apparizione, il terrore sconfitto da una infida curiosità.
    Lei sapeva chi stava cercando.
    Spaventata, cercò di indietreggiare; ma in quel momento venne catturata dal suo sguardo, e a quel punto non poté più muoversi.     Le parve di udire distrattamente al suo fianco Raoul bisbigliarle di non fare nulla, ma poi il visconte se ne andò chissà dove e lei rimase da sola a fronteggiare il suo incubo.
    Essa scese le scale senza staccare un solo istante gli occhi dai suoi, come se temesse che, distogliendoli, potesse farla scappare, ma niente sarebbe riuscita a smuoverla da lì.
    Qualcuno, lungo la sua discesa, allungò una mano per toccare il mantello rosso che si allargava alle sue spalle come una macchia di sangue, e questo l’uomo non lo tollerò: le sue dita guantate di nero strinsero il polso impudente dello sventurato, costringendolo a piegarsi in ginocchio e a gemere nell’implorare pietà, e nel lasciarlo andare lei lo sentì mormorare: «Non toccatemi! Sono la Morte Rossa.»
    E poi le fu di fronte. Avanzare verso di lui fu così naturale che dimenticò tutto il resto, dimenticò i suoi timori, i suoi dubbi, i suoi tradimenti – probabilmente si sarebbe gettata giù dal tetto del teatro se solo lui glielo avesse chiesto, tanto era incondizionato e assoluto il potere ch’egli aveva su di lei.
    Ma poi l’incanto si spezzò: gli occhi di brace vennero distratti da un movimento alle sue spalle ch’ella non poté vedere, ma che tramutò in una smorfia di furia cieca l’espressione dell’uomo. Allungò una mano verso il suo collo nudo, e lei riuscì solo a rabbrividire al contatto del cuoio dei suoi guanti prima che la catenina alla quale aveva appeso l’anello di fidanzamento a mo’ di ciondolo le venisse strappata via.
    Con un ringhio, l’uomo glielo mostrò come la prova di un orrendo delitto.
    «Le tue catene sono ancora mie», sibilò, furioso. «Tu appartieni a me!»
    Insieme al dolore, la paura le crollò addosso con tutto il suo peso. Trattenne il fiato, indietreggiò nella vana ricerca di un aiuto, ma lui aveva concluso la sua visita ed era sparito in una nube di fumo e fiamme come inghiottito dalle viscere della terra.
    Le occorsero parecchi minuti per riprendere a respirare normalmente.



Era una fortuna che il braccio di Erik fosse così solido sotto la sua stretta, come uno scoglio durante un naufragio. Fu costretta ad aggrapparvisi per evitare di inciampare nell’orlo dell’ingombrante vestito, ma le tempie continuarono a pulsarle dolorosamente anche dopo che ebbe riacquistato l’equilibrio.

«Tutto bene?» La voce preoccupata del suo cavaliere la riscosse da quella strana trance, rendendola acutamente consapevole di tutto ciò che li circondava. Giulia cercò di annuire, raddrizzò la schiena, ma il movimento le causò un’altra ondata di nausea e un capogiro che la fece gemere, dolorante.

Senza neppure fingere di credere alla sua risposta, Erik le passò un braccio intorno alla vita per reggerla meglio qualora avesse avuto un altro mancamento. «Vieni, sediamoci un momento», propose gentilmente, ma con fermezza. L’accompagnò presso una nicchia appartata dietro lo scalone, facendola accomodare su di una poltrona libera e sistemandole premuroso un cuscino dietro la schiena. Vista la mancanza di altri posti a sedere, egli fu costretto ad inginocchiarsi sul pavimento dinnanzi a lei. «Va un po’ meglio?»

La giovane chiuse gli occhi, piegando il capo all’indietro sullo schienale della poltrona e prendendo dei profondi respiri. Almeno adesso non aveva più il timore che le gambe tremanti la abbandonassero una seconda volta. «Non so cosa sia successo», confessò a mezza voce, sfilandosi la maschera per riuscire a respirare meglio. «Non appena ci siamo affacciati nel salone ho avuto l’impressione di aver già vissuto una scena simile… Poi mi si è annebbiata la vista e ho perso l’equilibrio.» Man mano che parlava ritrovava il suo consueto tono di voce, e si sentiva sempre più in imbarazzo.

Palesemente sollevato, l’uomo le prese una mano e gliela strinse dolcemente, immaginando il suo disagio. «Sono cose che capitano», la confortò, addolcendo il tono. «Soprattutto vista tutta la tensione che devi aver accumulato in quest’ultimo periodo.»

Giulia annuì lentamente, sentendosi il viso gelido come per l’assenza di sangue – era forse vicina ad avere un collasso? Forse la strana sensazione che aveva avuto tutto il giorno era dovuta all’ansia, una sorta di campanello d’allarme che l’avvisava dell’imminente crollo fisico ed emotivo. Tuttavia ciò non spiegava la strana allucinazione – una sorta di déjà-vu? – che aveva avuto prima del capogiro. Era come rivivere un’intera scena del proprio passato, con la sola differenza che, malgrado la perdita di memoria, era pressoché sicura di non averla mai vissuta. Anche perché si supponeva, o almeno così aveva detto il dottore, che tutti i suoi ricordi le sarebbero tornati gradualmente, magari nel sentire un odore, un sapore, e non di certo dopo aver visto un intero squarcio della sua vita antecedente all’amnesia – cosa che comunque non era accaduta, dato che continuava ad avere l’inquietante sensazione di aver appena rivissuto la vita di un’altra persona.

Continuando a riflettere in quel modo il mal di testa non le sarebbe mai passato.

La mano di Erik, improvvisamente priva di guanto, si posò dolcemente sulla guancia pallida e fredda della giovane; ella sorrise, grata per la sua vicinanza, e con un sospiro si abbandonò contro quella muta carezza. Tutt’a un tratto non era più tanto propensa ad immergersi nella caotica folla danzante che gremiva l’intero teatro. Come se le avesse letto nella mente, l’uomo diede voce ai suoi pensieri.

«Preferisci andare via? Possiamo tornare alla Dimora sul Lago e riposarci un po’», propose, osservando le dita sottili di Giulia che si intrecciavano istintivamente alle proprie. Mademoiselle Sanders apprezzava davvero tanto il modo che aveva Erik di parlare, quel proporle qualcosa ch’ella desiderava come se fosse stata una decisione di entrambi e non solo sua, così da non farla sentire in colpa per la sua improvvisa mancanza di voglia di partecipare al ballo. Tuttavia, malgrado l’idea di ritornare in dei luoghi appartati e tranquilli come lo erano i sotterranei del fantasma fosse piuttosto allettante, si rese conto che non poteva essere così manchevole di garbo nei suoi confronti da privarlo di uno dei pochi divertimenti che un uomo come lui poteva avere. Dubitava che Erik fosse particolarmente avvezzo a quegli eventi mondani, e impedirgli di parteciparvi l’unica sera in cui avrebbe potuto svagarsi ed essere trattato come pari da quegli stessi individui che lo avevano sempre denigrato ed insultato, ecco, le sembrava ingiusto.

Per cui scosse il capo, riuscendo a sorridere malgrado l’aria seguitasse a mancarle a causa del corsetto troppo stretto. «No, Erik, non ti preoccupare. È già passato», lo rassicurò, continuando malgrado ciò ad aggrapparsi alla sua mano. «Ho solo bisogno di bere un po’ d’acqua… o qualcosa di più forte… E poi sarò tua per tutti i balli che desideri.»

«Bada, mi ricorderò di questa promessa», l’avvisò lui, con un finto tono minaccioso. Ella rise e l’uomo si sentì subito sollevato: non poteva dire di non essersi spaventato quando l’aveva vista impallidire come se fosse stata in procinto di perdere i sensi.

Giulia si raddrizzò, le labbra ancora arcuate in un sorriso, e prese a risistemarsi la maschera. Erik la osservava assorto: era trascorso appena più di un mese da quando si era mostrato a lei – come uomo, non come fils du Diable – e in quei trenta giorni egli aveva sfiorato la felicità tante di quelle volte da averne ormai perso il conto. Diavolo, come poteva essere possibile? Neanche molto tempo prima si era rassegnato all’esistenza vuota e solitaria che era tipica di ogni fantasma, mentre adesso, invece, se allungava una mano era sicuro di sfiorare quella della giovane. La conosceva da poco, è vero, eppure gli sembrava trascorsa una vita intera dalla prima volta che l’aveva vista, priva di sensi e febbricitante nei cunicoli che portavano al suo dominio: non osava perdersi nei ricordi che riguardavano la sua esistenza antecedente all’arrivo di mademoiselle Sanders – tutto era troppo oscuro, allora, angosciante, disperato, vizioso che non valeva la pena indugiarvi oltre. E pensare che all’inizio non l’aveva praticamente degnata di attenzione… Forse, se non fosse stato per la straordinaria somiglianza con la viscontessa De Chagny, l’avrebbe lasciata morire sul gelido pavimento del Cunicolo dei Comunardi.

No, non l’avrebbe fatto. Poteva essere anche un mostro, sì, ma ve ne erano di diversi tipi.

Qualsiasi cosa si celasse nell’ignoto passato della ragazza, ad ogni modo, a lui non importava – così come a lei non importava quello che si celava nel suo: ciò di cui era certo, sicuro come l’Inferno, era che non le avrebbe mai permesso di lasciarlo. Lei, solo lei, era soltanto sua, maledizione – nessun Dio poteva essere tanto crudele da privarlo anche di quell’unico raggio di sole!

Un tempo aveva ucciso, sì, aveva torturato; le sue mani grondavano sangue e la sua spada, così come il suo cappio del Punjab, ispiravano un sacro timore. Non si vantava di ciò che aveva fatto, eppure non riusciva nemmeno a pentirsene, giacché tutti i peccati che gravavano sulla sua coscienza erano dovuti ad un semplice, e forse discutibile, istinto di sopravvivenza – tipico di tutte le bestie. Lei, questo, sembrava averlo compreso, e non avevano mai approfondito oltre la questione; tuttavia essa attendeva lì, in un angolo, sempre pronta a saltare fuori al momento meno opportuno… come una spada di Damocle appesa ad un filo sopra la loro testa.

Ogni cosa a suo tempo.

«Un soldo per i tuoi pensieri», lo richiamò proprio il soggetto di essi, abbozzando un sorriso.

L’uomo lo ricambiò volentieri, alzandosi e scrollandosi istintivamente i pantaloni. «I miei pensieri non lo valgono, quel soldo», replicò, porgendole una mano e aiutandola ad alzarsi benché l’espressione contrariata di Giulia indicasse chiaramente che non ne aveva bisogno. Quel lieve mancamento ingiustificato l’aveva messa di cattivo umore, malgrado stesse cercando di nasconderlo.

La giovane aveva ormai capito che se Erik si rifiutava di rispondere direttamente a una sua domanda, sviandola argutamente o rispondendo con dell’ironia, allora non aveva nessuna intenzione di farlo. Per cui lasciò perdere e abbandonò il confortante rifugio della poltrona. «Ho assoluto bisogno di bere qualcosa», desiderò ad alta voce, guardandosi intorno alla ricerca di qualche cameriere in livrea.

«Se mi aspetti qui, vado a cercare qualcosa e torno in un attimo», si offrì lui con compassata galanteria, accennando un mezzo inchino.

«Niente acqua, però, Erik», gli fece presente Giulia con un sorriso.

La leggera risata dell’uomo riuscì a scacciare il suo malumore. «Come la mia signora desidera.»

Erik era appena sparito in mezzo alla folla, quando la giovane si sentì tirare per un lembo del vestito. Il suo cuore parve fermarsi ed ella si voltò di scatto, ritrovandosi ad osservare un costume con così tanti fiori, nastri, merletti, perle e piume da acuire la sua incomprensibile agitazione; ma quando infine vide chi si nascondeva dietro quello stravagante travestimento non poté fare a meno di darsi silenziosamente della sciocca.

«Meg!» La riconobbe, mentre l’amica sorrideva lieta del riconoscimento. Sperando che Meg non notasse il movimento, si portò una mano al petto come a fermare i battiti inferociti del suo cuore.

«Mio Dio, chèrie, sei splendida!» Fu la risposta della giovane ballerina.

Giulia si sfogò con una mezza risata liberatoria e scosse la testa, prendendo una mano dell’amica e facendole fare una breve giravolta su se stessa. «Posso dire lo stesso di te», replicò sorridente, ricambiando il complimento. «Anche se non riesco a capire da chi ti sei travestita!»

«Oh, sono Titania, la Regina delle Fate», spiegò, sollevando il mento con affettato fare aristocratico.

Esibendosi in un inchino esageratamente profondo, mademoiselle Sanders stette al gioco. «In tal caso vi porgo i miei più sentiti omaggi, Vostra Maestà», dichiarò, sforzandosi di rimanere seria.

Tuttavia la successiva risata della Giry vanificò i suoi tentativi. Prendendola sottobraccio, condusse Giulia verso la lunga tavola imbandita sulla quale faceva bella mostra di sé un invitante buffet, che per fortuna non era ancora stato preso d’assalto grazie alla musica che spingeva i presenti a danzare ignorando i desideri del proprio palato. Assaggiando dei piccoli crostini alla frutta, le due ragazze spiarono con sincera curiosità la folla di nobili che le circondava.

«Allora, c’è anche madame Giry o sei venuta da sola?» Domandò Giulia, non resistendo a un secondo dolcetto. Notò che l’amica arrossiva al di sotto della maschera in pizzo che le ricopriva la parte superiore del volto, ma per discrezione non infierì e lasciò che fosse lei a raccontarle tutto.

«Suppongo che maman ci sia, sai, deve controllare la situazione e tutto il resto», esordì, con un gesto della mano che indicava quanto fosse tipico quel comportamento da parte dell’insegnante di danza. «Ma ammetto di essere venuta accompagnata da qualcuno», aggiunse, volutamente misteriosa.

«Meg, e non mi racconti nulla? Potrei offendermi!» Ribatté l’amica con un sorriso, incrociando le braccia sul petto e attendendo il resto della storia.

Giulia non aveva mai visto Marguerite Giry arrossire così tanto.

«Non c’è nulla da raccontare», si schernì, palesemente imbarazzata. «Rammenti Emilien Mercier? Il ragazzo che sostituisce il primo violino dell’orchestra quando questi è indisposto?»

Stringendo gli occhi per individuare con gli occhi della mente il giovane in questione, e dopo averlo finalmente inquadrato, Giulia annuì. «Se ho ben capito, è quel ragazzo tanto carino con i capelli rossi che ti spia da dietro le quinte durante le prove dei balletti», la provocò con un sorrisetto malizioso, abbassando opportunamente il tono di voce.

«Ma cosa dici!» Protestò Meg, ringraziando la maschera che copriva almeno in parte il suo imbarazzo.

Sforzandosi di non ridere, Giulia la invitò a continuare. «Sicuramente mi sto confondendo. Dai, vai avanti», insisté, offrendole un altro pasticcino per farsi perdonare.

Per quanto poco convinta, l’altra annuì. «Sì, dunque», riprese, accettando il dolce. «Ebbene, mi si è avvicinato proprio l’altro ieri, durante la pausa tra un atto e l’altro del balletto, con… Oh, non ridere… Con una maschera in una mano e un fiore nell’altra, e me le ha porse entrambe chiedendomi se poteva essere così sfacciato da sperare che io non avessi ancora un cavaliere per la masquerade dell’ultimo dell’anno.»

Parlando, Meg si era fatta sempre più vicina all’amica, fino a ritrovarsi a bisbigliarle l’innocente racconto ad un orecchio, o quasi. «È davvero molto gentile, pensa che è venuto fino a casa con una carrozza… Presa dalle stalle del teatro, mi ha detto, monsieur Girodelle, lo stalliere, gli ha permesso di prenderne una… E persino maman ha evitato di storcere il naso», concluse con una mezza risatina, portandosi dietro l’orecchio un boccolo sfuggito all’acconciatura.

«Ma chère, sono felicissima per te», sorrise Giulia, sinceramente lieta per l’amica. «Prima o poi dovrai presentarmelo, però, voglio proprio vedere da vicino il giovanotto che ti fa arrossire in questo modo!»

«Non hai bisogno di chiederlo», la tranquillizzò la Giry con una pacca sul dorso della mano. In un battito di ciglia, però, l’espressione spensierata e scherzosa che aleggiava nei suoi occhi grigi venne rapidamente sostituita da un’ombra scura e grave, tanto che l’amica si ritrovò a guardarsi intorno per paura che stesse accadendo qualcosa di male. Tuttavia i vari nobili continuavano a bere, mangiare, danzare e ridere indisturbati, e perplessa tornò ad osservare Meg. «Cosa c’è?» Le chiese.

«Tu invece da chi sei stata accompagnata?» Mormorò la ballerina, senza abbandonare un solo istante i suoi occhi. Il suo tono e il suo intero atteggiamento suggerivano ch’ella sapeva già perfettamente chi fosse il suo cavaliere per la serata, ma sembrava che chiunque glielo avesse riferito non fosse una fonte sufficientemente certa, così doveva essere giunta alla conclusione che era sempre meglio domandare alla diretta interessata.

Con un sospiro, Giulia ricambiò altrettanto seriamente il suo sguardo. «Esattamente da chi pensi, Meg», fu la sua unica, laconica risposta.

Sforzandosi di non lasciar trapelare nessuna emozione dalle espressioni del volto, la ballerina strinse appena più forte la mano dell’amica. «Non mi hai mai raccontato cos’è accaduto la notte di Natale.» Fu solo un bisbiglio, ma l’altra lo udì alla perfezione – forse perché Meg continuava a starle vicina come se fosse stata il suo mantello.

Si allontanò dunque di qualche passo in modo da poter guardare l’amica in viso, cercando di intuire che cosa potesse passarle per la mente anche attraverso il travestimento che le impediva di decifrare per intero le sue espressioni. «Questo perché non è accaduto nulla, Meg», puntualizzò Giulia, inarcando un sopracciglio. Temeva di chiedere cosa volesse insinuare, perché era pressoché certa che non le sarebbe piaciuta la risposta.

Comprendendo di essere andata oltre, Meg si affrettò a rettificare. «Non volevo sottintendere nulla, per l’amor del Cielo!» Fece, arrossendo lievemente. «Solo… Il saperti da sola con lui non mi ha fatto dormire sonni tranquilli, lo ammetto», insisté, mordicchiandosi il labbro inferiore.

«Meg, tu sai che ti voglio un bene infinito e che apprezzo la tua preoccupazione e tutto il resto», esordì Giulia, ricambiando gentilmente la stretta della mano. Il suo sguardo, tuttavia, si fece risoluto. «Ma la nostra amicizia potrebbe rovinarsi se tu e madame continuerete ad avere tutti questi pregiudizi. Ti prego, Meg, non mettermi in condizione di dover scegliere tra voi e lui», concluse, con un accento disperato.

Per quanto fosse poco convinta, la giovane Giry si sforzò di sorridere. «Non lo farei mai, chèrie. Non mi intrometterei mai nelle tue scelte se non pensassi di farlo per il tuo bene, ma comprendo anche che sei abbastanza adulta e responsabile da poter gestire cose simili da sola, per cui… Ti chiedo solo di perdonarmi se il mio comportamento in qualche modo ti ha offeso.»

Giulia non resistette più e abbracciò forte l’amica, sentendosi tremendamente in colpa. «Sono io che dovrei chiederti scusa», ribatté, sussurrandole di nuovo all’orecchio. «È da prima di Natale che ho escluso tutti da ciò che mi accadeva, compresa tu che qui sei la mia unica amica. Avrei voluto confidarmi e raccontarti ogni cosa, credimi, ma ciò di cui tu e madame Giry eravate a conoscenza per tutto il tempo mi ha trattenuto dal farlo perché mi sono sentita in un certo senso tradita…» Con un sospiro si allontanò di poco, giusto il tanto necessario da poter ricambiare il suo sguardo. «Niente più segreti tra noi, Meg, ti prego. Non sono una bambina che deve essere protetta dall’uomo nero.»

L’ultima frase era stata pronunciata con un tono volutamente scherzoso, così da alleggerire l’atmosfera e liberare il petto di entrambe da un pesante fardello di rammarichi e dispiaceri.

Asciugandosi discretamente una lacrima, Meg sorrise tremula. «Direi proprio di no, cara la mia Giulia», ammise, annuendo. «Propongo di lasciare tutte queste brutte storie all’anno vecchio che si conclude stanotte, e iniziare quello nuovo con propositi assai più generosi e amichevoli; concordi con me?»

Mademoiselle Sanders non poteva trovarsi più d’accordo. «Assolutamente!»

Un ultimo e sentito abbracciò sancì i loro progetti per il milleottocento-settantotto, cosa che avvenne sulle ultime note di chiusura di un’allegra quadriglia. Solitamente, ad ogni ballo di gruppo si alternava un valzer, dunque dame e cavalieri si disposero sulla pista in modo da lasciare ampio spazio alle coppie che dovevano esibirsi.

«Oh, è il momento del cotillon… Devo andare a cercare Emilien, è a lui che ho promesso questo ballo!» Esclamò la piccola Giry, guardandosi intorno con un accenno di nervosismo; in effetti trovare il suo compagno in quell’accozzaglia di maschere, piume e sete preziose poteva non essere molto semplice.

«Allora cosa aspetti? Corri prima che l’orchestra riprenda a suonare», la esortò l’amica, sorridendole complice e comprensiva. Dopo averle schioccato un bacio affettuoso sulla guancia, Meg scomparve tra la folla e Giulia rimase nuovamente da sola.

E adesso, dove era finito Erik? Doveva semplicemente cercare da bere, e invece era via già da un bel po’ di tempo – doveva forse preoccuparsi? Approfittò del fatto che tutti i presenti erano impegnati nelle danze per allontanarsi dal foyer e salire la scalinata principale: contava, dall’alto, di poter individuare il suo compagno anche in mezzo alla folla, anche perché dubitava ch’egli si fosse gettato nelle danze. Maledicendo ad ogni gradino la lunga gonna del vestito che le finiva in mezzo ai piedi, Giulia riuscì finalmente ad arrivare in cima senza cadere o inciampare. Visto che il fiato iniziava a mancarle – Dio, Erik aveva stretto davvero troppo i lacci del suo corsetto – e che non poteva allentarli, optò se non altro per liberarsi della maschera che non la stava facendo respirare e le accaldava il viso. Una volta liberatasene sentì l’aria fresca sul volto e sospirò, sollevata: non voleva rischiare che le venisse un altro mancamento, adesso che non c’era neppure il suo Maestro a sorreggerla.

Là, dall’alto della balconata, si poteva godere di una visuale completa di ciò che accadeva nel salone sottostante: Giulia vide Meg danzare con un bel moschettiere, che doveva essere senza ombra di dubbio il giovane Mercier di cui le aveva parlato. Con un sorriso soddisfatto e compiaciuto per l’amica, lo sguardo della ragazza vagò oltre, ammirando gli ornamenti e i festoni che abbellivano il teatro rendendolo molto meno spaventoso di quanto apparisse in genere, durante le sue escursioni notturne sotto la guida di Erik.

Ah, eccolo finalmente!

Con un sorriso sollevato vide sbucare l’uomo da una porta secondaria, e dirigersi con passo autoritario e deciso – come se fosse il proprietario del teatro, cosa che non si discostava poi tanto dalla realtà – verso il punto in cui l’aveva lasciata, minuti prima, e dove lei aveva incontrato Meg. In mano aveva due bicchieri, segno che non si era dimenticato di portarle da bere come aveva promesso, ma quando non la trovò si irrigidì e si guardò intorno, preoccupato. Un giovane in preziosi abiti orientali gli si avvicinò immediatamente e gli mormorò poche parole all’orecchio, e quando questi si discostò dal suo signore Erik alzò lo sguardo sulle balconate fino a posarlo su di lei. I muscoli delle sue spalle si rilassarono palesemente una volta che l’ebbe individuata.

Giulia lo salutò agitando una mano e sorridendogli, ma vedendo che l’uomo si stava dirigendo a sua volta verso lo scalone decise di aspettarlo lassù invece di raggiungerlo dabbasso – anche perché non voleva perdersi una seconda volta in mezzo alla calca.

Era così concentrata a seguire i movimenti del suo compagno che non si accorse della figura ammantata che la stava spiando silenziosa da dietro una colonna.

Jean-Louis non riusciva a credere ai suoi occhi.

Cristo santo, quella ragazza era proprio lei, era Giulia, sua sorella! Malgrado il costume in maschera che stava indossando e un’acconciatura antica che, personalmente, non le aveva mai visto portare neppure durante i gran galà ai quali partecipava la famiglia Gauthier al completo, non aveva alcun dubbio che si trattasse di lei. L’avrebbe riconosciuta tra mille, anche al buio e con gli occhi bendati!

Certo, avrebbe avuto parecchie domande da farle, dopo averla riabbracciata. Tanto per cominciare, che cosa le faceva pensare di essere autorizzata a partecipare in gran segreto ad una festa in maschera quando a casa, a pochi metri da lì, sua madre e suo padre – e anche lui, maledizione – la stavano piangendo come se fosse morta? Inoltre, se aveva voluto scappare di casa come ormai pareva fosse di moda tra gli adolescenti di una certa estrazione sociale, perché era rimasta a Parigi – perché proprio all’Opèra! – dove chiunque poteva riconoscerla e riportarla dai suoi genitori?

Diverse emozioni si susseguirono sul volto e nell’animo del ragazzo – sollievo, per averla trovata viva; rabbia, per averla vista divertirsi come se non le riguardasse il dolore che aveva causato a tutti loro; gioia, perché non poteva impedirsi di provarla ogniqualvolta i suoi occhi si posavano su di lei; e delusione, perché era sempre stato convinto di essere il suo migliore amico e confidente e invece era stato tenuto all’oscuro di tutta quella faccenda come un estraneo qualsiasi.

Strinse gli occhi, perplesso e sospettoso, nel vederla agitare una mano e salutare qualcuno nella folla: ah, dunque non era neanche da sola! Certo, era possibile che si fosse sbagliato e che quella ragazza fosse solo una che somigliava alla sorella – forse desiderava così tanto ritrovarla che la vedeva da qualsiasi parte, chi poteva dirlo? Però, poteva sempre fare una prova.

«Giulia!» La chiamò, in tono abbastanza alto da sovrastare la musica. Vide la ragazza sussultare e voltarsi di scatto, confusa, e impallidire poi quando i suoi occhi castani si accorsero di lui.

Che strano: non sembrava aver dato segno di averlo riconosciuto.

Strappandosi la maschera dal volto, perché credeva che fosse quello il motivo della perplessità della ragazza, Jean-Louis abbandonò il riparo della colonna e colmò i pochi metri che lo distanziavano da sua sorella. Una volta raggiuntala, poi, la afferrò per le spalle scrutandola severo negli occhi.

«Cosa c’è, non mi riconosci più?» Mormorò con voce roca, lasciando libera la rabbia e tutta l’angoscia che aveva provato in quei due mesi di separazione. Poi la strinse in un ferreo abbraccio, senza prestare molta attenzione all’espressione turbata e sgomenta della giovane.

Lei si lasciò stringere, inerte come una bambola.

    Una bambina strappò con furia eccitata la carta di uno dei suoi numerosi regali di Natale. In mezzo alla confusione, dal pacchetto sbucò fuori una deliziosa bambola di porcellana, seduta su un’altalena in ferro dipinto di verde, con i capelli biondi, gli occhi azzurri, una boccuccia rosea e un vestitino di velluto blu.
    Contrariamente alle aspettative del padre, la bambina imbronciò le labbra, scontenta.
    «Cosa c’è, amore?» Le chiese la madre, incerta se ridere o preoccuparsi per quella reazione.
    Incrociando le braccia e abbassando lo sguardo, sempre più triste, la bambina rispose decisa e con un tono arrabbiato: «Non mi piacciono le bambole di porcellana.»
    Il fratellino, più grande di lei di qualche anno, scoppiò a ridere – ma un’occhiata severa del padre fu sufficiente a farlo tacere.

    Cercò di venir fuori con forza da quei ricordi, annaspando come in mancanza d’aria.
    «Che cosa… Chi siete?» Balbettò, sbattendo con forza le palpebre e cercando di respingerlo.
    Rammentava quella bambola di porcellana!
    Trattenne il respiro, e l’istinto la fece aggrappare nuovamente agli indumenti del ragazzo.

    Un altro Natale.

    La bambina ora era una ragazzina ossuta, i capelli castani raccolti in una treccia, i vestiti rubati per dispetto dall’armadio del fratello. Con quegli abiti più grandi di lei sembrava ancora più piccola e magra.
    «Mamma, che palle! Giulia ha preso ancora i miei vestiti!» Sbottò il ragazzo, entrando in salotto e lanciando uno sguardo irritato alla sorella. Per tutta risposta, lei gli fece la linguaccia.
    Una donna dal portamento elegante e dagli abiti altrettanto accurati si affacciò dalla porta della cucina, con un sospiro rassegnato. «Giulia, tesoro, vai a cambiarti. Fra un po’ arrivano i nonni e non voglio che ti vedano vestita come un maschiaccio», decretò, con voce pacata ma inflessibile.
    Sbuffando, la ragazzina si alzò dal divano e lanciò un cuscino sibilandogli uno degli insulti che aveva imparato solo recentemente, a scuola. L’espressione scioccata del ragazzo fu impagabile.

    «Giulia, sono tuo fratello», rispose lui, allontanandosi da lei il tanto sufficiente da poterla guardare in viso: la rabbia iniziale era stata sostituita da un esitante scetticismo. «Sono Jean-Louis!»
    Indossava una semplice maschera nera con dei sottili ricami rossi.

    La sua sciarpa, la sua sciarpa preferita, quella rossa, era finita in mare.
    Il vento gelido di Perros-Guirec non aveva avuto scrupoli a rubarla ad una ragazzina di appena tredici anni, facendola volteggiare sopra il bagnasciuga prima di spingerla oltre, verso le onde.
    Ormai rassegnata, diede le spalle al mare e si incamminò verso suo padre che l’attendeva sul pontile, più avanti, ed era così triste che quasi non si accorse di quanto stava accadendo sulla strada che costeggiava la spiaggia. Si voltò solo quando vide un giovanotto vestito elegantemente che gettava gli scarponcini, la giacca e i guanti sulla sabbia e si gettava in acqua senza pensarci due volte.
    La ragazzina trattenne il fiato, sorpresa e preoccupata e insieme a lei suo padre che nel frattempo l’aveva raggiunta.
    Osservarono entrambi il giovane nuotare con furia fino a raggiungere la sciarpa, afferrarla con un grido di giubilo, fare dietro-front e ritornare a riva.

    Padre e figlia si avvicinarono a lui, e una volta fuori dall’acqua l’uomo coprì il giovanotto con la sua grossa giacca. Egli porse la sciarpa bagnata alla ragazzina, che la accettò con un sorrisetto tremante e un luccichio negli occhi azzurri. «Come ti chiami?» Gli chiese, grata.
    Ansimante, infreddolito e completamente fradicio, il ragazzino aprì la bocca in un sorriso così ampio che fu impossibile non notare la mancanza di un molare. «Sono Raoul!»

Una marea di ricordi la travolse: fu come passare attraverso un’intera vita – no, forse due – in pochi secondi. Il momento prima la sua memoria era una cavità vuota e depredata da chissà quale trauma, e quello successivo tutte le sue memorie, tutte le sue emozioni, i suoi sogni, i suoi incubi, la riempirono con la forza dirompente di un uragano.

L’aria le mancò dai polmoni come se fosse stata improvvisamente spinta sott’acqua; resistere oltre a quell’esplosione di immagini e echi del suo passato fu impossibile, il pavimento crollò sotto i suoi piedi e svenne.






























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Angolo Autrice.


Io odio far svenire le mie protagoniste. Davvero. Non so, la trovo una cosa così melensa, da cliché, da romanzo harmony (e non sto criticando gli harmony perché personalmente ne ho una notevole collezione) - no, peggio, da fanciullina priva di spina dorsale! Però, insomma, delle volte non se ne riesce a fare a meno. Anche perché, e mi sono documentata, all’epoca era all’ordine del giorno che le donne di tutte le età perdessero i sensi – certo, con quegli odiosi corsetti era già un evento che non diventassero blu a causa della mancanza di aria! Per questo avevano sempre dei sali a portata di mano, nella borsetta. E poi, c’era chi sveniva e chi si ammalava di tubercolosi e moriva (vedere La signora delle Camelie), e dato che io all’incolumità della mia Giulietta ci tengo, dovremo accontentarci di vederla svenire ancora per un po’… O perlomeno fin quando non smette di vestirsi in quel modo.
Comunque, riflessioni inutili a parte, finalmente in questo capitolo succede qualcosa – non vedevo l’ora! Adesso che siamo giunti alla svolta, dopo tanto penare, posso tirare un sospiro un sollievo: chi avrebbe mai immaginato che ci saremmo arrivati, a questo punto? Io no di certo. xD E l’ho anche pubblicato dopo meno di una settimana dall’altro capitolo! Ecco, a tal proposito, non fateci l’abitudine. ù_ù
Anyway. Come al solito ringrazio tutti coloro che leggono, silenziosi ma sempre presenti, coloro che recensiscono e, di nuovo, chi continua ad aggiungere questa storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate! Grazie, grazie, grazie mille a tutte voi. :)
Ho notato che il brevissimo scorcio del passato di Bamdad vi ha incuriosito: non credevo che questo personaggio riscontrasse tanto interesse! Ma vi ringrazio a nome suo xD Per quanto riguarda il Lago dei Cigli, era da novembre (da quando l’ho visto a teatro) che morivo dalla voglia di infilarlo in questa storia, in un modo o nell’altro – e sono molto felice che l’idea vi sia piaciuta!
Orbene, credo di non aver nient’altro da dirvi per il momento; per qualsiasi dubbio e/o curiosità non esitate, fatemelo sapere u.u Non riesco mai a rispondere singolarmente a ciascuna delle vostre bellissime recensioni, ma prometto di farlo, prima o poi – intanto devo dire a Ellyra che l’idea che questa storia senza arte né parte si trovi stampata nella tua libreria mi ha fatto davvero commuovere! :’)
Un bacione grande a tutti, a presto – spero! Con tantissimo affetto, la vostra
Niglia
.

   
 
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