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Autore: KittyPryde    15/04/2004    8 recensioni
giovani principesse che giocano a ballare come donne, le sorelle Black un sogno strappato ad Azkaban
[sorelle Black]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bellatrix Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da bambina sognavo scarpette di cristallo… come ogni figlia cresciuta come le piccole principesse…
I suoni erano quasi stridenti, come una voce di donna per lungo tempo inutilizzata, la luce che entrava dalla grande vetrata inondava la stanza del castello di un bianco lattiginoso e scenografico che contribuiva a tingere le pareti di quel ricordo con i colori dei sogni più sfocati…
Due donne, nell’immentistà di un piccolo spazio, due donne confrontavano i sogni e le aspettative, scambiavano assensi e dissenti su come entrambe avevano gettato via le proprie vite…
Due donne, una di fronte all’altra come il giorno e la notte…
“ti ricordi come eravamo belle… Sissi?” la voce era un sussurro appena accennato “…quando papà ci guardava con quell’orgoglio negli occhi, la fierezza che esibiva quando osservava la perfezione che tanto aveva a cuore nelle sue figlie predilette…
Ricordi come eravamo belle quando il maestro di musica ci insegnavaa cantare..?” la donna, disegnata di nero e niveo pallore, parlava sussurrando ad alta voce, come se volesse gridare entusiasta quel segreto che nessuno doveva conoscere, quel segreto che solo a lei doveva rivelare, lei che la osservava algida e impenetrabile, una magrezza elegante cinta da vesti ricamate in verde ed oro, incoronata dai capelli biondi e morbidi come aveva sempre ricordato… bella.
Un servizio da thè, fine porcellana intarsiata e dipinta da mani di grandi maestri, sfoggio di ricchezza e benessere;
le dita sottili come soffi di vento di Bellatrizx Black presero una delle due tazze e la portarono alle labbra, i gesti mai dimenticati riflettevano la nobiltà di una donna della quale ormai non era rimasto che un ricordo.
“e papà…” lo sguardo remoto scivolò sulle pareti della stanza imbiancate di luce “papà che voleva sempre sentirci cantare quelle melodie tanto noiose… e con quanto zelo, con quanto entusiasmo noi le interpretavamo per piacere a lui, a nostro padre… al nostro signore” le parole ricercate nella nobiltà perduta, negli insegnamenti e nell’educazione signorile appresa tanto tempo fa, rotte da respiri affaticati, asmatici “e Andromeda non riusciva a seguire le nostre note… ricordi? Quando il pianoforte suonava Andromeda cantava qualcos’altro… sorridendo” una risata educata e innaturale sgorgò dalle labbra bruciate e livide come acqua da una fonte prosciugata “aveva una bella voce, Andromeda, ma papà disse che non poteva cantare con noi… e mentre noi due ci mostravamo impeccabili davanti al pianoforte, come bambole in vetrina, lei in un'altra stanza giocava con i burattini” la voce tremò, si spense, riprese fiato, le ultime parole gettate in rincorsa con un mormorio aspro; la mano, con cautela e fragilità, si mosse di nuovo verso la bocca per dissetare le labbra secche e mandare giù la polvere che occludeva il respiro; dinnanzi a lei Narcissa Black osservava i piedi delicati della pazzia camminare su sua sorella e frantumarne i pensieri già tanto fragili, Sissi guardava sua sorella accendersi e spegnersi senza preavviso, mutare di forme e intensità, osservava il pallore del suo viso domandandosi se ricordava ancora il vero colore della sua pelle.
“eravamo già donne anche da bambine” la voce riprese a narrare sognante, trascinata, mentre il calore del thè scendeva nella gola e tentava di scaldare un freddo ormai irreparabile “abbiamo imparato a danzare prima che a camminare… in quelle scarpette scomode che stringevano le dita e facevano male; ma per noi andava bene così, noi eravamo estasiate da tutto quello che poteva far piacere ai nostri genitori, ci inchinavamo con grazia regale ed esibivamo il migliore dei falsi sorrisi” Bellatrix torturava il il bordo della tazza da thè, lisciandolo avanti e indietro con il dito, cercando le parole con cui continuare a tessere i suoi incubi di bambina travestiti da sogni, cercando le parole di Narcissa che non sarebbero arrivate “Quando nostra sorella inventava un nuovo gioco in giardino ci mostravamo disgustate, perché sapevamo già che nostra madre non avrebbe approvato le macchie d’erba e terra sui nostri vestiti eleganti” con un gesto sfumato staccò il dito dal bordo della tazza ed alzò gli occhi, sulla figurda bianca e luminosa che le sedeva di fronte, con una smorfia scomposta che voleva essere un sorriso
“io ero già donna e regina, e tu eri la mia piccola principessa” la voce di Bellatrix, che si era di nuovo accesa con superba alterigia, si sciolse di colpo in una carezza vellutata “…quando la sera, prima di andare a dormire, scivolavi silenziosa e sorridente nella mia camera, riccioli d’oro, e insistevi per pettinare i miei capelli, e mi chiamavi Bella mentre la spazzola scendeva lungo le ciocche more” Bellatrix Black teneva gli occhi bassi davanti alle sue parole, con un umiltà della quale non si credeva padrona, con un timore che non avrebbe mai creduto di provare, un profondo senso di ineguatezza davanti alla sorella; le dita sottili e rovinate si muovevano nervosamente su una ciocca di capelli consumati e nodosi, i denti battevano impercettibilmente e di tanto in tanto si mordeva a sangue il labbro inferiore
“e gli uccellini… te li ricordi gli uccellini?” la voce di Bellatrix era spezzata da singhiozzi simili ad un pianto trattenuto, ma i suoi occhi bruni erano opachi, non c’erano lacrime nel suo sguardo, soltanto il riflesso, radicato, di una pazzia inespressa, una lucida follia che si manifestava nei voli irrequieti dei suoi sguardi, dalle mani ossute agli occhi chiari di Narcissa che la osservavano con sconcerto e tenerezza.
Della Bellatrix di un tempo, della sorella dai capelli lucidi e composti, non restava che un ricordo distante; guance scavate dalla paura e dalla fame, occhi precipitati nell’oscurità più tetra che soltanto l’insania riusciva debolmente ad illuminare, ed un tremore tormentato che non abbandonava mai le sue mani scheletriche.
“papà tornava dall’oriente… era stato via a lungo quella volta, e quando tornò ci portò gli uccellini” la voce di Bellatrix tramava di nuovo, ma sembrava rapita da una favola antica, che con parole sue cercava di raccontare; si guardò le mani con gli occhi trepidanti e accesi di un nuovo, disperato entusiasmo
“ti ricordi gli uccellini Narcissa?” la Signora Malfoy, in tutta la sua femminilità signorile, non batté ciglio davanti al relitto della donna che un tempo aveva chiamato sorella, davanti ai capelli disordinati che tanto le piaceva pettinare, Narcissa Black rimase immobile non trovava le parole per rispondere a quello scheletro che parlava con la voce di sua sorella.
Il suo viso incorniciato da riccioli d’oro si mosse appena in un cenno di assenso, il debole sorriso sparì dalle sottili labbra rosee, lasciando al suo posto una smorfia di dolore nascosto che non voleva affiorare in superfice
“lui si dimenava nella gabbia, sbatteva le ali contro le sbarre… non voleva che io lo prendessi in mano… non avevo ancora deciso come lo avrei chiamato, sai Sissi” Bellatrix guardò la sorella lasciandole cadere addosso gli occhi bruni con un gesto brusco, aveva una nuova euforia nella voce roca “ma quando sono riuscita a prenderlo tra le dita ero così contenta… e l’ho stretto tanto forte da non lasciarlo respirare…” il tono si era abbassato di colpo e gli occhi tornarono a fissare l’equilibrio precario delle sue mani nell’aria, lo sguardo si spense di nuovo e l’angolo della bocca ebbe un fremito “ah…” un riso appena accennato e carico di isterica debolezza “mi piaceva tanto… aveva il petto azzurro e le piume gialle sulla testa… te lo ricordi Narcissa?”
Il capo della donna si piegò di nuovo in un reticente cenno di assenso, la mano appoggiata con grazia sulle gambe si mosse appena, un gesto impercettibile, e quella fu l’unica carezza che le concesse
“…e Andromeda che piangeva mentre papà mi assicurava che non era stata colpa mia, Andromeda piangeva anche se avevo ucciso il mio uccellino… non il suo” Bellatrix ruppe le sue parole in un riso forzato che tese appena le labbra sottili sul viso scarnificato, quel viso che un tempo si apriva armonioso tra i suoi capelli corvini.
Girò il cucchiaino nella tazza con gesti incerti, come se dopo tanti anni cercasse di ricordare come si faceva
“tu… no” disse piano, la sua voce si muoveva e sia alterava come dotata di vita propria, come se a parlare non fosse una sola persona, ma tante quanti erano i suoi sbalzi di umore e di personalità.
Bellatrix Black tornò seria in volto, le braci ardenti di pazzia che erano i suoi occhi andarono ad incendiare lo sguardo pulito e limpido di Narcissa
“tu non piangevi… ma mi guardavi” le deboli luci nelle sue iridi tremarono vistosamente in quelle parole “tu mi guardavi, mi fissavi con pietà… come adesso… e non dicevi una parola, tu” la voce si stese in un lamento rigido e spaventato, i pugni si strinsero rivelando con chiarezza il pallore funereo delle sue mani, abbassò la testa incassando il mento nel petto un tempo florido, i capelli le caddero scomposti ai lati del viso; Narcissa Black non parlò, si limitò a fissare l’orrido spettacolo che si rifiutava di accettare, lo scheletro sciupato di sua sorella che le parlava mentre entrambe si illudevano che nulla fosse cambiato, mentre il sogno distorceva la realtà ed entrambe prendevano il thè sedute sul divanetto, come quando da bambine si fingevano già donne senza sapere che, quando lo sarebbero davvero diventate, non avrebbero avuto un infanzia da ricordare.
Bellatrix continuò a fissare le dita sottili contrarsi stringendo la stoffa polverosa del suo abito logoro, con spasmo e passione addolorata; Narcissa si domandava se da un momento all’altro, sua sorella, non sarebbe scoppiata in lacrime, ma il fantasma di Azkaban non le aveva tolto la dignità, la testa scattò in alto e di nuovo i loro occhi si incontrarono, Bellatrix Black brillava di una nuova e rinvigorita forza
“papà nella sua finta apprensione mi ha disprezzata… tu… tu mi compativi Narcissa” la voce vibrò nell’aria, bassa e roca, le parole colpirono per la prima volta l’espressione imperturbabile della Signora Malfoy, le sopracciglia si strinsero e la bocca si aprì appena per lasciar uscire parole che non pronunciò, e furono le uniche che le concesse; chiuse le labbra morbide e scosse la testa.
Splendida e vulnerabile Bellatrix si alzò, i giochi forzati e i divertimenti simulati delle giovani sorelle Black sembrarono un’ombra lontana, ma in qualche modo felice
“ho ucciso molto di più… di un passerotto” lo sguardo della donna, alta e fragile come una statua di ghiaccio, uscì dalla finestra abbracciando il parco fiorito, la voce afona si arrampicò in una risata stridula “chissà come piangerebbe ora… Andromeda”
Narcissa la seguì con lo sguardo, segretamente si domandava se avrebbe mai potuto pettinare ancora i capelli della sorella
“l’uccellino non poteva urlare… per questo non mi sono accorta che stava morendo” si fermò nella sua instabile fermezza, il volo nero dei suoi occhi tornò a posarsi sulle guance sfiorite della sorella “ma gli uomini urlano Narcissa, e anche se mi accorgo, ogni volta, che stanno per morire… non mi fermo” le braccia, rami secchi di fiori appassiti, cadevano lungo i fianchi, le mani rilassate e abbandonate avevano smesso di tremare, la voce di Bellatrix Black aveva ricominciato a scorrere, gonfia e pacata, muta e tempestosa “se l’uccellino avesse potuto gridare forse mi sarei fermata… ma l’ho ucciso perché l’ho stretto… l’ho stretto con troppo entusiasmo” sillabò le ultime lettere, le impresse nella memoria come in quella della sorella, mosse un passo, ombra nella luce, mosse un passo
“ma non sarebbe cambiato niente… Sissi… anche se non avessi ucciso il mio passerotto, anche se Andromeda non avesse pianto… non sarebbe cambiato niente” la luce che entrava dalla vetrata si spense in una nuvola davanti al sole, Bellatrix Black ombra tra le ombre uscì dalla stanza per non tornavi più
Da bambina sognavo scarpette di cristallo…
   
 
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