Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Sylphs    06/03/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ego te absolvo?

 
 
 
 
 
Si era risolto tutto quanto nel migliore dei modi per il marchesino Antoine Baptiste Rappenau. Il suo mostruoso rivale era stato condotto tra le grida e il furore del popolo di Parigi al Palazzo di Giustizia e rinchiuso in una delle celle migliori, la quale era stata inchiavardata e incatenacciata alla perfezione per evitare un linciaggio, circostanza quella estremamente verificabile, dal momento che tutti in città erano a conoscenza delle malefatte del “Fantasma dell’Opera” e tutti avevano un valido motivo per detestarlo con tutto il cuore. Se le guardie che lo accompagnavano non avessero tenuto a bada la folla con la minaccia di moschetti e balestre, essa si sarebbe senz’altro riversata come un ciclone mortale sul prigioniero inerme e lo avrebbe fatto a pezzi, dopodiché, non sazi, i suoi giustizieri avrebbero divorato i suoi resti, tale era la loro ira per quel figlio di Satana che non solo era un efferato assassino, ma era anche, soprattutto, deforme.
E non v’è nulla che la gente odi più di una faccia sfigurata. Quei miserabili poveri, affamati, frustrati da un lavoro che rendeva poco e da una quantità di figli da mantenere, avvertivano l’ovvio bisogno di scaricare la rabbia contro quelli ancora più in basso di loro, e chi se non gli storpi e i brutti era il degno capro espiatorio per i “bravi e onesti” parigini? Necessitavano di avere qualcuno a cui imputare tutte le loro sventure, un mostro crudele di dentro e di fuori (poiché Dio distribuiva la bellezza solo a coloro che la meritavano), ed Erik Destler si prestava perfettamente ad un tale ruolo. Ancora adesso, a due giorni dalla sua cattura, una moltitudine urlante era assiepata ai piedi del Palazzo di Giustizia e chiedeva inutilmente di vedere il prigioniero, o almeno di annunciare la data della sua morte.
Al momento, una sola data era stata decisa: quella del processo, che si sarebbe tenuto il giorno dopo alle nove in punto. Per prevenire eventuali assalti, l’imputato si sarebbe recato nella sala delle udienze circondato da un folto drappello di gendarmi armati, i quali avevano l’ordine rigoroso di intimidire chiunque si fosse avvicinato eccessivamente. Su richiesta del giudice Guillaume Rappenau, fratello minore del padre di Antoine, non sarebbero stati ammessi testimoni fuorché i direttori del teatro dell’Opera e qualche macchinista che aveva assistito al crollo del lampadario, ma la loro era una funzione puramente di facciata, poiché i capi d’accusa erano sicuri e, a quanto diceva il carceriere, il prigioniero era risoluto a confessare tutti i suoi crimini. Ben presto, i corvi avrebbero avuto la loro carogna da spolpare.  
E Antoine avrebbe inflitto a Vivian Carré un dolore che l’avrebbe segnata per sempre.
Finalmente il giovane era del tutto in pace con se stesso. La vista della ragazza e del mostro che si guardavano languidamente negli occhi sulla gondola aveva destato in lui una gelosia feroce ed era stato sul punto di estrarre la pistola dalla cintura e di ucciderli entrambi, ma il raziocinio, benedetta manna dal cielo, era giunto in suo aiuto in un momento di totale confusione e l’aveva spinto a restare nell’ombra. Ucciderli subito sarebbe stato troppo semplice, troppo pietoso. No, era meglio attendere, elaborare un piano più efficace, con il quale recidere il loro rapporto e lacerarli nel profondo dell’anima…la vittoria non rideva forse a chi sapeva aspettare? E così era stato, per sua fortuna; coinvolgendo la gendarmerie, era responsabile della cattura di una delle figure più temute a Parigi e aveva privato Vivian del suo innamorato, tenendola in pugno con il ricatto.
Poteva andare meglio di così? No, naturalmente. Presto, molto presto, avrebbe potuto concludere ciò che aveva cominciato nella cappella. Avrebbe potuto far suo il bel corpo giovane e forte della ragazza e piegare ai propri desideri la sua ferrea volontà, una prospettiva, questa, che lo eccitava persino nella solitudine. Non avrebbe posseduto Vivian con la forza, ingaggiando con lei una lotta che, certo, avrebbe vinto in quanto maschio ma che li avrebbe visti comunque come avversari, piuttosto ella gli si sarebbe arresa, avrebbe sollevato le gonne e slacciato il corpetto pur di ricevere i suoi favori. Sarebbe stata la sua concubina, la sua amante…non una poveretta senza protezione da violentare mentre era svenuta. Meglio, molto meglio così. Era nelle sue mani, angosciata per la sorte di quel mostro…poteva indurla a fare tutto quello che voleva, le pratiche più esotiche e sfrenate, le prestazioni più umilianti…
La mano gli corse all’orecchio morsicato, nel punto in cui una cicatrice frastagliata sostituiva il lobo che gli era stato rubato. Avrebbe dovuto pagarla, per questo. L’avrebbe fatta mettere a quattro zampe come un cane e finalmente avrebbe scoperto, dopo essercisi arrovellato per così tanto tempo, di cosa erano davvero capaci le sue rosse labbra. Oh, sì…
“Signore?”
Il deferente richiamo del suo maggiordomo, Thibaut, lo riscosse dalle sue scandalose fantasie. Era seduto comodamente su una sontuosa poltrona di velluto scarlatto nel suo salottino privato, arredato quasi nella sua totalità di quel colore, il suo prediletto in assoluto. Le preziose tende che ornavano le finestre erano rosso carminio, gli arazzi fittamente intessuti erano dominati da tonalità di quel tipo, il tappeto persiano svolto sul pavimento in legno di noce era bordeaux chiaro e sul tavolino posizionato accanto al marchesino era posato un vaso di rose vermiglie. Egli stesso era abbigliato di una veste da camera rossa e teneva tra le mani una coppa di vino ben invecchiato. Voltò il capo in direzione del servitore fermo sulla porta con una leggera smorfia di fastidio. Era stato interrotto proprio nel bel mezzo di un’erotica visione di Vivian accovacciata su di lui, piangente e arresa: “Sì, Thibaut?”
L’anziano maggiordomo chinò servilmente il capo: “Signore, una ragazza è qui per vedervi. Una certa mademoiselle Vivian Carré. Credo sia di bassa estrazione, il suo abbigliamento è terribilmente provinciale. Stavo per mandarla via, ma ha detto che l’avreste sicuramente ricevuta”.
La bocca ben disegnata del giovane marchesino si curvò in un ghigno sardonico. Si parla del diavolo, ed ecco che spuntano le corna…l’aveva attesa, ovviamente, dopo averla riportata dalla sua tutrice, non dubitava che ella avesse compreso benissimo la sua minaccia e che avrebbe tentato con ogni mezzo di salvare il suo innamorato da morte certa, e si era stupito che avesse lasciato passare due giorni prima di presentarsi nel suo palazzo. Era davvero ostinata a non cedergli, a non ammettere di essere stata sconfitta. Ma sarebbe rimasto deluso se si fosse arresa immediatamente, il gioco era di gran lunga più interessante se la mosca si dibatteva nella ragnatela.
“È così” si rivolse al maggiordomo con la tracotante autorevolezza che era solito mostrare ai servi: “Falla accomodare, Thibaut”.
“Volete riceverla in questo stato, marchesino?” l’esclamazione sgomenta sfuggì al vecchio prima che potesse trattenersi. Normalmente era un servitore bravo e discreto e, proprio per il suo silenzio, si era guadagnato un posto fisso allo chateau Rappenau, ma era anche terribilmente ligio alle regole e si era preso cura di lui fin da quando era un bambino capriccioso e viziato che gli sputava la minestra in faccia pur di non mangiarla, dunque era stato colto da un sincero stupore nell’apprendere che il suo padrone intendeva incontrarsi con una signorina vestito solo dei suoi abiti da camera, con i capelli umidi per il bagno recente e le gambe nude distese su un poggiapiedi di broccato.
Antoine lo punì subito per la sua insubordinazione trafiggendolo con una di quelle occhiate che, nel suo gergo, significavano vergate in arrivo: “Esatto. Hai qualcosa in contrario, forse?”
Il maggiordomo colse al volo il segnale e si affrettò a scuotere la testa, rattrappendosi in un atteggiamento sottomesso e remissivo: “Certo che no, signore”.
“Bene” sibilò il giovane nobile: “Allora te lo scandisco: falla-accomodare”.
“Come desiderate, marchesino” Thibaut si affrettò ad eseguire l’ordine.
Antoine emise un pesante sospiro, preparandosi all’imminente incontro con la sua vittima. Era così frustrante, doversi giustificare non soltanto con gli esseri umani, ma anche con i ratti da vicolo. Da quando in qua erano divenuti così impiccioni e poco professionali? E suo padre li pagava fior di quattrini! Egli, dal canto suo, li avrebbe sostituiti immediatamente e senza batter ciglio con le ancelle d’oro che Efesto, il dio greco del fuoco di cui aveva letto da piccolo col precettore, aveva fabbricato affinché lo servissero in un perpetuo silenzio, senza esigere alcun compenso e con eterna sottomissione. Delle bellissime bambole vive sarebbero state di gran lunga più utili di quell’idiota buono a nulla che meritava solo di finire in mezzo alla strada. Avrebbe potuto farsi massaggiare da loro, ordinargli di aiutarlo a fare il bagno, utilizzarle a scopi sessuali…
Uno scalpiccio di passi proveniente dall’entrata del salottino lo indusse a levare il volto con un largo sorriso di falsa benevolenza. Il solerte Thibaut aveva introdotto l’ospite nel palazzo e si era spostato da una parte per lasciarla accedere agli appartamenti del marchesino, la fronte corrugata per una malcelata disapprovazione. Sapeva ormai da tempo che il rampollo del suo padrone frequentava assiduamente i bordelli, ma era inconcepibile che una prostituta osasse presentarsi addirittura nell’onorato maniero dei marchesi Rappenau…che stesse ricattando il giovanotto?  
Per sua fortuna, Antoine era troppo preso da Vivian per accorgersi del suo cipiglio. La ragazza era infagottata in un consunto mantello marrone scuro che copriva totalmente il suo abbigliamento sottostante e che le cadeva sino ai piedi ed aveva il cappuccio calato sul volto, alcuni riccioli monelli a ricaderle sulla fronte pallida e sudata. Erano trascorsi solo due giorni dalla notte in cui lei ed Erik si erano dichiarati l’un l’altra e avevano scoperto la vera felicità, eppure tutta la sua radiosità, tutta la sua gioia e la sua energia erano svanite, come se un’angoscia divorante, una preoccupazione eterna l’avessero prosciugata di ogni forza. Le sue gote erano pallide e smunte, occhiaie pesanti e scure le deturpavano la pelle e i lineamenti erano disfatti da una stanchezza mortale che non aveva, tuttavia, abdicato completamente all’antico ardore. Era pressoché impossibile, ma al giovane parve addirittura dimagrita.
Un sommo compiacimento gli montò nel petto. Era stato lui a ridurla così. Lui le aveva strappato il sorriso dalle labbra e aveva diffuso sulle sue fresche guance quel mortale pallore. La palandrana che aveva indossato impediva al suo sguardo avido di penetrare la stoffa e indovinare le morbide forme che vi erano celate, ma non era un grave problema. Pochi minuti, e gliel’avrebbe squarciata a morsi.
“Puoi lasciarci, Thibaut” disse distrattamente, continuando a fissare la ragazza. Il maggiordomo si inchinò in segno di ossequio ed uscì richiudendosi la porta alle spalle, non prima di aver lanciato un’occhiata in tralice all’ospite in palandrana. Non appena si fu levato di torno, Antoine tolse le gambe dal poggiapiedi, senza tuttavia alzarsi dalla poltrona (era necessario render chiaro fin da subito chi è che comandava) e sorrise alla sua ospite con fare mellifluo: “Bene, Vivian. Ti aspettavo con ansia”.
Lei fece una smorfia carica di odio e di disperata rabbia, che rese gli occhi ancora più scuri e il volto ancora più selvaggiamente attraente. Era davvero seducente, quando si arrabbiava: “Lascia perdere i convenevoli. Sono qui per Erik”.
Il marchesino non si scompose in alcun modo di fronte a quella brutale accoglienza. D’altra parte, non si aspettava niente di meglio. Un’altra fanciulla l’avrebbe temuto per il suo potere e le sue risorse e  si sarebbe recata al suo palazzo cospargendosi il capo di cenere e giurando di servirlo fino a sfiorire, ma Vivian non era così, e forse proprio per questo aveva sollevato quel vespaio per tenerla in pugno. Si limitò ad alzare espressivamente le sopracciglia bionde e a mascherare un mezzo sorriso nella coppa di vino rosso: “Dunque il mostro ha anche un nome?”
Un lampo di furia omicida le passò nelle pupille ardenti e un fremito le squassò il corpo magro, mentre avanzava d’un passo, i pugni stretti e il viso sconvolto dall’ira, e si dominava a fatica, riservando la bile alle sue parole: “Lui non è affatto un mostro! Il solo mostro, qui, è seduto davanti a me!”
Antoine ridacchiò ironicamente. Ci voleva ben altro per rovinargli l’umore, adesso che tutto stava andando per il verso giusto: “Sei venuta solo per omaggiarmi con il tuo disprezzo? Dovresti stare attenta a come parli, se vuoi essere di aiuto al tuo fantasma. Se non vado errato, il suo processo avrà luogo domani mattina alle nove in punto”.
Un’ombra di sofferenza le oscurò il pallido viso seminascosto dal cappuccio del logoro mantello. La sua pantomima supponente non lo ingannava, era palese che si trovava nella più totale disperazione, che era consumata da un’angoscia e da un’impotenza mortali. Chi non era a conoscenza di tutta la storia, avrebbe supposto che fosse malata. Malgrado l’aspetto sciupato e lo sguardo dolente, tuttavia, la sua voce non aveva perduto l’antico vigore: “Perché non posso fargli visita? Al Palazzo di Giustizia sono stata scacciata dalle guardie anche se ho presentato la somma richiesta per vedere un prigioniero! Mi è negato persino di portargli un cesto di viveri?”
Ma che carina. Aveva cercato di far arrivare al mostro un tozzo di pane nero (il “pane dei poveri”) e qualche mela vizza. Gli sarebbero venute le lacrime agli occhi, se solo il soggetto non fosse stato così indegno e rivoltante. Era davvero caduta in basso: “Mia cara Vivian, io sono un nobile, non una guardia carceraria. Ma, se proprio vuoi saperlo, nessuno ha la possibilità di fargli visita: egli è una figura profondamente odiata e non vogliono correre il rischio che qualcuno provi a linciarlo. È per il suo bene”.
Un sorriso profondamente sarcastico le sfiorò le labbra a quell’ultima frase. Non aveva ancora accennato ad accomodarsi su uno degli squisiti divanetti foderati di seta e velluto di cui era provvisto il salottino privato di Antoine, né a levarsi dalle spalle la cappa cenciosa, se ne stava ritta accanto all’uscio chiuso, immobile e salda come una colonna corinzia, senza tremare, e i suoi grandi occhi ombreggiati dalle ciglia scure lo studiavano con un misto di rassegnazione, disgusto e quieta accusa: “Che cosa ti ho fatto, Antoine?” lo pronunciò con tono molto calmo, ma proprio per una tale pacatezza, risaltava ancor più la sua immensa disperazione: “Perché mi tormenti così? Ti appaga così tanto la mia sofferenza?”
Egli rispose con analoga tranquillità: “Sei stata tu stessa a cacciarti in questa situazione. Se ti fossi data a me di tua spontanea volontà…”
“Se mi fossi data a te?!” un improvviso rossore le imporporò le guance smunte e il furore che doveva probabilmente tenere nascosto sotto quel finto contegno remissivo fuoriuscì dalla corazza una seconda volta, violento e incontrollabile. Il suo accento quieto si riempì di collera e di ribrezzo e crebbe di volume, mantenendosi appena sotto l’urlo (in caso contrario, Thibaut o un altro servitore sarebbe subito accorso): “Preferirei baciare un rospo piuttosto che sfiorarti! Tu mi disgusti! Sei l’uomo più ributtante che abbia mai…”
“Non parlarmi di disgusto!” il giovane si alzò impetuosamente dalla poltrona, punto sul vivo nella sua vanità, infastidito dall’oltraggioso paragone appena formulato dalla ragazza, ed elevò a sua volta la voce: “Non dopo aver fatto la puttana di quel mostro! Che cos’aveva, lui, che a me mancava? Non dicevi di non aver bisogno di un uomo? Hai cambiato idea molto in fretta, vedo…e hai scelto un assassino sfigurato. Sì, ammetto che può essere eccitante crogiolarsi in certe perversioni, soprattutto per una come te. Ma ne sei davvero innamorata?”
Ella non si lasciò spaventare dall’inaspettato scatto d’ira e rimase ferma al suo posto. Malgrado le sofferenze che le aveva inflitto e i sogni che aveva infranto, non aveva paura di lui, non aveva imparato a temerlo o a rispettarlo: “Non mi aspetto che tu capisca dei sentimenti così nobili e alti, o quale sia la differenza tra apparenza e sostanza. Ma Erik è mille volte migliore di te” ogni volta che pronunciava quel nome, la sua voce brusca si addolciva: “Non sei degno neanche di allacciargli le scarpe!”
Antoine risedette in poltrona e prese la coppa di vino con gesto infastidito, suggendone un sorso. Doveva mantenere la calma. Quella sgualdrina dalla lingua velenosa non meritava di trascinarlo al suo livello e di costringerlo a sostenere una discussione con lei. Lui era il marchesino Rappenau, lei poco più di un gatto di strada deflorato da un assassino recidivo. Probabilmente si era guadagnata la fiducia del mostro con favori sessuali, vista la sua palese mancanza di abilità nel compiacere un uomo con le parole. Se avesse parlato con lei, l’avrebbe annegata nel suo lago sotterraneo dopo poche frasi. Sì, la puttanella che aveva fatto tanto la preziosa con lui non aveva esitato un attimo ad alzare la gonna per l’altro! Ma l’avrebbe punita per i suoi peccati. Proprio come Acab aveva castigato Jezebel nella Bibbia, lui avrebbe liberato il mondo da quella strega tentatrice che si era congiunta con il figlio del Diavolo…dopo essersela goduta, ovviamente.
“Può darsi che sia migliore di me” disse lentamente: “Ma morirà presto. Il processo è solo una facciata, la sua condanna è già praticamente decisa. E tu lo sai bene, non è così? Altrimenti, perché saresti venuta da me?”
Una smorfia sprezzante danzò sul volto incappucciato della strega: “Non credere di avermi in pugno solo perché mi sono presentata al tuo palazzo. Non hai ottenuto niente con i tuoi ricatti. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi, certo, e forse ti sentirai soddisfatto dopo che te l’avrò dato. Ma quale uomo degno di questo nome ha bisogno di ricorrere al ricatto per conquistare una ragazza? Senz’altro uno privo di dignità e onore!”
Il giovane scoppiò in una risata sguaiata e malevola. La meretrice di Babilonia aveva l’ardire di parlargli di onore e dignità? Lei, che aveva venduto le sue grazie ad uno stregone in combutta con Satana e con le sue forze demoniache (la putrefazione che gli aveva attaccato il lato destro della faccia era una prova evidente delle sue origini infernali, nessuno aveva dubbi al riguardo), si permetteva di accusare un buono e fedele cristiano quale lui era, che si recava puntualmente a messa la domenica e confessava senza remora i suoi lievi peccati? La lussuria per il Diseredato l’aveva evidentemente resa folle.
“Battagliera come sempre!” assunse di proposito i toni di una maligna presa in giro: “È proprio per questa tua forza che mi attiri, Vivian. Mettiamola così… intralciarti è un mio piacere personale. E forse quest’esperienza ti servirà di lezione. Il mondo non gira come vuoi tu. Ci sono i ricchi, come me, e ci sono i poveri, come te. Quando uno come me si interessa ad una come te, è tuo  dovere chinare la testa e compiacermi”.
“Compiango la donna che diverrà tua moglie” replicò lei, guardandolo con pena impietosa: “Sei talmente abile a distruggere ciò che ti attrae che si impiccherà dopo la prima notte di nozze”.
Egli liquidò la faccenda con un’indolente sventolata della mano impreziosita con l’anello blasonato: “Vorrà dire che ne troverò una migliore. C’è dell’altro?”
Il disprezzo di Vivian scomparve e al suo posto sopraggiunse una feroce determinazione. S’avanzò di diversi passi, il mantello a fluttuarle intorno, simile ad una nera monaca nell’atto di maledire, e fissò Antoine negli occhi con gelida furia: “Voglio che Erik sia rilasciato. Voglio che tuo zio dica che hanno preso l’uomo sbagliato”.
Lui tenne per sé la propria esultanza. Sapeva che si sarebbe arrivati a quel punto, Vivian non si era certo presentata alla sua porta solo per rimproverarlo e insultarlo. Dunque aveva ceduto, infine. Aveva compreso che l’unico suo possibile benefattore era lui e che non le restava altra scelta se non quella di implorare la sua misericordia. Percorse il corpo imbacuccato nella cappa con lasciva bramosia, immaginando come sarebbe stato lasciar scorrere le mani sulla sua pelle e stringerle i seni fino a farle male, e sorvolò sulla sua espressione risoluta e per nulla arresa. La giovane aveva lo sguardo di chi non si sta affatto sottomettendo, bensì di qualcuno obbligato a fare qualcosa di spiacevole ma necessario, e ad Antoine ciò non piaceva affatto. L’avrebbe montata da dietro, così da non vederla in faccia: “Ti rendi conto di quanto sarà arduo dimostrare una cosa del genere?” osservò in tono sibillino: “L’imputato è deciso ad ammettere la sua colpevolezza”.
Vivian tagliò corto, intuendo che quelle riserve non erano altro che una sadica perdita di tempo: “L’ho già visto succedere, Antoine, e so che la tua famiglia è abbastanza potente da riuscirci”.
“Può darsi. Come può darsi di no. Che cosa mi darai in cambio?”
Lei sorrise amaramente. Le sue mani, in una sorta di gesto istintivo, si incrociarono sul petto e sfiorarono i fianchi nascosti dalla grezza tela marrone scuro: “Il mio corpo ti darà tutto quello che chiederai” si appoggiò tre dita sul cuore: “La mia anima, nulla. Non potrai toccarla in alcun modo. Se ti basta un simile compromesso…”
Non gli importava nulla della sua anima. Per quello che lo riguardava, poteva andare benissimo al diavolo (ma probabilmente ci era già). Anzi, era lieto di non avere a che fare con quello spirito nero di peccato e di sozzura, con gli orrori che la strega teneva nascosti dentro di sé. Tutto quello che voleva da lei era il suo seno e il suo sesso, le sue mani e la sua bocca per dargli piacere. Se la sarebbe presa centimetro dopo centimetro, avrebbe rivendicato il giovane corpo come suo e poi avrebbe trovato il modo di liberarsi di lei. Un buon cristiano non poteva assolutamente permettere ad una strega di restare in vita.
“Togliti il mantello” ordinò con un sogghigno libidinoso, gettando la coppa vuota sul tappeto persiano e iniziando ad armeggiare con i bottoni dei calzoni da camera. Chissà se avrebbe mantenuto quell’espressione risoluta e orgogliosa durante tutto il tempo in cui l’avrebbe fatta sua…
 
Nel Palazzo di Giustizia, vi erano sotterranei non meno profondi e labirintici di quelli del teatro dell’Opera Populaire. L’unica differenza stava nel fatto che i primi erano prigioni, i secondi poco più che oscure catacombe. La caratteristica peculiare di tali prigioni era la loro struttura a girone, secondo la quale i piani più alti erano abitati da criminali di bassa lega, ladruncoli, mercenari, prostitute e tagliaborse, e si discendeva a bassezze di volta in volta più putride e inospitali sino a raggiungere un punto in cui era pressoché impossibile avere il minimo collegamento con il resto del mondo.
In quel punto sepolto nella viscere della terra, tra i topi affamati, i vermi striscianti e la pietra gelida e incrostata di sudiciume, erano rinchiusi di solito i condannati a morte, e in una di quelle celle era stato sistemato Erik Destler, il Fantasma dell’Opera. La mole del Palazzo di Giustizia gravava su di lui, un freddo umido e impietoso s’avvinghiava con ferocia alle sue ossa intorpidite e all’intorno aveva solo oscurità, un’oscurità talmente densa, talmente assoluta, che persino i suoi occhi abituati alle tenebre non riuscivano a penetrarla con l’adeguata precisione. Muri solidi come roccia lo chiudevano da ogni parte e una pesante porta in legno irrobustito da puntelli di ferro sbarrava la sua cella, gettandovi raramente qualche fioco raggio di luce quando una fessura vi veniva aperta e da essa era spinto nella sua direzione un vassoio con sopra un pezzo di pane duro e grigiastro e un bicchiere di acqua torbida.
Egli giaceva lì, in mezzo al sangue rappreso di qualche povero diavolo che aveva vantato d’essere ospite di quel buco fetido e isolato, a rimasugli di cibo e a pozze di umidità, vuoto, apatico, pressoché spezzato nel corpo e nell’animo, l’occhio fisso nel buio ottenebrante e le braccia intorno alle ginocchia strette al petto, addosso stracci sudici di quelli che un tempo erano stati i suoi vestiti, e chi l’aveva temuto quando era ancora all’apice del suo trionfo, terribile ed elegante come un angelo vendicatore, sarebbe rimasto profondamente colpito dall’aspetto miserevole e arreso di cui dava sfoggio in quel momento. La maschera gli era stata strappata nel corso della sua incarcerazione, una sentinella giovane e particolarmente audace l’aveva gettata alla folla che premeva per poterlo fare a pezzi e tutti quei corpi furibondi e insani vi si erano gettati sopra tra urla e schiamazzi, dando fuoco al “premio di consolazione” e distruggendo “il camuffamento del demonio”. Il suo volto devastato dalle piaghe era ancor più spaventevole ora che aveva subito il regolare pestaggio delle guardie, che omaggiavano di un tale trattamento ogni prigioniero di sesso maschile introdotto nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Lividi violacei ed ecchimosi umide gonfiavano i suoi zigomi e in alcuni punti aveva grumi di sangue rappreso. I capelli, scarmigliati, gli cadevano in ciocche luride e stoppose sulla fronte.
Una catena assicurata ad un angolo della cella serpeggiava sul pavimento coperto di paglia sozza di sangue ed escrementi di uomini e topi e si avvoltolava come un luccicante serpente intorno alla sua caviglia, scorticandogli la pelle e aumentando la sua sofferenza. Ma egli non dava segno di avvertire dolore né al piede ferito, né al viso coperto di lividi: i suoi occhi azzurro scuro erano spenti e scollegati come quelli di un folle ed aveva un contegno totalmente inespressivo. Lo si sarebbe detto un fantoccio malridotto dimenticato lì per sbaglio. Non rabbrividiva nemmeno, e aveva lasciato il vassoio con il suo pasto accanto alla porta, senza toccarlo. Se i passi di una sentinella si avvicinavano alla cella, si girava dall’altra parte, facendo cigolare la catena, e rimaneva così finché non si erano allontanati.
Quando hai assaporato la felicità, quando hai potuto toccarla, sentirne l’odore e il gusto, quando ti sei crogiolato nella speranza di averla finalmente fatta tua, di averla meritata, ed essa va in frantumi all’improvviso, rivelandosi un inganno crudele, macchiandosi di verde, scivolando tra le dita come sabbia smossa dal vento, solo allora raggiungi uno stadio di disperazione talmente profonda da addormentare il cuore e i sensi. Erik si rotolava nella putredine e nelle tenebre di quel sotterraneo, l’unica dimora che gli uomini avevano reputato adatta a lui, sopportava il fetore di putrefazione e il freddo pungente a cui era ormai avvezzo e non aveva la forza di continuare a sforzarsi di essere qualcosa che non era. Si era sollevato innumerevoli volte per poi essere rigettato tra i vermi, era troppo adulto, troppo stanco e disilluso per tentare ancora. Essendo il Signore delle Botole, avrebbe potuto forzare la serratura, e forse persino evadere dalle segrete, grazie alla sua dimestichezza con quel genere di luoghi; ma non voleva. A quale scopo?
“Potresti farli gridare di terrore” dall’altra parte della cella, seduto con la schiena appoggiata al muro di pietra e il corpo avvolto in un ampio mantello nero, il Fantasma dell’Opera lo guardava con i suoi ardenti occhi dorati, che si accendevano di un bagliore giallastro solo nella completa oscurità, e il suo viso di cadavere, scheletrico e scarnificato come quello della Morte, identico ad un teschio, ghignava con la sua bocca senza labbra: “Potresti ancora vendicarti. Eri tornato a Parigi per questo, non è vero?
Un sorriso amaro e disperato si allargò sulla vacuità fissa e apatica che pervadeva i tratti di Erik: “Vendicarmi non risolverà niente”.
“Ma servirà di lezione a loro” insistette il fantasma, sollevandosi leggermente. Le sue mani scheletrite trasudavano un alito di morte: “Servirà di lezione a lei”.
Il prigioniero si irrigidì, come se un fendente traditore lo avesse colpito dritto al petto: “Non nominarla”.
“Perché non dovrei? Ci ha ingannato. Ci ha venduto alla fame degli uomini, si è infiltrata nella nostra dimora e ha fatto sì che nutrissimo una serpe in seno. È anche peggiore di Christine. Ma non deve essere per forza così…potremmo suonarle una messa funebre…Kyrie Eleison (Signore, pietà)!”
Ripeté altre quattro volte quel roboante “Kyrie Eleison” ridendo come un demonio esaltato, fin quando Erik, che si era turato le orecchie per eludere il frastuono, non  lo mise a tacere con un violento: “Taci!”
Egli tacque, ma per poco: “Potremmo far cadere qualche altro lampadario. Non è difficile.  Sono davvero logori, i lampadari dell’Opera…davvero logori! Una spintarella e cadono da sé! Fanno bum! Potremmo comporre una messa da requiem in onore di tutti i bravi parigini che in questo momento stanno implorando per la nostra morte. Allora sì che sarebbero guai seri, per parecchi membri della razza umana!”
Un tempo quelle parole avrebbero acceso una scintilla nel suo cuore, avrebbero fatto vibrare una corda dentro di lui, ci si sarebbe riconosciuto. Ma adesso non avevano alcun significato. Erano solo i deliri sguaiati e privi di senso di un folle solo nell’oscurità di una cella sepolta nelle viscere del terreno. E il luccichio degli occhi dorati del Fantasma dell’Opera, così ipnotico, così inquietante, era solo fastidioso e gli feriva le pupille disabituate alla luce: “È finita, ormai”.
“Non devi soffrire per un’innamorata morta!” continuò quel teschio ghignante e grottesco: “Forse per un’innamorata viva…ma non per un’innamorata morta! Ed è ciò che è Vivian! Prima che la scoprissimo, nei suoi occhi leggevamo un’innamorata viva…ma quando abbiamo svelato il suo inganno, abbiamo visto solo e soltanto un’innamorata morta. E non abbiamo bisogno di questo”.
“E se invece ne avessimo bisogno?” Erik si drizzò a sedere improvvisamente ritto, una nuova, dolorosa determinazione nello sguardo e sul volto. Il Fantasma dell’Opera piegò il capo di lato, interdetto: “Come?”
“E se non mi restasse altro che la mia sofferenza e il mio cuore che piange per il suo tradimento? Se mi bastasse sentirmi umano, perfino nella più atroce forma di patimento? È vero, Vivian mi ha ingannato, mi ha tradito come tutti gli altri. Ma…se non mi restasse altro che il mio amore per lei?” quelle frasi parevano spaccargli il cuore: “Troppe volte ho affrontato un dolore rifugiandomi nel mostro che è in me. Ma forse…dopo tutto questo tempo… voglio morire da uomo, anziché vivere…da mostro”.
“Morire?...Morire? Perché mai dovremmo morire? Siamo sulla soglia del nostro più glorioso trionfo, vecchio mio! Stiamo per divenire un don Giovanni Trionfante! Potremmo farla pagare a tutti quelli che ci hanno disturbato! Ne abbiamo di spazio per loro…vogliamo andare a dire alla Sirena di aprire? Vogliamo aprire il sacchetto della vita e della morte? Vogliamo far saltare la cavalletta? Oppure aprire la Camera dei Supplizi? E cosa c’è nella Camera dei Supplizi? Ovviamente…una forca!”
Il Fantasma dell’Opera rideva della sua risata da demonio esaltato, dondolando le braccia come una scimmia e scagliando scintille dalle iridi d’oro fuso, ma Erik s’accasciava pesantemente sul freddo pavimento della cella e non progettava con lui le meraviglie che avrebbero potuto compiere, l’unica immagine a sorreggerlo nell’oscurità, l’unico pensiero a stimolargli un dolore puro, umano, dolcissimo, era Vivian, la traditrice, la menzognera, ma la sua amata Vivian. Il cadavere aveva torto, per lui ella era ancora viva…non era morta! Esisteva nei suoi ricordi…nel suo cuore…sulle sue labbra, che conservavano il sapore dei suoi baci. Forse non corrispondeva a quella in carne ed ossa, forse era soltanto un personaggio di invenzione, ma se riusciva a fargli provare amore, ben venga ogni falsità! Si sarebbe tenuto accanto quell’ideale nel corso del processo, fino a Place de Grève, dove ogni cosa sarebbe giunta finalmente a termine. Avrebbe spirato non con il cuore pieno di odio, ma con il cuore pieno di amore. E avrebbe vinto sugli esseri umani! Loro lo volevano crudele e colmo di risentimento, volevano un animo che corrispondesse al suo aspetto mostruoso…ma lui li avrebbe battuti tutti quanti, perché sarebbe morto da uomo, puro e innamorato, e avrebbe passato a loro quel ruolo ingrato e rivoltante. Un essere umano sarebbe perito, e centinaia di mostri avrebbero conservato la vita. Questa era l’unica conclusione.
Aveva smesso di credere in un futuro per se stesso quando erano state rese note le vere intenzioni di Vivian.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura lo spinse a sollevare la testa con pesante fatica e a strizzare gli occhi allorché un fascio di luce penetrò nell’ambiente sudicio e degradante. Una guardia in divisa, armata di alabarda, fece capolino nel buio e cercò con lo sguardo la sua sagoma curva e spezzata: “Mancano pochi minuti alle nove, monsieur” affermò con voce rude: “Il vostro processo è imminente”.
“Bene!” le labbra pallide e screpolate di Erik si curvarono in un ampio sorriso che non aveva nulla di allegro: “Vediamo di farla finita presto, signor gendarme. Sono ansioso di udire la mia messa funebre!” e si produsse in una risata alta ed echeggiante, talmente folle e disperata da provocare un brivido nella sentinella incaricata di condurlo al processo.
 
La sala era vasta e avvolta dalla penombra. L’autunno che opprimeva Parigi in quei mesi di neve e di tempesta rendeva particolarmente tardiva e lenta la salita del sole nel cielo e dalle finestre ogivali penetrava un lucore rossastro e fioco, troppo scarso per illuminare completamente l’ambiente; a questo scopo, erano state accese candele in ogni dove affinché la corte al completo potesse seguire le evoluzioni del processo con agio. Di fianco alle porte arricchite di bassorilievi tramite le quali si entrava nella sala, erano posizionati a destra e a sinistra tavoli a cui sedevano cancellieri chini su bianche pergamene, i pennini pronti ad intingersi nelle boccette di inchiostro. In fondo, su un palco sopraelevato, vi erano invece i giudici, abbigliati delle tradizionali toghe nere e presieduti da un uomo di mezz’età, ancora ben portante, con occhi di colore azzurro ghiaccio e un che di arcigno, che nascondeva la capigliatura sotto una fluente parrucca bianca. Era, costui, Guillaume Rappenau, cadetto del marchese Jean Roland. Firmin e André, vestiti elegantemente per l’occasione, non erano troppo lontani dai suddetti giudici e si guardavano intorno nervosamente, poco abituati al clima di solenne gravità che gravava quasi sempre su simili tribunali. In realtà, i direttori dell’Opera Garnier, come parecchi altri parigini, nutrivano per il Palazzo di Giustizia una sorta di timore reverenziale.
Quando l’imputato fece il suo ingresso, circondato da un corteggio di guardie armate di alabarde, il silenzio si fece ancor più denso e tutti gli occhi si levarono su di lui, scrutandolo con un misto di curiosità e repulsione. Ci fu chi, addirittura, accennò il segno della croce, quasi egli fosse stato un demone maligno e infernale che avrebbe potuto contaminarli con la sua aura di peccato. Ed era, questo, ciò che pensavano la maggior parte degli uomini presenti in sala. Il giudice Guillaume esibì una smorfia di ripugnanza dinnanzi al volto sfigurato del miserabile e si coprì la bocca con un fazzoletto di pizzo, sussurrando qualcosa all’orecchio del vicino.
Il prigioniero, da parte sua, non sembrò dar peso alle reazioni costernate e inorridite della corte e seguitò a camminare con calma, strascicando un po’ i piedi, racchiuso in una bolla di dolore e di apatia che non poteva certo essere infranta da uno sguardo d’orrore. Una coppia di manette d’acciaio congiunte da una sottile catena gli vincolava i polsi e zoppicava leggermente a causa del piede ferito dalla loro gemella, sciolta nel momento del trasferimento. Teneva il capo chino, la foresta di capelli sporchi a spiovergli in avanti, e non lo alzò neanche quando ebbe raggiunto il suo posto dinnanzi al palco dei giudici e si fu seduto. La maggior parte dei suoi accompagnatori si ritirò, ma due di essi rimasero e si posizionarono ai suoi lati come due truci guardie del corpo.
Il giudice Guillaume si schiarì la voce e batté tre colpi con il martelletto di legno: “Dichiaro aperto questo processo!”
Gli fu presentato il verbale dell’accusa contro l’imputato e lo sfogliò con attenzione, i chiari occhi affilati che scattavano rapidi da una riga all’altra. Come ogni Rappenau che si rispetti, aveva un temperamento assai teatrale e aveva scelto quella professione proprio per mettersi in mostra, perciò si era fatto il punto di onore di dare ad ogni seduta un’ottima immagine di sé e di drammatizzare ogni avvenimento. Considerando l’identità dell’imputato, poi, si trattava probabilmente del suo processo più importante, e benché la corte avesse stabilito di comune accordo di affrettare i tempi il più possibile per non provocare ulteriori tumulti nel popolo, era ovviamente propenso a renderlo una sorta di pièce teatrale. Rivolgendosi quindi al prigioniero con tono impostato e tonante e con cipiglio severo, domandò: “Vi chiamate?”
Egli sollevò lentamente la testa, rivelando un’espressione vacua e due occhi fissi e assenti. Rispose con apatica remissione, pronunciando un nome che non desiderava più tenere nascosto: “Erik Destler”.
Guillaume annuì solennemente, quasi egli gli avesse detto qualcosa di estremamente intelligente o rilevante: “Bene. La vostra età?”
Anche stavolta la risposta fu immediata e atona: “Ho trentasette anni”.
“Cancelliere, scrivete tutto” il giudice si rivolse un attimo ad un omino sottile ed effeminato seduto poco lontano dal palco e, dopo aver ottenuto da lui un servile cenno d’assenso, tornò a girarsi verso l’imputato: “Siete stato condotto di fronte a questa corte per rispondere a tali capi d’accusa. Primo, di aver terrorizzato il tempio della divina arte della musica, l’Opera Garnier, sotto le mentite spoglie del cosiddetto Fantasma dell’Opera, facendovi beffe dei suoi direttori e degli onesti lavoratori che hanno lì un impiego. Secundo, di aver partecipato ai sabba e alle maledizioni dell’inferno con le lamie, i diavoli e i vampiri. Tertio, di aver fatto combutta con la Bestia di cui siete figlio e, con il suo aiuto, di aver assassinato settanta parigini, tra cui il celebre cantante Ubaldo Piangi, in data 2 Aprile 1870 e di avere in seguito rapito mademoiselle Christine Daaé, nonché di aver ripetuto il delitto in data 24 Ottobre 1870 a spese, stavolta, di novantacinque persone. Come vi dichiarate?”
“Colpevole”.
Un mormorio concitato percorse l’uditorio. Una confessione totale e gettata con simile noncuranza era, per la corte, un evento assai raro e benedetto, dal momento che la maggior parte degli accusati, presentati dinnanzi al banco dei giudici, perfino quelli ritenuti colpevoli di crimini non punibili con la morte, professava con fervore la propria innocenza. Se tutti i processi si fossero svolti in quella maniera, con la piena collaborazione dell’imputato di turno, la tortura a cui venivano immediatamente sottoposti coloro che persistevano a negare sarebbe stata deposta completamente e i truci signori in toga nera sarebbero tornati ogni giorno a casa in tempo per il pranzo. In ogni modo, tentarono di recuperare il loro contegno solenne e il cancelliere effemminato s’affrettò a copiare la confessione dell’imputato, che non aveva mutato né atteggiamento né espressione.
Guillaume, non meno colpito dei suoi colleghi, batté un paio di volte le palpebre: “Confessate dunque d’essere stato partorito da una femmina di sciacallo, animale caro a Lucifero, di essere il suo unico figlio prediletto e di possedere poteri infernali?”
Un sorriso amaro fu l’unica reazione di Erik: “Tutto quello che volete, monsignori”.
“Confessate di non avere origine umana ma diabolica, di aver ordito maledizioni contro il popolo di Parigi e di aver ottenuto la vostra celebre abilità di musicista tramite un patto col Diavolo, durante il quale avete compiuto il sommo atto blasfemo, recitando al contrario il Pater Noster?”
“Sì”.
“Di aver sputato sulla croce di Cristo e di esservi accoppiato con le larve e le fattucchiere sotto l’influsso del plenilunio?”
“Sì”.
“Confessate infine di aver operato, sei mesi fa, un sortilegio diabolico con il quale avete stregato l’allora cantante Christine Daaé, adesso viscontessa de Chagny, per farne la vostra concubina e per piantarle nel grembo un discendente del Diavolo vostro padrone, e di aver fallito i vostri intenti a causa dell’intervento salvifico del visconte de Chagny?”
L’accusato chiuse gli occhi, il viso disfatto dalla sconfitta. Mosse le labbra pallide e sussurrò, piano: “Sì”.
Aveva evidentemente abbandonato ogni speranza.
“Procediamo alla votazione” Guillaume accennò agli altri giudici di proseguire ed essi si chiusero a consiglio, confabulando a bassa voce. Mentre deliberavano sulla sorte del reo confesso, una figura alta e prestante si fermò sulla soglia della sala e attirò l’attenzione del fratello del marchese. Era abbigliata di rosso ed aveva un copricapo di piume sui capelli biondo chiari.
Antoine Baptiste.
Lui e lo zio si fissarono negli occhi per un lungo istante, poi il giovane sorrise, i bianchi denti lampeggianti simili a zanne aguzze e affilate, e annuì con il capo impercettibilmente. L’altro dovette comprendere quel muto segnale, perché restituì il cenno e il sorriso. Dopo che i fogli con l’opinione dei giudici furono passati nelle sue mani e che restò il suo voto a decidere il verdetto finale, si raddrizzò, sistemò la parrucca voluminosa e trafisse l’imputato con occhi severi e falsamente benevoli: “Erik Destler, il giorno 15 Novembre 1870 all’ora di mezzogiorno sarete condotto in una carretta, vestito solo di camicia, a piedi nudi, in Place de Grève, dove sarete bruciato sul rogo purificatore finché morte non sopravvenga. Prima di questa data vi sarà portato un prete e potrete fare ammenda per i vostri peccati e chiedere perdono al Signore, poiché Lui, nella sua immensa misericordia, accoglie l’anima penitente in purgatorio e le evita di languire in eterno nelle fiamme dell’inferno. Che Egli abbia pietà della vostra anima!” batté un colpo secco con il martelletto: “La corte si aggiorna!”
Erik mantenne un’espressione vacua e indifferente e si lasciò portare via dai suoi carcerieri.
Antoine, sulla porta, sorrise nuovamente. Povera, ingenua Vivian. Davvero aveva ritenuto possibile che chiedesse la grazia per quel mostro?
Aveva vinto. Era innegabile.

 
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Sylphs