Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Alkimia    07/03/2012    2 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo ottavo
Fuoco


~ Napoli, 03 aprile 1871 ~

Lo sguardo le si fissò sulla fiamma dentro le pareti di vetro e metallo della lampada: sembrava così innocua. Sognava il fuoco ogni notte, lo sognava aggrapparsi con dita impietose alla sua pelle, consumarla, violarla, rammentandole che era fragile, come tutti quelli che credeva di essere in grado di consolare.
Lucia distolse lo sguardo dalla lampada che rischiarava la stanza, facendo emergere dalla penombra i disegni della carta da parati azzurra. Dal corridoio veniva il calpestio di tanti passi concitati, al piano di sopra qualcuno stava spostando una pesante poltrona, ogni tanto si sentivano risate provenire da un punto indistinto dell'edificio. Il silenzio non era mai stato una prerogativa di quel luogo, ma non era nemmeno una prerogativa di quella città.
Nei suoi sogni di bambina, Napoli era il centro del mondo, una sconfinata distesa di vita che pulsava sotto l'ombra del vulcano addormentato, tra le carezze del mare. Era una linea scura all'orizzonte, che si disegnava incerta quando saliva sulla sommità più alta della scogliera di Capri, l'isola dove era cresciuta.
Negli anni in cui era stata bambina aveva visto la sua isola riempirsi di turisti, gente che parlava lingue sconosciute ma che guardava con lo stesso identico sguardo ammirato l'acqua cristallina e i superbi speroni di roccia che formavano grotte e cale a pelo d'acqua. A lei non piaceva quell'isola, le stava stretta; Lucia non poteva rammentare il giorno in cui vi era stata condotta per la prima volta, era troppo piccola, ma in cuor suo era sempre stata certa di averla odiata fin da allora. Non avrebbe mai voluto lasciare Napoli, ma aveva tre anni ed era rimasta orfana, così non aveva avuto altra scelta se non quella di raggiungere sua nonna paterna.
Nonna Maruzza era una sarta, viveva sull'isola di Capri in una piccola casa in fondo a una stradina, dove a guardare dalla finestra non si sarebbe detto che il mare era così vicino, tutto attorno a quello sputo di terra. Sua nonna l'aveva mandata a scuola in quella piccola chiesa dove le suore insegnavano a leggere e scrivere ai figli dei pescatori e le aveva regalato un sacco di libri per farle compagnia nelle ore in cui non era impegnata a imparare il taglio e il cucito.
Nonna Maruzza diceva a tutti che sua nipote era una ragazza intelligente e che avrebbe avuto un gran futuro. Ma si era sbagliata.
Lucia aveva sedici anni quando l'anziana donna cominciò ad ammalarsi. La ragazza non era una sarta abile quanto lei e i lavori di taglio e cucito non bastavano a mandare avanti la piccola casa e a pagare le cure per la nonna. Tutto su quella maledetta isola costava troppo perché veniva da fuori, veniva dalla terraferma, dalla città, da Napoli. La ragazza aveva pensato che Napoli potesse essere la soluzione a tutti i suoi problemi, ci aveva creduto davvero, con l'ingenuo ottimismo delle menti giovani.
Erano gli anni dell'Unità d'Italia appena conquistata, la terra era ancora morbida del sudore e del sangue di cui si era impregnata e una nuova speranza sembrava soffiare via dall'orizzonte tutte le nuvole. Ma Napoli, come altre città e come tutto il Mezzogiorno, stava ancora saldando i debiti delle battaglie. Uomini nuovi ridisegnavano il futuro e parlavano ancora di altre guerre e di altre battaglie, lì al nord.
Lucia aveva lasciato sua nonna alle cure delle suore ed era partita. Aveva trovato Napoli avvolta da ombre più dense di quelle che c'erano quando l'aveva lasciata. Un luogo dove la vita era dura e non c'erano molte scelte. E Lucia fece la sua di scelta senza troppi rimpianti.
Nonna Maruzza non l'aveva mai saputo. Lei era lì, sull'isola, a godersi il meritato riposo dopo anni di lavoro, dopo tutto quel tempo passato a prendersi cura di sua nipote, e non avrebbe mai lasciato Capri, per cui il segreto di Lucia era al sicuro.
Guardandosi alle spalle, la giovane donna non aveva mai voluto compiangersi. Non era stata una scelta difficile, nessuna scelta può esserlo quando si rivela l'unica opzione. E non era stato nemmeno troppo brutto all'inizio.
Era finita in quella piazzetta quasi per caso; aveva visto il bel palazzo con i mattoni di tufo dove alcuni facchini stavano trasportando del mobilio nuovo. Aveva pensato che forse lì c'era bisogno di una cameriera. La donna bassa all'ingresso le aveva detto che non volevano cameriere, ma che le avrebbe trovato un posto e qualcosa da fare, se avesse voluto. Lucia aveva capito quasi subito di che si trattava e non si era tirata indietro.
Si era sentita sporca e vigliacca quando la maîtresse Madame Fantine, quella donna bassa che faceva finta di essere francese, aveva contrattato il prezzo della sua verginità. Ma la sera del suo primo cliente, Lucia aveva capito in un solo istante cosa le sarebbe servito per sopravvivere in quel mondo.
L'uomo era un ricco signore di quarant'anni, uno di quegli uomini nuovi in quel Paese dalle idee ancora troppo vecchie per spiccare il volo. Aveva uno sguardo che... c'era uno strano senso di ammirazione in fondo a quegli occhi e c'era una bottiglia di vino nella sua mano. Lucia era restata impalata a fissare in alternanza l'uomo e la bottiglia mentre nella sua mente facevano eco le istruzioni di Madame Fantine ripetute come una nenia. Lui aveva versato del vino per entrambi e si era seduto, poi aveva cominciato a parlare. Aveva parlato per un tempo lunghissimo di cose di cui Lucia non capiva nulla, cose che avevano a che fare con tribunali e titoli di borsa e notizie sul giornale.
«Mi capite, signorina?» aveva chiesto l'uomo dopo una sequela infinita di parole. E lo aveva fatto senza alcun tono di rimprovero, aveva solo bisogno di sentirsi rispondere di sì.
Era questo che volevano gli uomini, dunque? Essere ascoltati, capiti e consolati, con le parole e con le carezze ancora prima che con il piacere? Forse non tutti gli uomini, indovinò Lucia, ma i ricchi signori che frequentavano l'Araba Fenice sì, gente pressata dalla propria vita, dai doveri, dal perbenismo e forse persino dai suoi stessi soldi, che cercava riparo nello sguardo di una donna che non avesse alcuna pretesa su di lei o sul suo nome, una donna che sarebbe stata ben felice di essere dimenticata la mattina dopo e che non si aspettava fiori o doni ma che sapeva gioire come nessun'altra se li riceveva.
Era l'aver compreso tutto ciò che l'aveva resa la migliore, la più desiderata. Non era per la sua bellezza, un tipo di grazia comune a quasi tutte le giovani donne dai tratti mediterranei, e nemmeno per quelle arti amatorie che aveva impiegato tempo ad affinare, era per il modo in cui li guardava mentre le parlavano.
Lentamente aveva persino imparato ad ascoltarli davvero. Non tutti erano patetici e noiosi e poi, quando era diventata così conosciuta e ricercata e aveva imparato ad apparire bella come un gioiello, avevano cominciato a portarla con loro in tanti posti che non avrebbe mai potuto nemmeno guardare dall'esterno. Il teatro, ad esempio.
E poi un giorno, un anno prima, era arrivato un uomo, dalla Francia, un tipo singolare con il sorriso più bello che Lucia avesse mai visto. Dopo tutto quel tempo, la ragazza quasi si vergognava ad ammettere di averlo amato...
Poi, quella sera di sei mesi prima, a quel ricevimento in quella villa di campagna un signore maldestro aveva urtato una lampada accanto a una tenda...
E Napoli ora già cominciava a dimenticarla, come il suo amore francese di un tempo, già fingeva di non riconoscere in lei la donna che aveva cullato con le sue braccia tanti cuori stanchi, che aveva rubato al cielo della città un po' di luce e l'aveva restituita in quella camera dalle pareti azzurre.
Solo Madame Fantine non l'aveva voluta abbandonare, lei era la sua stella del buon augurio: quanti signori disposti a pagare somme indicibili aveva trattenuto nella sua casa?
«Devi insegnare alle altre come fai» le aveva detto. «Mi devi aiutare a mandare avanti questo posto, perché è l'unica casa che abbiamo».
Ed era vero, non c'era altra casa per lei, se non quella di nonna Maruzza, ma lei non poteva tornarci a mani vuote, sconfitta. E non c'era altra casa per tante altre ragazze, e quello che Lucia poteva fare per loro era insegnare a usare qualcosa di più del proprio corpo, perché quello era l'unico modo per non sporcarsi del tutto, per tenersi al sicuro anche da se stesse.
Se non altro, da quando aveva smesso di lavorare, le restava molto più tempo per sé, tutto quello che non aveva mai avuto. Di giorno aiutava a sbrigare le commissioni che c'erano da fare in una casa tanto grande, come il bucato da stendere sul terrazzo e la spesa al mercato. Oppure aiutava Madame Fantine a fare i conti, cosa per cui la maîtresse dell'Araba Fenice non era particolarmente portata. Ma la sera, quando le altre ragazze si intrattenevano con i clienti, lei poteva concedersi il lusso di starsene in camera sua a leggere un libro, oppure uscire e partecipare alla folle e instancabile vita notturna di Napoli.  
Lucia si avvicinò alla finestra. Madame Fantine le aveva permesso di tenere la sua vecchia camera, la più spaziosa della palazzina, anche se era una di quelle prive di balcone. La stanza aveva una finestra che affacciava sulla piazzetta davanti all'edificio, da lì la ragazza osservava il viavai incessante dei clienti della taverna Notte 'e vierno e spiava curiosa tutti quelli che entravano e uscivano dal bordello. Da quasi una decina di giorni vedeva sempre anche quell'uomo, il Maestro francese, spuntare da un angolo della piazzetta, avvicinarsi alla palazzina e fermarsi a qualche metro dalla soglia, senza mai varcarla. Nelle due sere in cui era piovuto a catinelle l'uomo non si era fatto vedere, ma adesso era lì, con i pugni serrati, come a combattere una vecchia battaglia contro se stesso. E sì che quel signore aveva l'aria di essere perennemente in battaglia, contro se stesso, contro qualcun altro o forse contro il mondo intero.
Lucia aveva provato a scommettere quando il Maestro si sarebbe deciso a entrare, ma ormai non era più nemmeno sicura che lo avrebbe fatto. La ragazza ridacchiò, scosse il capo e andò a prendere la montagna di calze e biancheria che aveva da rammendare. C'era sempre un sacco di roba da rammendare in un posto come quello. Tirò fuori la scatola del cucito, con il ditale in argento che le aveva dato sua nonna, e tornò a sedersi, poggiandosi in grembo una piccola catasta di calze e sottovesti.
Dopo forse sarebbe uscita e sarebbe andata ad ascoltare Mastro Pulcinella.

*******

~ Napoli, 04 aprile 1871 ~

Fuoco. Grida. Orrore... e poi buio. Un silenzio duro e impenetrabile come marmo e poi il ticchettio ritmico di gocce che cadevano su un pavimento di pietra. E poi ancora fuoco, e altre grida, e le lacrime... ah, quante lacrime! Lacrime che si mischiavano alle gocce di umidità e andavano a formare quel lago. E sulla sponda del lago drappi di seta, specchi, candelabri votivi, statue, fogli...
E di nuovo il fuoco, che saliva d'acqua, prosciugandola centimetro dopo centimetro come se fosse olio di colza, si alzava fino al soffitto della grotta, inchiodandolo in quell'inferno per sempre, senza via di fuga.
Una voce tremenda, bellissima, disperata che si alzava oltre il crepitio delle fiamme.

«Angelo della Musica... mi hai tradito...»

E poi la luce, accecante, che lo colpiva in viso come un pugno.

Erik aprì gli occhi, spalancandoli contro quella luce, come a sperare di potervi trovare riparo. Era alla sua scrivania; si era addormentato lì, sul piano di ciliegio, con la finestra aperta dalla quale ora entrava un sole fortissimo che asciugava Napoli dalla pioggia dei giorni passati.
Che ore erano? Ah, si era anche perso la sua passeggiata mattutina. Questo è quello che accade a chi passa le ore notturne a girare senza meta per i bassifondi di Napoli, pensò, come un...

… un fantasma.

Troppe ore di buio consumate a vagare per la città, troppe poche ore di sonno. Forse, dopotutto, stava invecchiando. Forse anche quello faceva parte dello scotto da pagare per la normalità.
Stiracchiò i muscoli della schiena, intorpiditi da quella posa scomoda in cui era rimasto chissà da quanto tempo.
«Maestro». Qualcuno stava bussando alla porta.
Non era Fede, l'inserviente, forse lei era già passata, lo aveva trovato lì e non aveva avuto il coraggio di svegliarlo.
«Maestro, ci siete?».
«Entrate, Graziana» concesse passandosi una mano tra i capelli e stropicciandosi il lato scoperto del viso.
In un angolo della scrivania erano ammucchiati diversi pezzi di legno e ritagli di stoffa che aveva trovato nella falegnameria e nella sartoria quando andava a visionare i lavori degli operai. Aveva deciso che nel tempo libero avrebbe costruito un carillon, lo aveva già fatto una volta e adesso aveva un gran bisogno di impiegare in qualche modo le sue ore di inattività e le sue notti insonni.  
La giovane soprano entrò richiudendosi la porta alle spalle. Come al solito vestiva un colore chiarissimo e la seta della sua gonna frusciava ad ogni passo.
Erik la guardò pensando che Dio dovesse avere un tremendo senso dell'umorismo: creava creature bellissime, gli donava una voce di angelo ma non un cuore. E poi creava i mostri e li dotava di un'anima talmente grande da farli impazzire e di un cuore troppo fragile e malato.
«Buongiorno, signorina. Cosa posso fare per voi?» domandò in tono educato.
Graziana camminò leggiadra fino alla scrivania e si mise a sedere senza attendere alcun invito.
«In realtà, Maestro, è una cosa un po' sciocca e spero non ve ne abbiate a male. Con il rischio di sembrarvi un po' frivola...».

Non lo sembrate, lo siete...

«Con il rischio di sembrarvi un po' frivola, volevo chiedervi di poter vedere il mio costume prima che sia finito» spiegò la ragazza. «So che avete detto che non volete che i costumi e le scenografie siano visionati da qualcuno prima della prova generale, ma io ci terrei molto a poter vedere il mio. È indicibilmente stupido, me ne rendo conto, ma sono... ecco, piuttosto vanitosa riguardo ai miei costumi di scena e non vorrei che la sera prima dello spettacolo, vedendolo, non mi trovassi a mio agio...».
Erik inarcò un sopracciglio. Che non conoscesse affatto le donne, era una realtà con la quale aveva imparato a fare i conti, ma che quella donna in particolare fosse così stupida e civettuola non lo avrebbe mai creduto. Eppure... ah, perché lo guardava a quel modo?
«Ho la presunzione di possedere un ottimo senso estetico. Ho disegnato io il vostro costume e l'ho fatto tenendo ben a mente la persona che doveva indossarlo» concluse l'uomo, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi alla finestra per sottrarsi a quello sguardo maliardo.
«Oh, Erik, vi prego...» insistette lei con il tono più dolce che aveva mai udito nelle parole di una donna.
Erik?... Cosa sperava di ottenere usando quel nome? Se solo avesse saputo quanto gli faceva male sentirlo pronunciare. Se lo avesse saputo forse non avrebbe fatto molta differenza, concluse l'uomo.
Ma gli occhi di Graziana, il modo in cui lei lo guardava, erano quella mano tesa che il mondo gli aveva sempre rifiutato, e adesso gli sembrava così difficile afferrarla e lasciarsi guidare. L'armistizio era arrivato troppo tardi.
«Abbiate un briciolo di fiducia, signorina Rovesti. Vi ho mai deluso?» replicò Erik, continuando a evitare di fissare la sua interlocutrice, pensando con amarezza che quello di scappare e nascondersi era ancora il migliore dei suoi talenti. Non c'erano botole o passaggi segreti, ma c'erano silenzi e parole cortesi o dure, modellate ad arte dalla sua voce.
La sentì avvicinarsi a lui, alle sue spalle.
«In realtà un po' sì» dichiarò la ragazza, ma aveva una voce suadente.
Erik era certo che se si fosse voltato in quel momento e se la fosse trovata faccia a faccia, l'avrebbe scagliata via con tanta forza da farla fuggire fino all'angolo più remoto del teatro. Anche quello era un talento che certamente non aveva perduto. La paura era come la musica, permeava ogni fibra del suo essere e si scagliava contro gli altri, che lo volesse o meno.
«È deludente tutta questa indifferenza» soffiò Graziana contro la sua nuca.
Erik provò uno strano, orribile senso di vertigine, come quello dato da un alcolico troppo pesante. Che diamine...
Quando era successo? Quand'è che si era voltato e l'aveva guardata? E cosa ci facevano le sue labbra su quelle di lei?
Il senso di vertigine si fece più forte, lo prese alla testa e allo stomaco, proprio come una sbornia. Però le sue labbra erano ancora lì. Quella sensazione sgradevole proveniva dal suo cervello, dalla sua coscienza nera probabilmente, ma non riusciva a interrompere quel contatto. Non era stato lui a gettarsi tra le sue braccia, di certo era stata lei. E lei lo teneva inchiodato lì, con i pugni chiusi contro il suo petto.
Qualcosa nella mente di Erik scricchiolò mentre cingeva la vita sottile della giovane in un abbraccio. Era così strano baciare una donna che non aveva il viso bagnato di lacrime. Era così ingiusto che si trattasse di quella ragazza, che profumava di eau de toilette costosa, all'aroma di gelsomino, che aveva labbra di donna, fameliche ed esperte.
Lo scricchiolio nella sua mente diventò il frastuono secco di mura che cadevano, barriere erette in migliaia di giorni di solitudine che cedevano. Dietro quelle mura c'era qualcosa di orribile e doloroso, gelido come il tocco della morte, come la sua pelle quando lui emergeva dai sotterranei.
Poi un barlume di lucidità e di autocontrollo affiorò in mezzo a quel caos.
Erik la spinse via, e dovette fare appello a tutto il suo buon senso per non essere davvero rude. Arretrò di un passo, scoprendo di essere con le spalle contro il davanzale della finestra.
«Non fatelo mai più» sibilò, lo stomaco che si contorceva per una sensazione che non avrebbe saputo identificare. Non era disgustato, come avrebbe potuto esserlo? Eppure si rendeva conto che c'era qualcosa di assolutamente sbagliato in quello che era appena successo. Non solo perché non provava nulla per quella persona, ad eccezione dell'ammirazione professionale. Sentiva il bacio, dolce e appassionato della ragazza, immeritato quanto la bontà del duca, quanto la fiducia di Guglielmo.
Graziana lo guardò basita. Non sembrava offesa, era semplicemente incredula, incapace di spiegarsi il motivo di quella reazione improvvisa. D'un tratto si riscosse e si lasciò scappare una risata allegra e argentina come quella di un infante. Un suono che rimescolò i pensieri di Erik rendendoli un groviglio di sangue, oscurità, dolore, freddo...
«Come se avessi fatto tutto da sola» trillò la giovane scuotendo il capo. Allungò una mano a toccare quella di lui, ma Erik si ritrasse, più spaventato che infastidito.
«Non fatelo» ripeté cupo.
Stavolta la ragazza si mostrò piccata. L'uomo sperò vivamente che non gli facesse una scenata, non avrebbe saputo come arginare un simile ostacolo, non in quel frangente, non con quella sinfonia di distruzione che suonava nella sua mente.
Dio, come si sentiva sciocco! Non si sarebbe mai definito uno stolto eppure da settimane il mondo non faceva altro che minare quella sua certezza, sorpresa dopo sorpresa, come un insieme di colpi di scena in un'opera buffa.
«È colpa mia» disse subito, sentendosi ancora più sciocco, sentendosi uno come tutti gli altri. «Non avrei dovuto. Io non sono il tipo d'uomo adatto a una giovane donna come voi, non voglio che vi facciate un'idea sbagliata. Perdonatemi e dimenticate questa sciocchezza».
Era... ridicolo! Si stava scusando. Lui si stava scusando con una soprano dalla condotta da cortigiana. Sentì lo stomaco ridotto a un grumo in fondo al suo addome.
«Perché siete sempre così... distante? Con me, con tutti? Cosa vi abbiamo fatto? Che vi ha fatto il mondo?» borbottò la donna risentita. Il suo sguardo indugiò sulla maschera; una stilettata di gelo attraversò il cuore dell'uomo.
La pazienza di Erik cominciava ad assottigliarsi. Non voleva che la corda si spezzasse, non in quel momento, non con Graziana. Non voleva che il mostro folle che ancora si agitava dentro di lui si aprisse uno spiraglio attraverso quell'assurdo momento di debolezza, non ora che aveva il suo teatro, una vita alla luce del sole...
«Credetemi, non volete saperlo davvero» disse. La voce gli uscì fredda e tagliente, un pezzo di cristallo gelido.
«Potreste... potreste parlare con me, vi giuro che io potrei...» tentò di dire Graziana. Mentiva, certamente mentiva, lei non avrebbe potuto proprio un bel niente, nessuno avrebbe potuto, meno che mai una donna che aveva per lui un così forte e insensato interesse.
«Non potete. Vi prego, lasciate il mio ufficio e dimenticate questo episodio increscioso» concluse lui con un sospiro stanco, celando la rabbia e la frustrazione dietro uno sguardo impassibile.
Graziana si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, fece un lungo respiro e incrociò le braccia sul petto. Le ci volle ancora qualche secondo perché l'espressione sul suo viso tornasse calma, la bellissima maschera di fata che indossava abitualmente. Ma alla fine quel sorriso roseo ricomparve sul suo incantevole volto.
«Abbiamo ancora molto tempo da passare insieme» osservò con la medesima semplicità con cui si discorre del tempo. «E io sono una persona assai caparbia».
Erik la fissò in silenzio mentre usciva dall'ufficio.
È meglio che non sappiate quanto posso esserlo anch'io, pensò cupamente.

*******

~ Parigi, 4 maggio 1892 ~

Gustave aveva preparato il té, come faceva ogni sera da quando aveva preso a frequentare quella casa. Il liquido ambrato ora fumava nelle tazze di porcellana e lo sguardo di Louis era grave e distante. Quando il suo compagno biondo gli aveva proposto di andare a visitare la torre Eiffel, lui gli aveva risposto che non aveva voglia di uscire e Gustave, con la sua incrollabile calma, aveva messo a bollire l'acqua per il tè e si era seduto di fronte al suo amico.

Amico?...

Questa parola aveva sempre avuto un significato un po' sfuggente per Louis. Non che non avesse compagni di scorribande e colleghi musicisti con cui passare il tempo, lì a Napoli, ma c'erano ombre e fantasmi nella sua vita, spettri che soffiavano da lontano attraverso gli occhi di suo padre, in certi sguardi che lui e sua madre si scambiavano. E di questo Louis non poteva parlare con nessuno.
Eppure in quei giorni aveva scoperto che Gustave era l'anima più affine alla propria che avesse mai incontrato, nonostante avesse un temperamento del tutto diverso dal suo.
«Che cos'hai?» chiese il ragazzo biondo, guardando la zolletta di zucchero affondare nella tazza.
Louis sollevò il capo,
«Temo di aver scoperto qualcosa di non troppo gradevole sul conto di mia madre» ammise, scoprendosi incapace di guardare in viso l'altro giovane.
Gustave fece tintinnare il cucchiaino sul bordo della tazza, scrollando qualche goccia di tè.
«Sì, è capitato anche a me» replicò con un tono serioso che Louis non gli aveva mai sentito.
Il ragazzo moro spalancò gli occhi, stupito: la madre di Gustave, della quale non riusciva a rammentare il nome, era la moglie di un visconte, cosa ci può essere di sgradevole sul conto di una donna del genere?
Gustave si stiracchiò contro lo schienale della sedia,
«La gente chiacchiera» aggiunse con semplicità, quasi come se avesse indovinato i pensieri del suo interlocutore. «Fin da quando ero molto giovane mi ero reso conto che mia madre non era molto ben vista nell'alta società, eppure la nostra famiglia è importante qui a Parigi, però sembra che la memoria delle persone sia una macchina inarrestabile: mia madre una volta era una cantante di teatro. Una cantante che sposa un visconte di Francia è un'anomalia difficilmente perdonabile. Poi si diceva che lei fosse coinvolta nella vicenda dell'incendio che distrusse l'Opera Populaire tanti anni fa... ma non ho mai scoperto se è vero, forse è una delle tante voci messe in giro per screditarla».
Louis aveva ascoltato attentamente il racconto del compagno. Certo, la nobiltà francese non doveva essere particolarmente tollerante, nemmeno quella italiana lo era, ad eccezione di pochi personaggi che comunque erano marchiati come caratteri originali dai loro stessi amici. Louis avrebbe voluto replicare che non c'era motivo per cui una cantante di teatro non poteva essere adatta a un visconte, ma sarebbe suonato insincero: conosceva il mondo del teatro e sapeva quali erano le idee e i comportamenti di molte persone che vi facevano parte. E poi, quello che aveva appena letto nel diario...
«Io invece temo di aver scoperto che mia madre era... beh... ecco, non la persona più raccomandabile del mondo. E dire che pensavo che fosse mio padre quello strano» concluse Louis sbuffando.
«Volesse il cielo mio padre fosse strano!» replicò Gustave come se stesse pensando ad alta voce.
I due ragazzi si guardarono in viso e risero.
«La nostra cameriera prepara un tè assai migliore di questo» disse a un certo punto il giovane De Chagny, appoggiando la tazza sul piattino.
Louis inarcò un sopracciglio con aria sarcastica,
«Non ci vuole molto a preparare un tè migliore del tuo» borbottò canzonatorio.
«Perché non vieni a casa nostra, domani? È da quando ho parlato a mia madre di te che dice che vorrebbe conoscerti»
«Sei gentile, ma non so...»
«Perché no? Basta che non ti lasci scappare con mio padre il fatto che mi ospiti qui per dipingere».
Louis non era convinto che fosse una buona idea, però il fatto che la madre di Gustave fosse stata una cantante lo incuriosiva. Chissà, forse sapeva davvero qualcosa dell'incendio dell'Opera, magari aveva anche conosciuto suo padre...
No, impossibile! Chissà quanto tempo era passato.
«D'accordo, verrò volentieri a bere un tè con i tuoi genitori. Basta che tu non mi metta in imbarazzo chiedendomi di suonare».    


_______________________

E vabbuò, Graziana mi ha baciato il Maestro... non era previsto. Tipico esempio di quando i personaggi fanno tutto di testa loro.
Altro capitolo un po' delirante...
@ Keyra93: oui, deve essere successo qualcosa con il precedente capitolo (tipo quelle cose che faccio io, tipo rileggerlo, sistemarlo e poi non cliccare su salva prima di chiudere il programma di scrittura, o non so...). Appena ho tempo, sistemo tutte le cose schifide che ci sono, grazie per avermelo fatto notare :)

Al prossimo mercoledì!

I remain, gentlemen, your obidient servant.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Alkimia