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Autore: Yees    07/03/2012    1 recensioni
Un ruscello può interrompersi per un breve tratto del suo lungo scorrere. Ma se l'acqua deve riaffiorare, potete star certi che lo farà prima o poi, dove potrà.
Allo stesso modo si comporta l'Amore, quello vero, quello che lotta.
Questa la storia di acqua che scompare per poi riaffiorare, di cuori che si legano e che si slegano. Un viaggio di sola andata verso una felicità dimenticata da troppo tempo. E a fargli da sottofondo, i toni dolci dell'amore unico e sincero che colpisce ognuno di noi una volta soltanto nella vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Matthew Bellamy, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9.
 
- Roxanne, mettiti come lei. Ecco così, bravissima… Un attimo… Perfetta! –
Mi tirai su, a fatica. I tacchi erano sempre stati un problema per me. Non appena fui in piedi mi sentii a disagio. Ero alta, troppo. Guardavo l’altra modella dall’altezza del mio metro e ottanta.
- Eric, posso togliermi queste scarpe adesso? – bisbigliai al fotografo.
Non riuscivo a capire a cosa servisse mettersele. In gran parte delle fotografie che mi aveva scattato ero seduta, coricata o messa in qualche posa complicata, le braccia attorcigliate a quelle dell’altra povera disgraziata.
Ma lei, al contrario di me, sembrava divertirsi, si trovava suo agio in quello studio, infilata in quei vestitini succinti che lasciavano intravedere più di quello che nascondevano.
Mi tirai un po’ più giù il bordo del vestito. Una truccatrice lì vicino mi bacchettò la mano con un mascara e ritrascinò il lembo dell’abito un po’ più su.
La fulminai con un’occhiataccia.
- No, ancora un attimo, tesoro… - borbottò lui, concentrato sul suo obiettivo.
Alzai gli occhi al cielo.
Ero ridicola. Cosa stavo facendo? Per i soldi mi ero ridotta a diventare una ragazza da copertina patinata di qualche giornale di moda internazionale.
Mi facevo pena da sola.
- Roxanne? Ci sei? Pronta? – mi domandò l’assistente di Eric, un tizio parecchio brutto vestito interamente di rosso.
- Sì… - sbuffai, avvicinandomi all’altra tipa.
Quest’ultima sembrava aver sviluppato una curiosa forma di avversione nei miei confronti. Ogni due secondi si lamentava che non mi posizionavo bene in ogni scenografia, che mi muovevo troppo, che barcollavo sui tacchi (e su questo non potevo neppure contraddirla…), che sbuffavo troppo, che le mie espressioni erano troppo inasprite.
Ma Eric non replicava, lui la zittiva e diceva che stavo andando benone.
A me invece non andava bene proprio nulla. Neppure il modo in cui lui prolungava le “o” o le “e” mentre scattava, mentre i suoi occhi diventavano un tutt’uno con l’obiettivo e vedeva solo più la fotografia che di lì a poco avrebbe scattato.
- Questa è perfetta, bravissime! – si complimentò il fotografo, dopo quella che doveva essere la 1732643763765esima foto di quella mattinata.
- Ora possiamo smettere?! – proruppi stanca morta di giocare a reggermi in piedi su quelle maledette pertiche senza rompermi l’osso del collo.
Eric alzò il capo, disorientato, poi fece un cenno del capo.
- Pausa, sì! – annunciò.
L’altra modella gli si avvicinò, allungò il braccio sulle sue spalle.
- Io non sono affatto stufa. Continuiamo, io e te? – disse, il tono astuto di chi vuole la scena tutta per sé.
Scossi il capo, negativamente incredula. Voltai le spalle a quella scena ridicola e lasciai lo studio, dove erano state allestite delle scenografie differenti per le nostre maledette fotografie.
Eric mi aveva spiegato che saremmo comparse sul prossimo numero del giornale.
Alla fine ero andata a genio al resto della troupe che si occupava del servizio, ed ero stata accettata per posare assieme all’altra donna, che era una veterana del campo.
Ma di certo questa non aveva fatto i salti di gioia quando aveva saputo di dover posare insieme a me. Mi aveva subito scoccato una serie di sguardi piuttosto brucianti, cattivelli.
Sapevo che mi odiava perché aveva paura che una novellina come me potesse soffiarle il trono da sotto il sedere, ma se l’astio era davvero per questo motivo, allora poteva tirare un sospiro di sollievo: io odiavo quelle foto, odiavo me stessa quando mi specchiavo e mi vedevo ben vestita, ben truccata, perfetta, come non ero. Sembravo davvero una di quelle ragazze perfette che compaiono nei giornali, avevo talmente tanto fard in faccia che non mi riconoscevo, la pelle del viso era perfetta, senza neppure un’imperfezione o una macchia, gli occhi cerchiati di mille colori, individuai pure del verde.
Sospirai, non ero io quella che mi fissava sconsolata nello specchio.
Mi slacciai le scarpe e camminai scalza fino alla mia borsetta.
Avevo ricevuto uno squillo, ma non conoscevo il numero di telefono.
Rimisi il cellulare nella borsa e poi mi levai il fermaglio dai capelli.
Caddero morbidi fino a metà schiena.
- Così va già meglio… - commentai, sorridendo.
 
 
Il primo Natale. Il primo da sola.
Avevo avuto una gran voglia di scrivere a Letizia, almeno un biglietto d’auguri, una lettera di scuse per quel prolungato “silenzio stampa”.
Ma non avevo avuto abbastanza coraggio da tentare. Un intero pacchetto di fogli a righe era riversato nel cestino della biblioteca che frequentavo ogni giorno, alcuni scritti, altri in bianco.
Mi alzai stancamente dalla mia postazione vicino al fuocherello allegro della sala lettura.
Raccolsi il libro che avevo iniziato qualche ora prima e lo riposi accuratamente nella mia spaziosa borsa.
Scesi al primo piano, comunicai alla bibliotecaria il titolo del libro che avevo preso, le mostrai la mia tessera d’abbonamento e poi uscii.
Era il 26 dicembre, era un pomeriggio buio ma non faceva freddo. Era un inverno delicato, quello. Il vento soffiava spesso, ma era un vento leggero, non troppo rigido. Accarezzava la pelle del viso con morbidezza, con dolcezza.
Aspettai il bus urbano con le mani nelle tasche del piumino.
Lì attorno si andava formando un gruppo di persone che come me attendeva pazientemente, chi in silenzio, chi chiacchierando con un amico.
Era il primo Natale, a Londra. E io avevo ancora qualche piccola difficoltà con la lingua. Capivo già praticamente tutto, ma certe volte avevo ancora leggere titubanze quando dovevo pronunciare una determinata parola o coniugare un certo verbo mai studiato prima.
Qualcuno aveva già avuto il dubbio sulla mia provenienza. Era difficile convincere tutti della mia bugia. Certo, era ben costruita, ma non abbastanza per certi segugi che si erano subito messi a indagare più a fondo sulle mie origini.
Mi infastidiva molto vedere la gente spiare nella mia vita, nel mio passato. Io non l’avevo mai fatto e pretendevo che gli altri mi lasciassero stare in pace.
Io ero Roxanne, la ragazza che si presentava davanti ai loro occhi, e nessuno doveva metterlo più in dubbio.
Finalmente il bus arrivò, si fermò davanti ai nostri occhi.
Salii tranquilla, abituata alle spinte che si ricevevano in quei frangenti.
- Posso sedere? – domandai gentile a una signora anziana indicando il posto a sedere vicino al suo.
Quella annuì e mi fece spazio. Sedetti di slancio, felice di potermi finalmente sfilare la borsa piena zeppa di libri e quaderni.
Da quando ero arrivata a Londra avevo ripreso instancabilmente a scrivere. Scrivevo storie, favole molto spesso. Ma alle volte provavo anche a comporre qualcosa che potesse aiutare a sfogare tutta la rabbia repressa nel mio cuore. Era difficile. Era difficile parlare di quello che mi era successo, parlare di quella notte. Significava costringersi a rivivere tutto daccapo, e al solo pensarci mi venivano i brividi.
Avevo fatto in modo di soffocare ogni cosa. Era stato faticoso, specialmente all’inizio, quando ancora vivevo in Italia, perché là ero subito stata adocchiata come la colpevole. Ero stata accusata da tutti, senza che però nessuno conoscesse la verità di quella notte.
Chiusi gli occhi, il ricordo che mi graffiava dentro.
Era stato il destino a condurmi lì in quella città così piovosa e fredda? Oppure non esisteva nessun destino, ed era successo tutto per caso?
Io sapevo soltanto che le cose ora stavano migliorando, nonostante non potessi ancora dire di stare davvero bene. Il giorno prima avevo festeggiato nella più completa solitudine il Natale, la festa che rende tutti più buoni e avvicina il povero al ricco. E io ero da sola, più sola che mai.
Lasciai sfuggire il mio sguardo perché si soffermasse sul panorama di Londra fuori dal finestrino. Stava riprendendo a piovere, ma ormai avevo imparato a distinguere le diverse piogge londinesi. Questa che si preparava era una di quelle più innocue, inumidiva leggermente i vestiti ma non infastidiva particolarmente.
Scesi dal bus dopo un quarto d’ora, raggiunta la fermata più vicina a casa mia.
Ma da lì al mio appartamento mi toccavano ancora cinque minuti a piedi. M’incamminai imperturbabile al maltempo e alla fatica di trasportare il peso della mia borsa lungo quella strada.
 
 
- Roxanne? – mi raggiunse l’ormai ben nota voce di Eric.
Aveva bussato alla porta del mio camerino, ma io non l’avevo neppure sentito. Ero attaccata al mio iPod, che avevo scoperto essere un utilissimo regalo, più del previsto.
Mi riscossi, vedendo il fotografo riflesso nello specchio davanti a me. Mi levai una cuffietta.
- Sì? – domandai.
Lui sorrise ed entrò, chiudendo la porta alle sue spalle.
- Puoi anche lasciare aperto – lo rimbeccai prontamente.
Mi dava sui nervi il fatto che ancora si ostinasse a fare il galante con me. E mi dava ancor più fastidio notare la sua profonda ostinazione, anche in quei piccoli gesti.
- Vorrei un’atmosfera più intima… - rise.
Io capii che non scherzava, non lo faceva mai quando affrontava questi discorsi.
Mi si avvicinò, però mantenendo una distanza che valutai positiva.
- Che cosa vuoi? – lo aggredii feroce.
- Non ti è piaciuto? – fece lui sorpreso.
Scoppiai in una risatina isterica.- Cosa? Farmi massacrare su quei trampoli assieme a un’oca senza cervello che non smetteva un solo istante di lamentarsi della mia presenza?! No, non mi è piaciuto affatto! – replicai, ancora comoda nella mia poltroncina bianca.
Lui sorrise, per niente colpito dalle mie critiche, e si sedette sul ripiano davanti a me, le mani appoggiate alle gambe.
- Non riesco a immaginare come delle ragazze possano fare questo ogni giorno! –
- Possono eccome, se qualcuno le paga profumatamente… -
- Bene, allora spero di essere pagata profumatamente anch’io questa volta, e dopo non mi vedrete mai più! –
Eric sorrise di nuovo, sembrava addirittura divertirsi vedendomi protestare per quello che mi era toccato fare.
- Tanto lo sai che io andrò in Italia – ripetei, quasi più per convincere me stessa che sarebbe successo così perché la mia volontà era più forte di qualsiasi altra cosa.
- Roxanne, sei piaciuta ai miei superiori – disse lui, calmo.
Ora aveva assunto un’aria seria, e questo mi preoccupò ancora di più. Finché sapevo che scherzava, riuscivo a replicare degnamente alle sue battute. Ma vederlo così posato mi metteva in agitazione, perché questa volta mi rendevo conto della gravità della cosa.
- Io non ho intenzione di posare altre volte, lo sai. Il nostro patto non prevedeva… - incominciai a blaterare, preoccupata.
- Roxanne! Ti rendi conto di quello che dici? Ti sto offrendo una possibilità inestimabile, saresti pazza se non la prendessi al volo! Christine, l’altra modella, ha dovuto lottare a lungo per entrare nel nostro mondo… -
- Nel tuo mondo, Eric! Io un lavoro ce l’ho già, e mi basta quello! –
Lui scosse il capo, detestava quelle situazioni in cui entrambi ci impuntavamo sulle nostre idee e non sentivamo ragioni di valutare altre opzioni.
- Christine e tante altre donne farebbero carte false pur di arrivare dove sei tu – aggiunse Eric.
- Le altre sognano questo fin da quando sono nate, io no! Eric, a me piace fare la giornalista, non voglio né fama, né ricchezza, né ville sparse in giro per il mondo! Capisci? –
- No, se devo essere sincero non ti capisco affatto. Il potere attira tutti, questo è certo. Cosa c’è che ti blocca? –
- Non sono affari tuoi… -
- Sì che lo sono, Roxanne. Per favore, dammi almeno una buona motivazione per cui non potresti accettare il lavoro –
- Non voglio diventare famosa. Ecco fatto –
Incrociai le braccia al petto e assunsi la tipica smorfia che fanno i bimbi dopo aver discusso con la madre e aver avuto torto.
Lui rimase piuttosto perplesso davanti alla mia frase buttata lì con sincerità.
- Lo sai che non ha senso, vero? – mi domandò.
- Ha senso! –
- Trovamelo! Dio mio, Roxanne, cosa devo fare per farti cambiare idea? –
Anche Matt una volta mi aveva fatto una domanda simile, e io gli avevo detto di lasciar perdere semplicemente. Ma poi la vita aveva dimostrato che lui aveva vinto e io perso. Cosa voleva dire tutto ciò? Magari a qualcuno niente, ma per me era come una specie di segno. Facevo davvero bene a restare convinta che la mia decisione fosse la migliore? Forse avrei davvero dovuto fare come diceva Eric, cogliere quell’opportunità senza fare troppe storie.
Ma io avevo paura, paura, paura. Paura di mettere il mio viso su una rivista, ed essere notata da lui, l’incubo che mi tormentava da quando ero fuggita dalla Toscana dieci anni prima.
Non avevo mai più temuto Pietro, avevo sempre pensato che fosse troppo lontano e povero per farmi altro male. Ma se fossi diventata famosa, forse avrebbe potuto raggiungermi. Avrebbe potuto trovare i soldi.
E io ero sicura che lui volesse ancora me. Voleva me, per due motivi: mi amava e mi odiava. Doveva finire l’opera iniziata dieci anni prima.
Il pensiero mi fulminò, sentii le gambe farsi improvvisamente più molli.
Come potevo evitare di essere stanata da quello che ormai doveva essere un uomo a me irriconoscibile? Se lo avessi incontrato, probabilmente non sarei riuscita a identificarlo, e allora come avrei potuto difendermi questa volta?
Al peggio ero già sfuggita una volta, e per pura fortuna, non di certo per via di capacità che Letizia mi aveva ingiustamente attribuito.
Sprofondai il viso nelle mani e il pianto venne da sé.
- Ehi, Roxanne, che ti prende…? – domandò allarmato Eric, scendendo da dove si era seduto.
Mi ero quasi scordata della sua presenza nella stanzetta.
Poggiò delicatamente una sua mano sulla mia spalla, ma io lo cacciai via.
- Lasciami stare, ti prego – mormorai con voce strozzata, la faccia ancora sepolta dove non poteva essere vista.
Lo allontanai un’altra volta. Volevo davvero stare da sola adesso.
Lui si spostò lentamente, incapace di lasciarmi stare. Poi finalmente lo sentii chiudere la porta del camerino.
Passarono alcuni minuti.
Aprii un varco tra due dita e spiai in direzione dell’entrata. Ora che finalmente ero sola mi alzai e presi un bel respiro, le mani sui fianchi e mille idee geniali per andarmene subito da quel posto che stava diventando asfissiante.
Raggiunsi la porta, la chiusi a chiave, mi spogliai e mi rinfilai i miei comodissimi vestiti. Poi fu il turno delle Converse. Quando fui pronta, uscii di soppiatto dalla stanza. Ma proprio mentre stavo risalendo la scalinata per raggiungere il piano dove sapevo esserci l’uscita, incrociai Christine che veniva giù nella direzione opposta.
Mi rivolse un sorriso che sapeva di falso.
- Ciao! – e anche lei trascinò la “o” finale come era solito fare Eric.
Soffocai l’odio per quel comportamento che sembravano avere tutti, e mi sforzai di sorriderle a mia volta. Ma probabilmente mi uscì soltanto una brutta smorfia.
- Dove stai andando? – mi domandò, fingendosi interessata ai miei affari.
Ecco, in quel momento avrei voluto picchiarla e urlarle di ficcare il naso nelle sue stronzate da modella.
Mi trattenni e mandai giù le imprecazioni che mi erano salite alle labbra.
- Ehm… Via. Abbiamo finito, no? – finsi di cadere dalle nuvole, aggiungendo anche una risatina nervosa d’effetto.
Christine sbuffò, sorridendo evidentemente impietosita dalla mia condizione.
- No, tesoro. Si continua tutto il pomeriggio. Ora abbiamo solo preso una pausa pranzo. Non lo sapevi? –
Non lo sapevi?Non avrei potuto sopportare un’altra delle sue brutte espressioni vittoriose come quella.
- Certo, lo sapevo ma volevo farmi la figura dell’idiota, così te l’ho richiesto in modo che tu potessi fare questa faccia del cazzo e goderti la mia finta ignoranza – replicai, il sorriso finalmente sincero che mi usciva pian piano sulle labbra.
Le alzai il dito medio e la superai proseguendo su per le scale.
- Che cosa hai detto?! Ehi, sto parlando con te! Almeno abbi il coraggio di guardarmi in faccia! – si mise a strepitare lei, risalendo e tentando di giungere fin dov’ero io.
Mi voltai, e, senza smettere di camminare, dissi:- No, Christine, è diverso: io ho il coraggio, ma mi manca la voglia di dover guardare in faccia una come te. Porta i miei saluti alle tue amichette stronze! -, riferita alle varie truccatrici e addette ai vestiti che ci avevano controllate e manipolate come bambole per tutta la durata della mattinata.
Uscii dall’edificio col morale lievemente risollevato.
Essere riuscita a dire quelle cose a quella deficiente significava un piccolo trionfo personale.
 
 
Come c’era da aspettarsi, Eric tentò subito con le sue manovre di recuperare quel poco che poteva essere recuperato della situazione nel suo complesso.
Mi chiamò subito, e litigammo. Lui mi rimproverò tutte le cattiverie che avevo detto a Christine. Disse che non avrei dovuto comportarmi come una bambina immatura.
Io gli risposi che semplicemente non avevo resistito alla tentazione troppo forte, e gli urlai tutto lo sdegno per il suo stupido comportamento, perché sapevo benissimo che tutto ciò a cui mirava lui era portarsi a letto le modelle con cui lavorava.
La nostra amabile conversazione andò avanti lungo tutto il tragitto fino a casa.
Pure in taxi non riuscii a evitare di sbraitare attaccata al mio cellulare, le mani che si alzavano in gesticolazioni impensabili.
Quando scesi dal taxi, il taxista mi squadrò con un’occhiata minacciosa. Forse pensava che avrei lasciato defluire quella corrente di rabbia su di lui.
Io lo ignorai, e anzi la cosa mi divertì a suo modo.
Aprii la porta di casa e trovai il telefono intasato di messaggi vocali.
 
 
- Come diavolo è successo?! – sbottai, furiosa e demoralizzata.
Mi sedetti di peso, al mio fianco un immobile Hector che fissava il vuoto.
- Stava venendo a trovarti… - spiegò con due parole Marie.
Sospirai, l’angoscia che saliva dentro.
Sospirai, perché non potevo fare altro in quel momento.
E sospirai, perché sapevo che le cose non avrebbero dovuto finire così, in quel maledetto ospedale che puzzava di disinfettante.
- Sapeva anche lui che ero al lavoro! – esclamai.
- No, lui non lo sapeva! Non gli rivolgi più la parola, come poteva sapere dei tuoi impegni?! – replicò Marie, surriscaldandosi a una velocità allarmante.
- Non mi dire che non ne avete mai parlato in casa! –
- Ne abbiamo parlato, ma Nathan non era con noi evidentemente! Non è il caso che ti arrabbi tanto, noi… -
- Mi fa arrabbiare il fatto che lui non dovesse essere lì al momento dell’incidente! – scoppiai.
Marie tacque, fissandomi mentre il mio petto si alzava e si abbassava rapidamente, scosso dalle urla che mi erano sfuggite di bocca.
- Arrabbiandoti non lo aiuterai, Roxy – cercò di tranquillizzarmi Hector prendendomi per mano.
Io mossi il capo a caso, non sapevo come reagire di fronte a una situazione come quella. Ero del tutto impreparata al dolore di una possibile morte.
Liberai la mano dalla presa di Hector e mi alzai, ricominciando a piangere.
- Nathan deve starmi alla larga! – proruppi, intervallando le parole ai singhiozzi.- Ecco dove l’ha portato il desiderio di stare con me: in un letto d’ospedale! –
- Non poteva saperlo che quella macchina… -
- Bene, ma ora è in fin di vita, ed è colpa mia! –
- Roxanne, non è colpa tua, cazzo! – urlò Marie alzandosi e raggiungendomi. Mi afferrò saldamente per le spalle e mi scosse.- Smettila di colpevolizzarti! E’ stato un incidente! Non morirà, capito? Noi pregheremo per lui, e presto si dimetterà! –
- Queste sono cose che funzionano nei film – replicai.- Nei film, capisci? Questa è la realtà, Marie… -
- E tu devi affrontarla, perciò siediti e calmati! Non risolveremo nulla urlando e piangendo adesso. Dobbiamo mantenere il controllo se vogliamo superare la cosa –
- Marie, io ho già vissuto una volta una colpa che non sono riuscita a espiare. E sta succedendo di nuovo. Ho rifatto lo stesso errore – biascicai, la bocca vicina al suo orecchio destro in modo che gli altri due non mi sentissero.
Marie si staccò da me e mi fissò sconcertata.
Mi asciugai un occhio col dorso della mano destra.
- L’ho rifatto. Sono di nuovo colpevole – ripetei, altre lacrime che stavano arrivando d’assalto.
Girai sui tacchi e mi avviai lontana dagli altri tre componenti degli Smash.
 
 
Era opprimente starsene in casa, chiusi nel silenzio e nel buio. Perché quella era una giornata piovosa, e quindi il cielo era coperto da spesse nuvole nere.
E la colpa pesava nel mio cuore più di un macigno.
Ero piegata in una posa alquanto strana, sul mio divano, la televisione però questa volta era spenta. Non c’erano rumori in casa, solo il lontano eco della voce della vicina, una voce difficile da isolare dalla mia percezione.
Continuavo a rileggere le parole scritte su quel pezzo di carta, quelle stesse parole che avevo racchiuso nel mio diario segreto perché non ne venissero mai più fuori.
Ma ora che Nathan era chiuso in ospedale non potevo fare a meno di scorrere quelle poche righe pregando il cielo che si salvasse. Non avrei sopportato un’altra morte.
Avevo già combinato troppi disastri per una sola vita, non potevo davvero permettere che anche lui se ne andasse.
E se ripensavo che era stato investito mentre veniva a casa mia, per me, il malessere si faceva più forte, rischiava di uccidermi.
Forse non sarei stata così male se non fosse già successo una volta.
Ma non potevo cancellare il passato, anche se ci avevo provato molte volte. Quindi dovevo farmi forza, e stare vicino a Nathan. Come lui aveva fatto con me.
Acchiappai l’iPod sul tavolino davanti a me e districai il nodo che si era formato tra le cuffie. Me le infilai nelle orecchie e accesi. Cliccai il pulsante centrale finché non partì Sing For Absolution.
 
 
Sing for absolution
I will be singing
Falling from your grace

 
 
Era gennaio, di nuovo. E di nuovo la dolce atmosfera natalizia era terminata, lasciandosi dietro solo ricordi anonimi.
Non avevo avuto proprio nulla di bello da festeggiare: Matthew non si era più fatto vivo, Nathan era ricoverato all’ospedale, il viaggio in Italia era stato rimandato e il computer non ne voleva sapere di funzionare.
Erano passati dieci giorni dall’incidente di Nathan, e ogni giorno, all’ora di pranzo o quando staccavo il lavoro alla sera, mi recavo puntualmente da lui. Si stava riprendendo, lentamente. Ma ce la stava facendo. I dottori si dicevano felicemente sorpresi dei suoi miglioramenti: avevano temuto il peggio, quando era stato condotto in ospedale era messo davvero male, pessime condizioni, le avevano definite.
E anche se non l’avessero detto loro, lo avremmo capito noi stessi guardandolo più tardi: il volto tumefatto, il corpo ingessato. Parecchio sangue incrostato all’attaccatura dei capelli.
Mi ero portata le mani alla bocca, terrorizzata.
Ma avevo subito preso la decisione di occuparmi di lui personalmente, non volevo abbandonarlo.
Così da quel 10 gennaio in cui era avvenuto l’incidente, andavo a trovarlo tutti i giorni, gli portavo giornali, cioccolatini, brioches. Ogni tanto gli portavo anche qualche rivista musicale, ma lui rispondeva sorridendo che avrebbe preferito ascoltare la musica, e non solo leggerla.
Nel frattempo parlavamo, ed ero felice di notare i suoi progressi man mano che il tempo passava.
Mi chiedeva come andassero le cose fuori da quel ricovero pieno di vecchi bavosi (come gentilmente lo definiva lui…) e domandava del mio lavoro, delle mie giornate.
A volte se ne spuntava con frasi come “Non dovresti essere qui! Vai a viverti la tua vita, non perdere tempo a farmi da badante!”, ma mi aveva già confessato più volte di essermi grato per quella compagnia che alleviava la noia delle giornate sempre tutte uguali le une alle altre.
E man mano che le ore passavano, mi rendevo conto che quelle visite e quei momenti passati insieme giovavano anche alla mia salute.
Quel fare del bene a Nathan, che aveva davvero bisogno di aiuto, mi faceva sentire bene, come se aiutare un’anima addolorata potesse aiutarmi a curare la mia.
E il pensiero di Matthew non mi tormentava più tutto il giorno, solo la notte, quando tornavo a casa e, stanca, mi coricavo sola nel letto.
La sua mancanza bruciava, la mia casa profumava ancora di lui. Ma Nathan mi strappava alla solitudine, mi dava un motivo per cui alzarmi ogni mattina e affrontare la giornata. Era una bellissima sensazione, sapere di essere il sostegno di qualcun altro.
Intanto avevo fatto pace con Eric, e avevo accettato di fare un altro servizio per lui.
Mi aveva raccontato quanto fosse stato difficile convincere i collaboratori a darmi un’altra possibilità: erano rimasti tutti alquanto feriti dalle mie parole, e inizialmente non c’era stato verso di farli ragionare.
Ma Eric aveva puntato tutto sull’argomento “profitto”: aveva insistito particolarmente sul successo che avrei potuto apportare alla rivista per via della mia bellezza straordinaria e del mio carisma, che si scontrava bene con l’immaginario collettivo che il mondo aveva delle modelle. Sarei stata una nuova scoperta nel mondo delle ragazze-stecco che comparivano sulle copertine dei giornali.
Eric era così sicuro del successo che avrei potuto ottenere. Non aveva dubbi, me lo ripeteva in ogni telefonata. Già, continuava a tartassarmi con le sue chiamate, che spesso mi tenevano attaccata alla cornetta anche un’ora.
Io non mi ribellavo più, ogni scusa era buona per tenermi lontana da me stessa.
Avevo addirittura iniziato un corso di lingua Francese. Le lezioni si tenevano ogni mercoledì sera, così, dopo esser fuggita in tutta fretta dall’ospedale, correvo a casa e afferravo libri e quaderni e biro e tornavo in strada, acchiappavo il primo bus in arrivo e raggiungevo Carnaby Street.
Lì, ad attendermi, c’erano altri otto volenterosi mancati-studenti, tutti più vecchi di me. Io mi trovavo bene con loro: se ne stavano quasi sempre zitti, non mi infastidivano, facevano poche domande e quando aprivano bocca era sempre e solo per chiedere chiarimenti sulle lezioni.
Così il mio tempo scorreva placido, lasciando la sua traccia nella mia vita.
Le uscite serali con Marie ed Emily si erano ridotte drasticamente: Emily si frequentava con un nuovo ragazzo, lo stesso che aveva conosciuto in discoteca assieme a me. Era visibilmente più giovane di lei, non mi ero sbagliata a giudicarlo. Eppure sembravano andare d’amore e d’accordo, e quasi ogni giorno si vedevano, uscivano, si chiamavano e stavano ore al telefono.
Emily mi aveva solo detto che i genitori di lui avevano preso un po’ a male la notizia del loro fidanzamento. Non era esattamente nei loro piani vedere il promettente figlio, giovane, bello e anche piuttosto ricco, legarsi ad una donna non solo straniera, non solo più grande di circa dieci anni, ma anche reduce di una brusca separazione dall’ex fidanzato americano.
Ma l’amore è bello proprio perché è questa cosa così imprevedibile. Perché, chi l’avrebbe mai detto che Emily avrebbe conosciuto così l’uomo che pareva poter diventare quello della sua vita? Chi l’avrebbe mai detto che avrebbe dovuto fare tutti quei chilometri per ritrovare la felicità?
E ora, a dispetto di tutti i maldicenti, lei viveva il suo amore assieme a quel bel ragazzo piuttosto scuro di carnagione, che mi ricordava certi tipi di ragazzi italiani, di quelli che fanno impazzire le ragazze di tutto il mondo.
Invece Marie era sempre più impegnata con la band.
Anche se Nathan era chiuso in ospedale, lei, Gaspard e Hector avevano deciso di non lasciar cadere i progetti sui quali avevano speso tanto tempo, e perciò stavano proseguendo i loro piccoli concerti in giro per i pub di Londra e dintorni.
Avevano trovato un temporaneo sostituto di Nathan. Ma fin dal primo ascolto avevo capito che non era degno del povero batterista ricoverato: non riusciva a tenere il tempo, sbagliava, si confondeva spesso, balbettava stupide scuse che si percepivano a stento nel caos generale delle sale dove provavano.
Avevo chiesto più volte a Marie da dove l’avessero tirato fuori quel tipo singolare, ma lei si era sempre rifiutata di darmi una risposta. Fino a qualche giorno prima, quando finalmente mi aveva confessato la verità: Ralph –così si chiamava il ragazzo- altri non era se non una sua recente conquista amorosa. Si erano conosciuti in un pub, durante una rissa. Marie naturalmente era subito andata al dunque con lui (e per dunque credo che il concetto sia abbastanza chiaro…). Così adesso la mia amica si trovava alle prese con un ingombrante spasimante che lei non desiderava affatto.
Credevo che lei l’avesse portato a letto soltanto perché la vedeva come una specie di vendetta nei confronti di Hector, che nel frattempo continuava a cambiare fidanzate come paia di scarpe.
Io tutte queste novità non facevo che registrarle passivamente nella mia testa, quando in realtà non mi colpivano affatto come avrebbero potuto in tempi normali.
La mia vita si concentrava solo più su un paio di piccoli obiettivi: essere d’aiuto a Nathan, risparmiare il più possibile per preparare il viaggio di ritorno in Italia, assimilare al meglio la nuova lingua che stavo studiando.
Avevo pure rinunciato ufficialmente a Matthew. Non controllavo più il cellulare ogni cinque minuti, e se lo facevo non avevo più quella lucente speranza dentro che mi faceva fremere fin quando lo schermo non si illuminava e mostrava che in realtà lui non aveva nulla da dirmi o da scrivermi.
Non avevo neppure più visto o sentito Dom e Chris. Un po’ mi mancavano, erano diventati anche miei amici da quando io e Matthew avevamo iniziato a frequentarci.
Ma avevo imparato a mie spese che la vita ti tratta così: ti dona per poi toglierti. Ti fa felice, per poi buttarti giù. Ma se era vero che era un circolo continuo, potevo solo sperare in un nuovo sprizzo di felicità.
 
 
- Sei perfetta – si complimentò Eric, schioccandomi un bacio sulla guancia.
Mi abbassai per sfuggire al contatto delle sue labbra.
- Grazie… - sibilai, più intenta a pensare ai suoi futili modi di avvicinarsi a me che all’apprezzamento in sé.
- Riprendiamo subito! – esclamò poi a un tratto, staccandosi da me.
Io sbuffai.
Quel giorno indossavamo delle specie di salopette di colori accesi, salopette che però lasciavano scoperte le gambe –ai cui piedi naturalmente era stato avvinghiato un bel paio di tacchi a spillo- e le braccia e buona parte del décolleté.
A me avevano anche pettinato i capelli in un’improbabile acconciatura stile anni sessanta. Appena mi ero specchiata, non avevo potuto fare a meno di ridere.
Ero ridicola, e ne ero sempre più convinta e consapevole.
Ma quell’impiego mi aveva già fruttato un bel gruzzoletto, che non aveva potuto lasciarmi indifferente. E quindi avevo dato la mia approvazione per quello che era il secondo servizio, e poi il terzo.
E oggi, in data 6 febbraio, eccomi al mio quarto servizio fotografico davanti ai ben noti collaboratori e tecnici di Eric, tutto lo staff che non faceva altro che innervosirmi, toccandomi ovunque, tentando di modellare il mio corpo come se fossi stata di gomma, risistemandomi il trucco già più che perfetto ogni due respiri, strillandomi consigli sul portamento, sulle espressioni da assumere e sui sorrisi smaglianti che però non riuscivano a spuntare sulle mie labbra, strette in una smorfia più simile a una manifestazione di disgusto.
Io infatti trovavo altamente controproducente fare quello che facevo. Più posavo, più i flash mi abbagliavano, più mi ostinavo a fare la modella che non ero, e più il mio corpo reagiva accettandolo, pensando che fosse la strada giusta, che fosse quello che avrei dovuto fare per il resto della vita.
Per questo alla fine della giornata, firmai per il quinto servizio fotografico, davanti agli sguardi e ai sorrisi compiaciuti di quello che stava diventando il mio nuovo direttore ed Eric.
Posai la biro sulla scrivania del direttore e rivolsi un cenno di saluto.
Quel che facevo lo facevo per colpa mia, e non volevo nessun Eric tra i piedi.
Mi voltai e uscii dallo studio. Controllai l’ora sul quadrante dell’orologio da polso col cinturino blu notte, il primo acquisto realizzato grazie ai guadagni da fotomodella.
Erano quasi le sette di sera.
C’era ancora tempo per andare a fare un salto in ospedale.
 
 
- Ed ecco, in esclusiva per il signor Nathan, un tiramisù prodotto dalla gentile associazione “aiuta anche tu un povero ricoverato tutto rotto”! –
Nathan scoppiò a ridere, battendo le mani quando gli porsi il contenitore col dolce fatto da me la sera prima, mentre il sonno si faceva attendere.
- Ehi, l’hai fatto tu? – domandò, quasi commosso.
Annuii, fiera del mio operato.- E guai a te se ne avanzi anche una sola briciola! Ci ho messo tutta la notte! -. Gli feci la linguaccia.
Lui mi rispose con un ultimo sorrisetto allegro, poi sollevò accuratamente la carta stagnola per sbirciare al di sotto.
- Che c’è? Hai paura che ti voglia avvelenare? – lo apostrofai, divertita.
Lui ridacchiò.- No, figurati! Volevo solo accertarmi che fosse un tiramisù vero –
- Beh, credo proprio di sì, a meno che non si sia trasformato mentre venivo qui in bus! Anche perché non credo sia già stato inventato il tiramisù finto… -
Riuscii a strappare un altro sorrisetto di piacere al batterista.
Poi lui sfoderò un dito indice e lo affondò nel dolce.
Gli lanciai un’occhiata di finto rimprovero.
- Hai rovinato il lato estetico! – finsi di lamentarmi.
Lui assaggiò, chiuse gli occhi e mosse la mano come a imitare il raggiungimento del massimo piacere.
- Ottimo! Complimenti, sei brava! – borbottò piluccando pezzetti di dolce con le mani.
Gli rivolsi un’espressione contenta. Ero davvero orgogliosa di quello che stavo facendo per lui. Era rilassante trascorrere del tempo lì, seduta di fianco al suo letto, guardandolo osannare i vari regali che gli portavo ogni giorno. Si accontentava delle piccole cose che facevo per lui, e questo mi soddisfaceva, finalmente mi sentivo davvero importante per qualcuno.
 
 
Mossi qualche fiacco passo in direzione della cassa, le braccia pesanti sotto il peso dei vari pacchetti e involucri che avevo pescato dagli scaffali.
Poggiai con lentezza incredibile ogni prodotto sul nastro scorrevole della cassa.
Controllai che ci fosse tutto ciò di cui avevo bisogno.
Quella sera Marie e il resto della band sarebbero venuti a mangiare da me. Volevo sdebitarmi per tutte le volte che loro mi avevano ospitata a casa loro, durante il mio periodo di depressione amorosa.
Loro tre insistevano a dire che non dovevo fare proprio un bel niente, ma io sapevo che queste erano solo formalità, maniere dettate dalla cortesia: per questo avevo sempre ignorato le loro parole.
Volevo preparare una cena di quelle ben fatte.
Da un po’ di tempo a questa parte avevo scoperto il piacere del prendermi cura della mia vita fin nei minimi dettagli: ogni programma doveva essere pianificato con una cura quasi maniacale, e veniva realizzato con altrettanto riguardo.
Stavo diventando una maniaca ossessiva del controllo, nulla doveva essere improvviso, sconvolgente. La mia vita era diventata una tabella pianificata, orari e impegni fissati come su un pezzo di carta, dovevo rispettarli, non c’era spazio per le improvvisazioni. E per questo sul calendario appeso a casa mia, la data di quel 15 febbraio era circondata da un’accecante linea di evidenziatore fucsia.
Pagai il prezzo comunicatomi dalla cassiera col fard troppo scuro per i suoi zigomi, e uscii dal supermercato facendo scivolare le monetine del resto nel portafogli che mi aveva regalato Emily.
Passando di fianco ad un auto parcheggiata davanti all’uscita dell’edificio, scorsi il mio riflesso: ero vestita con i pantaloni grigi di una tuta smessa, la felpa verde scuro scendeva larga fino a metà coscia, il cappuccio tirato sopra la testa, qualche ciuffo di capelli sfuggiva da esso, riversandosi sulle spalle, fino all’altezza del seno.
Sembravo una vagabonda, ma non m’importava granché: quel supermercato si trovava molto vicino a casa mia, non mi sembrava il caso di vestirmi chissà come semplicemente per andare a fare la spesa.
E poi io non ero mai stata un’amante delle griffe e dei vestitini rigorosamente abbinati a scarpe, borsetta e portafogli.
Attraversai la strada, la borsa di platica al fianco che sbatacchiava di qua e di là contro le mie gambe.
Da quando Nathan era stato investito (da quell’auto ancora non identificata), facevo sempre più attenzione a come mi muovevo per strada. La paura che potesse succedermi la stessa cosa mi paralizzava.
Le condizioni di Nathan miglioravano di giorno in giorno, ormai era passato più di un mese dall’incidente. Eppure i dottori avevano comunicato più di una volta che temevano per la sua carriera da batterista: le gambe erano ancora paralizzate, sotto le coperte bianche del suo letto d’ospedale, e Nathan riusciva a muovere le braccia solo dopo ripetuti sforzi, che gli costavano fatica.
La cosa mi preoccupava sempre di più: non volevo che lui rinunciasse ai suoi sogni per colpa di quel maledettissimo incidente stradale.
Nathan, nel frattempo, non commentava la cosa. A dire il vero, sospettavo che non avesse ancora neppure voluto affrontare il discorso con i dottori stessi, perché lo trovavo fin troppo allegro per essere davvero consapevole delle condizioni in cui era.
Magari aveva paura di venire a conoscenza della realtà, forse si aspettava già brutte notizie, e allora evitava di soffrire aggirando il dolore.
La cosa mi rattristava. Volevo bene a Nathan, ormai era palese, e mi faceva star male sapere di aver distrutto così la sua carriera.
I dottori dicevano che, se anche fosse riuscito a dimettersi e a riacquistare l’utilizzo di gambe e braccia, ci sarebbe stato bisogno di molto altro tempo per riprendersi del tutto e tornare a condurre la vita di prima.
Per questo motivo era sconsigliata l’attività di batterista.
Avevo già versato parecchie lacrime per quella notizia. Era una battaglia personale, quella di Nathan. Io ero con lui, non l’avrei lasciato.
Certe volte mi sorprendevo del mio personale attaccamento a quel ragazzo. Non riuscivo a credere nel mio cambiamento radicale nei suoi confronti.
Ma pian piano stavo capendo il perché: era la mia ultima speranza di dimostrare che avevo un motivo per cui battermi.
Nel frattempo, comunque, la malattia d’amore mi stava dando una tregua.
Matthew era scivolato temporaneamente fuori dal centro delle mie riflessioni, e le uniche volte in cui mi capitava di pensare ancora a lui erano quelle in cui mi ritrovavo da sola a casa, di notte fonda, ad ascoltare la sua voce morbida uscire dalle cuffie dell’iPod accompagnata dal consueto basso, la chitarra stridula e la batteria di Dom.
 
 
Sollevai il coperchio della spazzatura e gettai via i resti di cibo dai piatti sporchi.
- Complimenti alla cuoca! – esclamò un poco sobrio Gaspard alzando il bicchiere di vino sopra la testa in un brindisi.
Sorrisi, dandogli le spalle.
- Accendi la tv, Marie! – esclamò Hector, seduto comodo al suo posto vicino al tavolo.
Mi voltai e riposi con cura i piatti nella lavastoviglie, assieme poi ai bicchieri e alle posate.
Marie, nel frattempo, aveva dato retta a Hector. Come sempre, tranne quando litigavano.
Ultimamente poi, le loro discussioni si erano intensificate, per via della costante presenza di Ralph durante le loro uscite serali.
Hector mal sopportava la partecipazione di quel ragazzetto timido e impacciato. Non perdeva occasione per sottolineare le sue figuracce e i suoi comportamenti idioti. E io non potevo fare a meno di trovarmi d’accordo con la sua opinione.
Marie si rendeva conto dell’assurdità di quello strano tipo che si era portata letto, ma non poteva fare a meno di difenderlo dal momento che era stata lei stessa a proporlo al gruppo come sostituto di Nathan. E poi era soddisfatta della piega che aveva preso il comportamento di Hector: era chiaro che il cantante fosse geloso di lei e del suo rapporto con Ralph.
Inoltre ero certa che i tre fossero molto più nervosi da quando Nathan era scomparso dietro le tendine del letto nel suo reparto d’ospedale.
Mentre io vivevo la cosa con molta più tranquillità, assicurandomi di essere però sempre presente per il poveretto ricoverato, loro litigavano spesso, incapaci di far fronte alla situazione. Anch’io avevo creduto, in un primo momento, di essere impreparata al dolore, al pericolo che correva Nathan.
Ma avevo scoperto una fonte di energia e di solidarietà dentro di me, una fonte che mi permetteva di tirar su di morale sia il batterista e sia me stessa.
Invece i tre componenti degli Smash erano stati troppo accecati dal successo che la band stava riscuotendo, e non riuscivano a tollerare la perdita di esso. Per loro la carriera era diventata un’altra droga, una delle tante da aggiungere a quelle consuete che ormai non facevano quasi più effetto.
Ero preoccupata. Nathan mi aveva confessato ogni cosa, le loro dipendenze. Aveva anche aggiunto che lui ne stava venendo fuori, lì chiuso in ospedale.
Ma sia io, sia lui avremmo voluto aiutare anche gli altri tre, che erano fuori dall’ospedale, fuori dalle cure.
- Non c’è nulla di bello! – replicò la mia amica, il tono della voce alterato dall’alcool.
- Penso che dobbiate riposarvi. Innanzitutto, smettete di bere – dissi, autoritaria, reduce dei miei pensieri sulla band e il loro brutto vizio.
Gaspard socchiuse un occhio, e poi l’altro, e li riaprì quasi subito.
Scossi il capo, gettai via lo straccio che avevo in mano.
- Volete che metta un po’ di musica? – passai all’attacco con questa domanda.
Hector annuì, e mi fece segno di inserire un CD rock nel mio stereo.
- Dai, tieni questo! – urlò, lanciandomi un CD di Bruce Springsteen.
- Aspetta un attimo! Calmati! – intimai, mentre lui ripartiva all’attacco, bombardandomi di nuove richieste.
- No, aspetta, metti questo CD dei Sum 41… - mormorò Marie, in mezzo alla confusione.
Quando fui vicina allo stereo, mi sentì urlare da Gaspard:- Roxanne, possiamo ascoltare i Muse, no? Tanto anche a te piacciono! Anzi, a te piace in particolare fotterli, i Muse… - e lanciò un’occhiata d’intesa a Hector. Un’occhiata che voleva dire tutto e voleva dire nulla.
Lo fissai, offesa, sbalordita. Posai i CD che avevo in mano e, con un’ultima espressione di delusione rivolta a tutti e tre, uscii dalla stanza e, aperta la porta di casa, me ne andai, lasciandoli soli nel mio appartamento.
 
 
Non potevo credere a quello che aveva detto Gaspard. Quella era stata un’offesa bella e buona!
Mi asciugai gli occhi, bagnati dalle mie lacrime silenziose.
Ero seduta sul legno umido di una panchina, poco lontana da casa. Davanti a me un ampio marciapiede e poi la strada, affollata di auto che scorrevano quasi invisibili ai miei occhi appannati dal pianto.
Faceva fresco e non avevo manco avuto l’accortezza di portare con me il giubbotto.
Mi alzai, le mani ficcate nelle tasche della felpa verde, la stessa che avevo tenuto tutto il giorno.
La gente che mi passava di fianco, mi guardava strabiliata: adesso avevo davvero l’aria di una tossica, una scappata di casa. I capelli erano scomposti, spettinati, e gli occhi evidentemente gonfi di lacrime.
Ma io camminavo, in mezzo a loro, così normali e piatti nelle loro esistenze insignificanti.
Io avevo più valore di tutti loro, ne ero certa. E sarei uscita da quella situazione così dolorosa.
L’ora segnava che era quasi arrivata la mezzanotte.
Peccato, avevo sperato di poter andare a trovare Nathan.

 


Ok, salve! E’ la prima volta che vi rubo qualche secondo scrivendo un commento sotto un capitolo! Volevo solo ringraziare di cuore (anche se in ritardo!) tutte coloro che hanno sempre seguito e recensito questa mia storia, a mio parere la migliore di tutte quelle che ho scritto finora. Proprio per questo motivo mi piacerebbe continuare a ricevere commenti su cosa ne pensiate, sono molto affezionata a questa FF e spero ci sarà sempre qualcuno disposto a sprecare un po’ del suo tempo leggendo queste righe! Ora la smetto, grazie ancora di cuore a tutte! :) Un bacione a tutti, fan e non fan della mia storia,
 
Yees! :)

 

   
 
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