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Autore: Arwis     11/10/2006    9 recensioni
Solo cento passi ti separavano dalla sua porta, eppure non hai mai avuto il coraggio di bussare...
Genere: Romantico, Triste, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La testa ti girava, ricordi Rigel

Salve!

Eccomi qui con un nuovo capitolo della storia di Rigel.

Continua il suo flash back, che prevedo (al contrario di ciò che avevo detto nel capitolo precedente) durerà più dei tre capitoli che avevo inizialmente pensato.

Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente della storia, ovvero:

Deda,

Obsession,

Londonlylit,

+rhodry+,

frisulimite,

Angel_kiss,

Damynex.

Mi fa piacere che seguiate la storia, ragazzi, e vi ringrazio per i complimenti, sperando di soddisfarvi anche sta volta.

Vi ricordo che è molto importante che recensiate, perché solo con i vostri complimenti e con le vostre critiche posso capire cosa va e cosa non va nella storia e nel mio modo di scrivere!

Alla prossima!

Un abbraccio

Arwis

 

 

 

IL COMPROMESSO

 

 

 

La testa ti girava, ricordi Rigel?

Quel dondolio, quel vedere il terreno muoversi al ritmo dei suoi passi, ti costrinse a serrare gli occhi.

L’odore dell’uomo era penetrante: sudore, sangue, tabacco, foglie di coca e chissà cos’altro.

Nemmeno il tuo odorato di elfa, nemmeno i tuoi sensi acuti riuscirono a distinguere tutti i fetori che caratterizzavano il tuo accompagnatore.

Ti teneva sulla spalla come un sacco, non parlava, la sua espressione era nascosta dal cappuccio calato sul viso.

E tu non chiedevi, Rigel, perché sapevi bene che se non si vogliono davvero delle risposte, è meglio non fare domande.

 

Eccoci qua, signorina! – esclamò infine, con la sua voce roca e profonda.

 

Spalancasti gli occhi e lui ti mise giù.

Davanti a te, c’era la caverna.

La caverna, quella dove ti trovi ora, quella dove torni quando ti senti perduta.

 

-D’ora in poi dovrai venire qui, quando avrai qualche dubbio. Qui tutte le ombre verranno dissipate.-

 

Tu annuisti, pur non capendo, e lui si abbassò il cappuccio, entrando nella grotta.

Pelle scurita dal sole, occhi dorati come il grano, incorniciati da due sopracciglia bianche e spettinate. Lunghi capelli bianchi e rughe attorno alla bocca sottile, tutto lasciava immaginare che quell’uomo avesse ormai superato i sessant’anni umani, ma la sua forza, la semplicità con cui ti aveva portata sin lì, era quella di un giovane.

Lame di tutte le forme, di tutte le taglie, pendevano dal suo cinturone, che tirò su assieme ai pantaloni con un gesto rozzo.

Si guardava intorno, con un mezzo sorriso sulle labbra.

Allora iniziasti a guardarti intorno anche tu.

La grotta era abbastanza ampia da starci comodamente in piedi e, a destra, si apriva su un tunnel basso e stretto, ma non così tanto da doverlo oltrepassare a carponi.

 

-Gli altri ragazzi non ci sono ancora. Dovremo aspettare un po’. Dimmi di te, ragazza. Ciò che Hamal mi ha raccontato non mi basta mica! –

 

Ti parlò con voce gioviale, come se per lui fosse scontato che tu fossi lì, come se per lui fosse normale averti presa dalla strada e portata in quella caverna soffocante.

Lo osservasti, cercasti il modo di scrutare nel suo animo. Ma lui si celava troppo bene, dietro a quel sorriso di denti mezzi marci.

Lui sembrava esperto del mondo e dei suoi costumi e tu eri sola.

Fu forse per quello che decidesti di parlare, infine.

 

-Mi chiamo Rigel. –

-Lo so. Dimmi di più, Rigel. Da dove vieni? –

 

Da dove venivi, Rigel?

Non lo sapevi neppure tu.

Dov’era quel luogo dove ti eri ritrovata, dopo la chiusura dei cancelli?

Dov’era la foresta del Tisenar, dove si trovava rispetto alla capitale dell’impero?

 

- Vengo dalla foresta del Tisenar. -

 

L’uomo rise, tenendosi la pancia e buttando indietro il capo. Tu restasti seria, in guardia.

 

-Per la miseria, ragazzina! La tua fantasia è fervida! Invero, non esiste luogo con quel nome, nelle terre conosciute! –

 

Ti mordesti il labbro.

Tisenar.

Nome troppo elfico, nome con troppa musica per essere conosciuto da un umano.

Ti chiedesti quale fosse il nome che davano i mortali alla foresta degli elfi.

 

-Io non so da dove vengo, signore. –

-Questa risposta è più plausibile, ragazzina. E tu sai chi sono io? –

 

Scuotesti la testa e involontariamente ti accostasti di più al muro, cercando di diventare più piccola, cercando di renderti invisibile agli occhi di chi ti stava davanti.

 

- Puoi chiamarmi Gudush, ragazzina. E’ così che mi chiamano tutti nella capitale, anche se sono più conosciuto come ‘gil maestro’h. Immagini il motivo per cui ti ho presa dalla strada? -

 

Di nuovo scuotesti la testa, spalancando gli occhi.

Ti sentivi impotente, ti sentivi un cane al guinzaglio.

La roccia ti faceva male alla schiena e l’odore di stantio di quel luogo ti iniziava a far venire la nausea.

 

-Sei così forestiera, dunque? Io prendo i ragazzi come te dalla strada e li faccio diventare come me. Capisici? –

 

Come lui.

Ma chi fosse lui, tu non lo sapevi.

Era un vecchio, era un uomo forte, era uno che copriva il suo volto.

E allora la lingua fu più rapida del cervello, come lo era stata durante il processo.

Questa tua temerarietà ti aveva cacciato in troppi guai, eppure ne andavi quasi fiera.

 

-E chi sei, tu? –

-Ah, allora sai parlare, Rigel! Eh, chi sono io’c Io sono uno a cui non interessa se qualcosa sia bene o male. Io agisco per chi ha paura e loro mi pagano. Io insegno ai giovani cosa fare e anche loro vengono pagati e più loro sono in gamba, più soldi arrivano a me. –

-Un mercante? –

-Un mercante di vite, scricciolo. –

 

Un sicario.

Quello che nel Tisenar ti avevano accusata di essere.

Eppure tu non eri stata pagata e tu sapevi distinguere tra bene e male.

Tu non eri un sicario, Rigel.

 

-Siamo molto diversi, noi due. Grazie per la proposta, ma non credo che accetterò. –

-Questa, poi! Stavi morendo di fame, in quella strada. Hai rubato una mela, per giunta bacata e ti sei fatta prendere subito. Come credi di poter sopravvivere nell’impero? Sei senza memoria, senza soldi, senza casa. Io ti posso dare tutto questo, Rigel. E poi di certo non ti lascio andare, ora che sai qual è la mia faccia. –

 

Gudush poggiò una mano enorme, grossa e dalle unghie nere, sull’elsa di uno dei suoi pugnali, quasi casualmente.

Dicono che chi ha paura, ha voglia di vivere ancora e benché da giorni ti stessi ripetendo che la tua vita non ti importava più, quella morsa allo stomaco non poteva che essere terrore.

Non avevi un posto, non avevi una casa.

E la tua memoria?

Quella c’era, ed era dolorosa.

Ma non era una memoria adatta all’impero degli uomini.

E allora hai ceduto, perché non avevi altro luogo dove andare.

E allora hai ceduto, perché con Gudush avresti avuto un posto per te, avresti trovato una nuova te stessa.

Un sospiro e la vergogna schiacciante.

 

-Rimango. –

 

Gudush sorrise e annuì.

Alzò la mano dal pugnale e ti scompigliò i capelli.

Tu sussultasti e scattasti all’indietro.

Che avesse visto le tue orecchie appuntite? Che sapesse cos’era la sua nuova allieva?

 

- Allora vieni con me, ragazzetta. -

 

No, a quanto pareva no.

Si voltò e imboccò il cunicolo che si apriva su una parete della grotta, dovendo curvarsi per entrarvi.

Tu sfioravi il soffitto con la testa e dovevi tenere le ginocchia un po’ piegate, attenta a non battere il capo contro la roccia.

Pochi metri e il cunicolo finì, aprendosi su una grotta ben più grande.

Una casa.

Giacigli di paglia, dieci circa, erano disposti, debitamente distanziati, su tutta la circonferenza della stanza di roccia e accanto ad ognuno c’era un piccolo tavolino, dove chiunque dormisse in quei giacigli aveva poggiato le proprie cose. Sotto ad alcuni c’erano dei vestiti piegati, stivali e qualche pugnale. Al centro della grotta, il soffitto alto era bucato e da quel foro entrava la luce del sole.

Dei resti di un fuoco erano sul pavimento, in corrispondenza dell’apertura.

 

- Uno di questi letti è per te. -

 

Letti.

Mucchi di paglia, più che altro.

Nulla a che vedere con i morbidi triclini imbottiti su cui tu e tuo padre mangiavate, nulla a che vedere con i cuscini morbidi come nuvole su cui poggiavi il capo, che sorreggevano i tuoi sogni.

Ma questo non sarebbe stato un problema, per te non ci sarebbero più stati sogni.

 

- Quale? -

- Quello sul cui tavolino non c’è nulla. -

 

Lo individuasti subito e ci rimanesti davanti per un po’, osservandolo. Ti chinasti a carponi.

Quelle coperte ruvide puzzavano e per giunta, appesi vicino al tuo letto, c’erano dei formaggi e dei salami messi ad essiccare.

L’avevi quasi dimenticato, che gli uomini mangiano i cadaveri degli animali.

Soffocasti un conato di vomito.

 

- Sono salami, ragazzina! Mica mostri! Scommetto che sta sera un po’ di questo ben di Dio susciterà in te ben altro che conati di vomito. -

 

Mai mangiata carne.

Il tuo popolo non lo faceva.

Ma era ancora il tuo popolo, quello che ti aveva scacciata?

Ormai il regno degli elfi non era altro che una terra il cui ricordo si sarebbe perduto nei secoli, sarebbe diventato una fiaba per i bambini e poi sarebbe stato dimenticato anche da loro.

Il tuo popolo, ora, erano gli umani.

 

-        Ora vatti a lavare. Ti porto i vestiti puliti. Sbrigati, prima che arrivino gli altri.  –

-        Dove, signore? –

 

 Gudush rise di gusto, come aveva fatto quando gli avevi detto di provenire dalla foresta del Tisenar.

 

- Lì! -

 

Indicò un angolo dell’ampia grotta, su cui si apriva un’apertura ancora più piccola da quella da cui eri entrata.

Annuisti e, tremante, la raggiungesti.

Ti inginocchiasti e vi entrasti.

Il buio fu totale per pochi secondi, le pareti ti opprimevano.

Ti sentivi quasi soffocare, allora accelerasti il passo e finalmente ti rimettesti in piedi.

C’era un’altra grotta, piccola più o meno come la prima in cui eri entrata, al centro della quale c’era una pozza d’acqua, poco più che una polla.

Sul bordo di roccia, erano posate delle stoffe, uguali a quelle che ricoprivano i giacigli.

‘gQui c’è una vera a propria organizzazione’h pensasti ‘gGudush non fa vivere i suoi allievi all’arrembaggio. Qui ci sono delle regole e delle abitudini. Potrebbe essere qui, il mio futuro.’h

Ti togliesti gli abiti logori e ti immergesti nell’acqua.

Fredda.

Era gelata, come la neve d’inverno. Tanti pugnali di ghiaccio, che sembravano voler trafiggere la tua pelle, che si arrossò subito.

I tuoi capelli erano unti e pesanti e non appena furono immersi nell’acqua si allargarono, occupando quasi tutta la superficie della polla, come una nuvola di inchiostro.

I seni bianchi, appena accennati, emergevano appena e sotto i tuoi piedi delicati, non abituati alla fatica, sentivi la superficie mucillagginosa del fondale.

Spostasti un piede in avanti, mentre iniziavi ad abituarti alla temperatura.

Il vuoto, e acqua ancora più fredda accarezzò minacciosa la tua caviglia sottile.

Il tuo cuore ebbe un sobbalzo: oltre il punto dove eri tu, al centro del minuscolo lago, si apriva un baratro.

‘gChi sa quale sorta di creature sono nascoste lì sotto! Qui non c’è la protezione della regina degli elfi contro le creature maligne e la mia natura le attirerà di sicuro’h.

In fretta, mentre il tuo cuore batteva veloce come quello di un cervo braccato da un cacciatore, ti issasti di nuovo sul bordo, da immersa fino alle spalle che eri, e ti copristi con uno degli asciugamani ruvidi, quasi spinosi.

Se non avessi saputo che era impossibile, saresti stata convinta che quel tessuto stesse ferendo la tua pelle bianca.

In quel momento, sentisti un rumore di stoffa che cadeva, un tonfo sordo, e ti voltasti di scatto.

Gudush aveva fatto rotolare, oltre l’apertura nella roccia che portava alla stanza della polla, un involto di vestiti.

Finisti di asciugarti e li prendesti in mano.

Erano gli stessi che indossava quel ragazzino che il giorno prima ti aveva parlato per strada.

Hamal. Doveva essere lui, il ragazzino che aveva parlato di te a Gudush.

Ti vestisti in fretta, incurante dell’acqua che continuava a gocciolare dai tuoi capelli, bagnando gli abiti che avevi in dosso.

Lunghi pantaloni ampi, blu scuro, e una casacca altrettanto ampia, bianca.

E poi una cintura marrone, con delle logge per i pugnali e una più grande, forse per una spada.

Quegli abiti, Rigel, erano la tua nuova identità.

 

 

 

 

 

 

 

  
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