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Autore: _hurricane    11/03/2012    21 recensioni
Quando Blaine viene assunto da un ricco signore per dare ripetizioni a suo figlio, non sa ancora che la sua vita cambierà.
Non sa ancora che conoscerà un ragazzo misterioso e bellissimo, la pelle bianca come la neve e troppo fragile per sopportare i raggi del sole. Non sa ancora che si innamorerà di tutti i segreti nascosti nell'abisso dei suoi occhi azzurri.
Questa è la storia di Kurt e Blaine, e di come si sono amati.
"Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene.
Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?"
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prima di lasciarvi al capitolo, vi chiedo un attimo di attenzione perché devo ringraziarvi. Ringraziare tutti voi perché, beh, perché siete rimasti. Chi se l’aspettava, chi no, ma siete stati tutti ‘dalla mia parte’ perché vi fidate di me. E io non lo do per scontato, ricordatelo sempre! L’ultimo capitolo è stato il più recensito fino ad ora, e io sono senza parole, per farla breve.

Passiamo alle cose utili: 1) la spiegazione sulla malattia di Kurt è farina del mio sacco, nel senso che l’unica cosa vera è che chi ne è affetto non vive oltre i 40 anni; il resto l’ho inventato per far quadrare un po’ di cose, ma spero che suoni ‘credibile’ nonostante la mia ignoranza a livello di gergo medico.

2) la canzone citata in questo capitolo è ‘Auld Lang Syne’ in questa versione (cantata da Lea Michele in ‘New Year’s Eve’). Il titolo è scozzese, e significa più o meno “i bei tempi andati”; nella cultura anglo-americana viene cantata a capodanno, per dire addio all’anno vecchio e dare il benvenuto a quello nuovo, oppure per congedi, pensionamenti, lauree ecc. come ringraziamento e saluto alle persone presenti per l’importanza che hanno avuto, in parole povere.

Se volete approfondire, qui trovate la storia della canzone e a fine capitolo una mia traduzione approssimativa, visto che il testo in questa versione è stato rivisitato rispetto a quello originale (in Old English) e non ne ho trovata una decente su internet.

Buona lettura! 

 


 

 

 

 

 

Il sole è nuovo ogni giorno.

- Eraclito

 


“I soggetti affetti da xeroderma pigmentoso hanno una durata vitale non superiore a quarant’anni, a causa dell’impossibilità delle cellule di rigenerarsi oltre quell’età. Se esposti al sole una o più volte nel corso della loro vita, però, questa durata va riducendosi a causa del danno provocato alle cellule. La riduzione dipende dalla gravità dell’esposizione stessa (assenza o presenza di vestiti, stagione dell’anno, temperatura solare), dalla sua durata e dall’età del soggetto, e pertanto va stabilita e monitorata dal dermatologo di fiducia. Generalmente, però, incidenti avvenuti in tenera età tendono ad avere conseguenze più serie, vista la fragilità dell’epidermide.”

 

Blaine rimase a fissare quelle poche righe, scritte alla fine di un’enorme pagina web su un sito di dermatologia, dopo averle rilette almeno venti volte nell’ultima mezz’ora. E ogni singola volta tutto quadrava, perché Kurt aveva una grande cicatrice sulla schiena provocata da un incidente dell’infanzia, e improvvisamente si ritrovò a voler uccidere un bambino, anzi, ormai un ragazzo, che non conosceva nemmeno, ma che in un giorno d’estate senza neanche rendersene conto si era preso dieci anni di vita come se non contassero niente. Forse neanche lo sapeva.

Provò a rileggere ancora, ma arrivato a “quarant’anni” si accorse che non riusciva più a distinguere le lettere l’una dall’altra, ridotte ad un ammasso nero, sfocato e indistinto davanti ai suoi occhi annebbiati dalle lacrime che aveva pianto per tutto il viaggio di ritorno da casa di Kurt alla Dalton.

Kurt avrebbe compiuto diciotto anni a febbraio. Ne rimanevano dodici. Dodici, un numero così grande in termini di relazioni, e così piccolo in termini di vita. Tolti due, li poteva contare sulle dita di due mani. Tolti altri cinque, sulle dita di una sola.

Era soltanto un numero, uno stupido numero, eppure aveva appena infranto i suoi sogni e mandato in pezzi il suo mondo. Lui e Kurt non sarebbero mai invecchiati insieme. Poteva sembrare affrettato per un ragazzo della sua età immaginare una cosa del genere, ma lui lo aveva fatto, ed era troppo tardi per non farlo più perché quell’immagine era lì, nella sua mente; loro due insieme sotto un portico con i dolci e ronzanti rumori della notte intorno a loro, qualche lanterna ad illuminare il giardino mentre le stelle brillavano e loro ripensavano insieme alla loro vita, alle cose che avevano fatto, ripercorrendole una per una e ridendo delle cose più stupide, delle loro follie da adolescenti.

Uno, due, tre, quattro…

Provò a dirsi di smetterla di contare, di pensare in termini di numeri, ma il suo cervello sembrava non voler fare altro, mostrandogli quanto fosse facile contare da uno a dodici, e da dodici a uno, ancora e ancora e ancora finchè non si mise le mani sulle orecchie e strinse i suoi ricci tra le dita, accartocciandosi sulla sedia della sua stanza e portandosi le ginocchia sotto il mento.

Respira, respira, non pensare, non contare, devi solo respirare.

Proprio quando un nuovo singhiozzo stava per scuoterlo, crepitandogli dentro per poi esplodere, sentì qualcuno bussare alla porta. Trattenne il fiato, cercando di evitare di scoppiare a piangere e stringendosi il petto con la mano per stabilizzare il respiro. Chiuse gli occhi, l’altra mano sulla bocca per simulare il silenzio, in attesa che chiunque fosse fuori dalla sua porta se ne andasse.

“Blaine, si vede la luce accesa da sotto la porta, apri!”

Blaine trasalì e sgranò gli occhi, voltandosi di scatto verso la porta e facendo ruotare la sedia.

“Voglio solo parlare, per favore” disse la voce da fuori, il tono quasi supplichevole. Blaine sospirò, si asciugò velocemente le lacrime dalle guance e dagli occhi incredibilmente rossi, e si alzò. Raggiunse la porta a grandi passi e la aprì, trovandosi davanti Sebastian.

Il ragazzo aprì leggermente la bocca per la sorpresa, rendendosi conto di come era ridotto. Blaine indossava una tuta invece della solita divisa, era vero, ma non aveva niente a che fare con l’abbigliamento. Era distrutto. I capelli rivolti in tutte le direzioni per averci passato le mani attraverso senza sosta, gli occhi rossi e gonfi per averli toccati ripetutamente, e la carnagione di un pallore quasi cadaverico.

Ignorò volutamente lo sguardo sconvolto del Warbler, lasciando la porta aperta soltanto per metà, pronto a chiuderla da un momento all’altro. Non aveva tempo per Sebastian. Non aveva tempo per niente in realtà, perché aveva soltanto dodici anni.

All’improvviso si rese conto di tutto il tempo che aveva sprecato. Quelle poche settimane passate a tormentarsi per scacciare un sentimento che non capiva, e a farlo proprio con la persona meschina che aveva di fronte, mentre i secondi, i minuti, le ore passavano ed erano secondi, minuti ed ore che non avrebbe mai più riavuto. Li aveva sprecati, buttati via come soffioni nel vento. Li aveva persi.

E vedere Sebastian lì, a ricordarglielo con la sua presenza, gli fece venire voglia di vomitare.

“Non ho tempo per parlare” gli disse senza incrociare il suo sguardo, e in fondo era la verità. Fece per richiudere la porta senza dire altro, ma Sebastian la bloccò prontamente con la sua mano e si avvicinò.

“Blaine” lo ammonì, la voce bassa e cauta in un modo che a Blaine era totalmente estraneo. “Fammi entrare. Sono preoccupato per te.”

“Ah si? E da quando?” sbottò Blaine, alzando lo sguardo per fulminarlo mentre la rabbia che non aveva opportunamente espresso trovava finalmente una via di sfogo. “Eri preoccupato per me anche quando hai quasi ammazzato il mio ragazzo?!”

“Ti ho detto che non lo sapevo! E poi è proprio di questo che volevo parlarti, fammi entrare-“

“Tanto non ha importanza” mormorò Blaine, più tra sé e sé che all’altro Warbler. “Non ha più importanza ormai.”

“Blaine, che-“ esordì Sebastian, quasi scosso dalle sue parole, incapace di capirne il senso. “Che ti succede? Kurt ha fatto qualcosa?”

“Oh, ma quanto sei furbo! Pensi di approfittarne per farti una bella scopata, non è vero? Il povero e triste Blaine, ci pensi tu a consolarlo, non è così?” esplose Blaine, e se avesse potuto sputare veleno probabilmente lo avrebbe fatto. Era passato dall’essere triste all’essere arrabbiato quasi costantemente nell’ultima ora, un ciclo eterno di emozioni che lo stavano lentamente prosciugando dall’interno rendendolo completamente esausto, ma non sapeva come porgli fine. E Sebastian era un bersaglio perfetto per cercare una via di scampo; per una volta, avrebbe potuto rendersi utile.

Ma lo sguardo negli occhi del ragazzo lo sorprese: sembrava davvero ferito. Sebastian sgranò gli occhi e accennò un passo all’indietro, la bocca dischiusa per lo shock.

“Blaine” disse, passandosi una mano attraverso il ciuffo perfettamente alzato con fare nervoso ed esasperato. “Cristo, sarò anche uno stronzo e mi piace esserlo, ma sono in grado di riconoscere quando non è il caso, quando è una cosa seria. Cercavo solo- cazzo, per una volta che cerco di essere-“

“Entra” lo interruppe Blaine, prima di avere il tempo di rimangiarselo e prendersi mentalmente a schiaffi. Sebastian lo guardò con aria interrogativa, come se volesse cercare una conferma, ma Blaine fece semplicemente un passo indietro dentro la sua stanza e gli permise di seguirlo.

Quando Sebastian fu dentro, Blaine chiuse la porta e si voltò verso di lui, la schiena appiattita contro la porta per avere un minimo di sostegno, qualcosa a cui appoggiarsi. La sua mente sembrava fluttuare in una specie di nuvola di vapore, rendendo i suoi movimenti più lenti e i suoi pensieri affannati, stanchi, e sperò che Sebastian facesse in fretta a blaterare le sue scuse su come si era comportato così avrebbe potuto fingere di accettarle, farlo uscire dalla stanza e tornare a fissare il computer, o distendersi a guardare il soffitto, o forse scrivere sul diario, ma non era sicuro di volerlo fare.

Scriverlo lo avrebbe reso reale, per quanto quel pensiero sembrasse stupido e infantile. Scrivendolo, avrebbe potuto rileggerlo all’infinito, invece di cliccare su una crocetta su uno schermo e fingere di non averlo mai letto. Chiuse gli occhi e sospirò, i palmi contro il legno della porta, tentando di mantenere la sua voce il più normale possibile.

“Per favore, sii breve” sussurrò, ma quando rialzò lo sguardo su Sebastian si accorse che gli stava dando le spalle e che stava guardando proprio il suo computer, ancora aperto sulla scrivania a pochi passi dalla porta. Lo vide camminare lentamente verso di esso, per poi appoggiarsi allo schienale della sedia con le mani e avvicinare il viso allo schermo per leggere rapidamente cosa c’era scritto sopra.

“Sebastian, non-“ disse Blaine con voce strozzata, ma prima che potesse continuare l’altro ragazzo si voltò e lo fissò con gli occhi sgranati.

“Blaine” sussurrò, l’aria incerta di chi non sapeva cosa fare né cosa dire per la mancata abitudine di preoccuparsi delle emozioni degli altri. Blaine pensò che fosse solo pietà, compassione, forse semplice shock e quel minimo di tristezza naturale nello scoprire qualcosa di terribile e sapere che accadrà a qualcuno che non sei tu.

Ma non gli importò in quel momento, perché Sebastian ora sapeva, e per quanto Blaine lo odiasse, lo avesse voluto morto in più di un’occasione e lo disprezzasse, si rese conto che era l’unico al di fuori di casa Hummel con cui poteva parlarne. L’unico davanti a cui poteva piangere. Non avrebbe mai voluto, un senso di orgoglio e dignità che cercava in tutti i modi di dirgli di non farlo, di contenersi, ma non fu abbastanza. Senza il minimo preavviso, scoppiò a piangere e si raggomitolò sul pavimento, il viso tra le braccia ora incrociate sopra le ginocchia.

Sentì Sebastian fare passi incerti ed esitanti verso di lui, per poi rimanere fermo, in piedi, senza sapere bene come comportarsi. Ma poi si abbassò su di lui e gli poggiò una mano sulla spalla con cautela, come se Blaine scottasse.

Rimase in silenzio per tutto il tempo, ad ascoltarlo piangere senza sosta. Fu terribilmente stancante, i singhiozzi che lo scuotevano fino a fargli male al petto, le ginocchia e le braccia intorpidite per la posizione assunta, ma quando a poco a poco sembrò calmarsi Blaine si rese conto che era stato meglio tirare tutto fuori così, in un’esplosione, piuttosto che gradualmente. Perché avrebbe perso altro tempo con Kurt per farlo, e non poteva. Non più.

Alzò lo sguardo dalle sue braccia con aria titubante e si sorprese nel trovare Sebastian ancora lì, inginocchiato accanto a lui. Non si era neanche accorto che la sua mano era ancora sulla sua spalla, e che l’aveva accarezzata in piccoli e confortanti cerchi immaginari. Provò a dire qualcosa, ma aveva la gola secca per aver pianto troppo o forse semplicemente non sapeva bene cosa dire.

Sebastian, l’aria quasi impassibile macchiata da un accenno di preoccupazione, come se si stesse volutamente trattenendo, si mosse senza preavviso e gli mise un braccio sotto le ginocchia e un altro dietro la schiena, alzandolo da terra con un po’ di sforzo ma senza lamentarsi.

Blaine avrebbe voluto obiettare, ma pensò in tutta franchezza di non averne la forza mentale né tantomeno fisica. Chiuse gli occhi e lasciò che Sebastian lo adagiasse sul suo letto, prima di togliergli le scarpe, tirare le coperte da sotto il suo corpo e poi rimettergliele sopra. Sentì dei passi sul pavimento di legno, una breve pausa, e poi la porta che si apriva e si chiudeva.

Era così stanco di soffrire, che si addormentò all’istante.

 


 

Blaine non tornò a casa per le vacanze di Natale quell’anno. Mentì spudoratamente e senza il minimo rimpianto ai suoi genitori, dicendo che era troppo indietro con alcune materie, che aveva uno spettacolo natalizio dei Warblers da organizzare – spettacolo riservato solo al corpo studentesco, ovviamente – e fece i bagagli per trasferirsi momentaneamente a casa Hummel.

Fu un Natale strano. Diverso. Non propriamente triste, per quanto la sua recente scoperta sembrasse aleggiare nell’aria come una nebbiolina nefasta, solo… riflessivo. E in qualche modo più intenso di qualsiasi altro Natale avesse mai passato, solitamente pieno di sorrisi, canzoni gioiose, un momento per dimenticare le preoccupazioni del resto dell’anno e fingere che non esistano, che l’unica cosa importante sia il colore degli addobbi sull’albero di Natale o la giusta cottura del tacchino ripieno al cenone.

Quel Natale ebbe uno spirito molto più significativo, perché Blaine sapeva che avrebbe dovuto imparare a convivere con la situazione se voleva restare al fianco di Kurt, e lo voleva, non era mai stato in discussione. Quel Natale gli insegnò ad apprezzare quello che aveva, per quanto avesse la data di scadenza.

Perché in quel momento, in quell’esatto momento, Blaine aveva tra le mani la cosa più bella dell’intero mondo. Kurt era suo. E non poteva permettersi di sprecare nemmeno un secondo a disperarsi per ciò che non avrebbe avuto, perché era un secondo in meno per godere di ciò che invece aveva.

Fu difficile farlo. Fu difficile non parlarne, e fingere che non fosse così, perché ad entrambi bastava guardarsi per sapere che ci stavano pensando in quel preciso istante. Ci furono alti e bassi, ma nel corso degli anni andò meglio. Partendo da quel Natale.

Addobbare tutta la casa fu un’attività estenuante che si portò via quasi una giornata intera: oltre a Flint e ai cuochi c’erano altri domestici – che Blaine non aveva mai visto, forse perché avevano un’ala della casa riservata a loro – ma Kurt insistette affinchè fossero loro due a farlo. Non aveva più toccato un addobbo da quando sua madre era morta, visto che solitamente lo facevano insieme, e voleva riprendere quell’usanza insieme a lui. Blaine ovviamente ne fu entusiasta.

Fecero l’albero di Natale nel salone principale, disseminarono ghirlande verdi e rosse, fili di luci all’esterno, sulle balconate e sugli alberi, i loro piccoli bagliori multicolore che spuntavano dal bianco della neve come bacche selvatiche; e poi mazzi di vischio – più del dovuto, soltanto per avere la scusa di baciarsi ogni volta che vi passavano sotto – e calze e bastoncini bianchi e rossi. Alla fine, era tutto un trionfo di luci e colori, forse un po’ eccessivo, ma si guardarono l’un l’altro con aria orgogliosa ed entusiasta ed entrambi sapevano che era giusto che fosse così. Era il loro primo Natale insieme, e andava celebrato.

Alla vigilia, mangiarono insieme a Burt nel grande salone, proprio dove Blaine aveva conosciuto il ricco signore mesi prima, anche se sembravano praticamente anni. Si raccontarono a vicenda storie delle loro famiglie, battute su vecchie zie tirchie, i soliti calzini impacchettati sotto l’albero, quella volta in cui la cugina di Blaine mandò quasi a fuoco la cucina e quell’altra in cui la madre di Kurt inciampò e finì direttamente sopra l’albero di Natale, portando con sé luci, addobbi e palline e facendo ridere suo figlio e suo marito per settimane all’idea. La conversazione fu così spontanea e naturale, che nonostante tutto, nonostante il dolore lancinante che probabilmente non avrebbe mai lasciato il suo cuore, Blaine si sentì al sicuro. Si sentì a casa.

Kurt e Blaine si strinsero le mani sotto il tavolo per tutto il tempo, i pollici che si sfioravano di tanto in tanto e piccoli sorrisi che nascevano sulle loro labbra quando si giravano l’uno verso l’altro e si rendevano conto di averlo fatto nello stesso momento. E ogni sorriso, ogni sfioro, ogni sguardo e ogni gesto riuscì in qualche modo a sembrare migliore, più speciale e prezioso, perché a differenza di tante altre coppie loro sapevano già fino a quando avrebbero potuto goderne.

Tanti altri forse si sarebbero divisi, chiudendosi ognuno nel proprio dolore. Tanti, al posto di Blaine, avrebbero mollato. Sarebbe stato più facile, forse, perdere in quel momento qualcosa che tanto, alla fine, avrebbe perso comunque. Ma Blaine non lo fece, non si arrese. Assaporò ogni secondo, e amò Kurt ogni secondo, per fare in modo di arrivare alla fine della sua vita e poter dire Ne è valsa la pena.

Poter dire di aver lottato, di aver amato con tutto il suo cuore, di non aver avuto rimpianti. Poter dire di essere stato il sole di qualcuno e di aver brillato per lui nel cielo senza mai eclissarsi, di aver sorriso, pianto, urlato, respirato per la persona che amava.

E poi, alla fine della cena, Kurt lo sorprese rimuovendo improvvisamente la mano dalla sua. Blaine alzò lo sguardo e incontrò il suo, pieno di amore e tenerezza, un mare così vasto e ancora sconosciuto per lui, ma aveva dodici anni per esplorarlo tutto. Sperò che fossero abbastanza.

“Voglio cantare” esordì Kurt, rivolgendogli un sorriso e poi facendo lo stesso verso suo padre, che lo guardò con gli occhi improvvisamente lucidi. Blaine si sorprese e si chiese come mai quella frase lo avesse colpito a tal punto, aggrottando leggermente le sopracciglia.

“Era tradizione che io cantassi per i miei genitori a Natale, ma non… non lo faccio più da anni” gli spiegò Kurt, capendo cosa stava pensando. Blaine annuì lievemente e guardò di nuovo Burt, che si stava asciugando una lacrima dalla guancia con aria furtiva.

“E da adesso lo farai tutti gli anni?” gli chiese Blaine, osservandolo mentre faceva il giro del tavolo per dirigersi verso il pianoforte – quello che aveva in camera non era l’unico della casa – sistemato accanto al camino crepitante, il suo legno scuro illuminato dal fuoco che vi creava sopra intensi giochi di luci ed ombre.

“Si” rispose Kurt, voltandosi a guardarlo con intensità. Blaine capì cosa volesse dire, pur non avendolo espresso ad alta voce. Voleva dire che ogni anno andava ricordato, da quel momento in poi. Il letargo era finito, era il momento di vivere.

Kurt si sistemò al pianoforte, il viso rivolto verso di loro e i tasti nascosti alla vista. Blaine rimpianse di aver lasciato la macchina fotografica in camera, perché avrebbe voluto immortalare quel momento. Kurt era bellissimo, un semplice maglione rosso che in qualche modo si accoppiava perfettamente alla sua carnagione bianca, i capelli sistemati con la lacca verso l’alto, le candele rosse sopra il pianoforte che, unite alla luce del camino, facevano scintillare i suoi occhi azzurri come fossero due addobbi aggiunti alla sala, i più luminosi di tutti. Ma scacciò quel pensiero rapidamente, perché una foto non avrebbe comunque immortalato la sensazione che provava in quel momento, potendolo semplicemente guardare.

Kurt sorrise dolcemente a suo padre, che aveva lo sguardo completamente perso, rivolto ad anni lontani che Blaine non poteva conoscere, ma poi si voltò verso di lui e rimase in quella posizione anche quando le sue mani iniziarono a muoversi con grazia sopra i tasti bianchi.

Quando iniziò a cantare, Blaine sentì le lacrime fare capolino dai suoi occhi, ma non era tristezza. O meglio, non del tutto. Era una strana sensazione, un miscuglio di sofferenza, malinconia e felicità insieme, una contraddizione in termini, eppure aveva dannatamente senso in quel momento.


Should auld aquaintance be forgot,
And never brought to mind?
Should auld aquaintance be forgot,
And auld lang syne.


La voce di Kurt si levò nell’aria e Blaine si chiese come avrebbe fatto senza, un giorno. Ma allo stesso tempo ringraziò il cielo perché gli era stato concesso di sentirla almeno una volta nella sua vita, come fosse una rarissima cometa che passava una volta ogni diecimila anni e lui era lì, un ignaro passante sotto il cielo notturno, ad alzare gli occhi per vedere una stella luminosa squarciarlo e riempirlo di luce.


For auld lang syne, my dear
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.

And surely you will buy your cup and surely I'll buy mine,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


La sua voce sembrava curvarsi intorno alle parole, intorno alle note, avvolgendole e danzando insieme a loro nell’aria e Blaine si ritrovò a piangere senza rendersene conto, senza preoccuparsi di asciugare le lacrime, perché nel farlo si sarebbe distratto. Kurt aveva gli occhi chiusi adesso, il viso illuminato dal camino eppure ugualmente pallido. Sembrava un angelo.


We two have run about the slopes
And picked the daisies fine,
But we've wandered many weary foot,
Since auld lang syne.

For auld lang syne, my dear,
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


Kurt smise di cantare per suonare soltanto il pianoforte, una breve interruzione musicale durante la quale riaprì gli occhi e Blaine si accorse che erano lucidi, più chiari del solito, mentre guardavano i suoi con calore e intensità. Cantò la strofa successiva nel silenzio, senza suonare, lo sguardo fisso su di lui.


We two have paddled in the stream
From morning sun til night,
But the seas between us broad have roared,
From auld ang syne.

For auld lang syne, my dear,
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


Kurt sbattè le palpebre e una piccola lacrima gli percorse la guancia, mentre accennava un debole sorriso e continuava a guardarlo, una mano ora alzata dai tasti e poggiata sul suo cuore.

Blaine si portò una mano alle labbra e soffiò verso di lui un leggero bacio immaginario, continuando a piangere nel silenzio.

Gli rimanevano ancora undici Natali.

 

 

 


 

 

 

 

Si dovrebbero dimenticare le vecchie conoscenze

E non riportarle mai alla mente?

Si dovrebbero dimenticare le vecchie conoscenze

Insieme ai bei tempi andati?

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

E certamente tu pagherai la tua e certamente io pagherò la mia,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

Io e te abbiamo corso giù per le colline

e raccolto margherite selvatiche,

ma abbiamo vagato molte volte con i piedi stanchi,

sin dai bei tempi andati.

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

(La parte che Kurt canta a cappella senza il pianoforte, guardando Blaine: )

 

Io e te abbiamo corso a piedi nudi nel ruscello

dal sole del mattino fino a sera,

ma i grandi oceani tra di noi ruggendo ci hanno separato

sin dai bei tempi andati.

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

Berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

 

Nel prossimo capitolo:

Kurt e Blaine festeggiano l'arrivo dell'anno nuovo con una promessa.


   
 
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