NOTE:
Aggiorno in virtù di non si sa quale grazia divina,
perché è davvero un brutto
periodo (tra il computer totalmente da reimpostare e che per di
più non si
connette a internet e i miei vari casini) per cui, a scanso di
equivoci, vi
chiedo di portare pazienza. Farò sempre il possibile per non
lasciarvi a bocca
asciutta per più di
dieci-quindici
giorni, ma più di questo non posso assicurarvi. Speriamo che
la sfiga si decida
a darmi un po’ di tregua.
Buona
lettura e a risentirci a fine
capitolo!
“Ciao,
Johnny. Come te la passi?”
salutò cordialmente la donna.
Sherlock
la passò ai raggi X. Ne rilevò
il taglio di capelli alla moda, le méches dello stesso
biondo grano di John, il
rossetto steso impeccabilmente, qualche sottile ruga attorno agli
occhi; smalto
rosso Chanel, tailleur pantalone di lino, elegante ed informale al
tempo
stesso, e decolleté di morbida pelle. Tutto, nel suo aspetto
perfettamente
curato, suggeriva un’idea totalmente diversa da quella che si
era fatto di lei
durante la sua primissima indagine con John.
“Harry”
biascicò il dottore, ancora
immobile.
L’interpellata
sorrise al fratello,
rivolgendosi poi a Sherlock. “Visto che John sembra aver
dimenticato le buone
maniere, mi presento. Harriet Watson, sorella del suo compagno; ho
motivo di
credere che lei sia già in possesso di un sufficiente numero
di informazioni
sul mio conto, Mr. Holmes” fece per alzarsi, la mano tesa in
direzione del
detective.
“Harry”
la interruppe John bruscamente,
gelandola sul posto, con i pugni chiusi e la mascella contratta.
“Che diavolo
ci fai qui?”
“Come
siamo scortesi, Johnny. Ti sembra
questo il modo di accogliere tua sorella dopo quasi tre anni di
lontananza?” si
adombrò lei, ritirando la mano e irrigidendo la schiena in
posizione di difesa.
“Non
me ne può fregare di meno delle
regole del galateo. Sono stanco e ho una fame da lupi, voglio mettere a
letto i
miei figli e credimi, una tua visita è l’ultima
cosa al mondo che mi sarei
aspettato. Quindi, o mi spieghi che cavolo ci fai nel mio salotto a
quest’ora o
ti metto alla porta prima che tu
abbia il tempo di replicare alcunché”
sbottò lui.
“Se
poco fa non mi avessi interrotto, fratellino,
sapresti che non è stata una mia idea”
spiegò, calma. “Qualche giorno fa mi ha
telefonato Mycroft Holmes e mi ha chiesto di trasferirmi per un
po’ di tempo a
Baker Street perché, cito, ‘quei due non ce la
faranno mai a stare appresso a
tre bambini senza impazzire’ e perché anche io
dovevo esercitare i miei diritti
di zia. Credo che mi abbia praticamente arruolata come babysitter a
tempo indeterminato”
concluse, un filo di incredulità finale nella voce.
“No.
No. No” scosse la testa John, con
un borbottio molto simile ad un ringhio.
“John,
ti prego” gli si rivolse
Harriet, turbata da quel netto rifiuto.
“Dottore,
sii ragionevole” intervenne
Sherlock, senza tuttavia poter fare altro
poiché aveva le braccia occupate dai gemelli.
“No.
Non lo permetto” scattò lui,
imbufalito, facendo sobbalzare Boswell. “Non ho la minima
intenzione di essere
ragionevole. Ho accettato di buon grado tutte le ingerenze di Mycroft
nelle
nostre vite, ma questo”, puntò l’indice
contro la sorella, “è troppo.
Non lascerò i miei figli in balia
di un’alcolista che non ha saputo fare
altro che rovinare il suo matrimonio, farsi licenziare e mandare tutto
a
puttane!”
A
quel punto Irene Harriet, forse in
sintonia con la donna di cui portava il nome o forse spaventata dalle
urla del
padre, scoppiò a piangere. Grossi lacrimoni le rotolarono
lungo le guance
paffute, gli occhi blu colmi di una tristezza fin troppo consapevole
per una
bambina di neanche due mesi. Per spirito di emulazione anche il piccolo
Hamish
proruppe in singhiozzi, tendendo inconsciamente le manine verso la
gemella. Boswell,
che voleva bene ai fratellini e detestava sentirli piangere, si
unì alla loro
manifestazione di sofferenza –tanto più che, data
la sua precoce intelligenza, aveva
capito che papà si era pentito all’istante delle
cose che aveva detto alla
bella signora bionda e che il babbo si
sentiva a disagio perché odiava i litigi e al tempo stesso
non sapeva come
consolare il compagno.
John,
istintivamente, si preoccupò di calmare
il figlio maggiore. Presolo in braccio, dopo averlo sfilato dallo
zaino, lo
dondolò su e giù, accarezzandogli la schiena.
Sherlock, dal canto suo, strinse
Hamish al petto, facendogli appoggiare la testolina sulla spalla e
reggendogli
la nuca pelata con una mano. Irene era stata affidata alla zia, che la
cullava
con sorprendente destrezza.
John
impietrì. “Sherlock, cosa
diamine-” sibilò minaccioso.
“So
quello che faccio” lo rassicurò
l’altro, parlando sommessamente. “Tua sorella non
tocca un goccio d’alcol da un
anno e mezzo, all’incirca”.
“Sedici
mesi, tre settimane e un
giorno” precisò Harriet, distogliendo gli occhi
dalla bimba per rivolgerli,
sgranati, al cognato.
“Approssimazione
soddisfacente” si
congratulò con se stesso, lo sguardo assorto e perso nel
vuoto. “Le sue mani
sono ferme, non tremano più. I capelli ed il trucco sono
troppo ricercati per
essere quelli di una bevitrice che si trascura. La sclera dei suoi
occhi è
candida e ha perso la sfumatura giallastra e venata di capillari rotti
tipica
di chi fa abuso di superalcolici. Inoltre, a giudicare
dall’eleganza del suo
abbigliamento, deduco che abbia trovato un nuovo impiego; un incarico
prestigioso, senza dubbio”.
“Da
poco meno di un anno lavoro come
responsabile del settore Ricerca e Sviluppo di una nota azienda
cosmetica”
confermò lei, la voce ridotta ad un sussurro.
John
si sentì, per la seconda volta nel
giro di poche ore, incredibilmente in colpa. Aveva fallito come medico,
non
riconoscendo (non volendo riconoscere?) il visibile miglioramento delle
condizioni fisiche di Harriet. Aveva fallito come padre, spaventando
immotivatamente i figli e facendoli piangere. Aveva fallito come
fratello; e
questo, forse, era ciò che lo feriva maggiormente.
Aveva
disprezzato la sorella per essere
caduta vittima del demone del bere, imputandole una serie di debolezze
e meschinità
di cui lei, a ben vedere, non aveva colpa. L’alcolismo era
una malattia a tutti
gli effetti. Non le aveva perdonato di aver lasciato una donna
splendida come
Clara, non le era rimasto accanto nel momento del bisogno, aveva
ignorato i
suoi messaggi in segreteria. L’aveva giudicata, condannata,
punita troppo
duramente per i suoi errori.
Osservandola
alle prese con Irene Harriet
(era stato Sherlock ad insistere perché le venisse dato come
secondo nome
quello della zia), che le aveva afferrato un dito mettendosi poi a
ciucciarlo
allegramente, John si rese conto che il pianto dei bambini si era
chetato improvvisamente
come era cominciato.
“Scusami”
mormorò. “Sono stato uno
stronzo ingrato. Ti ho abbandonata dopo tutto quello che avevi fatto
per me, quando
mamma e papà sono morti. Non te lo meritavi, Harry. Sei mia
sorella, avrei
dovuto aiutarti. Perdonami” deglutì con un groppo
in gola.
“E’
passato, John. E a tuo modo mi hai
aiutata; se ho deciso di cambiare, di provare a diventare una persona
migliore,
è stato perché volevo riconquistare la tua
stima” qualcosa, nella voce di lei,
si incrinò. “Desideravo solo che tornassi a
volermi bene” piegò in avanti la
testa e una lacrima atterrò sulla tutina bluette di Irene.
Il
dottore raggiunse la poltrona in due
falcate. Con il braccio sinistro -l’altro era occupato a
reggere Boswell- si
chinò ad abbracciare la sorella. “Non ho mai
smesso, Harry. Non ho mai smesso. E’
proprio per questo che non riuscivo a perdonarti, perché ti
ho sempre voluto
bene” smozzicò.
Mycroft,
vecchio volpone,
pensò sollevato Sherlock. Scommetto
che
questa è stata la sua intenzione sin dall’inizio.
Immagino
cosa vi starete chiedendo: ma
non doveva trattarsi di una storia comico-demenziale? Perché
l’autrice ci ha
rifilato un capitolo così simil angst? Che le è
preso?
Don’t
worry, non ho improvvisamente
deciso di darmi al drammatico (non in questa long, per lo meno).
Semplicemente,
per quanto sopra le righe e OOC siano i personaggi, anche loro hanno
diritto di
farsi venire i cinque minuti di scazzo, no? Senza contare che,
basandomi
sull’opera di Conan Doyle e sul telefilm, i rapporti tra John
e Harry appaiono
davvero molto tesi; sarebbe stato alquanto irreale far reagire il
dottore
entusiasticamente all’entrata in scena della sorella. Ecco
spiegato, quindi,
l’andazzo sostanzialmente cupo di questo capitolo. Comunque
sia, non
deprimetevi troppo e mettete da parte i fazzoletti, ché
dalla prossima volta si
ritornerà a cazzeggiare a ridere.
Questa,
se
v’interessa, è la mia pagina autore su Facebook,
per seguire in diretta i miei
scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).
Grazie
di cuore a
tutti coloro che recensiscono, seguono/preferiscono/ricordano questa
storia e
anche a chi si limita a leggere silenziosamente. Tanto
ammmòòòre a voi! <3