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Autore: Fog_    12/03/2012    7 recensioni
SOSPESA.
Ho sempre pensato che il mio più grande sogno fosse stare con lui, Lorenzo, il bello e impossibile della mia scuola.
Per quanto i miei sentimenti nei suoi confronti potevano essere sinceri non doveva essere poi una gran cosa fare la sua schiavetta personale, diventare una delle sue ragazze "usa e getta".
Questo, però, l'ho capito solo dopo una settimana a Londra.
Naturalmente non è stata la città in se per se a farmi cambiare idea, ma la gente che ho incontrato.
Quattro ragazzi meravigliosi che si fanno chiamare "16 Underground".
Harry, Ryan, Lenny e Chris, le mie speciali "rock star".
Harry, chitarrista e "bad boy" della situazione; Ryan, batterista dalla battutina sempre pronta; Lenny, il bassista gay e lui, Chris, il cantante dal passato difficile che mi ha rubato il cuore.
Non so dove sarei, ora, senza di loro.
Probabilmente starei ancora leccando il culo al bello e impossibile, che poi, tanto impossibile non era.
Questa è la storia di come la musica ha cambiato la mia vita e la dedico a voi, ragazzi, e sopratutto a te, Chris. Grazie di essere tutto ciò di cui ho bisogno.
WE ROCK!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ciao ragazze! Sta volta niente note finali, non voglio rovinare il capitolo, quindi vi saluto qui. Non è l'ultimo capitolo, ma a mio parere è uno dei più importanti. Spero sia speciale per voi quanto lo è per me :)
Grazie per essere arrivate fin qui, senza il vostro supporto e le vostre meravigliose recensioni non sarei mai
arrivata a questo punto, davvero. Siete speciali e vi voglio bene, anche se non vi conosco ahah. Buona lettura, a dopo :)  
  



Kiss me - Ed Sheeran
http://www.youtube.com/watch?v=FywOlH_xotk
 


Cap 22 – Kiss me (II parte)


Serena 
 

Londra, Underground
13.15


Il rumore delle rotaie della metro faceva da sfondo al mio dormiveglia.
Un chiacchiericcio lontano fungeva da ninna nanna, la mia mano era stretta attorno a qualcosa, un pezzo di stoffa probabilmente.
Non avrei saputo dire da quanto tempo ero lì, ne dove ero diretta, era un pezzo che avevo smesso di ascoltare la voce metallica che annunciava le fermate. L’unica cosa vagamente familiare, in quel momento, era un profumo che mi inondava le narici e che collegavo a qualcosa di importante, ma in quel momento mi sfuggiva. I secondi erano scanditi da un battito regolare, proprio sotto il mio orecchio, e una qualche forza magica mi accarezzava i capelli.
«Ehi scricciolo, sveglia» una voce dolce giunse alle mie orecchie. Avrei voluto ascoltarla, davvero, ma lì stavo troppo bene. Strofinai la testa contro quella superficie palpitante e sospirai, decisa a restare così per il resto della mia vita.
«Dai italian girl, siamo quasi arrivati» ripeté la voce, ostinata. Era familiare quanto quel profumo, eppure continuavo a non ricordare. Qualunque cosa stesse accarezzando i miei capelli cessò improvvisamente ed io, quasi per riflesso spontaneo, aumentai la presa sul pezzo di stoffa.
«Serena, la mia camicia sta chiedendo pietà»
Qualcosa mi scosse le spalle.
«Guarda che non ti porto via in braccio»
Un piccolo schiaffo sulla guancia in parte mi risvegliò.
Seguì un momento di tregua e quasi pensai di potermi riaddormentare, tornare nel mio piccolo angolo felice e continuare a sognare, ma non era altro che la quiete prima della tempesta. Una leggera corrente di vento investì il mio collo e in pochi secondi mi ritrovai a rabbrividire, così tanto da farmi spalancare gli occhi.
La prima cosa che mi ritrovai davanti furono un paio di labbra increspate in una smorfia divertita, ma se sta volta sapevo benissimo di chi erano.
«Funziona sempre» ed ecco la voce familiare, sempre sua, però non ebbi neanche il tempo di realizzare cosa stesse succedendo. La metrò si fermò di colpo e la voce metallica annunciò la fermata. Guardando fuori dai finestrini notai che l’underground non era più così under, anzi, eravamo all’aperto. Poi la mia mano venne afferrata da qualcuno che iniziò a tirarmi e mi ritrovai presto in mezzo alla folla. Venni sballottata per qualche metro senza capire niente, più addormentata che sveglia, e quando, finalmente, quel qualcuno che mi tirava stoppò la sua corsa gli andai a sbattere contro.
«Chris?» chiesi come per conferma, alzando lo sguardo sui suoi occhi.
«Ben svegliata!» esclamò lui con marcato sarcasmo nella voce e una faccia da prendere a schiaffi –sempre con affetto, eh-.
Risposi con una smorfia e mi guardai intorno, ciò che ci circondava non ricordava per niente la Londra del centro. Era come ritrovarsi catapultati in una versione gigante del green park, con enormi ville a schiera al posto dei laghetti.
«Dove siamo?» domandai mentre Chris riprendeva a camminare lasciandosi alle spalle la folla dell’underground. Dovetti quasi correre per tenere il suo passo, ma rallentare avrebbe significato allontanarsi, e allontanarmi da lui mi avrebbe costretto a lasciargli la mano, cosa di cui non avevo assolutamente voglia. Finchè non lasciava lui la presa non mollavo neanche io.
Una folata di vento ci investì, il sole delle giornate precedenti aveva lasciato il posto a questo tempo incerto, incerto un po’ come noi. Mi strinsi nella giacca di Chris e lasciai che la sua mano stretta nella mia mi trascinasse per quelle strade sconosciute, convinta che ovunque stessimo andando sarei stata bene, perché c’era lui. Ero proprio un caso perso, vero?
Un lampo di luce all’orizzonte ci avvertì dell’imminente temporale, accompagnato con qualche secondo di ritardo da un tonfo sordo che mi fece sobbalzare. Presa alla sprovvista afferrai al volo il braccio del ragazzo, dandomi della stupida subito dopo per essermi lasciata spaventare da un semplice tuono.
«Che c’è italian girl, paura dei temporali?» chiese Chris con un ghigno, non lamentandosi però della mia mano che stritolava la sua e dell’altra aggrappata al suo braccio. Piuttosto mi tirò più vicino a se, passando quel povero arto che torturavo intorno alle mie spalle e trattenendo le mie dita tra le sue, come se fosse una cosa del tutto naturale. E no, non lo era. Sentivo il cuore uscire dal petto solo perché mi teneva per mano, ero felice all’idea di passare tutta la giornata con lui, ma cosa mi stava succedendo? Ero davvero io quella? E il ragazzo che mi faceva sentire così era proprio Chris?
«Io non ho paura dei temporali» sbottai mettendo su un’espressione imbronciata. Con il labbro inferiore sporgente e la fronte aggrottata dovevo sembrare davvero un cucciolo abbandonato perché lui mi strinse ancora di più, tanto che arrivai a poggiare la testa sul suo petto. Lo sentii ridacchiare mentre camminavamo così, con lui che mi teneva tra le sue braccia e io che ero tornata nel mio angolino felice. Solo che, sta volta, non ero mezza addormentata. Sapevo dov’ero, sapevo che quella superficie palpitante contro cui era poggiato il mio orecchio era il petto di Chris, che quel profumo era il suo, e che la mia mano non stringeva più della semplice stoffa, ma la sua mano. –Ah, a proposito della camicia, da lì riuscivo a vedere il punto in cui dovevo averla stretta e in effetti era ridotta proprio male,tutta piegata e raggrinzita-
C’era una sola cosa che non tornava, mentre eravamo in metro c’era qualcosa che mi accarezzava i capelli, e se lì non c’era vento ne tanto meno forze magiche, doveva essere stato … Chris. Chris mi aveva accarezzato i capelli mentre dormivo. Sul suo petto. E mi aveva chiamato scricciolo. Oh. Ohhhh
Lo guardai sorridendo mentre mi sentivo sciogliere dentro e lui ricambiò alzando un sopraciglio.
«Che c’è? Che ho fatto?» domandò scrutandomi dall’alto.
«Niente, niente» liquidai il discorso con un gesto della mano, senza però riuscire a smettere di sorridere. In un secondo il mio repertorio musicale interno mi aveva inculcato in testa decine di canzoni dolci e smielose e improvvisamente mi venne voglia di cantare, di ballare e di fare qualsiasi cosa gioiosa e felice. Era un momento in cui neanche le canzoni dei Never shout never sarebbero sembrate troppo dolci - parliamo di frasi tipo Did it hurt when you fell from heaven? O Everything you do is super fucking cute- e quelle che parlavano di un amore sporco avrebbero stonato. Insomma, mancavano solo pony, zucchero filato e un mondo tutto rosa per completare il quadretto felice.
«Mi dici perché sorridi come un’idiota?» chiese Chris aggrottando la fronte e puntando i suoi occhi verdi nei miei, guardandomi come se potesse leggermi l’anima. Per un momento lo credetti possibile.
«Niente di cui preoccuparsi, scricciolo» lo punzecchiai facendogli un occhiolino.
Lui aprì la bocca per controbattere, ma non trovando niente da dire rimase in silenzio, con un espressione da cucciolo. Fu in quel momento, per la prima volta nella storia delle mia vita –ehm, diciamo di questi quattro giorni-, che vidi Christian Samuels arrossire. Si, quello sui suoi zigomi era davvero un leggero rossore, allora era anche lui un essere umano! Gli diedi uno spintone con fare scherzoso che riuscii ad allontanarlo di qualche centimetro, ma lui mi riattirò facilmente a se grazie al braccio che aveva intorno alle mie spalle. Lo vidi storcere il naso per poi guardarmi con aria di sfida, il rossore era già completamente svanito.
«No Chris, non esco con te perché sei uno skater sfigato, ma se ti avessi incontrato quando facevi il modello dall’Abercrombie… mmm cosa ti avrei fatto» Chris si gettò a capo fitto in una mia imitazione con tanto di vocetta stridula, mano morta e sculettamenti vari che mi fece ridere fino a star male.
«Ehi, non ho mai detto così»
«Ma l’hai pensato, ammettilo»
Beh, certo che l’avevo pensato. Ma sapete cosa? Era stato meglio conoscere questo Chris che il modello montato che doveva essere stato. Vederlo ridere così, a crepapelle, senza preoccuparsi di chi lo guardava  era davvero bellissimo. Era una cosa che Lorenzo, per esempio, non avrebbe mai fatto, ma ehi, lui era ancora nella fase “sono mister super figo”, magari tra qualche tempo se ne sarebbe infischiato anche lui. Fino ad allora, però, io avevo il mio skater sfigato.
«Tu imiti me, ma dobbiamo parlare di te?» dissi raccogliendo la sfida. Ormai la mia mano non era più stretta nella sua così la portai tranquillamente sul fianco e imitai uno dei ghigni del repertorio “Chris style”
«Sono Chris Samuels, Christian, non Christopher, perché Christian fa più figo, ma tu puoi chiamarmi Chris. Prima facevo il modello e avevo centinaia di ragazze ninfomani (n.d.r. Georgia) ai miei piedi. Ora vesto i panni di un cantante rock frustrato e depresso, semi skater e poco ci manca che divento emo. Faccio finta di essere modesto, ma, in realtà, me la tiro ancora tantissimo. Sono…»il mio discorso ironico accompagnato da un vocione grave e una vasta gamma di espressioni degne di Chris venne interrotto dal soggetto in questione che, dopo avermi osservata con un sopracciglio alzato e uno sorrisetto divertito, si avvicinò pericolosamente alla sottoscritta fino a respirare la mia stessa aria.
«Ah, è così?» chiese retoricamente incrociando le braccia al petto.
«Si» risposi, ancora con il vocione. Mi schiarii la voce per rispondergli in tono normale, ma prima che potessi dire “a” mi sentii sollevare da terra.  Mi aggrappai al collo di Chris per paura di cadere mentre lui mi teneva tra le braccia in un modo sbilenco, ridendo sguaiatamente per chissà quale motivo.
«Mettimi giù, ora» gridai mente l’unica cosa che volevo era restare lì, aggrappata a lui, con il naso schiacciato contro la sua guancia e il suo profumo che mi investiva.
«No, ora sei mia» sussurrò dritto nel mio orecchio, ma, forse, non era a conoscenza del fatto che dire così ad una ragazza significava molto di più di ciò che lui intendeva. Non era più un gioco, in quel momento era diventata una questione seria.
Continuai a scalciare e lui continuò a stringermi, un bellissimo tira e molla che durò anche dopo che il cielo si mostrò contrariato a questa nostra sintonia. Scoppiò a piovere, una pioggerellina leggera che impiegò pochi secondi a diventare un diluvio, e che costrinse Chris a lasciarmi andare. Sentii la mancanza delle sue braccia che mi stringevano già qualche secondo dopo che mi lasciò a terra. Ci guardammo e ridemmo, senza un preciso motivo, lo facemmo e basta, dopodiché lui intrecciò le sue dita con le mie e iniziò a correre verso una meta a me sconosciuta. Mi sentivo tanto la protagonista di uno di quelli scontatissimi film d’amore che non facevo altro che criticare perché troppo inverosimili, troppo surreali, di solito quando vai a sbattere contro una persona non te ne innamori perdutamente, eppure io stavo vivendo una di quelle avventure pazzesche. Avevo incontrato Chris per caso, l’avevo odiato, avevamo litigato, tanto, ci eravamo ubriacati insieme e in quel momento correvamo mano nella mano sotto la pioggia. Era la dimostrazione che tutto poteva accadere, bastava crederci un po’.
«Dove siamo?» chiesi non appena Chris rallentò il passo fino a fermarsi davanti ad uno dei tanti cancelli in ferro battuto di quella via alberata. Si infilò le mani in tasca e lo sentii armeggiare con oggetti tintinnanti finchè non ne tirò fuori un paio di comunissime chiavi unite da un portachiavi a forma di segno della pace. Infilò una delle chiavi nella toppa del cancello e lo fece aprire con uno scatto, invitandomi poi ad entrare.
«Io la chiamo casa» affermò non appena ci lasciammo il cancelletto alle spalle. Davanti a noi si estendeva un sentiero ciottolato che portava ad una…wow. Questa non me la sarei mai aspettata.
 

Chris

Londra, casa di Chris
13.30

 

«Ammettilo» iniziò Serena mentre la guidavo lungo il corridoio d’ingresso «all’Abercrombie ci sei entrato solo per raccomandazione. Che ne so, magari lì conoscevano il lavoro dei tuoi, qualsiasi cosa loro facciano per avere una casa così, e ti hanno ammesso»
Risi della sua aria accigliata e scossi il capo pensando che, magari, avrei potuto farle vedere qualche mia foto con Jack e gli altri in quel maledetto negozio, così si sarebbe finalmente convinta che non stavo sparando cazzate. Raggiungemmo il salone e mi fermai lì qualche secondo per decidere dove portarla. In camera? No, sarebbe sembrato…stano e mi avrebbe inculcato cattive idee. Cucina? Si, potevamo mangiare un boccone nell’attesa degli altri. In soffitta? Magari dopo, sarebbe stata la prima ragazza a salirci.
«Mio padre è uno dei più importanti avvocati di Londra» dissi rispondendo alla domanda sottointesa nella frecciatina di prima. Non lo feci per vantarmene, era più un orgoglio personale visto che, probabilmente, quel posto sarebbe stato mio. Non che fosse la mia più grande aspirazione, ma a diciassette anni ti rendi conto che, per quanto tu possa amare la musica ed essere un bravo cantante, per sfondare hai bisogno di tanto culo. Dote che a me mancava – in senso figurato, fisicamente…beh…-
«Musica italiana?» la voce di Serena mi riportò alla realtà. Si era allontanata da me ed aveva raggiunto il grande stereo, tra le mani aveva il cd dell’altra sera.
La raggiunsi e mi abbassai fino a poggiarle la testa sulla spalla, abbracciandola da dietro, per poter osservare insieme a lei quel comunissimo oggetto che era diventato improvvisamente incredibile. Trovavo straordinariamente naturale comportarmi in quel modo con lei, dovevo preoccuparmene?
«è di mia madre» spiegai facendo spallucce.
«Questa è una delle mie canzoni preferite» annunciò facendo scorrere il dito sui titoli scritti elegantemente a mano. La vidi sorridere tra se e se, come se stesse ricordando qualche storia divertente. Era davvero bellissima. Mi sporsi un po’ di più per poter leggere. Sorrisi anche io. Oggi sono io, Alex Britti. La canzone che mi aveva convinto a tornare da lei.
«La conosci?» chiese voltandosi leggermente verso ti me, tanto vicina da far male.
«Che mi piaci per davvero, anche se non te l’ho detto, perché è stupido provarci solo per portarti a letto» canticchiai sfoggiando il mio italiano perfetto. Si fa per dire, eh.
«Quando canti in italiano sei uno spettacolo, seriamente» commentò Serena scoppiando a ridere. Alzò una mano per darmi uno schiaffetto ed io ne approfittai per afferrarla dal polso e farla girare verso di  me. L’abbracciai prima che lei potesse rendersi conto di ciò che stava succedendo e nascosi il viso tra i suoi capelli, inspirando il suo profumo, cercando di sotterrare quello sconosciuto imbarazzo che provavo nello stare in casa con lei, da soli. Fosse stata un’altra ragazza saremmo già saliti in camera, ma lei era diversa. A lei avevo paura perfino di strapparle un misero bacio.
«Cos’è oggi? La giornata degli abbracci?» scherzò mentre si alzava sulle punte per poter poggiare la testa sulla mia spalla. Avvertii i suoi vestiti umidi sotto le mie mani e la sentii rabbrividire al mio tocco, aveva abbassato tutte le difese. Le sue braccia si strinsero intorno al mio collo, le mie la tenevano per i fianchi. Tutto intorno a noi era avvolto in una pace quasi surreale, o forse ero io a sentirmi estremamente bene? Per la seconda volta un piccolo particolare mi entrò in testa, eravamo soli. Questo significava niente sguardi indiscreti, niente Ryan. Era il momento perfetto per prendermi quel bacio che mi aveva negato l’altra sera, era il momento giusto per farla capire le mie intenzioni.
«O mio Dio» esclamò poi lei frantumando in milioni di pezzi l’atmosfera e tutti i miei propositi. Si allontanò di scatto da me come se all’improvviso scottassi e, con sguardo meravigliato, guardò oltre le mie spalle. Seguii il percorso dei suoi occhi fino ad arrivare all’oggetto delle sue attenzioni, il pianoforte.
Si poteva odiare un oggetto inanimato? In quel momento lo credetti possibile.
«Suoni il pianoforte?» le domandai un po’ incuriosito un po’ rassegnato. Non avremmo mai avuto un momento di tranquillità, noi due.
Serena annuii freneticamente mentre un sorriso luminoso le comparve sul viso, rendendomi così vulnerabile che per un momento non me ne fregò più niente dell’occasione sprecata. Solo per un momento però.
«Se vuoi puoi suonare qualcosa» proposi mascherando la mia delusione con un sorriso. Mi lasciai trascinare da lei verso la verandina con il grande pianoforte nero a coda, la feci sedere sulla panchetta di legno con il cuscino di pelle e lei mi fece spazio per farmi accomodare al suo fianco. Tutt’intorno a noi le finestre erano ricoperte da piccole gocce di pioggia e finchè Serena non incominciò a suonare l’unico rumore fu il ticchettio dell’acqua sui vetri.
Serena chiuse gli occhi e intonò una melodia travolgente che mi lasciò senza parole. Non ero a conoscenza di questa sua passione, come probabilmente non ero a conoscenza di tante altre cose. Mancavano tre giorni alla sua partenza e mi resi conto che io non sapevo quasi niente di lei, eppure mi sembrava di conoscerla più di chiunque altro. Un po’ come lei conosceva me. Mi ero aperto a lei come avevo fatto solo con Ryan, ma Ryan sarebbe rimasto ancora per tanto, lei tempo tre giorni sarebbe tornata a casa. Lontana da qui, lontana da me. Mi fermai ad osservarla per tutto il tempo, appoggiato con un gomito al pianoforte, perso tra i miei pensieri e cullato da quella musica leggera. Le sue mani si spostavano veloci sui tasti d’avorio e sembravano poter continuare all’infinito, senza mai stancarsi, mentre lei muoveva lentamente la testa come a seguire un percorso invisibile della melodia. Non fui mai attento ai suoi particolari come in quel momento, le ciglia lunghe degli occhi chiusi, i capelli dalle tante sfumature, le dita affusolate, la pelle chiara, e la trovai più bella di sempre. Mi ritrovai a contare i suoi respiri, lunghi e profondi, e quasi a percepire i battiti del suo cuore osservano la superficie pulsante del suo collo.
«Se io cantassi, tu canteresti con me?» trasalii al suono della sua voce e riportai i miei occhi nei suoi, ora aperti. Mi guardava con un’intensità che non avevo mai visto, quasi lucidi d’emozione, mentre le sue mani continuavano a produrre quella melodia delicata come se fossero una parte a se del corpo, come se si muovessero da sole.
Annuii incapace di parlare e i capelli mi cascarono davanti agli occhi, oscurandomi la vista. Serena allontanò una mano dalla tastiera e la melodia di venne più semplice, infilò le dita tra i miei capelli e mi aggiustò il ciuffo, lasciando una piccola carezza sulla mia guancia prima di tornare alla sua musica. Sorrisi. Sorrise.
«Questa non la conosce quasi nessuno» affermò senza lasciarmi intendere il significato di quelle parole. All’improvviso il  motivo cambiò e lei prese un respiro profondo, iniziando a intonare parole che, al contrario di come lei pensava, conoscevo perfettamente.
«I should go, Levi Kreis» dissi più a me steso visto che lei sembrò non ascoltarmi neanche.
 
Here we are, Isn't it familiar?
Eccoci qui, non ti sembra familiare?

Haven't had someone to talk toin such a long time
Non abbiamo avuto nessuno con cui parlare per tanto tempo.

And it's strange all we have in common
Ed è strano tutto ciò che abbiamo in comune
 
and your company was just the thing I needed tonight
e la tua compagnia era proprio ciò di cui avevo bisogno stanotte.
 
Somehow I feel I should apologize,
In qualche modo sento che dovrei chiedere scusa,
Cuz I'm just a little shaken
Perchè sono un po’ scosso
By what's going on inside
Da quello che mi sta succedendo dentro.
 
La lasciai cantare, forse perché amavo il suono della sua voce, forse perché non volevo interromperla. Pensai che aveva trovato la canzone giusta per quel momento, che aveva centrato il punto. Eppure non riuscii a dire niente. Non volevo dire niente. Volevo che continuasse a cantare, sempre. Volevo congelare quel momento. Volevo che gli attimi, i secondi, i minuti finissero di scorrere, che quei tre giorni non passassero mai. Perché io avevo bisogno di lei, davvero.
 
I should go,
Dovrei andare,

Before my will gets any weaker
Prima che la mia volontà diventi più debole

And my eyes begin to linger longer than they should.
E I miei occhi tendano a fissare più a lungo di quanto dovrebbero.
I should go,
Dovrei andare,

Before I lose my sense of reason
Prima che io perda la ragione

And this hour holds more meaning than it ever could
E questa ora inizi a prendere un significato più profondo
 
I should go, I should go, baby, I should go
Dovrei andare, dovrei andare, amore, dovrei andare.
 
Si, lei doveva andare. Sarebbe stato ragionevole, sensato.
Ma io non volevo, e non glie l’avrei mai permesso. Chi se se fregava del dopo? Noi eravamo lì in quel momento, era quello che contava.
Si girò verso di me una volta finito il ritornello, come a chiedermi continuare. L’accontentai.
 
It's so hardkeeping my composure
È così difficile non lasciarmi andare

And pretend I don't see how your body curves beneath your clothes.
E fingere di non vedere il tuo corpo che si muove sotto I tuoi vestiti.

And your laugh is pure and unaffected
E la tua risata è pura e semplice,

It frightens me to know so well the place I shouldn't go
Mi spaventa conoscere così bene il luogo dovrei non dovrei andare.

I know I gotta take the noble path
So che dovrei prendere la scelta più nobile

Cuz I don't want you to questionthe intentions that I have
Perchè non voglio che tu ti chieda le intenzioni che io abbia.
 
Una ciocca di capelli che cadde davanti agli occhi. Le restituii il favore e glie la portai dietro l’orecchio, dolcemente, e rimasi a giocherellare con i suoi capelli mentre cantavo. Serena non mi guardava, ma sapevo cosa stava pensando. Sapeva che ciò che cantavo lo sentivo davvero. Arrossì sotto il mio sguardo ed io sorrisi, quando poi si girò a cantare con me mi sentii triste e felice allo stesso tempo. Felice perché cantavamo, per la prima volta, insieme. Triste per le verità di quel testo.
 
I should go,
Dovrei andare,

Before my will gets any weaker
Prima che la mia volontà diventi più debole

And my eyes begin to linger longer than they should.
E I miei occhi tentano a fissare più a lungo di quanto dovrebbero.

I should go,
Dovrei andare,

Before I lose my sense of reason
Prima che io perda la ragione

And this hour holds more meaning than it ever could
E questa ora inizi a prendere un significato più profondo
 
I should go, I should go, baby, I should go
Dovrei andare, dovrei andare, amore, dovrei andare.
 
Abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi, potevo giurare di averli visti lucidi.
Così mi feci più vicino, la mia mano scese dai suoi capelli per tutta la schiena, finchè non la presi per i fianchi e avvicinai al suo viso.
 
I don't mean to leave you with a trivial excuse
Non voglio lasciarti con una scusa banale

And when you call tomorrow, I'll know what to do
E quando chiamerai domani saprò cosa fare.
 
Cantai nel suo orecchio, sussurrando.
La sentivo rabbrividire, piccola e indifesa, e mi chiedevo come faceva a continuare a suonare in quelle condizioni. Percepivo l’eccitazione crescere man mano che la melodia scemava, avvicinandosi alla fine. L’aria era carica di aspettativa.
Serena schiacciò gli ultimi tasti e lasciò le mani sulla tastiera, ferme, immobili. Le guardava come se ci fossero nascosti i più grandi segreti dell’universo. Era intuibile che non volesse incrociare il mio sguardo.
«Forse dovremmo andare, magari sono arrivati gli altri e…» farneticò tormentandosi le dita, agitata. Non risposi, mi limitai a scuotere il capo finchè lei non si girò a guardarmi. Avevo un repertorio intero di giochi e scuse per baciare una ragazza, ma non avevo intenzione di usarli. Sostenni il suo sguardo  mentre allungavo una mano ad accarezzarle la guancia, sorrisi e lei tornò a fissarsi le dita.
«Serena» mormorai senza un motivo preciso, forse per sperare che lei tornasse a guardarmi. Ma non lo fece. Piuttosto la vidi muoversi, poggiò una mano sulla panca come per darsi lo slancio e alzarsi, ma sta volta glie l’avrei impedito. L’avevo promesso. Le afferrai il polso e la attirai a me con uno scatto, senza lasciarle capire cosa stava succedendo. Era tanto vicina che il mio cuore impazzì prima ancora del bacio. Non sapevo bene cosa stavo facendo, lasciavo fare all’istinto, alla parte più sincera di me. Quella che aveva bisogno di Serena, subito. L’ultima cosa che vidi furono i suoi occhi, carichi di emozione, lucidi per la straziante canzone, desiderosi. Mi voleva come io volevo lei. Così la richiamai a me, afferrandola da dietro la nuca, e con uno slancio premetti le mie labbra contro le sue.
Non so dire cosa provai in quel momento. Un misto di sentimenti contrastanti: dolcezza, desiderio, rabbia, amore. Mi sentivo stupido e folle nel vedere come il mio cuore reagiva ad ogni suo movimento, ad ogni suo brivido. La strinsi tra le mie braccia e la baciai come se potesse essere l’ultima volta, senza preoccuparmi di cosa facevo, mentre lei alternava attimi intensi a momenti placidi in cui si affidava totalmente a me. E mi piaceva, Dio se mi piaceva. Frenai quei giochi di lingua per lasciarle un bacio sul collo, poi uno sotto il mento, e lei si sciolse tra le mie braccia. Le mie mani scivolarono  sulle sue gambe e la tirarono sulle mie, più per sentirla vicina che per altro. Intrecciò le sue dita tra i miei capelli ed io le lasciai un bacio a fior di labbra. Sorrise. Aprì le palpebre ed incrociò il mio sguardo, vidi nei suoi occhi tutto ciò di cui avevo bisogno. Nel suo sorriso la mia gioia. Sorrisi di rimando e le diedi un altro bacio, premendo semplicemente le mie labbra contro le sue. Mi guardò e scoppiò a ridere, una risata pura e cristallina che tirò la mia. Amavo il modo in cui mi faceva sentire.
«Dio, Chris…» mormorò scuotendo la testa come in disapprovazione, ma il suo sorriso diceva altro.
«Cosa?» chiesi sospirando mentre le accarezzavo una guancia. Le sue mani afferrarono il mio viso e mi spinsero contro la sua fronte. Incatenai i miei occhi ai suoi.
«Non dovremmo…» disse con voce spezzata, afflitta. Lei era più piccola di me, eppure più matura. Afferrai la mano con cui stava seguendo il contorno dei miei zigomi e glie la poggiai sul mio cuore, preso da una dolcezza a me estranea.
«Perché questo dovrebbe essere sbagliato?» le domandai convinto che anche lei riuscisse a percepire i battiti frenetici del mio cuore. Serena sorrise e strinse le dita intorno alla mia camicia, proprio sopra quel muscolo idiota che dipendeva da lei. Non rispose, ma mi baciò. Fu diecimila volte meglio di come mi aspettavo, quello era il suo consenso. Era come dire “Si, hai ragione, non c’è niente di sbagliato in noi”, perché era verità. Ci eravamo trovati e ora non volevamo perderci, chi se ne frega delle miglia di distanza. Eravamo partiti col piede sbagliato, ok, ma ora eravamo solo io e lei. Chris e Serena.
Un lampo di luce illuminò la stanza, ma non fu seguito dal solito tuono. Strano. Si sentì, piuttosto, il rumore di una fotografia appena scattata.
«Ma che cazz..?» esclamai lasciando in sospeso quel bacio. Mi guardai intorno finchè non individuai quella massa di capelli ricci sempre capace di rovinare momenti perfetti. Anche se, sta volta, il nostro bacio l’avevamo avuto.
«È la foto più bella che io abbia mai scattato, consideratela come scusa per tutte le volte che vi ho rotto le palle» disse Ryan sorridendo imbarazzato mentre metteva in mostra una delle mie reflex.  Doveva essere entrato in casa con la sua copia delle chiavi.
«Guarda che gli ha rotto le palle anche sta volta se non te ne sei accorto» la voce di Michela risuonò mentre la sua figura esile spuntava da dietro Ryan, timida.«Ciao Chris, ciao Serena»
Alzai una mano in segno di saluto e lanciai un’occhiata a Serena. Lei mormorò un “ciao” quasi incomprensibile.
«Da quanto siete qui?» chiesi troppo contento per essere incazzato.
«Abbiamo sentito gran parte della canzone, ma non volevamo disturbarvi. Ci sono anche Lenny e Harry in cucina» rispose Ryan scrollando le spalle.
«No, ti prego…» Serena arrossì di botto e si piegò su di me fino a nascondere il viso nell’incavo della mia spalla. Sorrisi e la lasciai accoccolare tra le mie braccia, stringendola come un peluches.
«Ho capito, raggiungiamo gli altri» esclamò Ryan mentre Mic lo tirava via, ma non gli risposi. Piuttosto lasciai un bacio tra i capelli di Serena e rimasi lì con lei, a coccolarla senza preoccuparmi di essere troppo tenero come facevo con Geo. Lei odiava le coccole, solo sesso. Dovevo recuperare tanti anni di mancata dolcezza.




A un anno dal primo capitolo, il bacio.
Grazie a Chris e Serena, stro crescendo con voi.
   
 
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