E Cristina rimaneva in
silenzio, non una parola, non un soffio.
Perché parlare? Sua
madre era
stata chiara, non voleva essere cattiva: insegnare alla figlia che al
mondo ci
sarebbe sempre stato qualcuno che avrebbe sofferto più di
lei era il suo
compito, non doveva viziarla, non dovevapermettere che Cristina diventasse una ragazza egoista.
Furono tutti quei
“non” a
mostrarle la strada da seguire, bastava non fare niente.
Cristina viveva, ma nei
limiti: doveva sempre controllarsi, evitare di soffrire più
di quanto le fosse
permesso. Aveva una famiglia unita, nessun problema di salute, un
aspetto
gradevole e gli amici giusti. Perché lamentarsi?
Lei non si lamentava, lei
rimaneva in silenzio, quel silenzio che le era stato imposto fin dalla
nascita.
Vedete, sua madre non era
cattiva. Si potrebbe accusare qualcuno di insegnare a vivere al proprio
figlio?
Non le aveva mai fatto mancare niente, l’aveva amata. La
storia di Cristina
agli occhi di tutti non avrebbe potuto avere che un lieto fine.
Cristina non poteva esprimere
la propria sofferenza, Cristina si conteneva. Nessuna lacrima, niente
grida,
sopportava in silenzio i piccoli dolori quotidiani, la fine di una
relazione,
un brutto voto, un ginocchio sbucciato.
Chi avrebbe potuto accorgersi
della sua depressione?
Cristina giunse infine a
trascinarsi: la sofferenza che aveva accumulato in venti anni di vita
pulsava
contro le pareti del suo corpo, implorava di essere lasciata andare.
Cristina
iniziò a chiudersi in bagno tra una lezione e
l’altra, piangendo senza saperne
lei stessa il motivo, per poi asciugarsi gli occhi gonfi e tornare tra
gli
amici; iniziò a passare la notte sveglia, incapace di
prendere sonno; iniziò a
cercare nella propria mente una soluzione alle sue crisi di dolore, a
tenerle
sottocontrollo.
La depressione
l’abbracciò
amorevolmente, non riusciva ad ostacolarla. Lei doveva essere felice,
razionalmente ne aveva tutti i motivi.
Cristina peggiorava giorno
per giorno, una malattia mentale si impossessò di lei, ma
non poteva chiedere
ai genitori – con i problemi che
dovevano
affrontare – di pagarle un medico, rimase immobile.
Sorrideva, nelle
braccia aveva il vuoto; smise di accarezzare i suoi gatti, non provava
alcuna
emozione.
Potrei dirvi che Cristina si
tolse la vita, che trovò il coraggio per andare da uno
psicologo, che ammise la
propria sofferenza e la superò. Non sarebbe vero: anche nel
peggiore dei casi,
sarebbe un finale.
La verità è
che Cristina
continua ancora, e ancora, a passare le giornate nei bagni, a privare i
gatti
di carezze e gli amici di abbracci. A privarsi della consapevolezza di
provare
dolore.