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Autore: My Pride    14/03/2012    2 recensioni
~ Raccolta di dieci one-shot/flash fiction un po' assurda e sentimentale incentrata sulla coppia Roy/Ed ♥
» 10. It's the story of my life ~ Special Chapter ~ Hearts Burst Into Fire
Chiusi gli occhi umidi, annuendo soltanto. E la sua presa diventò più salda, più protettiva.
Stretto e piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san o ‘Ka-san, capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore anche senza saperlo.
[ Partecipante alla challenge indetta dalla community Think Fluff ]
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Roy/Ed
Note: Lime, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Shattered Skies ~ Stand by Me'
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Say goodbye to your driver license Titolo: Say goodbye to your driver license
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 3409 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 06. Coccinella
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai ; What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Più del solito, quel giorno, non avevo voglia di lavorare.
    Avevo provato ad impietosire Riza dicendole che avevo affaticato un po’ troppo l’occhio destro per tentare di scansarmi qualche scartoffia, ma ormai le rifilavo quella scusa da quasi quattro mesi. E, com’era naturale, non ci cascava più. Prima di congedarsi, infatti, mi aveva rivolto un falso sorriso rassicurante, posando nuove documentazioni sulla mia scrivania andandosene poi tranquilla, mormorando distrattamente - e quasi con una punta d’ironia, avrei osato aggiungere - un “Le faranno compagnia.” Odiavo quando faceva del sarcasmo a mie spese.
    Mi trovavo ancora in ufficio, adesso, a firmare controvoglia quei fogli. Sbadigliavo in continuazione, faticando a tenere l’occhio aperto. Stavo morendo di sonno. Avevo dormito su per giù quattro o cinque ore, e ora ne pagavo le conseguenze. Dopo un altro sbadiglio, mi grattai di sfuggita il mento, poggiandolo subito dopo sul bordo della scrivania con la stilografica abbandonata in una mano. Ero troppo stanco. Avrei lavorato in seguito. Quello che mi occorreva, in quel momento, era una bella dormita.
    Adocchiai il divano e non ci pensai due volte: mi sarei scaricato lì sopra. Nel momento stesso in cui mi alzai, però, la porta del mio ufficio fu gioiosamente spalancata, rivelando la figura dell’ultimo uomo che avrei voluto vedere quel giorno. Già ne bastava una, di rottura di coglioni. «Ehilà, Guercino!» mi salutò, accomodandosi sulla poltrona dinnanzi alla mia scrivania come se fosse stato invitato a farlo.
    Ci rimediò una mia occhiataccia, prima che raccattassi i fogli e riponessi al suo posto la penna. «Ti ho detto mille volte di piantarla di chiamarmi così», lo ammonii, giusto per far scena. Ormai non gli davo più peso, in realtà. La prima volta che mi aveva affibbiato scherzando quel soprannome, ero stato quasi sul punto di strozzarlo per davvero, certo. E tutto perché ero ancora sconvolto dalla notizia. Ma poi avevo lasciato perdere, imparando ad accettare quello che era ormai diventato un mio difetto. Perderci tempo su sarebbe stato inutile.
    Vidi di sfuggita Maes giocherellare con una delle mie stilografiche con falsa attenzione, mentre sbadigliava sonoramente. «Andiamo, ti sta benissimo», borbottò, tranquillissimo e non curante. «Tra tutti quelli che avevo scelto questo qui è quello più normale, credimi».
    Alzai l’occhio al soffitto, ritrovandomi a scuotere la testa. Era un caso veramente perso. «Ma tu non dovresti lavorare?» gli domandai ancora sollevando il sopracciglio, e stavolta mi gettò una rapida occhiata che avrebbe potuto significare tutto. 
    «E cosa sto facendo, secondo te?» scherzò, stiracchiandosi. 
    «Stai cazzeggiando nel mio ufficio», risposi subito a tono.
    Agitò distratto una mano lasciando cadere la stilografica sul tavolo, rialzandosi in piedi per darmi poi una bella pacca su una spalla. «Dai che ti ho portato una bella notizia», fece, quasi distrattamente. «Alla fine sei riuscito a fare pietà a Riza. Ti ha concesso il resto della giornata libero».
    Mi venne quasi voglia d’esultare, con il rischio che mi sentissero anche ai piani inferiori. Per mia fortuna, però, mi trattenni e non lo feci. Mi limitai a sfoggiare un sorrisino compiaciuto, già pronto a godermi la mia tanto agognata libertà. Ero ad un passo dal filarmela che mi bloccai, ricordandomi un piccolo particolare. Edward avrebbe lavorato fino a tardi, quel giorno. Quindi le alternative erano due. O attendevo la fine del suo turno - cosa che non mi andava assolutamente di fare - oppure cominciavo ad andare giù alla Hall fino alle scale e me la facevo a piedi fino a casa, visto che ancora non potevo - anzi, mi era stato categoricamente vietato di farlo - guidare tranquillamente. A meno che...
    Colto da un’illuminazione, mi voltai in direzione di Hughes, allargando quasi il sorriso da un orecchio all’altro. «Ti ho mai detto quanto ti voglio bene, Maes?» me lo ruffianai ben bene, nel tentativo di comprarlo per il mio secondo fine. Se non potevo guidare, potevo farmi dare un passaggio. Lo vidi inarcare ironico un sopracciglio, assumendo un cipiglio scettico.
    «Quando il Diavolo accarezza vuole l’anima», fu la sua risposta, e lasciai vacillare il sorriso per dar vita ad un broncio bambinesco. 
    «Che malfidente», bofonchiai, incrociando le braccia al petto. 
    «Per ovvie ragioni», ribattè ancora lui, avvicinandosi a me solo per avviarsi alla porta.
    Lo afferrai però per un braccio, bloccandolo a metà strada. Con l’espressione più innocente che riuscii a trovare, poi, lo osservai con attenzione. «Me lo dai un passaggio?» gli chiesi, atteggiando il viso alla ormai classica espressione alla Jaz. La stessa identica espressione che era solito utilizzare lui quando voleva qualcosa. Peccato però che con Maes non funzionasse. Difatti scosse la testa, facendomi mollare la presa.
    «Abbiamo un bel po’ di lavoro, giù al Tribunale», fu la sua scusa, scrollando le spalle. «Sono passato solo per avvisarti che potevi andare».
    «Eddai, non si abbandona un amico in difficoltà.» provai a fargli pena, ricevendo la medesima risposta. Continuai così per una buona manciata di minuti, forse dieci o poco più. Ma, alla fine, mi ero ritrovato a bocca asciutta. Mi aveva salutato frettoloso, defilandosi senza nemmeno prestarmi attenzione. E adesso bofonchiavo imprecazioni verso di lui nella Hall, diretto vero il parcheggio del Quartier Generale, con in mano le chiavi d’una delle macchine in dotazione all’esercito. Non mi interessava assolutamente se secondo medici o altri non avrei ancora dovuto guidare. Non me ne sarei andato a piedi, se potevo evitarlo. In fondo che ci sarebbe stato poi di così diverso? Era una strada che facevo da una vita. Avrei anche potuto farlo chiudendo l’occhio.
    Sorpassai la mia macchina - le cui chiavi erano state diligentemente sequestrate da Edward - e mi diressi verso una di quelle prese in prestito, aprendo la portiera. Seduto al posto di guida infilai le chiavi nel quadro d’accensione, sentendo il rombo del motore. La retromarcia non fu un passo difficile, anzi. Filai fuori perfettamente, senza incidenti. Potevo guidare benissimo, l’avevo appena dimostrato. Il tutto divenne però un po’ più complicato nelle strade trafficate. Fui costretto a fermarmi due o tre volte sul ciglio della strada, nel tentativo di non affaticare troppo la vista, dato che sentivo l’occhio bruciarmi un po’. Avevo dimenticato il problema profondità. Certe volte ancora sbagliavo a premere al primo colpo l’interruttore della luce, figurarsi quindi come stava il resto. Anche nel fare l’amore con Edward ero diventato un pochino lento. Lui naturalmente dava la colpa di questo alla mia età, non alla mia vista, ma io speravo di più che fosse per la seconda ipotesi.
    Prima di ripartire mi massaggiai l’occhio, rimettendo in moto. Nuovamente in strada, cercai di fare attenzione a tutto, quasi rischiando però di tamponare due o tre auto davanti a me. Le evitai per un soffio. O almeno quelle. Proprio a metà strada, infatti, tamponai proprio la piccola auto della polizia stradale. Ero davvero un uomo fortunato, eh? Nemmeno avessi spiaccicato una fottuta coccinella e mi stessero punendo per averlo fatto. Sarcasmo a parte, quand’erano scesi e si erano avvicinati, mostrar loro il mio orologio d’argento o i gradi di Generale era valso a ben poco. Uno di loro - una donna un po’ grassoccia sui cinquanta che quasi mi ricordò la professoressa di Jaz - prese a farmi una ramanzina che temetti non finisse più, chiedendomi poi senza un minimo di tatto da quanto ero in cecità parziale. Mi ero di poco trattenuto dal non darle fuoco, anche se avrei voluto. Così almeno avrebbero avuto un buon motivo per tenermi in stato di fermo.
    Alla fine di tutto quel gira e rigira, comunque, quello che ci era andato male alla fine ero stato io. E adesso ero ad una cabina pubblica per chiamare a casa, dove sperai si trovasse Jason. Non potevo lasciare la macchina lì e nemmeno riportarla indietro, visto che quei due idioti mi avevano ritirato senza tanti convenevoli la patente. Attesi lì con la cornetta all’orecchio, contando gli squilli. Due, tre. Sperai solo di non aver sbagliato numero, visto che avevamo cambiato casa. All’ottavo squillo, quando già stavo per perdere la pazienza, finalmente qualcuno rispose. «Pronto?» fece la voce familiare, anche se un po’ assonnata. 
    «Jaz... sono io».
    Ci fu un piccolo tentennamento. «‘Ka-san?» chiese, forse scettico. «Perché hai chiamato?» 
    Anche se non poteva vedermi, mi grattai non curante dietro al collo. «Beh, vedi... avrei un problema», cominciai.
    «Problema?» 
    Cercai altri spiccioli, sentendo chissà come che quella conversazione sarebbe stata lunga. «Aye... sono sulla 25ª, potresti venire qui?» 
    «Perché?» domandò ancora, perplesso. Domande e domande come avevo pensato. Peggio di quand’era bambino.
    «Smettila di chiedere, non ho tutti ‘sti soldi appresso», quasi sbottai. 
    «Ma scusa, se mi tocca scarpinare fin lì spiegami almeno il perché!»
    Borbottai tra me e me qualche imprecazione. Mi toccava dirglielo. «Mi hanno ritirato la patente», feci schietto. 
    «Ti hanno...» ripeté, prima di scoppiare in una sonora risata che quasi rimbombò nella cornetta, tanto che fui quasi costretto ad allontanarla dall’orecchio. 
    «Piantala di ridere, idiota», mi risentii, nervoso e non poco.
    Con qualche residuo d’ilarità lui cercò di tornare serio e di rispondermi. 
    «No no, scusa ‘Ka-san... ma era troppo divertente», fece, tra sbuffi di risa. «Non avevi detto però che non potevi guidare? Che hai fatto, te ne sei fregato?» 
    Colpito e affondato. Dannazione, odiavo la perspicacia di quel ragazzo. Anche se poi, beh... non era poi così difficile indovinarlo. Che ero una testa calda ormai lo sapevano anche i muri della nuova casa. «Sta
zitto e vedi di muoverti», aggirai svelto il discorso, interrompendo la comunicazione prima che potesse aggiungere qualcosa. Agganciai bene la cornetta uscendo fuori dalla cabina, pronto a riattraversare la strada per restare vicino all’auto. Ci mancava solo che la rubassero o altro.
    Mi poggiai contro la carrozzeria a braccia conserte, guardando di tanto in tanto il mio orologio per controllare lo scorrere del tempo. La mia attenzione era concentrata svogliatamente sulle altre auto che sfrecciavano sulla strada o su alcuni passanti sul marciapiedi, ma ancora non vedevo la capoccetta mora che mi interessava. Non sapevo nemmeno se sarebbe venuto a piedi o con l’auto di Edward. E quello era un altro piccolo inconveniente. Passarono dieci minuti o poco più, credo. Non ne ero poi così sicuro. Fatto sta che, alla fine, riuscii finalmente a vederlo. O meglio... a vedere l’auto che guidava. Scoprendo così anche perché aveva fatto tardi. Indovinate un po’ chi c’era con lui? Oh, aye, la seconda catastrofe della mia vita. Il suo miglior amico, Cedric Berk. Avrei dovuto immaginarlo...
    Si fermarono al ciglio della strada, rivolgendomi entrambi un sorriso divertito dal finestrino. «A piedi, Signor Mustang?» mi prese in giro Cedric, e dovette ritenersi fortunato che non indossassi i miei guanti. Altrimenti, nervoso com’ero, gli avrei dato fuoco sul serio.
    Borbottando tra me e me, mi staccai dall’auto, vedendo proprio Ced scendere da quella che Jaz aveva adesso parcheggiato dietro quella che avevo preso in prestito. «Sali ‘Ka-san, ci pensa Ced a portare quella al Quartier Generale», mi informò, additandola.
    Mi accigliai, mentre vedevo il suo amico dirigersi alla portiera per sedersi al posto di guida, dove avevo abbandonato le chiavi nel quadro d’accensione. «Cosa volete per questa improvvisa gentilezza?» mi insospettii, ed entrambi atteggiarono il viso ad un’espressione assolutamente innocente.
    Ormai seduto, Cedric mi guardò con quegli occhioni castani. «Mi sono offerto io perché tanto dovevo già andare lì», spiegò, tranquillissimo. «Mio padre mi ha chiesto di raggiungerlo per dare una mano anch’io giù al Tribunale. Ha detto che così almeno imparo già il mestiere».
    Cavoli, allora era vero che avevano da fare. Credevo fosse solo una balla di Maes. Sperai solo che non si trattasse ancora di catalogare documenti attinenti a quella faccenda. «Nessun secondo fine, quindi?» chiesi ancora, non del tutto convinto.
    Quasi in simultanea - manco fossero stati gemelli - si portarono una mano al petto, come se volessero promettere qualcosa. «Siamo innocenti stavolta, ‘Ka-san», fece Jason dall’auto, sporgendosi appena un po’. 
    «Mai stati più innocenti di adesso, vero», ribadì ancora il concetto Cedric. 
    Decisi di non volerli più ascoltare. Quella battaglia su due fronti non l’avrei mai vinta. Salutai frettoloso Cedric dirigendomi all’auto di Edward, salendo dalla parte del passeggero con la solita aria indispettita che adottavo quando mi toccava farlo. Vidi l’auto in cui era Ced partire, e dopo poco lo facemmo anche noi, diretti a casa. Il lato positivo, almeno, era che Jason aveva preso la patente e poteva scarrozzarmi lui da qualche parte se Edward era troppo impegnato per farlo. Odiavo però dipendere da loro. Non aspettavo altro di poter guidare nuovamente.
    Il silenzio che vigeva tra noi fu rotto dalla voce di Jaz, ed ero così immerso nei miei pensieri che ci misi un po’ ad accorgermi che lui aveva parlato. «Come va l’occhio, ‘Ka-san?» mi chiese, guardandomi appena di sottecchi senza abbandonare la strada che stava percorrendo.
    Sorrisi un po’ a quella sua preoccupazione rinata. Faceva tanto il duro, ma infondo era sempre stato un cocco di mamma.  E a me non dispiaceva affatto, dovevo ammetterlo. Colpa del mio vizio di viziarlo. Mi stiracchiai sul sediolino, scompigliandogli poi affettuoso i capelli, rimediandoci così una piccola lamentela come al solito. «Si stanca un po’ come sempre, ma mi sto abituando», risposi, tornando composto. «Tempo un altro mese e starò alla grande».
    Mi lanciò appena un’altra occhiata, vagamente scettica. «Lo dici per consolarmi come tuo solito o fai sul serio?» mi pose un’altra domanda, con un tono di voce vagamente somigliante a quello imperativo che era solito usare Edward quando mi negava senza sentir ragioni il sesso. 
    Sbuffai, agitando però disinvolto una mano. «La sera fatico a distinguere i profili, se le luci sono soffuse. Ti va bene così?» ironizzai, vedendolo però corrucciarsi mentre si concentrava sulla strada senza prestarmi attenzione. Su quel viso da prendere a schiaffi s’era dipinta quella maledetta espressione colpevole. Porcaccia, dovevo imparare a tacere. «Stavo scherzando», provai a mentirgli, per cancellargliela dal viso. In realtà a volte era vero, faticavo a vedere le sagome in penombra. Tutto perché dovevo sforzare l’occhio. 
    «Non è vero», bofonchiò, girando velocemente le mani sul volante per prendere una curva. «Adesso lo stai dicendo per non farmi sentire colpevole, ti conosco troppo bene».
    Mi lasciai sfuggire un lamento esasperato. Ed eccolo che riattaccava con quella storia... peggio delle sue infinite domande quand’era piccolo. «Maledizione, Jaz, non ricominciare», sbottai, già irritato di mio. «Vai avanti da quattro mesi a ripeterlo, dammi tregua».
    Sbuffò, muovendo le mani sul volante per prendere una curva. Eravamo nel nostro quartiere adesso, quasi sotto casa. «Se lo ripeto ci sarà un motivo, no?» replicò, fermandosi al ciglio della strada quando arrivammo.
    Mi massaggiai l’occhio, scuotendo la testa. Era un caso davvero disperato... «Il motivo è che sei un idiota patentato, ecco quale», ribattei, strappandogli con mia sorpresa una piccola risata, forse un po’ amara.
    «Beh, almeno io una patente ce l’ho a differenza tua», cambiò discorso divenendo sarcastico, rigirando le mie parole per provare a fare una battuta.
    Lo guardai storto, sollevando ironico un sopracciglio. «Non faceva ridere per niente», gli tenni presente, ricavandoci un piccolo sbuffo.
    «Non volevo far ridere, infatti», disse a mo’ di spiegazione, spegnendo il motore per poi togliere le chiavi dal quadro d’accensione. Tolta la cintura di sicurezza, scese, chiudendosi dietro la portiera. Potei vedere benissimo la sua espressione imbronciata e quasi annoiata. Borbottando fra me e me lo imitai, alzandomi forse troppo in fretta e con foga. Venni colto da un capogiro che mi fece vedere puntini di luce e dovetti reggermi sul tettuccio della macchina, richiamando la sua attenzione. Sembrava guardarmi apprensivo, adesso. «Tutto okay, ‘Ka-san?» mi chiese, con il tono delicato d’un bambino. 
    Mi ritrovai a sorridere stupidamente mentre chiudevo la palpebra, così da calmare il giramento di testa e riprendermi. Ahhh, che cocco di mamma... era normale che fossi felice che lo fosse? Forse sì, dato che la mamma in questione ero io. «Solo un piccolo calo di pressione», feci tranquillo, riaprendo l’occhio per guardarmi intorno. La testa non mi girava se osservavo i dintorni, bene. E anche la vista era normale.
    «Dovresti deciderti ad andare in pensione», lo sentii dire, e alzai lo sguardo verso l’altro lato della macchina per fissarlo attentamente. Forse con un po’ di nervosismo.
    «Stai forse insinuando che sto invecchiando?» domandai, vedendolo stirare le labbra in un sorriso.
    Aggirò l’auto accostandosi a me, offrendomi il suo braccio destro come se fossi una donna bisognosa d’aiuto. «Non stai invecchiando, sei sempre stato vecchio», ribatté semplicemente, scansandosi subito dalla mia traiettoria quando mi vide pronto a colpirlo. Ridacchiando, filò in giardino, sorpassando le siepi fino a raggiungere il pianerottolo e defilarsi in casa una volta cacciate le chiavi per aprire la porta.
    Mi ritrovai a scuotere piano la testa, non potendo però evitarmi di sorridere. Quel ragazzo era capace di farmi incazzare per un nonnulla, ma poi riusciva a cavarsela sempre. E i rapidi cambiamenti d’umore che aveva, poi, erano dovuti al fatto che cercava di non pensare a ciò che era successo un po’ di tempo addietro. A quei pensieri mi accarezzai la benda, scuotendo per l’ennesima volta la testa prima di entrare in casa, trovando Jason già comodamente spaparanzato sul divano. Buste varie di patatine e bibite gassate erano un po’ dappertutto, abbandonate soprattutto sul tavolino davanti a lui. Fra quel mucchio si riusciva a scorgere persino la copertina di qualche libro. «Cos’è tutto questo macello?» domandai immediatamente, con una vaga nota stizzita.
    Lui, che si era appropriato di una lattina, mi guardò sbattendo le palpebre. «Stavo facendo uno spuntino prima che tu chiamassi», spiegò, come se fosse la cosa più semplice e banale del mondo prima che bevesse un sorso.
    Alla faccia dello spuntino, evitai di commentare, guardandolo solo di traverso. Ben sapeva che non amavo tutto quel disordine. Specie per uno spuntino, come l’aveva chiamato lui. «Muoviti a rimettere tutto a posto», quasi sbottai, liberandomi della giacca della divisa prima di lasciarla sull’altro divano, ancora indenne da quel caos.
    Sbuffando e borbottando finì la sua bibita, poggiando la lattina ormai vuota sul tavolino. Afferrò poi una busta di patatine, sgranocchiandone un po’. «Quando fai così mi sembri una casalinga isterica», disse, mangiando un’altra patatina. «Un po’ di disordine ci vuole, fa capire che ci vivono tre uomini in casa».
    Che razza di ragionamenti faceva... «Non ci voglio nemmeno discutere con te, guarda», ribattei, ritrovandomi io stesso a togliere qualcosa dal tavolino o dal divano. Arraffai anche lattine e altre buste di patatine, rimediandoci un lamento quando gli strappai di mano anche quella con cui si stava nutrendo. Mi guardò male, mettendo su il broncio. Proprio un eterno bambino, non c’era niente da fare. E se lo dicevo io che ero peggio di lui... beh, era tutto dire.
    «Quella la stavo mangiando», parve tenermi presente, corrugando le sopracciglia. Non me ne fregai più di tanto, continuando con le mie pulizie. Ne presi altre, mettendo tutto sottobraccio.
    «Metti in ordine il resto», ordinai. «E vedi di darti una mossa».
    Lo lasciai lì fra le buste e le lattine vuote, portando invece con me quelle ancora chiuse mentre sentivo i suoi strepiti e le sue lamentele seguirmi fino in cucina. Non gli diedi peso, naturalmente. Mi limitai solo a posare tutto e a richiudere la credenza, lasciandomi sfuggire uno sbadiglio. Mi sarei fatto un bel bagno caldo e poi dritto a nanna. Aye, l’idea era abbastanza allettante... però non potei pensarci oltre che un rumore sordo e improvviso mi fece trasalire, spaventandomi. Poi sentii dei passi veloci e il vago tintinnio delle chiavi. 
    «‘Ka-san, io esco!» sentii esclamare Jason, prima che la porta dell’ingresso venisse sbattuta quasi con violenza e foga. Restai senza parole, sbattendo le palpebre. Mossi qualche passo, sentendo il rombo del motore dell’auto fuori nel vialetto. Sembrava che Jason vi si fosse messo alla guida per andare chissà dove. Scossi solo la testa, avviandomi in soggiorno. Se voleva uscire bene, ma aveva messo in ordine. O almeno così sperai. Rimasi però interdetto quando entrai, non riuscendo a credere ai miei occhi. Non sapevo come diavolo aveva fatto, ma il tavolino e lampada a lato di uno dei divani erano rovesciati a terra fra le buste vuote e qualche briciola. Probabilmente era inciampato nel filo, facendo cadere tutto.
    La cosa che l’aveva fatto scappare, però, era proprio la lampada. Era abbastanza vecchia, una di quegli oggettini d’antiquariato che si pagavano un occhio della testa. L’avevo comprata perché ero sempre stato attratto da quelle cose, anche se Edward certe volte non condivideva quella mia passione dicendo che ero all’antica. A me piacevano, però, che potevo farci. Il mio sguardo che ne osservava i cocci quindi, in quel momento, avrebbe potuto incenerire chiunque se solo avesse osato parlare o muoversi. Interdetto, mi chinai a prenderne un frammento, non riuscendo a capacitarmene. Razza di...!
    «Jason, quando torni ti ammazzo!» gridai al nulla per sfogarmi, pronto a mordermi le mani. E giurai a me stesso che, se avesse rotto qualcos’altro - anche solo per sbaglio - costato un patrimonio, non l’avrebbe passata liscia. Parola di Roy Mustang!







_Note inconcludenti dell'autrice
Anche questa storia, come la precedente, è stata scritta parecchio tempo fa.
I contenuti sono rimasti gli stessi, ho giusto sistemato la punteggiatura che, lo ammetto, era tutta sballata... cose del genere capitano, purtroppo, specialmente quando passa tutto questo tempo e ci si rende davvero conto di quanto il proprio stile degli anni scorsi fosse ad un livello ancora prematuro.
Tutto ciò per dire che mi sono resa realmente conto di quanto il mio modo di scrivere, a lungo andare, sia cambiato, e questa è certamente una cosa positiva per chiunque scriva, che sia esso una fanwriter o uno scrittore.
Il fandom è abbandonato a sé stesso come quando l'ho lasciato, certo, ma ho deciso di portare a termine questa raccolta di dieci one-shot e lo farò, non importa come e non importa quanto tempo impiegherò, dovesse volerci anche un mese intero o una misera settimana.
Commenti e critiche, comunque, sono ben accetti.
Alla prossima. ♥


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