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Autore: Mary P_Stark    16/03/2012    2 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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19.
 
 
 
 
 
Conoscere Susan fu piacevole e, soprattutto, lo fu vedere il modo in cui osservava Alex, quando pensava che nessuno la stesse scrutando con uguale interesse.

Mi piaceva la forte aura di possesso che sembrava emanare al solo parlare di Alex, come mi piaceva il suo modo di fare timido, non appena mio cugino ricompariva al suo fianco

Sembrava quasi non si sentisse completamente degna delle sue attenzioni.

Era dolce e determinata al tempo stesso, spigliata nel parlare del suo lavoro, quanto apertamente soddisfatta dei traguardi fin lì raggiunti.

Non si percepiva minimamente il fatto che provenisse da una ricca famiglia di Salem, che aveva all’attivo più soldi di quanti io stessa potessi immaginare.


Anzi, il ritrovarsi nell’intimità familiare della casa di Alex, parve piacerle parecchio.

Osservò ogni fotografia appesa alle pareti, o appoggiata sulla mensola del camino del salotto, con occhi accesi di curiosità e un misto tra nostalgia e tristezza.

Quando gliene chiesi il motivo, mi disse che difficilmente, a casa sua, avrei trovato un simile sfoggio di affetto o partecipazione familiare.

Certo, a detta di Susan, i suoi genitori le volevano bene, ma non c’era l’affiatamento più che evidente che intercorreva tra i Barrett e i Patterson.

La cosa mi spiacque e, al tempo stesso, me la fece piacere ancora di più.

La mancanza di affetto poteva creare solchi profondissimi, nel cuore delle persone, ma lei era stata in grado di rafforzare il suo animo senza rimanerne schiacciata.

Grazie ad Alex, ero più che certa che le ferite che aveva nell’animo si sarebbero ben presto rimarginate, permettendole di vivere più serenamente.

La Pasqua passò allegramente, tra le gag di Lily che, come sempre, era pimpante e festosa, e le battute maliziose di Brian.

Approfittò della presenza delle due fidanzate dei fratelli per massacrarli ben bene, rischiando più volte di essere malmenato per diretta conseguenza.

Susan non smise di ridere un solo attimo, mentre Lily ribattè alle frecciate di Brian con un’arguzia e una sottigliezza davvero uniche.

Fui lieta di vederli così felici e sereni, e la loro gioia stemperò la mia tristezza fin quasi a farla sparire.

Non mi sorpresi più di tanto quando, per Pasquetta, un corriere consegnò di fronte a casa nostra un cesto di vimini.

Era ricolmo di frutta, e di tutto il necessario per un pic-nic in grande stile.

Non assunsi un’espressione costernata neppure quando lessi il biglietto del mittente.

Da quando io e Morgan avevamo preso di comune accordo la decisione di rimanere solo amici, lui se n’era uscito spesso con sorprese di quel genere.

Dopo le prime settimane di sconcerto, mi ero ormai abituata alle sue gentili premure.

Naturalmente, spiegare ai miei genitori perché il figlio di Oliver Thomson fosse così prodigo di gentilezze nei miei confronti, fu complicato.

Come sempre, Alex corse in mio aiuto, dicendo loro quanto ritenesse Morgan un bravo ragazzo e una persona affidabile.

L’argomento che, più di tutti, convinse mio padre, fu sapere che non ero la sua ragazza, ma solo una sua amica.

Il fatto che non avessi in programma di cambiare lo stato delle cose, almeno per il prossimo futuro, lo rasserenò non poco.

Ero pur sempre la sua bambina, Fenice o meno che fossi.

Come sempre facevamo ogni anno, ci recammo sulla spiaggia per il primo pic-nic dell’anno.

Forte del mio regalo, stesi sulla sabbia la tovaglia a quadrettoni bianchi e verdi che trovai all’interno del cesto, e vi deposi sopra  tutto ciò che Morgan vi aveva inserito.

Banchettammo al suono della musica degli Abba, che mia madre volle a tutti i costi.

Mentre mangiucchiavo i biscotti al miele che Morgan mi aveva regalato, sorrisi nel pensare a lui mentre, indeciso e insicuro, se ne stava di fronte al fornaio alle prese con l’annosa decisione di cosa prendermi.

Fu dolce all’inverosimile, pensare a lui in quelle vesti.

Pur ritenendomi ancora un’egoista per averlo praticamente obbligato a recitare la parte del buon amico, mi godetti pienamente il suo dono, sperando di potermi rifare quanto prima.

Non che, andando avanti, avrei avuto molto tempo, ma contavo di farcela, in qualche modo.

 

 
***
 


Alla fine, le erano occorsi quasi tre anni, ma quella laurea in Medicina Fisica e Riabilitativa  era in mano sua.

Già sei mesi prima del traguardo, era stata ammessa come tirocinante in una delle cliniche di Boston legate alla Harvard University.

Da quel giorno in poi, avrebbe lavorato come specializzanda sotto la supervisione della dottoressa Inge Rutherford.

Sapeva da altri tirocinanti, che aveva conosciuto durante gli stage, che la dottoressa Rutherford era un’autentica spina nel fianco e una vera e propria schiavista.

La cosa non turbava affatto Joy, abituata da vite intere ad aver a che fare con personaggi simili.

Era sopravvissuta all’Inquisizione Spagnola, alla Rivoluzione Francese, a due Guerre Mondiali… poteva benissimo avere a che fare con una donna dal carattere difficile.

In una calda mattina di maggio, con addosso il corto camice bianco dei tirocinanti e lo stetoscopio attorno al collo, Joy si ritrovò a fissare con aria divertita gli altri tre suoi colleghi.

Erano tesi come corde di violino, e pallidi come cenci.

Sembravano tutti in procinto di imboccare la via per la sedia elettrica e Joy, non potendo trattenersi, si esibì in un sorriso che sapeva di leggero sconcerto e fiducia in se stessa.

La più vicina a lei scosse il capo e chiosò scioccata: “Oddio, c’è una suicida nel gruppo.”

Joy si limitò a fissarla ironicamente, non trovando che il suo comportamento fosse quello tipico di un suicida.

Già sul punto di risponderle, si azzittì immediatamente, non appena la figura giunonica della dottoressa Rutherford fece la sua comparsa nella saletta d’aspetto dei medici.

Corti capelli biondo platino incorniciavano un viso dal taglio squadrato, dove brillavano gelidi due occhi azzurro cielo.

Quegli occhi inquisitori squadrarono dall’alto al basso tutti i presenti prima di puntare, simili a quelli di un falco, sul viso tranquillo di Joy.

La donna aprì la cartelletta con le loro schede didattiche e, accigliandosi leggermente, la richiuse con una mossa secca della mano prima di esordire dicendo: “Patterson, eh? Sei tu il genietto che mi ha mandato la dottoressa Edison, allora.”

Annuendo una sola volta, Joy si limitò a mormorare: “Sì, dottoressa.”

Un lento sogghigno salì sul volto militaresco della donna che, continuando a fissarla dal suo metro e ottanta di statura, attese invano che Joy calasse lo sguardo.

Imperturbabile, Joy continuò a sostenere gentilmente la sua occhiata irritata e rigida al tempo stesso.

Gli altri tirocinanti borbottarono preghiere tra di loro, attendendendo impazienti che la situazione si sbloccasse in un modo o nell’altro.

Accigliandosi in viso, la dottoressa Rutherford intrecciò le braccia possenti sul torace prosperoso e ringhiò: “Ti farò abbassare la cresta, genietto, credimi. Qui non siamo più in un’aula universitaria e, anche se i tuoi precedenti tutor hanno detto che sei naturalmente portata per la materia, a me non interessa un accidente.”

Uscendo dallo stanzino, seguita a ruota da tutti gli specializzandi, la dottoressa proseguì nel suo soliloquio galvanizzato.

“Nel mio reparto, ci ritroviamo ad affrontare persone di ogni genere e ogni età, con problemi così disparati che, sui vostri bei libri immacolati, non troverete mai. Io voglio gente capace, gente che si spezzi la schiena per quelli che dobbiamo curare e tu, bella mia, con quel tuo corpicino da fata, dubito che potrai essermi d’aiuto.”

Sollevando un sopracciglio con aria indifferente, Joy replicò: “Sapevo esattamente a cosa sarei andata incontro, venendo qui e scegliendo questa branca di studi. Non sarò un colosso come lei, ma il mio lavoro lo so fare.”

“Lo vedremo” sibilò la dottoressa, prima di fare un cenno al resto del gruppo perché la seguissero durante il loro primo giro tra i pazienti.

Accodandosi e tenendo il passo della Rutherford senza alcun problema, Joy rise tra sé per la presa di posizione della donna.

Se solo avesse saputo in quali frangenti lei aveva lavorato nel corso dei millenni, non le avrebbe mai rivolto una simile accusa.

Ma, visto che non poteva enumerare ciò che aveva fatto…

Si fermarono di fronte a un giovane sui vent’anni che, a fatica, stava trascinando un piede dietro l’altro, tenendosi a due parallele d’acciaio.

La Rutherford prese la cartella dall’infermiera e borbottò: “Elliott Briant, ventidue anni, incidente in motocicletta, con frattura multipla esposta di tibia e fibula della gamba destra. Operato otto settimane fa, con decorso ospedaliero regolare. Ha iniziato la riabilitazione motoria e funzionale due settimane fa, con risultati altalenanti.”

Con un mezzo sorriso, Elliott si fermò per lanciare uno sguardo alla dottoressa e chiosare: “Questo per dire che non sono un bravo paziente?”

La Rutherford si esibì in un rapido quanto professionale sorriso, prima di dirgli: “Voglio solo dire che ogni tanto batti la fiacca, Elliott.”

Poi, rivolto uno sguardo gelido a Joy, aggiunse: “Patterson, controlla la sua condizione fisica attuale e dimmi cosa ne pensi.”

Senza lasciarsi scoraggiare, si mosse dal gruppo di tirocinanti per avvicinarsi a Elliott che, sorridendole spontaneamente, si scostò dalle parallele per raggiungere la sua sedia a rotelle.

“Puoi farti mettere qui in pianta stabile?” le sussurrò il giovane, sorridendo.

Joy si limitò a rispondere gentilmente al sorriso, prima di tastare con mano abile il polpaccio flaccido.

Manipolò la caviglia, ancora abbastanza rigida nei movimenti, e sfiorò delicatamente il tessuto cicatriziale dove le ossa erano fuoriuscite.

Sollevando infine il viso per fissare quello di Elliott, Joy gli chiese: “Senti dolore in qualche punto specifico, dopo la terapia in palestra?”

“Su un fianco, in effetti. Dietro la schiena, all’altezza delle reni” ammise il ragazzo.

Annuendo lentamente, mentre le sue dita tastavano apparentemente a caso le piante dei piedi di Elliott, Joy domandò al ragazzo: “Te la senti di metterti in piedi e piegarti in avanti, perché possa controllarti la spina dorsale?”

“Come no!” sorrise Elliott, sollevandosi dalla sedia a rotelle per mettersi in piedi e piegarsi lentamente in avanti, dopo essersi tolto la maglietta che indossava.

La dottoressa Rutherford annuì senza dire nulla, mentre Joy controllava l’asse spinale, tastando qua e là nella zona lombare del giovane.

Al suo ‘ahi’ si fermò, annuì e accigliandosi leggermente, dichiarò: “Mi sembrava che il problema fosse questo. C’è una leggera scogliosi e, con l’urto a terra durante l’incidente, può essere stato espulso completamente, o in parte, un disco vertebrale, formando una protrusione discale o addirittura un’ernia. Consiglierei manipolazione e massaggi, oltre alla consueta sessione riabilitativa della gamba. E anche delle sessioni in vasca. Camminare in acqua lo aiuterà.”

Controllando con fare attento la cartella del giovane paziente, mentre Elliott tornava a sedersi sulla sedia a rotelle e Joy si rimetteva in mezzo al gruppo, la Rutherford sentenziò: “Diagnosi corretta, Patterson. Le ultime lastre che abbiamo fatto dimostrano che è presente una protrusione discale tra L3-L4, che va a premere lievemente sul nervo sciatico, provocando i dolori di cui soffre Elliott. Corretto il suggerimento di manipolazione e massaggi. Quale pensi sia il migliore approccio?”

“Consiglierei la Riflessologia plantare. Ha dato ottimi risultati” dichiarò senza esitazione Joy.

Un sopracciglio sollevato su due occhi colmi di curiosità, la dottoresse annuì lentamente.

“Sì, può andare.”

Scribacchiò qualcosa sulla cartella del ragazzo, e proseguì verso il paziente seguente senza dire null’altro.

A Joy non servì altro.

Non era lì per ricevere complimenti, ma solo per lavorare e fare del suo meglio per aiutare persone che soffrivano.

Che fosse per malanni fisici o mentali, poco importava, l’importante era che lei potesse essere d’aiuto.

Con il paziente seguente, la Rutherford prese di mira l’unica altra ragazza del gruppo, che si districò agevolmente sul caso, pur tenendo quasi sempre lo sguardo basso.

Quando, però, raggiunsero un apparente caso di Sindrome di Tourette1, le cose si complicarono.

La ragazza in cura pareva avere sui quindici, sedici anni e presentava dei tic nervosi piuttosto evidenti alla mano destra.

Continuava a battere senza sosta, e a ritmo controllato, contro le spalliere a cui era stata accostata per degli esercizi ginnici di base.

La cicatrice evidente al braccio sinistro dichiarava a chiare lettere perché si trovasse lì e, quando Joy ascoltò l’anamnesi letta dalla dottoressa Rutherford, il cuore pianse per il dolore.

Non si era fatta male da sola.

Era stata maltrattata dal padre a causa della sua disabilità e, dopo l’intervento dei servizi sociali, era stata condotta in clinica per essere curata sia a livello fisico che psicologico.

Persino nello sguardo della Rutherford si formò un velo di rabbia a stento trattenuta ma, quando parlò alla ragazzina – Jenna Erikson – il suo tono fu come sempre professionale e pacato.

Mentre l’infermiera che l’assisteva la faceva voltare verso di loro, la dottoressa esordì dicendo: “Ciao, Jenna. Hai visto quanti ragazzi nuovi sono venuti a trovarti?”

Il viso era pallido, incorniciato da corti capelli rosso scuro, tagliati alla paggetto.

Due occhi neri, tremanti di paura, si fissarono un momento sulla figura a lei famigliare della Rutherford, prima di passare al setaccio i volti dei tirocinanti.

Il timore era evidente nel modo in cui le sue iridi correvano da una parte all’altra della sclera, come non volendo intrecciare lo sguardo con alcuno di loro.

Come abbagliata, bloccò però ogni movimento per fissarsi su Joy, che ricambiò l’occhiata con una dolcezza quasi palpabile.

Sotto gli occhi sorpresi e sgomenti di infermiera e dottoressa, Jenna sollevò le braccia esili e si diresse verso una tranquilla e preparata Joy.

Aprendosi a lei, allargò il suo sorriso e si lasciò abbracciare goffamente dalla minuscola ragazza.

Sorprendendosi un poco della forza che, nonostante tutto, Jenna possedeva per quanto fosse magrissima, Joy assorbì il suo abbraccio senza fiatare.

Con le mani, le massaggiò la schiena fino a sentirla rilassarsi e, solo a quel punto, mormorò: “Va tutto bene, Jenna, va tutto bene.”

“Sei come il sole… come il sole…” sussurrò Jenna, affondando il viso nella sua spalla prima di ridere felice ed esclamare: “Sto abbracciando il sole!”

Vagamente preoccupata, la Rutherford fece per intervenire ma Joy scosse lentamente il capo e, rivolta a Jenna, le disse: “Ti piace il sole, Jenna?”

“Sì, lo guardo tutti i giorni.” La ragazza annuì contro di lei, sempre tenendola stretta. “Vi somigliate.”

“Grazie” sussurrò Joy, scostandosi gentilmente da lei per fissarla negli scuri occhi di pece. “Ti piace stare qui con l’infermiera… Eliza?” chiese poi Joy, dopo aver dato un veloce sguardo al cartellino della donna.

Jenna si volse indietro a sorridere alla sua infermiera,  e ammise: “Sono buoni, qui, e nessuno mi picchia. Ma mi manca il sole.”

Guardandosi intorno per un momento prima di sorridere soddisfatta, Joy scrutò la dottoressa Rutherford con una muta domanda nello sguardo.

La donna rispose affermativamente, preferendo lasciarla fare.

Soddisfatta, Joy prese per mano Jenna e le disse: “Guarda un po’ quelle belle spalliere laggiù. Sono proprio vicino alla finestra che da sul parco. Ti piacerebbe lavorare là? C’è il sole.”

Un estatico sorriso si aprì spontaneo sul volto di Jenna che, allungata la mano libera in direzione di Eliza, esclamò: “Se lavoriamo là, guarirò prima!”

“Sicuramente” annuì l’infermiera, sorridendo grata a Joy.

Facendo l’atto di ritirarsi da lei, Joy si ritrovò a guardare dubbiosa Jenna, quando la trattenne con forza.

“Non vuoi andare con Eliza?”

“Tu, però, prometti di tornare a trovarmi?” le domandò speranzosa Jenna.

“Certo. Sarò qui tutti i giorni. Io mi chiamo Joy.”

Istintivamente, le diede un buffetto sulla guancia e, nel frattempo, lasciò che un briciolo della sua magia la riscaldasse.

Jenna sorrise lieta, forse percependone il tepore, e disse: “E’ un bel nome. Ti sta bene.”

“Anche il tuo è bello, Jenna.”

La mano della ragazza si allargò, permettendole di riprendere possesso della propria.

Mentre Eliza si allontanava con una più tranquilla Jenna, la Rutherford la fissò con autentico stupore, prima di esalare: “Come diavolo hai fatto a calmarla a quel modo? Di solito, non apprezza affatto gli estranei.”

Con una scrollata di spalle, Joy le chiese per contro: “Non ha mai parlato del sole, prima?”

Scuotendo il capo, la dottoressa sospirò sconcertata.

“Non scambia mai più di qualche parola, con noi. L’unica di cui si fida veramente è Eliza, infatti l’abbiamo messa in pianta stabile con lei ma, prima di oggi, non si era mai spinta a tanto.”

Con lo sguardo, Joy tornò a fissare Jenna alle spalliere, il tic al braccio decisamente meno evidente e più controllato.

Dopo alcuni istanti di assoluto silenzio, mormorò: “Fate indossare a Eliza dei camici gialli, o anche delle maglie gialle, qualcosa che possa ricordarle il sole e, soprattutto, fatela passeggiare fuori all’aperto, perché possa sentire i raggi solari sulla pelle. Credo le faranno bene.”

La Rutherford la fissò bieca per alcuni istanti, prima di sospirare sconfitta.

“Detesto ammetterlo, ma credo tu abbia ragione. Visto che è saltato fuori questo particolare apparentemente rilevante, tanto vale sfruttarlo e vedere dove ci porta. Te la affido. D’ora in poi ti prenderai cura di Jenna. Pensi di farcela, genietto?”

Joy non si lasciò andare a moti di rabbia, di fronte all’aperto nervosismo della dottoressa.

Limitandosi a sorridere serafica, annuì. “Sarò il suo sole personale.”

“Ah!” esclamò disgustata la Rutherford, prima di allontanarsi in direzione di un altro paziente.

Rimasta indietro mentre gli altri tirocinanti la seguivano come cagnolini ammaestrati, la collega Miriam Moralez le sorrise complice e sussurrò: “Sei stata bravissima.”

“Fortuna” si sminuì Joy, preferendo non dire quanto, Jenna, avesse visto più dei comuni umani che la circondavano.

Spesso i  savant2,  gli autistici o i Tourette, potevano squarciare il velo sottile che ricopriva i segreti del mondo, scorgendo ciò che i cosiddetti ‘normodotati’ non erano in grado di cogliere.

Jenna lo aveva fatto con sorprendente facilità vedendo il lei il sole, il suo simbolo, la sua fonte di energia, la sua matrice di vita.

Sarebbe stato un piacere lavorare con lei, finché avesse potuto.

Per quanto le sarebbe stato concesso di fare, Joy l’avrebbe aiutata a crearsi dei punti fermi con cui proseguire al meglio delle sue possibilità quella vita già tanto difficile.

 
***

Sdraiata sul suo lettuccio, nel microscopico monolocale nel quale abitava da quando aveva lasciato Harvard, Joy si coprì il viso con un braccio, infastidita dalla poca luce proveniente dal lampadario.

Sul tavolino che si trovava nell’angolo cottura, i resti del take away del ristorante cinese erano vuoti, le bacchette infilate in una delle scatole del pollo in agrodolce.

Una singola bottiglia d’acqua Yosemite se ne stava solitaria sul comodino, mezza vuota, mentre le dolci note di Claire de Lune di Debussy galleggiavano nell’aria.

Il locale era ben tenuto, pulito, ma privo di orpelli o di rifiniture di pregio, però a Joy non interessava.

Parte dell’affitto veniva pagato dai suoi genitori, visto che la sua paga da praticante era alquanto misera.

Non voleva gravare sull’economia famigliare, desiderando qualcosa di più elegante o di più grande.

Era da sola, non aveva alcuna intenzione di intrattenere persone all’interno del monolocale e lo spazio vitale era sufficiente.

Inoltre, le altre persone presenti nella palazzina erano tutte educate e carine, perciò le stava benissimo stare lì.

La linea dell’autobus la portava direttamente in clinica, senza dover essere costretta a prendere delle coincidenze e, di notte, la metro la portava a un solo isolato da casa.

Il meglio che si potesse ottenere.

Inoltre, non avendo la necessità di essere accompagnata fino alla porta di casa, non le importava di girare per Boston da sola, alla luce dei lampioni.

Certo, suo padre non era stato della stessa idea, quando gli aveva detto in che posto aveva trovato l’appartamento.

Era servito tutto il suo impegno per fargli capire che, in quanto Fenice, difficilmente avrebbero potuto farle del male.

A meno di non tirarle addosso una bomba atomica, il che era praticamente impossibile, nessuno avrebbe potuto farle nulla.

Il fatto di poter essere onesta con la sua famiglia era un sollievo, per lei, cosa che però non poteva fare con Morgan.

Non appena il giovane aveva controllato su internet la distanza che la separava dall’ospedale, era dato in escandescenze.

Joy era stata costretta a tenere il cellulare lontano dall’orecchio per cinque minuti buoni mentre il giovane le elencava, e con dovizia di particolari, tutto quello che avrebbe potuto succederle durante il viaggio da casa all’ospedale.

Per tutto il tempo, lei aveva sorriso deliziata, sentendosi stupida nel farlo ma provando un piacevole tepore nel petto, nel sentirlo così preoccupato per lei.

Alla fine della sfuriata, gli aveva semplicemente detto che, durante quegli spostamenti, non era mai da sola.

Gli aveva raccontato che un altro dottore abitava in zona, che facevano gli stessi turni per andare in clinica e che, perciò, aveva sempre le spalle coperte.

Non era vero ma, per tenerlo buono, era bastato fargli sapere che non era sola.

L’idea che il dottore da lei accennato fosse un maschio, non gli aveva fatto particolarmente piacere, nei primi momenti.

In seguito, però, si era dichiarato soddisfatto, perché sicuramente un uomo avrebbe dato più filo da torcere a eventuali malviventi, piuttosto che una coppia di ragazzine.

Un vero discorso da amico.

Amico che, in quel momento, fece trillare il suo cellulare, risvegliandola dal torpore in cui era caduta.

Allungata una mano per afferrare il telefonino, lo portò all’orecchio dopo averlo aperto e bofonchiò: “Pronto…”
“Ehi, dove sei? Nella bocca dell’inferno? Ruthi ti ha malmenata, oggi?”

‘Ruthi’ era il nomignolo che Morgan aveva dato alla dottoressa Rutherford, la prima volta che Joy gliene aveva parlato.

Da quel momento, per la ragazza era diventata un’autentica impresa non scoppiarle a ridere in faccia tutte le volte che la vedeva.

Quel nome, canticchiato al telefono con ironia dalla voce stonata di Morgan, le balzava alla mente ogni volta che quel viso arcigno le si parava innanzi.

Non sghignazzare era diventata un’autentica sfida, per lei.

Un sorriso spontaneo le salì al volto nel sentirgliela nominare e, voltandosi su un fianco mentre il cd passava alla Suite Ceca di Dvořák, Joy esalò: “Oggi mi ha fatto vedere i sorci verdi, per intenderci. Siamo state sul punto di venire alle mani e, vista la stazza, ne sarei uscita sconfitta e malconcia.”

“Tu sei più veloce” le ricordò Morgan, ridacchiando, prima di chiederle più seriamente: “Cos’è successo?”

“Voleva che Jenna lavorasse lontano dalle finestre, perché si abituasse anche a luoghi meno piacevoli, e io mi sono rifiutata di farlo. Lei si è infuriata, io mi sono infuriata…”

Con un sospiro, Joy si massaggiò in mezzo alla fronte, dove un principio di emicrania stava minacciando di esplodere con la potenza di un missile balistico.

“Com’è finita?”

“Jenna si è arpionata a me, piangendo come una fontana. Mi ci sono volute due ore per calmarla e, alla fine, il tic al braccio è ripreso come un forsennato. La Rutherford non se ne è voluta prendere il merito, per così dire. Sono stata con lei in camera finché non si è addormentata, e poi sono venuta a casa.”

Un altro sospiro, molto più profondo e stanco del precedente.

“Quante ore hai fatto, oggi?” le chiese gentilmente Morgan.

“Diciotto, credo. No, diciannove” bofonchiò Joy, guardando arcigna la sveglia sul comodino. “Devo rimontare domattina alle cinque.”

“Oh, cacchio! Il fuso! L’ho dimenticato! Diavolo…lì, che ore sono?” esalò spiacente Morgan.

“Le ventitré e venti, ma non ti preoccupare, tanto ero sveglia” ci tenne a dire Joy, sorridendo debolmente.

“Vuoi che ti canti la ninna nanna?” le propose lui, con un risolino.

“Avrei gli incubi, Morgan. Sai di essere stonato come una campana. E la cosa mi lascia interdetta, visto che hai una bella voce” borbottò Joy, rigirandosi nel letto.

Il fruscio delle lenzuola giunse fino alle orecchie di Morgan che, abbassando di un’ottava il tono di voce, le sussurrò: “Prima mi fai i complimenti sulla voce, e poi ti muovi languida nel letto? Tu hai intenzione di uccidermi, piccola.”

Joy ridacchiò, limitandosi a dire: “Lungi da me. Non ti voglio morto, per nessun motivo al mondo.”

“E’ confortante saperlo. Quindi, non ti incazzerai se ti dico che resterò a casa per un mese con un braccio ingessato” le buttò lì Morgan, con indifferenza.

Balzando a sedere sul letto, gli occhi sgranati e il viso teso in una smorfia di disappunto, Joy esclamò: “Che diavolo ti è successo?!”

“Piano, piccola! Il mio timpano vorrei mantenerlo integro!” si lagnò Morgan.

“Scusa…” si affrettò a dire Joy, prima di chiedergli ancora: “Allora, vuoi dirmi che hai combinato?”

“Sono stato troppo focoso durante un intervento in un palazzo” ridacchiò lui.

“Ah-ah. Un pompiere focoso. Carina, questa. Ritenta, sarai più fortunato” brontolò Joy, accigliandosi.

“Un trave mi è caduto addosso, spezzandomi ulna e radio. Frattura composta, non esposta, quattro settimane di gesso più sei mesi di riabilitazione. Ti va bene, così?” le spiegò allora Morgan, con tono più serio.

“Anamnesi perfetta, grazie” rispose lei, prima di aggiungere: “Ti fa molto male?”

“E’ solo scomodo farsi il bagno e vestirsi, ma mia madre viene a darmi una mano, ogni tanto, così mi arrangio” le spiegò con tono noncurante.

“E tuo padre?” gli chiese gentilmente la ragazza, notando con quanta attenzione avesse evitato di menzionarlo.

Uno sbuffo infastidito le giunse all’orecchio, prima che Morgan le dicesse: “E’ incavolato marcio perché ti ho menzionata durante un pranzo domenicale. Pare furioso all’idea che io e te siamo amici, e continua a dirmi che mi caccerò in guai seri se continuerò su questa strada, perché tu non sei quel che sembri, e bla bla bla. Insomma, una cosa così.”

Come dar torto al Professor Thomson?

In fondo, aveva ragione da vendere, ma pensava di lei le cose sbagliate.

Di sicuro, su tutta la terra, nessuno meno di lei avrebbe recato danno a Morgan, tutt’altro!

Ma come farglielo capire, come tranquillizzarlo senza mettere a nudo la sua natura di fronte a lui, visto ciò che voleva fare del suo segreto?

“E tu gli credi? Pensi che io sia un pericolo per te?” volle sapere lei.

Morgan lanciò un’imprecazione davvero degna di nota prima di sbatterle il telefono in faccia e Joy, fissando con un mezzo sorriso il cellulare ormai muto, ridacchiò e disse: “Era un no?”

Il plin plon di un sms la fece sobbalzare e, aprendolo con curiosità, Joy sorrise benevolmente quando lesse ‘6 1 scema se lo pensi. ‘notte’

 
***
 
Starsene sdraiato sul divano di casa sua ad ammirare le travature della baita, era quanto di più noioso, antipatico e inconcludente vi potesse essere.

A conti fatti, però, nonostante fosse piena estate e potesse andarsene a fare un giro per il centro città giusto per sgranchirsi le gambe, la voglia non veniva.

Specialmente, dopo la telefonata fatta a Joy.

Possibile che credesse che lui desse retta alle storielle del padre?

Quella domanda lo aveva fatto davvero sbarellare ma, in fondo, come poteva darle torto fino in fondo, visto che lui aveva in parte il suo DNA?

L’uomo che la ossessionava da anni, volto a scoprire la sua reale identità, era suo padre, e questo nessuno dei due poteva dimenticarlo.

Non avrebbe dovuto prendersela tanto con lei, per quella domanda. E, soprattutto, non avrebbe dovuto darle della scema.

Ma, ormai, l’sms era partito.

Fissando bieco il cellulare che teneva nella mano sana, Morgan sobbalzò di sorpresa quando il telefonino reclamò la sua attenzione per comunicargli che era arrivato un messaggino.

Lesto, aprì lo sportello nero del cellulare e scrutò l’sms, leggendo divertito: “Scemo sarai tu. E poi, bastava dire no. ‘notte.”

La faccina sorridente alla fine del messaggio lo rincuorò non poco.

Era davvero messo bene.

Non faceva sesso praticamente da quando aveva conosciuto Joy, e non  aveva più baciato nessuna ragazza se non lei.

A incorniciare quel quadro di assoluta perfezione, era contento come una Pasqua perché lei non si era arrabbiata per il tono del suo messaggio.

Tutto quello poteva voler dire una sola cosa, e a lui stava più che bene, a quanto pareva.

Era innamorato perso di lei, di ogni suo difetto come di ogni suo pregio e, pur odiando la distanza che li separava, lui godeva di ogni momento passato con lei a parlare al cellulare.

Neppure in cento anni, avrebbe trovato un’altra ragazza capace di ridurlo in quello stato e, al contempo, di farlo sentire appagato per essersi ridotto così.

Sì, era davvero messo bene.

“Morrrr-gan! Morrr-gan!” trillò allegro Monet dalla sua gabbia, aprendo le ali bianche per attirare la sua attenzione.

Ridacchiando, il giovane si levò in piedi per raggiungerlo, aprì lo sportello di metallo e, con la mano sana, lo fece uscire per poi poggiarselo su una spalla.

Lì, il cacatua lo accarezzò alla guancia con il becco.

“Ti va di fare un volo in giro, amico?” gli propose lui.

Monet non se lo fece ripetere due volte e, con una leggera spinta sulla spalla di Morgan, cominciò a gironzolare per l’enorme open space della baita dove abitava da almeno un paio d’anni.

Tutto, in quel luogo, rispecchiava i gusti del giovane, dai suoi quadri di ambientazione campestre, allo stile country della cucina e dei divani del soggiorno.

Larghi tappeti messicani ricoprivano il pavimento in travi di legno, mentre statuine del mesoamerica riposavano su ripiani lignei appesi ai muri.

Due enormi pale da soffitto mantenevano fresco l’ambiente nelle giornate più calde, permettendo a Monet di giocare con le correnti d’aria discensionali che creavano all’interno della stanza.

Fermo ad ammirarlo mentre volteggiava leggero come una piuma, Morgan non poté far altro che sperare che, prima o poi, la paura atavica di Joy si disgregasse.

Era più che certo che, anche dentro di lei, albergasse un sentimento in tutto simile al suo.

Il bacio che li aveva quasi fatti separare era stato rivelatore e, di certo, lui non se lo sarebbe mai dimenticato.

Sarebbe comunque rimasto nel suo cuore per sempre, a imperitura memoria di ciò che aveva provato in quel momento.

Aperto lo sportello del frigorifero, Morgan estrasse una birra e, sollevatala come per fare un brindisi in onore di Joy, mormorò a mezza voce: “Vale la pena starsene in casa a guardare un pennuto che svolazza libero se il premio, alla fine, sarai tu, Joy Patterson.”



 
***


 
Fu in una mattina di settembre, quando ancora mi stavo riprendendo dal turno di notte in ospedale, che giunse una telefonata che mi sconvolse.

In positivo.

Stephen e Lily avevano deciso la data del matrimonio.

Visto che Lily non aveva una sorella, o un’amica così fidata cui affidarle il ruolo di damigella d’onore, chiese a me di esserla.

Non solo la notizia mi diede una gioia infinita, ma mi risvegliò dal mio stato di apparente catalessi.

Chiesi perciò a Lily ogni particolare sulla cerimonia, che si sarebbe tenuta da lì a dieci mesi, il dodici giugno.

Con non poca sorpresa, venni a sapere che, visto che entrambi loro lavoravano nei pressi di Portland, avrebbero preso casa nelle vicinanze, lasciando Lincoln City.

Sapevo che, prima o poi, avrebbe potuto succedere – erano entrambi dei bravi architetti – ma, in ogni caso, sentii una stretta al petto, alla notizia.

Pur essendo felice per le motivazioni che li spingevano a trasferirsi, mi spiacque pensare che avrei avuto meno occasioni ancora per vederli.

Lily mi disse che la cerimonia si sarebbe svolta in modo molto tradizionale, senza eventi eclatanti o ampollossi.

Il rinfresco si sarebbe tenuto all’aperto, nel giardino di casa Barrett, circondati da miriadi di fiori e sotto bellissimi percolati da cui sarebbero scesi, a cascata, bellissimi glicini rosa.

La sola idea mi eccitò al punto tale da chiederle se avesse già deciso quale abito indossare, e quale avrebbe fatto mettere a noi damigelle.

In breve, passammo quasi un’ora a discutere di organze, pizzi, nastri di seta, scarpe col tacco e senza laccetto alla caviglia… chi ci avesse ascoltate, sarebbe sicuramente impazzito.

Alla fine della telefonata, eccitata da quella notizia e all’idea di partecipare per la prima volta a un matrimonio, mi ritrovai a piangere.

Mi resi conto che, in quella nuova esistenza, stavo vivendo un sacco di esperienze che mai, prima di allora, avevo vissuto.

Nelle mie precedenti vite, mi ero sempre allontanata piuttosto presto dalle case in cui, per necessità, avevo dovuto vivere nei primi anni di vita.

Vuoi perché le mode del tempo prevedevano così, vuoi per necessità di altro genere.

Quella era la prima volta in cui mi veniva chiesto di fare da damigella d’onore, o di partecipare a un matrimonio di un membro della mia famiglia.

Perché loro, per quanto fossero tutti umani, erano la mia vera famiglia. La mia prima, vera famiglia.
 
 




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1 Sindrome di Tourette: è un disordine neurologico ad esordio nell'infanzia, caratterizzato dalla presenza di tic motori e fonatori incostanti, talvolta fugaci, altre volte cronici, la cui gravità può variare da estremamente lievi a invalidanti.
2 Savant: si intende un individuo che presenta una o più capacità super sviluppate in concomitanza con un certo grado di ritardo mentale.


 
  
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