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Autore: Angel666    16/03/2012    2 recensioni
“E’ solo un gioco per te?” chiese lei.
“Esatto. Non è nient’altro che una partita; e io sono disposto a tutto pur di vincerla.”
Il caso del Serial Killer di Los Angeles raccontato dal punto di vista di un ostaggio molto speciale. Cosa lega la ragazza all'assassino? Quali piani ha in mente per lei? Quando giochi in nome della giustizia si trovano sempre pedine sacrificabili, l'importante è conoscere le regole del gioco e non venire eliminati. Please R&R!
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, Beyond Birthday, L
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Quando riprese i sensi si accorse che la luce era cambiata: doveva essere pomeriggio inoltrato.
Era ancora legata con le braccia sopra la testa, e cominciavano a farle parecchio male per via della circolazione intorpidita.
Tese l’orecchio per cogliere la presenza dell’aggressore, ma si accorse di essere completamente sola.
“Aiuto!!! C’è qualcuno che riesce a sentirmi?” sbatté le manette con forza sul tubo di ferro, urlando con quanto fiato avesse in gola.
Anche se il magazzino sembrava abbandonato, riusciva a cogliere dei rumori dalla strada. Non era in un luogo isolato, forse l’avrebbero sentita.
Ma più urlava, più si rendeva conto che nessuno sarebbe venuto a salvarla. Era abbandonata a se stessa, come sempre del resto.
Presto si stancò di gridare e fare rumore. Lacrime di frustrazione  le rigarono le guance. Si sentiva svuotata, impotente.
In quel momento si accorse della telecamera posata sul cavalletto proprio davanti a lei. La luce rossa era accesa: stava registrando.
Quel pazzo maniaco voleva anche riprendere le sue vittime!
Guardò dritta nell’obiettivo con aria di sfida: si sarebbe piegata a lui , ma non si sarebbe mai fatta spezzare, qualunque fosse stato il suo gioco.
Dopo un po’ il rumore della porta sbattuta annunciò il suo rientro.
Rumer era pronta davvero a tutto, tranne a quello che gli si presentò davanti agli occhi.*
Capelli neri.
Una maglia a tinta unita, jeans scoloriti.
Era un ragazzo giovane. La fissava con gli occhi cerchiati di nero, come un panda.
Snello, doveva essere piuttosto alto, ma la sua schiena era curva e sbirciava la sua prigioniera dal basso verso l’alto. Non era un bel tipo, al contrario: aveva un aspetto così inquietante e deviato che Rumer si chiese perché non si fosse ancora suicidato.
Non appena lui si accorse che era sveglia fece un sorriso malvagio, che le mise i brividi.
In una mano aveva una ciotola colma d’acqua e nell’altra un barattolo con dentro una sostanza gelatinosa rossa, probabilmente marmellata.
Sembrava piuttosto gracile, eppure Rumer si ricordava perfettamente con quanta forza l’aveva afferrata e sbattuta conto il muro, fino a farle perdere i sensi.
Il ragazzo poggiò la ciotola e il barattolo a terra, prima di alzarsi sulle punte dei piedi e afferrarle i polsi.
Per un secondo si trovarono faccia a faccia, tanto che lei poté sentire il suo alito dolciastro invaderle le narici.
“Se provi anche solo a fare una mossa azzardata ti ammazzo.” le sussurrò con tono disinteressato; eppure la minaccia risultò piuttosto convincente.
Prese le manette e trascinò la ragazza fino al muro opposto all’ingresso legandola lì, con le braccia dietro la schiena, dopo di che le avvicinò la ciotola con l’acqua.
Lei lo guardò con un misto tra sfida e disgusto: non si sarebbe mai abbassata a bere come un cane, nonostante ogni fibra del suo corpo reclamasse quel liquido fresco.
Lui non si fece troppi problemi, le afferrò per i capelli con forza e la strattonò verso la ciotola, fermando il suo viso ad un pelo dalla superficie.
“Credo che dovremmo imparare ad andare d’accordo in fretta, visto che passeremo insieme un bel po’ di tempo. Hai bisogno di bere, altrimenti rischi la disidratazione, e mi servi viva al momento. Lo sanno tutti che un ostaggio morto non vale a nulla.”
La presa nei suoi capelli era ferrea: sentiva il cuoio capelluto tirato al massimo, eppure non la stava spingendo verso l’acqua, voleva che fosse lei ad abbassarsi a tanto, di sua iniziativa.
“Bevi.” Ordinò.
Rumer ricacciò indietro le lacrime di frustrazione. Si abbassò leggermente e non appena le sue labbra si infransero sulla superficie fresca, scordò completamente l’orgoglio e bevve avidamente, fin quasi a strozzarsi. Succhiò più acqua che poté, mentre le punte dei capelli si attaccavano alle guance. Quando ebbe finito il ragazzo la lasciò andare soddisfatto, accovacciandosi davanti a lei e prendendo il barattolo di marmellata.
Non appena Rumer lo vide seduto in quella strana posizione, i ricordi la investirono di colpo, e iniziò a provare un forte senso di nausea. Scacciò via quei pensieri dalla testa e si concentrò nuovamente sul ragazzo, che intanto aveva aperto il barattolo e mangiava direttamente con le dita portandosi quella sostanza rossa alle labbra come se niente fosse, lasciandola esterrefatta.
La fissava come si fissa un quadro interessante. Ogni tanto i suoi occhi cremisi si spostavano su un punto imprecisato sopra la sua testa.
“Dimmi Rumer, hai mai sentito parlare di L?” chiese con tono indifferente.
La domanda spiazzò leggermente la ragazza “Il detective?”
Lui annuì.
“Tutti ne hanno sentito parlare.” Rumer non era una di quelle persone che leggevano assiduamente i giornali o guardavano sempre i notiziari in tv. Il mondo era già abbastanza deprimente senza che qualcuno glielo ricordasse ogni ora del giorno; ma L era un personaggio talmente noto da sfiorare la leggenda.
“E cosa sai di lui?” continuò.
Ma dove diavolo voleva andare a parare?
“Non molto. Dubito che qualcuno sappia davvero qualcosa sul suo conto, ammesso che esista veramente questo L.”
Questo parve accendere l’interesse del ragazzo “Che cosa intendi dire?”
“Che trovo molto difficile credere nell’esistenza di un singolo uomo così dotato, tanto da governare l’intera polizia mondiale e da risolvere qualsiasi caso gli venga sottoposto.”
“Quindi tu non credi nell’esistenza di persone, come dire, con un quoziente intellettivo superiore alla media?”
Quella conversazione la stava mettendo a disagio: si sentiva come a scuola durante un’interrogazione di cui non ci si ricorda la materia.
“Si…credo nell’esistenza di persone geniali, ma uno da solo non può essere in grado di fare così tanto. E poi mi spaventa il fatto che un singolo individuo abbia tutto questo potere. Magari L è solo una facciata e dietro esiste una specie di organizzazione segreta.”
Il ragazzo annuì, leccandosi un lungo dito tinto di rosso.
“Teoria interessante, ma errata. L, il più grande detective del mondo, esiste davvero ed è un unico uomo.”
Era inutile discutere con un pazzo, così Rumer decise di assecondarlo. “Capisco. E dimmi, per caso lo conosci personalmente?” chiese con sarcasmo.
“Si.” Rispose lui, tranquillo.
La cosa la spiazzò completamente. “Allora non è bravo come dicono se ha lasciato in libertà un individuo come te.” Sputò con veleno.
Lui sorrise divertito “Permettimi di raccontarti una storia, Rumer. Forse alla fine tutta la situazione in cui ti trovi ti risulterà più chiara.” Disse con calma.
La ragazza lo guardò con occhi sgranati. Improvvisamente non era più tanto sicura di volerlo stare a sentire, ma non aveva altra scelta che stare lì seduta.
 
“Questa storia inizia molto tempo fa nella lontana Inghilterra. Il nostro piccolo eroe è un bambino di soli 8 anni. Passa molto tempo in solitudine e non sembra essere capito da quelli che lo circondano: questo perché è una persona molto speciale. Ha un’intelligenza superiore alla norma, e presto attira l’attenzione di un uomo piuttosto importante.
In seguito ad un tragico incidente il piccolo viene preso sotto l’ala di un geniale inventore e benefattore, che avendo notato il suo enorme talento, è subito tentato di sfruttare questo potenziale per realizzare il suo progetto più grande: combattere il male nel mondo e far trionfare la giustizia.
Un sogno piuttosto utopico a ben pensarci, che però sembra prendere forma proprio grazie alle doti di questo bambino.
Molto presto l’inventore si accorge che una sola persona non è abbastanza per i propri scopi, perché se mai gli dovesse accadergli qualcosa tutti i sforzi andrebbero in fumo.
Così decide di crearne una copia.
Grazie agli enormi capitali ricavati dai suoi brevetti, apre una scuola speciale dove poter allevare piccoli geni provenienti da tutto il mondo. Questa scuola oltre che insegnare materie particolari come criminologia e fisica meccanica, ha come vero scopo trovare il degno sostituto della sua migliore invenzione.
Tuttavia creare la copia di una persona non è facile come inventare un oggetto, così il nostro benefattore è costretto a procedere per tentativi.
I bambini che vengono selezionati devono avere tutti un quoziente intellettivo sopra la media; devono essere orfani, in modo da non avere legami con nessuno e potersi concentrare solo sul loro obiettivo; e soprattutto non sanno nulla l’uno dell’altro.
Vengono privati di tutto, perfino dei loro stessi nomi, come fossero automi.
Ognuno cresce all’ombra del suo mito, senza sapere nulla di lui in realtà; senza averlo mai incontrato neppure una volta.
Non c’è da stupirsi se alcuni di loro non riescono a sopportare il peso di questa responsabilità, in fondo stiamo parlando di bambini, anche se geniali.
All’inizio vengono considerati semplici prototipi, il loro fallimento è dato per scontato, nel nome di un bene più grande.
Alcuni di loro si tolgono la vita, altri impazziscono, altri ancora vengono semplicemente scartati.
Non esiste altro all’infuori di Lui: per ognuno è un incubo e un’ossessione; il centro di tutto l’universo.
All’interno di questa scuola poi gli studenti vengono costantemente valutati in base a frequenti test che servono a stilare una graduatoria. Puoi immaginare la terribile competizione che si viene a creare tra di loro, il cui unico scopo è quello di piazzarsi ai primi posti.
Ebbene, tra tutti io ero il secondo: quello che avrebbe dovuto sostituire il grande L in persona.”
Rumer aveva intuito fin dall’inizio dove sarebbe giunto quel discorso, ma sentirsi dire che davanti a lei c’era colui che avrebbe dovuto sostituire L, fu peggio che ricevere un pugno allo stomaco.
Quella storia era agghiacciante: non poteva credere che qualcuno avrebbe approfittato in quel modo di bambini!
Eppure lei stessa aveva vissuto in un orfanotrofio da piccola, sapeva bene che gli adulti non si fanno scrupoli davanti a nessuno.
Nonostante questo sentiva il sudore freddo colarle lungo la schiena. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e aspettare la parte che avrebbe riguardato lei.
Il ragazzo, che era sempre rimasto accovacciato in quella strana posizione, aveva parlato in modo disinteressato per tutto il tempo, con gli occhi persi nel vuoto, come se la cosa non lo riguardasse minimamente. Solo l’ultima frase sembrò riscuoterlo dai suoi pensieri.
“Non trovi ingiusto che sia stato fatto tutto questo in nome di una così detta giustizia? Ci è stato tolto tutto, per una causa che non abbiamo mai neppure chiesto. Abbiamo passato la nostra infanzia ad idolatrare un uomo che non abbiamo mai conosciuto, con il solo scopo di sostituirlo. Siamo stati sfruttati.
Ma rimpiazzarlo per me non è abbastanza, no! Non dopo tutto quello che ho dato. Non mi nasconderò dietro la sua lettera a fare finta di niente; non dopo la morte di A.”
La sua voce adesso era più tagliente di una lama, mentre continuava a scrutarla con quegli occhi rossi colmi di rabbia e follia. “ Io supererò L! Dimostrerò al mondo che sono molto di una semplice copia; ma per farlo ho bisogno di eliminare l’originale, mi capisci? E per sconfiggere il tuo nemico devi prima conoscerlo. Ed è qui che entri in gioco tu.” Si portò con calma un dito alle labbra e leccò via tutta la marmellata.
“Dimmelo. Dimmi cosa c’entro io in tutta questa storia.” Sussurrò la ragazza con voce strozzata dalla paura.
Lui la guardò per un lungo istante negli occhi, senza dire niente; quando emise la sua sentenza Rumer si sentì schiacciare dal peso di quell’affermazione.
“L è tuo fratello.”
 
Incredulità, rabbia e rifiuto. Tutte queste emozioni la investirono nello stesso momento. “No. No, no, no, non è vero! Stai mentendo. Io non ce l’ho nemmeno un fratello.” Scuoteva la testa con forza, come per scacciare via le sue parole.
“Si che ce l’hai. Ho impiegato 5 anni a trovarti. Non saresti qui se non fossi sicuro al 100% di quello che sto dicendo.” Disse lui con calma.
“Sei un bugiardo!” urlò con tutto il fiato che aveva, mentre lacrime bollenti le solcavano le guance.
L suo fratello? Il cervello si rifiutava di assimilare un’informazione simile. Accettarlo sarebbe stato come ammettere che suo fratello era il più famoso detective del mondo. Che non solo era ricco sfondato mentre lei spesso viveva per strada senza saper mettere insieme il pranzo con la cena; ma che in tutti quegli anni lui avesse sempre saputo dove lei si trovasse, senza averla mai contatta neppure una volta. Sarebbe stato come ammettere che lui l’aveva rinnegata completamente, venendo meno alla promessa che le aveva fatto anni prima. Questo lei semplicemente non poteva accettarlo.
“Sei libera di non credermi se preferisci, ma sappiamo tutti e due che non avrei alcun motivo di mentirti. So che eri molto piccola quando siete stati divisi, ma non puoi non ricordarti che già allora lui aveva delle singolari peculiarità.”
“Come fai a saperlo? Come hai fatto a trovarmi?” ringhiò.
“Ho letto il suo fascicolo il giorno stesso in cui sono scappato dalla Wammy’s House. Sono quasi sicuro che appena l’hanno scoperto lo abbiano distrutto. Ammetto che non è stato facile da reperire, ma in un certo senso sono stato istruito in modo da superare tutti i miei obbiettivi. Lì, oltre a molte informazioni interessanti, era riportata l’esistenza di sua sorella, dalla quale era stato diviso anni prima. Così mi sono messo sulle tue tracce. Che razza di detective sarei se non riuscissi a trovare una ragazzina?” chiese ingenuamente. “Ammetto che all’inizio io stesso ho fatto fatica a credere che fossi davvero tu. Possibile che la sorella dell’uomo più intelligente della terra fosse una stupida ragazza col vizio di bere, senza uno straccio di diploma, e neppure in grado di tenersi un lavoro decente per un mese di fila? Difficile a immaginarsi.”
Rumer sentì la rabbia montarle nel petto; come si permetteva quel pazzo maniaco a sparare sentenze su di lei?
“Tu…non ti permettere di giudicarmi! Non mi conosci nemmeno.” Urlò.
“Ti sbagli. Ti ho detto che sono cinque anni che sto preparando la mia vendetta, e sarei uno sciocco se non conoscessi alla perfezione ogni minimo dettaglio del mio piano. Conosco ogni tua più piccola abitudine: so come trascorri le giornate, so qual è il tuo cibo preferito, la marca del tuo shampoo, dove compri gli alcolici scadenti e le tue sigarette. So che non hai nessun amico, perché non stai ferma più di sei mesi in un posto. So che quando sei nervosa ti stendi su un prato e che ti piace suonare la chitarra. So tutto di te, meglio di quanto tu possa immaginare.”
Era vero: quell’essere inquietante l’aveva studiata in ogni singolo dettaglio, in modo maniacale.
“E sentiamo, quale sarebbe il mio scopo nel tuo piano?” in realtà non le interessava molto, era come svuotata; eppure si sentì in diritto di doverglielo chiedere, dopo tutti gli sforzi che lui aveva fatto per prenderla.
“Secondo i miei calcoli dovrai restare rinchiusa qui ancora per un po’, a tenermi compagnia. Sarai il mio ‘Gran Finale’. La vedi quella telecamera lì giù?” disse indicando dietro di sé. “ Ogni giorno manderò un nastro al LAPD, indirizzato ad L. Voglio che il tuo caro fratellino sappia che sono in grado di trattare bene una signora. Tu non dovrai fare altro che stare buona e fare quello che ti dico.”
“Che intenzioni hai?” chiese lei impaurita.
“Lo vedrai Rumer. Se ti svelassi tutto adesso dove sarebbe il divertimento?” scoppiò a ridere in modo isterico e forzato. “Ma non illuderti, nessuno verrà qui a salvarti prima che io l’abbia stabilito. Non dimenticarti che so esattamente come ragiona L, e quindi so anche quando deciderà di entrare in azione, sebbene c’è in gioco la vita della sua stessa sorella. Quando giochi in nome della giustizia si trovano sempre pedine sacrificabili. Io voglio solo ripagarlo con la stessa moneta.”
Si alzò, pulendosi le mani sporche sui jeans, e si diresse verso la porta, lasciando la ragazza legata a terra.
“E’ solo un gioco per te?” chiese lei.
“Esatto. Non è nient’altro che una partita; e io sono disposto a tutto pur di vincerla.”
Rumer si accucciò contro la parete e finalmente permise alle lacrime di annebbiarle la vista.
 
 
 
Da  piccola ero solita trascorrere i pomeriggi dopo la scuola nel piccolo parco giochi che avevamo vicino casa. Era un semplice prato in realtà, con due altalene rotte, uno scivolo arrugginito e un girello che non aveva mai svolto il suo compito. Ma a me sembrava il paradiso. La mamma si sedeva su una delle panchine a chiacchierare con le sue amiche, mentre io e mio fratello giocavamo in disparte.
Ricordo che agli altri bambini non piaceva mio fratello; erano intimoriti dalla sua strana figura, ma allora io ero troppo piccola per farmi domande. Se loro lo deridevano per il suo corpo gracile e lievemente ingobbito, ci pensavo io a tenergli compagnia, perché per me mio fratello era la persona più speciale del mondo. Ancora oggi, se penso a lui, lo immagino appollaiato su quell’altalena, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre si rosicchia l’unghia del pollice.
A quei tempi ero una bambina allegra e vivace, sempre circondata da un sacco di persone: per me era estremamente facile fare amicizia. Lui al contrario, avevo solo me. Non si trovava bene con gli altri bambini della sua età, diceva che non sapeva di cosa parlare con loro. Come se un bambino dovesse parlare, pensavo io, troppo presa dai miei giochi infantili.
Il giorno in cui ci divisero è ancora marchiato a fuoco nella mia mente, come il peggiore degli incubi. Perché quello è stato il giorno in cui morirono i nostri genitori e la mia vita cambiò completamente.
Avevo cinque anni, e come spesso accedeva mi trovavo in quel vecchio prato vicino casa. Mancavano pochi giorni a Natale, e tutto era ricoperto da un pesante manto di candida neve.
Faceva freddo: da poco aveva iniziato a nevicare ed il parco era completamente deserto.
Mio fratello se ne stava accovacciato accanto allo scivolo a tracciare non so cosa nel terreno, con un bastoncino di legno. Io invece stavo costruendo un bellissimo pupazzo di neve. Fu un attimo.
Un boato enorme ci investì in pieno, come se la terra si fosse squarciata in due e avesse iniziato ad urlare. Mio fratello, con un’agilità che non pensavo gli appartenesse, mi afferrò per un braccio e mi trascinò con lui sotto lo scivolo.
Ero terrorizzata, non capivo che cosa stesse succedendo, volevo correre a casa dai miei genitori e sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene.
Invece mi trovavo con la faccia pressata nella neve gelida; i vestiti stavano iniziando a bagnarsi e io tremavo di freddo e di paura. Percepivo il corpo di mio fratello accanto a me, mentre mi premeva con forza le mani sulle orecchie e mi teneva la testa piegata verso il terreno, per non permettermi di guardare.
Non so per quanto tempo restammo nascosti sotto quello scivolo, ore forse, ma quando finalmente lui mi prese per mano e mi trascinò fuori da quel parco, pensai di essere finita all’inferno.
La strada che percorrevo tutti i giorni per andare a casa era stata completamente distrutta. Auto in fiamme, negozi con i vetri rotti;  riuscivo a vedere l’interno di alcuni palazzi e tutto intorno a me sentivo urla e pianti di gente disperata. L’unico punto fermo era la mano di mio fratello che stringeva con forza la mia, senza il minimo tremore.
Non tornai più a casa. Non rividi più i miei genitori e i miei amici. Non andai più nella mia vecchia scuola, o in quel piccolo parco giochi.
La mia vita finì il giorno del bombardamento di Winchester.
Pensavo che almeno sarei potuta restare con mio fratello, invece mi tolsero anche lu.
Fu un signore ben vestito, con un bel paio di baffi candidi e un accento impeccabile a farmi un lungo discorso sul perché lo avrebbero portato in un posto speciale, come lo era lui del resto. Io non possedevo le sue stesse qualità, quindi sarei andata in un orfanotrofio diverso dal suo. Ero troppo piccola allora, e non avevo capito neanche la metà di quello che quell’uomo mi aveva detto; ma sapevo che stava per portami mia l’unica persona che mi era rimasta, e io non volevo.
Non servì a nulla piangere, urlare, supplicare. Dovettero tenermi ferma in due per evitare che corressi dietro a quella macchina nera che me lo stava portando via.
Con il suo solito tono tranquillo, troppo stonato per un bambino di otto anni, mio fratello mi disse che avrei dovuto dare ascolto a quel signore, che era per il mio bene e che prima o poi ci saremmo sicuramente rivisti; ma lui ora doveva andare a fare una cosa importante, per vendicare i nostri genitori.
Non so se ha pensato a me ogni giorno come mi aveva promesso, ma so che sono passati 15 anni e io non l’ho più rivisto, né ho avuto suo notizie.
Quando sono uscita dall’orfanotrofio che mi aveva cresciuta, ho provato a cercarlo, ma il mondo degli orfani è un mondo senza vere identità, e mio fratello era stato risucchiato in quel buco nero senza lasciare alcuna traccia di sé, come se non fosse mai esistito.
Ho finito per scordarmi la sua voce, il suo volto, il suo modo di parlare pacato. L’unica cosa che ricordo di lui è il suo strano modo di sedersi e la sua estrema solitudine.
Suonavano le campane il giorno in cui ci divisero, e aveva da poco ripreso a nevicare. Avevo solo cinque anni allora, eppure fu quello il primo giorno in cui desiderai morire.
 
 

*descrizione ripresa dal romanzo Another Note.

   
 
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