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Autore: The Corpse Bride    15/10/2006    8 recensioni
Una chiave infilata in un armadietto della stazione. Insieme alla chiave c'è un foglietto con un indirizzo, la scrittura sembra essere quella di una donna.
Genere: Erotico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Antonio ricordò improvvisamente che poteva essere in ritardo. Tirò dunque su la manica del cappotto grigio scuro e diede un’occhiata veloce all’orologio, che segnava le sei e ventitré.
Il treno era alle sei e trenta in punto, e lui era appena entrato nella stazione di Milano.
Non confidava molto nella puntualità di Trenitalia, arcinota per essere tanto costosa quanto inefficiente, ma, dopo tanti anni in cui aveva girato le varie città per lavoro, aveva imparato la Legge Fondamentale delle Ferrovie Italiane: se tu sei in ritardo, il treno arriverà in anticipo. Se sei in anticipo, il treno arriverà in ritardo.
Nei lunghi viaggi in compagnia di svariati businessmen in prima classe di un Eurostar, aveva ricevuto diverse conferme della sua teoria, tutte esclamate con un sorriso di simpatia.
Era incredibile, considerava alle volte, come sia l’avere un nemico comune, ad alleare le persone. Era sconfortante che le persone si avvicinassero solo davanti a una minaccia.
Comunque, abituato com’era a combattere una concorrenza, a sventare imbrogli e ad affrontare slealtà di ogni tipo, aveva smesso di farci caso. Semplicemente, si godeva il Nescafé e i dolcetti che gli venivano offerti e leggeva distrattamente un libro – solo dei fantasy, o di polizieschi; niente di impegnato, non nei giorni di lavoro.
A volte gli era capitato di prendere degli Intercity, più per avere la possibilità di chiacchierare che per altro – i businessmen raramente hanno voglia di fare due chiacchiere, raramente possono accantonare la giornata di lavoro e pensare semplicemente ad altro. Ma non c’era niente da fare, continuava a prediligere i costosi Eurostar.
Certo, costosi relativamente al servizio: per lui quella spesa non costituiva un problema. Poteva dire tranquillamente di essere ricco, di essere uno di quelle persone che potevano essere definite ‘fortunate’. Anzi, fortunatissime.
Le sue due ditte, che producevano rispettivamente trattori e macchine sbavatrici, fruttavano più soldi di quanti suo padre, fondatore, avesse mai potuto anche lontanamente sognare. Antonio, nel 2006, poteva vantare di possedere un piccolo impero economico nel Nord-Est dell’Italia. Antonio, come soleva affermare uno dei suoi migliori amici, “poteva prendere un Eurostar senza smadonnarci contro”.

Era appunto di ritorno da una fiera a Milano, un sabato di gennaio come miliardi d’altri, o forse solo come venti altri nella sua vita – perché di 26 gennaio da uomo d’affari ce n’erano stati solo altri venti o poco più, per lui – ed era in ritardo di una decina di minuti sul programma.
Era uno di quelli che preferiscono un largo anticipo, che un piccolo ritardo.
“Un anticipo”, ripeteva sempre, “non ti causa problemi: un ritardo, invece, può causartene di infiniti.”
Specie se a duecento chilometri da casa.
La casa, appunto, dove due figlie adolescenti scatenatissime, al punto di essere infantili, e una donna bella e ringiovanita dall’estetica (no, nessuna chirurgia, lei si riteneva troppo elegante per quelle cose) lo aspettavano.
(Comunque, chirurgia o non chirurgia, una donna che a cinquant’anni vuol essere ancora bella, tranne per qualche rara eccezione sarà comunque ridicola, e in ogni caso mai bella, si ripeteva sempre. Ma meglio non dirlo a Stefania.)
Calcolò due o tre minuti per recuperare alcuni oggetti lasciati in un armadietto chiuso a chiave, e quattro o cinque per raggiungere il binario. Sbirciò il binario 15, e si accorse che il suo treno era già lì. Questo gli mise subito ansia – non avrebbe dovuto guardare, l’ansia lo rallentava sempre tremendamente.
Cercò le chiavi sperdute da qualche parte nella sua tasca – eppure c’erano solo un fazzoletto e una bic – e si arrese dopo un po’ – quanto? Trenta secondi? Aveva già perso metà di un minuto.
Arrivato davanti all’armadietto, rimase attonito per qualche decina di secondi.
La chiave stava lì, comodamente accolta dalla serratura un po’ arrugginita.
E la cosa peggiore, quella che davvero lo lasciava sconvolto, era che la chiave, quella che – ne era sicuro – aveva messo in tasca, quella che aveva cercato perdendo un prezioso mezzo minuto, era lì, placidamente sporgente dal numero 127.
Una chiave infilata in un armadietto della stazione, pensò esterrefatto.
Insieme alla chiave c'era un foglietto con un indirizzo, la scrittura sembrava essere quella di una donna.
La osservò meglio: sì, era quella di una donna. Era spigolosa, sì, e tendeva così tanto a sinistra da essere quasi illeggibile, ma aveva un qualche cosa che ti faceva pensare che fosse una donna. L’eleganza, forse. L’armonia delle lettere, le quali, benché fossero spigolose, avevano le dimensioni perfette di una calligrafia ottocentesca. Sembravano quasi studiate.
Non che si fosse dimenticato il treno; anzi, l’ansia cresceva ogni secondo di più. Ma già nella sua testa stava insinuandosi un pensiero tipo il prossimo, se non ricordo male, è mezz’ora dopo…
Si guardò intorno. Dopotutto, poteva essere pericoloso. Poteva essere chiunque e lui poteva anche stare per essere ammazzato a colpi di pistola – ne succedono così tante, nel mondo.
Ma niente succedeva. Il viavai continuava, i marocchini dormivano negli angoli, i trolley risuonavano, un gruppetto di ragazzine in nero gli passò accanto, ridacchiando come se non fossero l'immagine di un lutto perpetuo.
Aprì dunque il foglietto, strappato da un’agendina, e lesse:
Quando vuoi, io sono in Galleria. Davanti a Vuitton. Ti aspetto fino alle sette e mezza. Puoi pagarla una notte di sesso, no?”

Calma.
Poteva essere lo scherzo di qualsiasi idiota.
E a proposito di idioti, accidenti, potevano avergli rubato le chiavi di casa!
E A PROPOSITO DI IDIOTI, stava perdendo il dannato treno!!

Ok, calma davvero, adesso.
La prima cosa da fare era verificare che ci fossero ancora le sue cose. In fretta, possibilmente. Perché a meno di essere diventato stupido, e che qualcuno gli avesse sottratto le chiavi da una tasca interna senza che nemmeno se ne accorgesse, doveva aver lasciato lì le chiavi sin dal principio.
Sì, questo non lo rendeva meno stupido, in effetti.
Aprì la portellina.

E, incredibile a dirsi, le chiavi erano ancora al loro posto.
D’accordo, pochi se ne sarebbero fatti qualcosa di un mazzo di chiavi di cui non conoscevano né il proprietario, né la porta che aprivano; ma non si sarebbe sorpreso se qualcuno avesse voluto fargli un dispetto, così per fare, o se l’avesse seguito per scoprire chi era, o chissà che.
Non era improbabile.
Se questo qualcuno l’aveva notato da quella mattina, beh, non gli sarebbe stato difficile risalire alla sua identità.
Tentò di ricordare: non aveva visto nessuno più volte nella sua stessa zona, nel corso della giornata?
Beh, c’era un tale con un completo blu che aveva incrociato due o tre volte davanti a degli stand, e anche un altro tale, con un’assurda cravatta rossa, che aveva avuto modo di incontrare due volte; e poi una donna in tailleur con cui aveva chiacchierato davanti a un caffè; ma dubitava che un malintenzionato si lasciasse riconoscere così facilmente.
Ma d’altronde, la base del crimine perfetto non è proprio il far finta di nulla? Agire orrendamente nel più sereno dei modi, tanto da far pensare che “uno con cattive idee non si metterebbe mai a rischio così”?

... accidenti, il treno sarebbe partito tra due minuti.
Doveva sbrigarsi e correre verso il binario, che, accidenti di nuovo, era dall’altra parte della stazione, e il treno non aspettava né lui né nessuno.
Ficcò chiavi e biglietto in tasca, distrattamente (le chiavi un po’ meno distrattamente), e si avviò di buon passo. Lanciò un’occhiata di striscio al tabellone delle partenze, che, sorpresa, segnalava un ritardo di 10 minuti proprio per il suo Eurostar.
Beh, grazie mille.
Io arrivo giusto in tempo e tu.. e tu mi dici “ok, prendi fiato”.
Il fiato lo riprendo in treno, dannazione, quando mi siedo e penso, sudato ma soddisfatto, che ci sono riuscito ‘giusto a pelo’, ‘proprio spaccando il secondo’, come quando piove e senza saperlo scopri di avere giusto un ombrellino in tasca; piccolo, perché no, ma hai l’ombrellino e la pioggia non ti ha colto di sorpresa, sei riuscito ad armarti e a difenderti da un colpo basso del mondo.
È importante.
Era importante, per un businessman.

Ora, però, il treno non sembrava più così rilevante.
Il treno l’aveva un po’ deluso.
Un ritardo di cinque minuti sarebbe stato come dirgli “ehi, ti do una mano, aspetta; rallenta pure il passo, ce la farai, giusto giusto ma ce la farai”, ma dieci minuti era come dirgli “ha! Non c’era bisogno d’affannarsi, hai fatto uno sforzo inutilmente. Su, vai pure a comprarti il giornale” come portarsi l’ombrello perché ci sono le nuvole, e poi scoprire che, dopo le prime due gocce, il cielo è tornato grigio e silenzioso.
Beh, si disse, rileggiamo questo biglietto. Vediamo se si può cavarne qualcosa.
Rilesse dunque il biglietto, esplicito, sicuramente esplicito, ma chissà se sincero.
Era una ragazza che gli proponeva sesso, no? Ponendo che fosse vero, chissà se quella ragazza sapeva a chi parlava? Lui poteva essere anche una ragazzina, o un poliziotto, o chissà chi altro. Era probabile che lei l’avesse visto. E poi, pensò ancora, c’erano altri biglietti nelle chiavi degli altri armadietti?
No, realizzò subito, e non soltanto perché gli altri erano stati abbastanza accorti da non lasciarla, la chiave, nell’armadietto, ma anche perché, molto probabilmente, quella ragazza aveva compiuto scientemente una scelta.
Non era stato, intuì, il particolare della chiave, a incuriosire questa fantomatica ragazza. No, nella Milano del 2006 non c’era certamente qualcuno di così romantico. Probabilmente, era stata attratta dall’orologio costoso (ma come avrebbe potuto vederlo, nascosto nel giaccone? Forse aveva controllato l’ora? Possibile, non era da escludere), oppure dal completo elegante, o dagli occhiali costosi ma-non-sfacciatamente.
Questa ragazza doveva avere occhio per la ricchezza che sta zitta, concluse.
Questa ragazza puntava a farsi pagare bene una notte di sesso. Si era scelta il cliente, in poche parole.

Che ora era?
Sei e trentatré.
Mh.
Tre minuti erano già abbastanza. Erano più verso il cinque. E altri tre, e altri tre, facevano presto a passare.
Ripose dunque nuovamente il biglietto nella tasca; non doveva pensarci, si disse. Ma si era impazzito? Probabilmente era soltanto un fuori di testa, o probabilmente una puttana, perché no? Ma non gli interessava molto di dare i suoi soldi a una ragazza che, beh, chissà dove viveva, e come, e chissà fondamentalmente qualsiasi cosa di lei – tranne che voleva i suoi soldi.
Che accidenti le faceva pensare, poi, che lui non potesse trovarsi molto di meglio di una ragazzetta in stazione, con l’orologio che teneva al polso? Poteva avere le migliori ragazze immagine d’Italia, gli sarebbe bastato schioccare le dita.
Beh, non amava molto pagare per sesso, preferiva le amanti – solo una, e molto duratura, ma era finita da tempo.
E in ogni caso, cosa la rendeva tanto sicura di sé?
Così, a scatola chiusa, poi.

Si avvisa la gentile clientela che il treno Eurostar Italia 9404 delle ore diciotto e trenta diretto a Venezia Santa Lucia, ferma a Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia Mestre, partirà con un ritardo di quindici minuti.

Si concesse un sentito “e vaffanculo”.
Non era solito abbandonarsi al turpiloquio - si considerava un uomo serio, per quanto a volte sapesse essere pesante nei giudizi quasi al punto di essere offensivo; ma questa volta, ci voleva. Quindici minuti volevano dire: “guarda che ti prendo in giro. Adesso rimani lì, al freddo.
Avrebbe potuto sedersi nella tavola calda e mangiare un po’ in fretta un panino, ma non era quello il punto.
Beh, sembrava che non avesse altro da fare che occuparsi di questo biglietto singolare.
E improvvisamente, in un lampo, la sua curiosità si accese.
E si disse che, sì, forse era un pazzo omicida, e forse era tutta una balla architettata da dei simpaticoni, ma in fondo? Cosa poteva succedergli ad andare di fianco al Duomo? Avrebbe potuto essere ucciso in mille altre occasioni, molto più pericolose.
Stefania, stasera mi fermo in hotel a Milano, ceno con i colleghi e credo che faremo tardi. In più sono stanco… salutami la Virginia e la Carolina, va bene? Dagli un bacione e stai attenta che non tornino alle sei come al solito. Va bene, per domani tortellini alla panna vanno benissimo. Sì, le porto io sui colli. Va bene. Ci vediamo domani, buonanotte, stammi bene. Ciao, ciao.”
Non era difficile. Aveva detto bugie più grandi, e più smascherabili, e a scopi più turpi, forse. Non gli era nemmeno passato per la testa di pagare questa ragazza. Però, una così sicura di sé, e che gli aveva fatto un giochino del genere, beh, accidenti, voleva conoscerla.

“Si avvisa la gentile clientela…”

Antonio accese il cellulare.

*

La metro non gli piaceva, considerò. E non tanto perché fosse sottoterra, o perché fosse sempre giustamente gremita.
No, era proprio per la gente.
Milano era troppo metropolitana, poco da fare. Non è sempre un bene. Gli andava bene l’essere cosmopoliti, ma con la gente che diceva lui. Non aveva mai fatto un mistero dell’essere contrario all’immigrazione (“che d’accordo che non si fa di tutta l’erba un fascio, ma non è che l’erba si può tagliare filo per filo, eh”), e il pensiero di condividere uno spazio tutto sommato ristretto con matrone negre, fannulloni nordafricani, criminali dall’est dell’Europa, non gli piaceva per niente.
E per di più, l’idea di toccare dei pali dove tutti avevano messo le mani, magari sporche o sudate, o chissà cos’altro, lo nauseava definitivamente.
Prima l’avevano accompagnato in stazione con una Mercedes, ma adesso non poteva chiamare i suoi colleghi per spiegare che voleva incontrare una potenziale puttana (un potenziale criminale?) placidamente in attesa davanti al negozio più costoso della città. (O forse Dior costava di più? Dior, o Chanel? Stefania gliene aveva parlato, qualche volta, e, sì, aveva ascoltato e preso nota, per due motivi: il primo era che sapeva da quali firme guardarsi, il secondo, era che così aveva saputo cosa lei voleva come regalo di compleanno.)
Duomo; fermata Duomo.
Scese assieme a un paio di fidanzatini che si tenevano per mano, a un ragazzo coi rasta e a una signora con le borse della spesa. Si avviò su per le scale della metro; non era agitato. Sapeva che non l’avrebbe riconosciuta a colpo d’occhio. Quella galleria era talmente piena, a qualsiasi ora, che l’unica cosa sensata da fare era aspettare che lei lo riconoscesse (che lui gli sparasse un colpo nella tempia, preciso e impeccabile come solo l’odio per chi ha i soldi sa essere).
Camminò per le poche decine di metri che lo separavano dalla Galleria, attento a schivare i piccioni. Erano tra i più implacabili che avesse mai conosciuto, i piccioni milanesi.
Dribblando un paio di ragazzini delle medie in skateboard (dopo dieci anni, quella moda nefanda era tornata), superò il fast-food e si piazzò al centro, davanti al bivio. Non vedeva molta gente nei dintorni di Vuitton; qualche coppietta, uomini in completo come lui, signore in tailleur e signore con bambine; ragazzine tirate a lucido e ragazzi dietro di loro ad ammirarne i fondoschiena. Ma nessuno che sembrasse in attesa di niente. Ah, a Milano nessuno mai si ferma ad attendere, ricordò
e nel momento preciso in cui lo ricordava, qualcuno lo tirò per la manica, e prima che realizzasse che il momento era arrivato, se la trovò davanti, bionda e bianca e rosa come un quadro.

No, considerò dubito dopo, non sembrava affatto un quadro. Il naso era irregolare, i capelli disordinati e non proprio pulitissimi, i vestiti, benché attillati abbastanza da attirare l’attenzione, testimoniavano una lunga serie di lavaggi e di atterraggi di fianco a un letto – o sul qualche sedile di un’automobile, o chissà dove altro.
Beh, comunque sì, era bella. Sistemata a dovere, e anche senza mettere le mani sul naso (e sulle sopracciglia non ad ala di rondine, e sulla bocca carnosa ma non carnosa come quella del film su Vermeer, a cui bastava socchiudere le labbra e tu eri già lì a farti viaggi irripetibili a parole; carnosa e basta), era una gran bella ragazza. Che accidenti ci faceva lì, a chiedere sesso vestita a quel modo?
-Ciao – buttò lì, perché un “buonasera” gli sembrava un po’ eccessivo, per una ragazza di forse vent’anni – sei tu quella del biglietto?
-Io – confermò lei, annuendo, con aria fiera – Proprio io. – Era italiana, si sentiva già da queste due parole. Era assolutamente italiana.
-Bene – non seppe trovar di meglio da dire; la fissò un altro po’, per accertarsi che quella ragazza insospettabile, forse giusto un po’ appariscente, fosse stata capace di proporgli una cosa simile con un bigliettino in stazione, tra l'altro senza neanche sentire il bisogno ricattarlo con le chiavi.
-Allora? – lo incalzò lei, che pareva permettersi il lusso di “non avere tempo da perdere”.
-Ma, guarda... io in realtà sono venuto qui per vedere chi eri. Non ci ho neanche pensato bene a cosa fare.
-Beh, che fai stasera?
-Eh..?
-Che fai stasera?
-Niente. Dormo qui.
-Ok. Cos’hai inventato con tua moglie?
-Mia moglie..?!
-Sì. Penso che se hai una fede, probabilmente hai anche una moglie.
-Sì, ho una moglie.
-E cosa le hai raccontato?
-Che avrei cenato coi colleghi – replicò piccato dalla sua pretesa di sapere tutto.
-Ed è vero?
-No – dovette ammettere, sconfitto; al che iniziò a guardarsi attorno, indeciso e confuso, ma lei subito lo tirò per la manica.
-Allora? – chiese, con impazienza, ma con un’impazienza capricciosa, non con un’impazienza da persona-impegnata.
-Che cosa vuoi?
-Eh! Ma te l’ho scritto, no? Adesso non è che posso ripetertelo qui. Quindi, o sì, o no.
Esigente, considerò; ma non come quelle prostitute da romanzo o da film romanzato che tenevano in pugno gli uomini e potevano permettersi anche la scortesia e il disprezzo. Esigente in modo... diverso.
-Sinceramente, non lo so. Voglio dire, senza offesa, ma potrei permettermi anche dell’altro. Cosa ti ha fatto pensare che sarei venuto?
-La tua curiosità – ribatté lei, come se si trattasse della cosa più naturale del mondo – Come in un film, no? Ci contavo abbastanza, che saresti venuto.
-Accidenti – riuscì soltanto a dire. – Complimenti. Sei una psicologa.
-Beh, quando fai queste cose devi essere un po’ psicologa – replicò lei, tranquilla, come se avesse fatto la commessa e non la prostituta.
-Ho capito. Ascolta, facciamo una cosa, ormai sono qua. Vieni a cena con me e poi ci fermiamo in hotel; e poi, se mi piaci, vediamo cosa si fa.
-Va bene – acconsentì lei, apparentemente contenta per la sfida propostale.
Si incamminarono assieme verso la piazza, mentre Antonio prenotava una doppia in un hotel abbastanza famoso da farla strillare di soddisfazione. Durante il percorso a piedi (perché era abbastanza in centro da poterci arrivare a piedi), praticamente non parlarono. Lei fissava le vetrine, lui i passanti, tentando di non pensare a niente.
E finalmente arrivarono. Alla reception nessuno fece commenti, benché la situazione fosse così palese da essere quasi imbarazzante – magari non in mezzo ai marocchini e alle mamme negre eccetera eccetera, ma negli hotel lussuosi, sì -, e si limitarono a portarli in una stanza al secondo piano e ad augurare loro una buona serata.

-Dio onnipotente - esclamò lei, guardandosi attorno - Ho proprio scelto bene! Guarda che roba. Ma vieni sempre in posti del genere?
-A volte un po' meglio, a volte un po' peggio.
-Ma sempre più o meno così?
-Beh, sì...
Lei non glielo fece nemmeno pesare, intenta com'era a contemplare quanto le stava attorno.
-Non hai mai avuto clienti ricchi?
-Certo, qualcuno. Ma mica tutti ti portano in camera.
Antonio annuì, senza ostentare comprensione - era pur sempre uno di quelli che la sfruttava.
-Con il bar, e tutto quanto... oh! Guarda, un vassoio con i cioccolatini. Posso prenderne uno?
-Certo.
Lei scelse con cura un cioccolatino al latte, con le nocciole. Lo mangiò a morsetti piccolissimi, e per ogni morsetto, rimaneva un po' a gustarsi il sapore di cioccolato al latte nella bocca. Non ebbe coraggio di chiamarla finché non l'ebbe finito.

Dopo che lei ebbe esultato per un po’ per lo splendore della stanza e mangiato il suo cioccolatino, lui la trascinò fuori per rifocillarsi un po’. Si avviarono verso un ristorante, il primo che trovarono, né al livello di Antonio, né al livello della ragazza. Un ristorante normale, grazioso. Presero posto, ordinarono (lei una pizza, lui un primo di tagliatelle al salmone e, come secondo, un filetto di vitello) e rimasero lì, lui a guardarla, lei a guardarsi intorno.
-Adesso fai tu l’imbarazzata?
-Mh? Ma no, non sono imbarazzata. Sono solo stanca, e ho poco tempo per vedere Milano.
-Vuoi vedere Milano?
-No, e non far finta di volermela mostrare, che tanto non ti credo.
Lui le sorrise, poi aprì un pacchetto di grissini.
-Ne vuoi?
Lei scosse la testa.
-No, poi mi passa la fame.
-Non mangi spesso al ristorante?
Lei non rispose.
Era una domanda stupida, in effetti.
-Ma scusa, qualche cliente non ti porta al ristorante?
Lei puntò gli occhi sui suoi.
-Guarda che mi pagano già per il resto, non è che abbiano tanta voglia di spendere anche i soldi del ristorante.
-Ti serve aiuto?
-Ma no.
-Senti, sul serio..
-Ma la pianti?
Tacque.
Sapeva che ne aveva bisogno, di certo ne aveva bisogno, ma lei aveva troppa autorità, troppa sicurezza, per poterle dire “no, guarda che ti sbagli”.
E poi doveva solo andarci a letto una notte, forse.
-Non ti sei ancora deciso? – chiese lei, neanche gli avesse letto nel pensiero.
-No – disse lui, ma non le spiegò perché.
Non sapeva bene come farle capire che lui non l’aveva desiderata, non l’aveva chiamata, lei non era stata un capriccio da ubriaco o da sabato sera con i colleghi. Lei era arrivata e si era proposta, e così non c’era gusto per niente.
-Però stai spendendo soldi.
-Non è quello il problema.
-Guarda che io mica mi faccio scrupoli, eh? Finché uno offre io accetto.
-E che problema c’è – rise lui.
-Ah, per me nessuno. Poi magari per te neanche, ma io mica lo so.
-Sì, senti, almeno sii onesta... mi hai notato immediatamente, e mi hai puntato.
-Sì, ovvio. Non vado di sicuro a chiedere all’albanese in Corvetto.
-Corvetto?
-Ma te di dove sei?
-Vicino a Verona.
-Ah, ma sei lontano! E sei rimasto qui per me?
-Pare di sì.
-Figata. Oppure la tua famiglia ti piace poco.
-Ma va’, a me piace.
-Mh, ok.
A quel punto arrivarono le ordinazioni, e mangiarono senza più dirsi una parola. Non dissero nulla nemmeno tornando in hotel, osservando il cielo che si colorava di blu, come un pennello sporco che tinge l’acqua a poco a poco.

*


Lei era brava. Sapeva il fatto suo e sapeva come farlo urlare. Perché va bene essere brave a fare certe cose, ma le faceva proprio come piacevano a lui – robe che neanche sua moglie ci aveva mai fatto caso. Né lei né Marina.
Sapeva stare sotto, sapeva stare sopra, sapeva stare girata, sapeva stare a sessantanove e sapeva muovere la lingua praticamente dovunque la posasse. Comunque la girasse o la voltasse, lei sapeva come sfruttare la posizione. Qualunque cosa le facesse o le facesse fare, lei ansimava e gridava in modo così convincente che le avrebbe lasciato in mano il suo portafoglio solo per quello, giusto per come lo faceva sentire capace.
-Guarda, ti do tutto quello che vuoi, ti do – le aveva mormorato tra un gemito e l’altro, con la testa che gli girava di piacere, e lei non aveva nemmeno alzato la testa e aveva continuato a fargli quel pompino, un pompino che neanche nei suoi migliori sogni, neanche quelli con la Canalis; e poi lei gli aveva infilato un dito nel culo, cosa che non si sarebbe lasciato fare da Stefania neanche a costo di andare in bianco tutte le notti, e lui aveva urlato come non pensava neanche di saper urlare, e lei ritraeva quel benedetto dito e poi lo spingeva più a fondo, e intanto continuava a far scendere la testa avanti e indietro sotto il suo pube; e a un certo punto le aveva scostato i capelli e aveva visto le sue labbra rotolare sulla sua pelle, e da quel momento, tempo pochi secondi, aveva ceduto, come un ragazzino delle medie alla prima volta.
Ma poi si era preso un attimo di pausa, e l’aveva presa da dietro, e lei aveva inarcato la schiena e quei capelli biondo miele erano scivolati lungo i fianchi; e i capelli gli ricordarono che c’era anche una doccia di là, quindi andò di là e lo fecero anche in piedi, con gocce bollenti che scorrevano ovunque e l’ossigeno che iniziava a mancare; poi uscirono di lì e la buttò sul letto, ancora gocciolanti, le aprì le gambe e la scopò anche sul bordo del letto; poi la spinse più su e la fece girare e non aveva idea, davvero non aveva idea, se quella stesse davvero venendo oppure se facesse solo finta – perché chissà quanti avevano conosciuto così a fondo quel culetto così piccolo e bianco, dall’aria intoccata – ma iniziava a capire che fingere non è un atto di cattiveria, non è una coltellata che dai alla coppia. Nessuno aveva capito niente.

*


Lei fumava una sigaretta, come nella più classica delle scene.
Dopo un’esperienza così reale e tangibile e concreta, forse squallida ma non gli importava, un dettaglio così dava un che di irreale, come in un film.
-Comunque – esordì, con la voce roca perché non se l'era ancora schiarita – ti devo ringraziare.
-Mh – fece lei, dando un tiro alla sigaretta.
-Sul serio, devo ringraziarti. Mia moglie non mi ha mai fatto stare così.
-Se tu avessi un'idea di quanti me l’hanno detto, ti preoccuperesti anche un po’. Il matrimonio deve fare abbastanza schifo, o no?
-Ma no, è bello. All’inizio, dico. Poi capisci che ti stufi.
Lei annuì, lasciando cadere un po’ di cenere.
-E' che vedere ogni giorno la stessa persona, e andare a letto sempre con quella, ti stanca. È vero, è un amore più profondo, a un livello diverso dalle passioni dei primi tempi… è più basato sulla sicurezza e sulla conoscenza, è più stabile, è più difficile perderlo e tutto quanto, però manca qualcosa.
-...
-Insomma, manca la novità. La novità è importante, c’è poco da fare.
Lei soffiò del fumo in direzione della finestra, sebbene fosse chiusa.
-Mi senti..?
-Sì, sì, ti ascolto.
-D’accordo. Ma pensavo che le prostitute ascoltassero di più.. che fossero un po’ come delle confidenti.
Lei lo guardò stranita.
-Eh? – chiese – e chi me lo fa fare, scusa? Cioè, non per essere scortese, ma guarda che noi veniamo già pagate per fare qualcosa. Perché dovrei anche stare a badare a questi problemi?
-Pensavo che le prostitute lo facessero.
-C’è chi lo fa, ma a me, francamente, dei tuoi problemi non interessa, senza offesa... se vuoi ti racconto io, un po’ di problemi di cui vale la pena parlare, guarda...
-Ti ho detto che se ti serve aiuto..
-No, ho detto. Non servono eroi, qui. Sono giri che vanno così, e basta. Se io fossi una cameriera da Mc Donald’s, magari ruberei il lavoro a qualcun’altra... insomma, ci vuole un equilibrio.
-Ma che dici..?
-Stai tranquillo, che so quel che dico. E adesso, credo che sia ora di andare.
-Di notte..?
-Cosa credi, che la gente stia ad aspettare i miei comodi? Ma che idee ti sei fatto...?
-Non lo so... quello che vedo in giro.
-In giro dove...?!
-Non so... documentari, film...
Lei lo guardò con scherno, poi scosse la testa.
Mentre la guardava dispiaciuto, iniziò a rivestirsi.
-Ah! I soldi, per favore...
-Sì. Quanto prendi?
-Cento.
-Per non essere una professionista rinomata, ne chiedi di soldi...
-Non sono neanche tantissimi, dai. E poi mi avevi promesso che me ne davi. Ti mancano, cento euro?
-Va bene. Tieni, hai ragione.
Lei sorrise.
A quel “va bene, tieni” aveva assunto un’espressione un po’ piccata, neanche mi stessi facendo un favore, dicevano i suoi occhi. Ma quell’ “hai ragione” l’aveva rinfrancata, aveva giustificato tutto. Glieli dava perché lei aveva detto cose giuste.

In fondo, pensò Antonio, in parte ti ho reso il favore. Un po’ ci riesco anch’io.

(Nda: questa storia è nata con il mio ragazzo che, vedendomi un po' in crisi (letteraria dico >_<), mi ha proposto un titolo sotto mia richiesta. La frase che mi ha dato lui è quella che c'è nella descrizione... beh, il racconto non ha uno scopo preciso, non è didattico e non ha nemmeno un particolare messaggio... volevo solo intrattenervi un po' :P.
La cosa difficile è stata non far cadere la ragazza (che si chiama Elena è_é) nel solito stereotipo del lei-poverina-vorrebbe-ma-non-può-ma-conserva-comunque-il-suo-orgoglio.. infatti le scene del ristorante e dell'albergo sono state abbastanza difficili, perché è vero che questa ragazza non vive bene, ma ci siamo tutti rotti le palle delle piccole fiammiferaie >_< no?
Ah, un paio di specificazioni. Penso che sia chiaro che non voglio promuovere lo sfruttamento della prostituzione (né da parte dell'offerente, né da parte dell'acquirente, se capite cosa intendo)... ho solo reso la figura di questa ragazza un po' intrigante, ma teniamo tutti presente che la mia storia è molto ma molto irreale. E' puro intrattenimento, come ho già detto. Prendetela per quello che è.
Per finire, penso sia giusto chiarire una cosa. Il mio personaggio pensa cose abbastanza razziste, ad esempio nella scena della metropolitana - ma non solo. Volevo chiarire che non ho usato la mia storia per inculcare idee razziste in testa alla gente, né per sostenerle agli occhi di un eventuale pubblico. Ho solo ritratto la tipica figura del veneto tipo - di una certa classe sociale, ma anche no -_-''. Le mie idee e le idee dei miei personaggi non sono la stessa cosa. E se anche coincidessero, sarebbe sempre per pura casualità.
Detto ciò, penso di aver detto tutto ^_^. Aspetto commenti, se vi è piaciuta :* e se non vi è piaciuta ditemelo lo stesso che è giusto saperlo >_<)

  
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