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Autore: Hotaru_Tomoe    19/03/2012    7 recensioni
Storia gemella de "La divinità": come e perchè Sherlock è arrivato a concepire quel poco ortodosso esperimento per portare alla luce i sentimenti di John per lui?
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Due storie allo specchio'
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Disclaimer: Sherlock appartiene ad Arthur Conan Doyle, alla BBC e a Moffat/Gatiss.
Tediosa introduzione: Questa fanfiction è la sorella gemella di La divinità che, nelle mie intenzioni, doveva restare una one-shot. Ma poichè non è che io vada molto d'accordo con me stessa, ho iniziato a chiedermi cosa ronzava nella testa di Sherlock in quello stesso momento e così è nato questa specie di "lato B". Narrato dal punto di vista di Sherlock, è decisamente meno divertente e più cerebrale; ho provato più volte ad alleggerire la narrazione, ma non c'è stato molto da fare: appena provo a mettermi nei panni di Sherlock, è così che me lo immagino. 

 

IL BUNKER


L’angolazione dei raggi del sole che filtravano attraverso i vecchi scuri indicò a Sherlock che erano circa le sei di mattina. A conferma delle sue parole, pochi secondi più tardi il campanile della chiesa vicina battè le ore.

Una doccia veloce e subito prese il violino dalla custodia. Doveva pensare, riflettere, dedurre.

Capire.

La soddisfazione per aver risolto l'ennesimo caso si era già dissolta, spazzata via da un ben più complesso enigma. Un enigma che gli era sotto gli occhi da molto tempo, ma che aveva colpevolmente confinato in un angolo del Mind Palace, un ripostiglio davanti al quale passava ostinatamente senza guardare, come un cavallo col paraocchi.

Posizionò lo strumento sotto il mente ed iniziò a suonare l'Odissea Veneziana [1]. Subito la musica sortì il suo effetto: il respiro si fece cadenzato, il cuore rallentò e la pressione sanguigna scese, il corpo e le sue funzioni si contrassero, mentre la mente si espanse.

 

Ermetico.

Così si era sempre considerato in quel settore.

Quello delle debolezze di origine chimica che il linguaggio comune catalogava come emozioni e sentimenti.

Impenetrabile a tutto, come un rifugio antiatomico dalle spesse pareti in cemento armato.

E fino a qualche tempo fa era stato così: il pericoloso groviglio caotico dei sentimenti altrui era scivolato via sui muri impermeabili del suo bunker interiore, senza lasciare traccia alcuna. Quanto ai propri, di sentimenti, qualora ci fossero, erano sigillati ad una profondità tale in lui, da essere del tutto irrilevanti.

Tutto questo, almeno, finché nella sua vita era non piombato John Watson.

Ed ora lui si ritrovava a contemplare le macerie del suo bel rifugio. Scrutando con attenzione riusciva a distinguere ogni singola picconata inferta dal suo blogger.

Il suo blogger. Già questa definizione era strana, non da lui. Perche Sherlock Holmes non aveva bisogno di imporre un aggettivo possessivo ad un altro essere umano. Eppure ormai non riusciva a concepire altro luogo per John che non fosse al suo fianco.

"Medico militare, disciplinato, spartano, un buon coinquilino, potenzialmente." Così lo aveva inquadrato la prima volta che lo aveva visto. Gli era bastato un attimo per cogliere in lui la nostalgia del campo di battaglia, per dedurre i problemi economici e quelli psicosomatici, il difficile rapporto con Harry, al quale lui, uomo orgoglioso e tutto d'un pezzo, non avrebbe mai chiesto aiuto. In trenta secondi aveva capito tutto di lui.

O almeno così credeva.

"Ora mi aggredirà per come ho messo a nudo la sua vita. C’è il settanta per cento di probabilità che faccia accostare l’autista per scendere." Così aveva pensato durante la loro prima corsa in taxi.

E invece John lo aveva sorpreso.

Ancora adesso, a più di un anno di distanza, aveva ancora nelle orecchie il suono della sua voce mentre esclamava "E' stato straordinario!” con ammirazione sincera.

Oh.

Deduzione errata.

Non gli capitava spesso, davvero, e si sentì come quando aveva cinque anni e andava a rubare mou e cioccolatini dal salotto ove suo papà riceveva gli ospiti. A causa delle sue forti crisi acetonemiche [2] il cioccolato gli era proibito, ma il piccolo Sherlock era certo che nessuno si sarebbe accorto se ne prendeva uno ogni tanto, soprattutto se avesse nascosto gli incarti dietro a quella pesantissima e antica libreria in noce, che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di spostare. Almeno finché sua mamma non aveva deciso, senza alcuna ragione logica per farlo, che la tappezzeria di quella stanza andava assolutamente cambiata ed una cascata di carte colorate si era riversata a terra da dietro il mobile (da lì aveva deciso che, no grazie, le donne non era decisamente una sua area di interesse).

Disorientato si era sentito in quel frangente ed anche un po’ in imbarazzo per essere stato scoperto.

Disorientato si era sentito su quel taxi ed anche un po’ in imbarazzo per il giudizio frettoloso sul dottore.

Forse John meritava più considerazione, si era detto.

Dargli credito fu come autorizzarlo a procedere con la demolizione.


Udì i passi strascicati di John sulle scale che scendeva per la colazione. Passi che si bloccarono un istante di troppo.

“Sta riflettendo su qualcosa di abbastanza inaspettato da richiedere una discreta concentrazione e farlo fermare, per evitare di inciampare e cadere.”

Poi comparve sulla soglia del salotto, lo salutò e scosse la testa divertito al suo commento sull’aver dormito fin troppo.

Lo vide riflesso nel vetro della finestra, lo sguardo perplesso dopo il primo sorso di caffè, evidentemente ancora prigioniero della riflessione iniziata sulle scale. L’insinuazione che ci fosse qualcosa di strano nella bevanda, il modo in cui lasciò frettolosamente l’appartamento non fecero che offrirgli altro materiale su cui riflettere.

Nell’aria si diffusero le note della Fantasia n.1 per violino di Telemann, e la mente di Sherlock riprese ad analizzare la sua, la loro situazione.

Da quel “E’ stato straordinario!”  innumerevoli erano stati i colpi inferti da John al suo bunker di indifferenza, alcuni lievi e impercettibili, come correre come matti nella notte londinese, ridere assieme sulla scena di un crimine (nessuno mai aveva riso con lui per il suo humour nero) o semplicemente guardare programmi idioti alla tv la sera.

Altre picconate erano state decisamente più forti, tanto da far saltar via interi blocchi di cemento del suo rifugio.

Il tassista, freddato un attimo prima che lui, da vero idiota qual era, inghiottisse quella dannata pillola. E se non ci fosse stato John l’avrebbe fatto davvero.

John lo sapeva, lo aveva capito subito, ecco perché aveva sparato. Non l’aveva fatto per uccidere un serial killer e guadagnarsi l'anonima stima di tanti concittadini, ben contenti di non dover mantenere in carcere un soggetto simile.

No, John aveva sparato per salvare Sherlock.

Principalmente da se stesso.

“Quest’uomo è l’ancora della mia sanità mentale.” così aveva pensato in quell’istante.

E poi la piscina: Sherlock aspettava Moriarty e d’improvviso era apparso John, la bomba nascosta ed invisibile sotto il cappotto, affermando "Questo è inaspettato, non è vero, Sherlock?"

Poco dopo aveva scoperto che era il suo nemico ad obbligarlo a parlare, ma Sherlock nemmeno per una frazione di secondo aveva pensato che ci fosse John dietro quelle bombe, che il suo blogger l’avesse abilmente raggirato.

Non è che avesse scartato quell’ipotesi.

Quell’ipotesi non si era nemmeno formata nella sua mente.

“La fiducia che nutri in lui è la più solida certezza della tua vita.” Così aveva pensato quella notte, uscito da quella trappola mortale, mentre si rigirava senza sosta nel letto, cercando inutilmente di prender sonno.

Giorno dopo giorno John demoliva le sue difese e si avvicinava a lui, sempre più. Impercettibilmente, millimetricamente, ma inesorabilmente. Come nel gioco “Grandmother’s footsteps” [3], si voltava a guardare John e lui era ad una certa distanza, poi alla fine di un caso o dell’ennesima avventura lo guardava di nuovo e si era avvicinato.

E lui glielo aveva permesso. Glielo aveva permesso a tal punto da sentirsi in colpa per quanto successo a Baskerville, per averlo usato come cavia e per avergli abbaiato contro che lui non aveva amici.

In colpa al punto da aprirsi come mai prima aveva fatto in vita sua e confessargli che lui era il suo unico amico. Che non c’era nessun altro come lui.

Attaccò la Chaconne di Bach.

Avrebbe potuto ritrarsi, interrompere quell’assalto insensato e ricostruire velocemente le pareti del suo rifugio. Dopotutto non aveva realmente bisogno di dividere le spese con un coinquilino.

Ma non lo aveva fatto, non aveva mai pensato seriamente a farlo.

Perché?

Tutte le sue capacità logico-deduttive non erano riuscite a dare una risposta a quel quesito.

Seccante e curioso allo stesso tempo.

Sherlock sospettava che la risposta, chiara, giacesse lì, nel centro del suo bunker che John aveva sistematicamente smantellato.

Dunque provava qualcosa per John? Lo amava?

Molti inizi facevano propendere per il sì, tuttavia la sua esperienza in quel campo era del tutto assente per potersi dare una risposta certa e definitiva.

Occorreva quindi un esperimento per sapere.

 

Ma c’era un altro quesito vitale che necessitava di una analoga risposta.

John provava qualcosa per lui?

Oh, cercare di dare una risposta a questo era ancor più arduo! L’esperienza gli aveva dimostrato che il più delle volte le sue deduzioni su John non erano accurate.

La sua mente tornò a quella sera, al ristorante da Angelo: John aveva negato di volere una relazione con lui e spesso, molto spesso, il dottore si sgolava nel dichiarare ad Anderson, a Mrs. Hudson, alla Donna, al mondo intero che lui, no, non era gay.

Le malinconiche note dell'Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28 di Saint-Saëns si spansero attorno a lui, avvolgendolo.

Forse i sentimenti di John erano solo amicizia, o cameratismo...

Tuttavia c'erano stati tra loro segnali ed indizi che lo inducevano a pensare

a sperare

che ci fosse dell'altro: il fatto che le sue relazioni a lungo termine con il gentil sesso difficilmente superassero le tre settimane (con o senza il suo intervento), l’affermazione che non ci fosse nulla di male in una relazione omosessuale, quell'innegabile senso di fiducia, di intesa, sostegno e di stima reciproca che permeava molti aspetti della loro convivenza.

E poi altro ancora.

Ancora quella dannata piscina, Moriarty che ci ripensa e decide di far fuori entrambi, Sherlock che cerca lo sguardo di John prima di puntare la pistola verso l'esplosivo, il cenno di assenso, breve ma fermo del dottore: "E sia. Facciamolo. Facciamolo insieme e trasciniamo questo pazzo con noi. Se va bene per te, va bene anche per me."

E poi ancora.

C'era la questione della prossimità, della vicinanza. Tutti gli esseri umani, lui compreso, possedevano una bolla di spazio personale, una distanza ideale alla quale gli altri dovevano tenersi, una linea immaginaria da non valicare mai senza permesso. Una specie di regola non scritta nonché una delle poche convenzioni sociali alle quali Sherlock si atteneva con piacere.

Ebbene, John sembrava non aver recepito questa regola quando si trattava di lui.

Se si relazionava con qualsiasi altra persona, John manteneva una distanza di circa quarantacinque pollici dal suo interlocutore [4], ma quando si trattava di lui, le distanze erano praticamente annullate: parlavano sottovoce, l'uno all'orecchio dell'altro, così vicini da poter sentire il calore irradiarsi dai rispettivi corpi, quando Sherlock era al portatile, John compariva alle sue spalle, si appoggiava allo schienale della sedia e accostava il viso al suo, i capelli che si sfioravano, quando camminavano insieme nella folla londinese, John appoggiava quasi sempre il braccio al suo.

Quasi un prendersi metaforicamente per mano.

Era un qualcosa che John faceva solo con lui.

Era un qualcosa che Sherlock permetteva a lui solo.

Tanti, troppi episodi di questo tipo, per pensare fosse solo una coincidenza.

E le coincidenze non esistono.

La lunga cavalcata della mente approdò alla sera prima, all'ultimo caso risolto. Sherlock non aveva fatto in tempo a spiegargli come avesse dedotto chi era il colpevole partendo dal furto di un orologio, che John aveva praticamente urlato "Sherlock, sei geniale!"

Ormai avrebbe dovuto essere abituato alle lodi sperticate del suo coinquilino, ma non era così. Ogni volta portava con sé lo stupore della prima volta: il volto di John si illuminava, il suo sorriso solare si stendeva sulle labbra e gli occhi brillavano, mentre non riusciva a trattenere l'ammirazione che provava per lui.

"E' perché è sincero. Non potrai mai abituarti ai suoi complimenti, perché ogni volta vengono dal cuore."

E quella sera, per la prima volta, erano rimasti a lungo a fissarsi in silenzio, occhi fissi negli occhi, senza parlare, senza quasi respirare. Ecco, era stato in quel momento che qualcosa, dentro di loro, era scattato.

John provava qualcosa per lui, Sherlock ne era quasi certo.

Eppure non se ne rendeva conto.

Oh, quante, quante volte l'aveva rimproverato per questo.

John, tu guardi, ma non osservi.

Sherlock voleva che capisse, voleva che smettesse di essere un gattino cieco che si muove a tentoni nel buio.

E, mentre su Londra era calata la sera ed il suo blogger appariva in fondo alla via, l'angolo della sua bocca si inarcò in un sorriso e la sua mente elaborò l'esperimento perfetto.

“Un esperimento ad alto rischio, potrebbe distruggere quel delicato equilibrio che c’è tra voi.”

Delicato, sì, e conveniente per entrambi, in fondo. Ma ormai irrimediabilmente incrinato, come il suo bunker un tempo impenetrabile e Sherlock sentiva di non poter più tornare indietro.

Un equilibrio costretto ad evolversi, suo malgrado.

John era stanco mentre saliva le scale, con un leggero torcicollo e decisamente confuso, forse sull’orlo di quella epifania.
Il momento ideale per il suo esperimento.
Qualcosa vibrò dentro di lui quando il dottore si preoccupò per il fatto che non avesse mangiato nulla, ma immaginò di doverci fare l’abitudine, con i sentimenti che provava verso il suo blogger ormai esposti alle intemperie.

“Hai mangiato qualcosa, Sherlock?”
“Riposati, Sherlock.”
“Per l’amor del cielo, sei in piedi da più di trentasei ore. Vai a dormire, Sherlock.”

L’affetto che John provava per lui traspariva chiaro e trasparente, al pari dell’ammirazione, dal tono dolce con cui ogni volta pronunciava il suo nome.
Finita la cena Sherlock si portò in salotto, sedendosi sul bordo della scrivania, e poi parlò “Baciami.”
Una semplice parola (un ordine, a dire il vero). Ma Sherlock poté notare che per John fu come l’esplosione di una bomba, un sasso gettato in uno stagno immoto in una placida giornata di luglio, che fa destare terrorizzati i suoi abitanti.
Lo guardò avvicinarsi come in trance, ancora incredulo, fino a quando non occupò completamente il suo campo visivo.
Rifiutò la sua richiesta di chiudere gli occhi: assolutamente no, doveva analizzare ogni dettaglio, capire fino in fondo, l’esperimento era troppo vitale. E se John aveva frainteso qualcosa, com’era chiaro, pazienza, avrebbero avuto modo di chiarirsi più avanti.
Percepì la punta delle sue dita sul viso, calde, delicate al punto da essere timorose, vide le sue palpebre abbassarsi, le ciglia tremare e poi, finalmente, le labbra poggiarsi sulle sue, esattamente come aveva previsto. Dentro di sé esultò e represse a stento un mugolio di trionfo, mentre John inclinava la testa ed approfondiva quel morbido contatto.
Che era semplicemente giusto. Il suo cervello, per metà impegnato a godere di quella novità, non riuscì ad articolare una definizione più eloquente e divenne ancor meno cooperativo quando John affondò una mano tra i suoi capelli, grattandogli la nuca con le unghie in un gesto possessivo che lo fece sussultare.
E d’improvviso John si ritrasse, evitando il suo sguardo. “Soddisfatto?” soffiò il dottore.
Oh, lo stato d’animo di Sherlock era ben al di là della soddisfazione, ma decise di non farlo trapelare, non ancora.
John invece appariva stanco, provato...

“Oh John, davvero ancora non capisci? Osserva, osserva per una volta in vita tua!” Ma il suo blogger voleva solo uscire da lì al più presto e a Sherlock non restò altro da fare se non dare voce all’ovvio “Tu mi ami.”
La reazione scomposta e irata, da gattino cieco, del dottore non lo sorprese affatto né lo spaventò: John aveva posato le labbra sulle sue, in un gesto inequivocabile.

"Avresti potuto darmi un bacio sulla guancia, o sulla fronte. Ma tu mi hai baciato sulla bocca. Quindi mi ami. - osservò Sherlock in tutta calma - ... se Molly o Lestrade od un qualsiasi estraneo te lo chiedesse, tu lo baceresti sulle labbra?" incalzò.
E provò un sottile piacere nell'aprire gli occhi al suo blogger, nel veder crollare le ultime barriere che dividevano John dalla verità, una piccola rivincita per ciò che il dottore aveva fatto al suo bunker, in fondo.
John però gli rivolse un sorriso amaro "Complimenti. E' così. Immagino sia molto divertente dimostrare che sono talmente idiota da non rendermi conto dei mie stessi sentimenti."
Oh no. Quell'operazione di maieutica era decisamente più ostica di quanto il consulting detective avesse preventivato "E' questo ciò che pensi, John? Pensi che abbia fatto tutto questo solo per dimostrare che avevo ragione? No, non è così."
Ma dato che le parole non sembravano sortire alcun effetto su John, Sherlock decise di far parlare i fatti al loro posto.

Prima gli afferrò un polso, scostandogli la mano dalla maniglia della porta e poi glieli inchiodò entrambi sopra la testa, ottenendo la sua piena attenzione.

“John, l’esperimento non era solo per te.” disse piano.

"Cosa vuoi che me ne importi?" chiese John cercando, con poca convinzione, di liberarsi della sua presa.

"Era anche per me: dovevo assolutamente capire una cosa."

Sherlock lo vide deglutire a vuoto, gli occhi fissi sulle sue labbra "C-cosa... cosa dovevi capire?" il tono finalmente più calmo, in fondo al quale tremolava debole la speranza.

“Questo.” rispose Sherlock, prima di reclamare nuovamente la proprietà della bocca di John. E, ad occhi chiusi, poté concentrarsi sulle informazioni degli altri sensi: la pelle accaldata e leggermente sudata di John, il sapore della sua bocca, la piacevole ruvidezza della sua lingua, le sue mani che, lasciate libere, gli affondavano ritmicamente tra i capelli, il tremito lieve delle sue ginocchia.

E di nuovo quella prepotente sensazione che tutto ciò fosse giusto.

Semplicemente e perfettamente giusto.

Sentì John muoversi nel suo abbraccio, mugolare e poi premere delicatamente le mani sul suo petto, ma il suo cervello ci mise un attimo a realizzare che l'altro si era staccato da lui; quando aprì gli occhi se lo trovò davanti con il fiato mozzo e sincopato ed un sorriso assurdo sulle labbra.

"Hai chiuso gli occhi." mormorò John.

Finalmente aveva capito.

Era stato sfibrante, ma ne era valsa la pena. Sherlock appoggiò la fronte contro quella del suo blogger, beandosi del calore e del respiro sul suo viso. "Questa volta non era un esperimento."

 

FINE

 

NOTE

 

[1] Brano dei Rondò Veneziano. Ho scelto questo perché Sherlock, per comprendere i suoi sentimenti e quelli di John intraprende un vero e proprio viaggio. Anche tutti i brani successivi da me scelti dovrebbero, almeno teoricamente, potersi accostare alle riflessioni del consulting detective. 

[2] Disturbo piuttosto comune tra i bambini, si ha quando la produzione di corpi chetonici (che si formano quando "bruciamo" sostanze grasse per produrre energia) è eccessiva. Produce malessere diffuso, vomito, nausea e disidratazione, unitamente ad un odore pungente e caratteristico. 

[3] La versione inglese di "Un, due, tre, stella". 

[4] Più o meno 115 cm. Questo l'avevo letto sulla Settimana Enigmistica: è la distanza standard che tengono due europei del nord che intrattengono una conversazione. Per noi italiani, invece, la distanza media è di circa 80 cm... sarà la nostra solita espansività mediterranea ^^

   
 
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