Disclaimer: Sherlock
appartiene ad Arthur Conan Doyle, alla BBC
e a Moffat/Gatiss.
Tediosa
introduzione:
Questa fanfiction è la sorella gemella
di La divinità che, nelle mie intenzioni, doveva restare
una
one-shot. Ma poichè non è che io vada molto
d'accordo con me stessa, ho
iniziato a chiedermi cosa ronzava nella testa di Sherlock in quello
stesso
momento e così è nato questa specie di "lato B".
Narrato dal punto di
vista di Sherlock, è decisamente meno divertente e
più cerebrale; ho provato più
volte ad alleggerire la narrazione, ma non c'è stato molto
da fare: appena
provo a mettermi nei panni di Sherlock, è così
che me lo immagino.
IL BUNKER
L’angolazione
dei raggi del sole che filtravano attraverso i
vecchi scuri indicò a Sherlock che erano circa le sei di
mattina. A conferma
delle sue parole, pochi secondi più tardi il campanile della
chiesa vicina
battè le ore.
Una doccia veloce e subito prese il violino dalla custodia. Doveva pensare, riflettere, dedurre.
Capire.
La soddisfazione per aver risolto l'ennesimo caso si era già dissolta, spazzata via da un ben più complesso enigma. Un enigma che gli era sotto gli occhi da molto tempo, ma che aveva colpevolmente confinato in un angolo del Mind Palace, un ripostiglio davanti al quale passava ostinatamente senza guardare, come un cavallo col paraocchi.
Posizionò lo strumento sotto il mente ed iniziò a suonare l'Odissea Veneziana [1]. Subito la musica sortì il suo effetto: il respiro si fece cadenzato, il cuore rallentò e la pressione sanguigna scese, il corpo e le sue funzioni si contrassero, mentre la mente si espanse.
Ermetico.
Così
si era sempre considerato in quel settore.
Quello
delle debolezze di origine chimica che il linguaggio comune
catalogava come emozioni e sentimenti.
Impenetrabile
a tutto, come un rifugio antiatomico dalle spesse
pareti in cemento armato.
E
fino a qualche tempo fa era stato così: il pericoloso
groviglio
caotico dei sentimenti altrui era scivolato via sui muri impermeabili
del suo
bunker interiore, senza lasciare traccia alcuna. Quanto ai propri, di
sentimenti, qualora ci fossero, erano sigillati ad una
profondità tale in lui,
da essere del tutto irrilevanti.
Tutto
questo, almeno, finché nella sua vita era non piombato John
Watson.
Ed
ora lui si ritrovava a contemplare le macerie del suo bel
rifugio. Scrutando con attenzione riusciva a distinguere ogni singola
picconata
inferta dal suo blogger.
Il
suo blogger.
Già questa definizione era
strana, non da lui. Perche Sherlock Holmes non aveva bisogno di imporre
un
aggettivo possessivo ad un altro essere umano. Eppure ormai non
riusciva a
concepire altro luogo per John che non fosse al suo fianco.
"Medico
militare, disciplinato, spartano, un buon
coinquilino, potenzialmente."
Così lo aveva
inquadrato la prima volta che lo aveva visto. Gli era bastato un attimo
per
cogliere in lui la nostalgia del campo di battaglia, per dedurre i
problemi
economici e quelli psicosomatici, il difficile rapporto con Harry, al
quale
lui, uomo orgoglioso e tutto d'un pezzo, non avrebbe mai chiesto aiuto.
In
trenta secondi aveva capito tutto di lui.
O almeno così credeva.
"Ora mi aggredirà per come ho messo a nudo la sua vita. C’è il settanta per cento di probabilità che faccia accostare l’autista per scendere." Così aveva pensato durante la loro prima corsa in taxi.
E invece John lo aveva sorpreso.
Ancora adesso, a più di un anno di distanza, aveva ancora nelle orecchie il suono della sua voce mentre esclamava "E' stato straordinario!” con ammirazione sincera.
Oh.
Deduzione errata.
Non gli capitava spesso, davvero, e si sentì come quando aveva cinque anni e andava a rubare mou e cioccolatini dal salotto ove suo papà riceveva gli ospiti. A causa delle sue forti crisi acetonemiche [2] il cioccolato gli era proibito, ma il piccolo Sherlock era certo che nessuno si sarebbe accorto se ne prendeva uno ogni tanto, soprattutto se avesse nascosto gli incarti dietro a quella pesantissima e antica libreria in noce, che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di spostare. Almeno finché sua mamma non aveva deciso, senza alcuna ragione logica per farlo, che la tappezzeria di quella stanza andava assolutamente cambiata ed una cascata di carte colorate si era riversata a terra da dietro il mobile (da lì aveva deciso che, no grazie, le donne non era decisamente una sua area di interesse).
Disorientato si era sentito in quel frangente ed anche un po’ in imbarazzo per essere stato scoperto.
Disorientato si era sentito su quel taxi ed anche un po’ in imbarazzo per il giudizio frettoloso sul dottore.
Forse
John meritava più considerazione, si era detto.
Dargli credito fu come autorizzarlo a procedere con la demolizione.
“Sta
riflettendo su qualcosa di abbastanza inaspettato da
richiedere una discreta concentrazione e farlo fermare, per evitare di
inciampare e cadere.”
Poi
comparve sulla soglia del salotto, lo salutò e scosse la
testa
divertito al suo commento sull’aver dormito fin troppo.
Lo
vide riflesso nel vetro della finestra, lo sguardo perplesso
dopo il primo sorso di caffè, evidentemente ancora
prigioniero della
riflessione iniziata sulle scale. L’insinuazione che ci fosse
qualcosa di
strano nella bevanda, il modo in cui lasciò frettolosamente
l’appartamento non
fecero che offrirgli altro materiale su cui riflettere.
Nell’aria
si diffusero le note della Fantasia n.1 per violino di
Telemann, e la mente di Sherlock riprese ad analizzare la sua, la loro
situazione.
Da
quel “E’ stato straordinario!”
innumerevoli erano
stati i colpi inferti da John al suo bunker di indifferenza, alcuni
lievi e
impercettibili, come correre come matti nella notte londinese, ridere
assieme
sulla scena di un crimine (nessuno mai aveva riso con lui per il suo
humour
nero) o semplicemente guardare programmi idioti alla tv la sera.
Altre
picconate erano state decisamente più forti, tanto da far
saltar via interi blocchi di cemento del suo rifugio.
Il
tassista, freddato un attimo prima che lui, da vero idiota
qual era, inghiottisse quella dannata pillola. E se non ci
fosse stato John
l’avrebbe fatto davvero.
John
lo sapeva, lo aveva capito subito, ecco perché aveva
sparato.
Non l’aveva fatto per uccidere un serial killer e guadagnarsi
l'anonima stima
di tanti concittadini, ben contenti di non dover mantenere in carcere
un
soggetto simile.
No,
John aveva sparato per salvare Sherlock.
Principalmente
da se stesso.
“Quest’uomo
è l’ancora della mia sanità
mentale.” così
aveva pensato in quell’istante.
E
poi la piscina: Sherlock aspettava Moriarty e d’improvviso
era
apparso John, la bomba nascosta ed invisibile sotto il cappotto,
affermando
"Questo è inaspettato, non è vero, Sherlock?"
Poco
dopo aveva scoperto che era il suo nemico ad obbligarlo a
parlare, ma Sherlock nemmeno per una frazione di secondo aveva pensato
che ci
fosse John dietro quelle bombe, che il suo blogger l’avesse
abilmente
raggirato.
Non
è che avesse scartato quell’ipotesi.
Quell’ipotesi
non si era nemmeno formata nella sua mente.
“La
fiducia che nutri in lui è la più solida certezza
della tua
vita.” Così
aveva pensato quella notte, uscito da quella trappola
mortale, mentre si rigirava senza sosta nel letto, cercando inutilmente
di
prender sonno.
Giorno
dopo giorno John demoliva le sue difese e si avvicinava a
lui, sempre più. Impercettibilmente, millimetricamente, ma
inesorabilmente.
Come nel gioco “Grandmother’s footsteps”
[3], si voltava a guardare John e lui
era ad una certa distanza, poi alla fine di un caso o
dell’ennesima avventura
lo guardava di nuovo e si era avvicinato.
E
lui glielo aveva permesso. Glielo aveva permesso a tal punto da
sentirsi in colpa per quanto successo a Baskerville, per averlo usato
come
cavia e per avergli abbaiato contro che lui non aveva amici.
In
colpa al punto da aprirsi come mai prima aveva fatto in vita
sua e confessargli che lui era il suo unico amico. Che non
c’era nessun altro
come lui.
Attaccò
Avrebbe
potuto ritrarsi, interrompere quell’assalto insensato e
ricostruire velocemente le pareti del suo rifugio. Dopotutto non aveva
realmente bisogno di dividere le spese con un coinquilino.
Ma
non lo aveva fatto, non aveva mai pensato seriamente a farlo.
Perché?
Tutte
le sue capacità logico-deduttive non erano riuscite a dare
una risposta a quel quesito.
Seccante
e curioso allo stesso tempo.
Sherlock
sospettava che la risposta, chiara, giacesse lì, nel
centro del suo bunker che John aveva sistematicamente smantellato.
Dunque
provava qualcosa per John? Lo amava?
Molti
inizi facevano propendere per il sì, tuttavia la sua
esperienza in quel campo era del tutto assente per potersi dare una
risposta
certa e definitiva.
Occorreva
quindi un esperimento per sapere.
Ma
c’era un altro quesito vitale che necessitava di una analoga
risposta.
John
provava qualcosa per lui?
Oh,
cercare di dare una risposta a questo era ancor più arduo!
L’esperienza gli aveva dimostrato che il più delle
volte le sue deduzioni su
John non erano accurate.
La
sua mente tornò a quella sera, al ristorante da Angelo: John
aveva negato di volere una relazione con lui e spesso, molto spesso, il
dottore
si sgolava nel dichiarare ad Anderson, a Mrs. Hudson, alla Donna, al
mondo
intero che lui, no, non era gay.
Le
malinconiche note dell'Introduzione e Rondò Capriccioso op.
28
di Saint-Saëns si spansero attorno a lui, avvolgendolo.
Forse
i sentimenti di John erano solo amicizia, o cameratismo...
Tuttavia
c'erano stati tra loro segnali ed indizi che lo
inducevano a pensare
a
sperare
che
ci fosse dell'altro: il fatto che le sue relazioni a lungo
termine con il gentil sesso difficilmente superassero le tre settimane
(con o
senza il suo intervento), l’affermazione che non ci fosse
nulla di male in una
relazione omosessuale, quell'innegabile senso di fiducia, di intesa,
sostegno e
di stima reciproca che permeava molti aspetti della loro convivenza.
E
poi altro ancora.
Ancora
quella dannata piscina, Moriarty che ci ripensa e decide di
far fuori entrambi, Sherlock che cerca lo sguardo di John prima di
puntare la
pistola verso l'esplosivo, il cenno di assenso, breve ma fermo del
dottore: "E sia. Facciamolo. Facciamolo
insieme
e trasciniamo questo pazzo con noi. Se va bene per te, va bene anche
per me."
E poi
ancora.
C'era
la questione della prossimità, della vicinanza. Tutti gli
esseri umani, lui
compreso, possedevano una bolla di spazio personale, una distanza
ideale alla
quale gli altri dovevano tenersi, una linea immaginaria da non valicare
mai
senza permesso. Una specie di regola non scritta nonché una
delle poche
convenzioni sociali alle quali Sherlock si atteneva con piacere.
Ebbene,
John sembrava non aver recepito questa regola quando si trattava di lui.
Se si
relazionava con qualsiasi altra persona, John manteneva una distanza di
circa
quarantacinque pollici dal suo interlocutore [4], ma quando si trattava
di lui,
le distanze erano praticamente annullate: parlavano sottovoce, l'uno
all'orecchio dell'altro, così vicini da poter sentire il
calore irradiarsi dai
rispettivi corpi, quando Sherlock era al portatile, John compariva alle
sue
spalle, si appoggiava allo schienale della sedia e accostava il viso al
suo, i
capelli che si sfioravano, quando camminavano insieme nella folla
londinese,
John appoggiava quasi sempre il braccio al suo.
Quasi un
prendersi metaforicamente per
mano.
Era
un qualcosa che
John faceva solo con lui.
Era
un qualcosa che
Sherlock permetteva a lui solo.
Tanti,
troppi episodi di questo tipo, per pensare fosse solo una coincidenza.
E le
coincidenze non esistono.
La
lunga cavalcata della mente approdò alla sera prima,
all'ultimo caso risolto.
Sherlock non aveva fatto in tempo a spiegargli come avesse dedotto chi
era il
colpevole partendo dal furto di un orologio, che John aveva
praticamente urlato
"Sherlock, sei geniale!"
Ormai
avrebbe dovuto essere abituato alle lodi sperticate del suo
coinquilino, ma non
era così. Ogni volta portava con sé lo stupore
della prima volta: il volto di
John si illuminava, il suo sorriso solare si stendeva sulle labbra e
gli occhi
brillavano, mentre non riusciva a trattenere l'ammirazione che provava
per lui.
"E'
perché è sincero. Non potrai mai
abituarti ai suoi complimenti, perché ogni volta vengono dal
cuore."
E
quella sera, per la prima volta, erano rimasti a lungo a fissarsi in
silenzio,
occhi fissi negli occhi, senza parlare, senza quasi respirare. Ecco,
era stato
in quel momento che qualcosa, dentro di loro, era scattato.
John
provava qualcosa per lui, Sherlock ne era quasi certo.
Eppure
non se ne rendeva conto.
Oh,
quante, quante volte l'aveva rimproverato per questo.
John, tu
guardi, ma non osservi.
Sherlock
voleva che capisse, voleva che smettesse di essere un gattino cieco che
si
muove a tentoni nel buio.
E,
mentre su Londra era calata la sera ed il suo blogger appariva in fondo
alla
via, l'angolo della sua bocca si inarcò in un sorriso e la
sua mente elaborò
l'esperimento perfetto.
“Un
esperimento ad
alto rischio, potrebbe distruggere quel delicato equilibrio che
c’è tra voi.”
Delicato,
sì, e
conveniente per entrambi, in fondo. Ma ormai irrimediabilmente
incrinato, come
il suo bunker un tempo impenetrabile e Sherlock sentiva di non poter
più
tornare indietro.
Un
equilibrio
costretto ad evolversi, suo malgrado.
John
era stanco mentre
saliva le scale, con un leggero torcicollo e decisamente confuso, forse
sull’orlo di quella epifania.
Il momento ideale per
il suo esperimento.
Qualcosa vibrò dentro
di lui quando il dottore si preoccupò per il fatto che non
avesse mangiato
nulla, ma immaginò di doverci fare l’abitudine,
con i sentimenti che provava
verso il suo blogger ormai esposti alle intemperie.
“Hai
mangiato
qualcosa, Sherlock?”
“Riposati, Sherlock.”
“Per l’amor del cielo,
sei in piedi da più di trentasei ore. Vai a dormire,
Sherlock.”
L’affetto
che John
provava per lui traspariva chiaro e trasparente, al pari
dell’ammirazione, dal
tono dolce con cui ogni volta pronunciava il suo nome.
Finita la cena
Sherlock si portò in salotto, sedendosi sul bordo della
scrivania, e poi parlò
“Baciami.”
Una semplice parola
(un ordine, a dire il vero). Ma Sherlock poté notare che per
John fu come
l’esplosione di una bomba, un sasso gettato in uno stagno
immoto in una placida
giornata di luglio, che fa destare terrorizzati i suoi abitanti.
Lo guardò avvicinarsi
come in trance, ancora incredulo, fino a quando non occupò
completamente il suo
campo visivo.
Rifiutò la sua
richiesta di chiudere gli occhi: assolutamente no, doveva analizzare
ogni
dettaglio, capire fino in fondo, l’esperimento era troppo
vitale. E se John
aveva frainteso qualcosa, com’era chiaro, pazienza, avrebbero
avuto modo di
chiarirsi più avanti.
Percepì la punta delle
sue dita sul viso, calde, delicate al punto da essere timorose, vide le
sue
palpebre abbassarsi, le ciglia tremare e poi, finalmente, le labbra
poggiarsi
sulle sue, esattamente come aveva previsto. Dentro di sé
esultò e represse a
stento un mugolio di trionfo, mentre John inclinava la testa ed
approfondiva
quel morbido contatto.
Che era semplicemente
giusto. Il suo cervello, per metà impegnato a godere di
quella novità, non
riuscì ad articolare una definizione più
eloquente e divenne ancor meno
cooperativo quando John affondò una mano tra i suoi capelli,
grattandogli la
nuca con le unghie in un gesto possessivo che lo fece sussultare.
E d’improvviso John si
ritrasse, evitando il suo sguardo. “Soddisfatto?”
soffiò il dottore.
Oh, lo stato d’animo
di Sherlock era ben al di là della soddisfazione, ma decise
di non farlo
trapelare, non ancora.
John invece appariva
stanco, provato...
“Oh
John, davvero
ancora non capisci? Osserva, osserva per una volta in vita
tua!” Ma
il suo blogger
voleva solo uscire da lì al più presto e a
Sherlock non restò altro da fare se
non dare voce all’ovvio “Tu mi ami.”
La reazione scomposta
e irata, da gattino cieco, del dottore non lo sorprese affatto
né lo spaventò:
John aveva posato le labbra sulle sue, in un gesto inequivocabile.
"Avresti
potuto darmi un bacio sulla guancia, o sulla
fronte. Ma tu mi hai baciato sulla bocca. Quindi mi ami. -
osservò Sherlock in
tutta calma - ... se Molly o Lestrade od un qualsiasi estraneo te lo
chiedesse,
tu lo baceresti sulle labbra?" incalzò.
E provò un sottile piacere nell'aprire gli occhi al suo
blogger, nel veder crollare le ultime barriere che dividevano John
dalla
verità, una piccola rivincita per ciò che il
dottore aveva fatto al suo bunker,
in fondo.
John però gli rivolse un sorriso amaro "Complimenti.
E' così. Immagino sia molto divertente dimostrare che sono
talmente idiota da
non rendermi conto dei mie stessi sentimenti."
Oh no. Quell'operazione di maieutica era decisamente più
ostica di quanto il consulting detective avesse preventivato "E' questo ciò che pensi, John? Pensi
che abbia fatto tutto questo solo per dimostrare che avevo ragione? No,
non è
così."
Ma dato che le parole non sembravano sortire alcun effetto
su John, Sherlock decise di far parlare i fatti al loro posto.
Prima
gli afferrò un
polso, scostandogli la mano dalla maniglia della porta e poi glieli
inchiodò
entrambi sopra la testa, ottenendo la sua piena attenzione.
“John,
l’esperimento
non era solo per te.” disse piano.
"Cosa
vuoi che me
ne importi?" chiese John cercando, con poca convinzione, di liberarsi
della sua presa.
"Era
anche per me:
dovevo assolutamente capire una cosa."
Sherlock
lo vide
deglutire a vuoto, gli occhi fissi sulle sue labbra "C-cosa... cosa
dovevi
capire?" il tono finalmente più calmo, in fondo al quale
tremolava debole
la speranza.
“Questo.”
rispose
Sherlock, prima di reclamare nuovamente la proprietà della
bocca di John. E, ad
occhi chiusi, poté concentrarsi sulle informazioni degli
altri sensi: la pelle
accaldata e leggermente sudata di John, il sapore della sua bocca, la
piacevole
ruvidezza della sua lingua, le sue mani che, lasciate libere, gli
affondavano
ritmicamente tra i capelli, il tremito lieve delle sue ginocchia.
E
di nuovo quella
prepotente sensazione che tutto ciò fosse giusto.
Semplicemente
e
perfettamente giusto.
Sentì
John muoversi
nel suo abbraccio, mugolare e poi premere delicatamente le mani sul suo
petto,
ma il suo cervello ci mise un attimo a realizzare che l'altro si era
staccato
da lui; quando aprì gli occhi se lo trovò davanti
con il fiato mozzo e
sincopato ed un sorriso assurdo sulle labbra.
"Hai
chiuso gli
occhi." mormorò John.
Finalmente
aveva
capito.
Era
stato sfibrante,
ma ne era valsa la pena. Sherlock appoggiò la fronte contro
quella del suo
blogger, beandosi del calore e del respiro sul suo viso. "Questa volta
non
era un esperimento."
FINE
NOTE
[1]
Brano dei Rondò Veneziano. Ho scelto questo
perché Sherlock,
per comprendere i suoi sentimenti e quelli di John intraprende un vero
e
proprio viaggio. Anche tutti i brani successivi da me scelti
dovrebbero, almeno
teoricamente, potersi accostare alle riflessioni del consulting
detective.
[2] Disturbo
piuttosto comune
tra i bambini, si ha quando la produzione di corpi chetonici (che si
formano
quando "bruciamo" sostanze grasse per produrre energia) è
eccessiva.
Produce malessere diffuso, vomito, nausea e disidratazione, unitamente
ad un
odore pungente e caratteristico.
[3] La
versione inglese di
"Un, due, tre, stella".
[4]
Più o meno