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Autore: FRC Coazze    21/03/2012    2 recensioni
Una nobile famiglia costretta a lasciare la sua terra. Un nuovo paese. Una potente abazia. Una creatura leggendaria. Un tesoro. Un ragazzo. Una storia.
(Basata su fatti storici.) Questa storia è temporaneamente sospesa.
Genere: Avventura, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Dictus Fayditus permutavit 1

 

Montjovet, 1294

 

Cacciati.

Sì, cacciati, esiliati: questo siamo.

Cacciati. Perché non è per nostra scelta che ora ce ne andiamo. Non è per nostra volontà che lasciamo le nostre terre, la nostra valle, la nostra casa. No. Nessuna volontà in questo. Nessun libero arbitrio per noi che pure siamo una delle più antiche famiglie di questi luoghi.

Un imbroglio. Una calunnia.

Hanno cacciato il leone dalla sua tana, annientato la sua libertà. Per che cosa? Per un castello? Per un feudo, un titolo? Perché?

Noi siamo i signori di queste terre. Abbiamo vissuto qui per secoli. E’ la nostra storia che sta svanendo, certo. Non sicuramente quella dei discendenti del Biancamano, che pure posseggono la stessa antichità del nome nostro. Indietro. Indietro fino ai tempi di Carlo Magno. Ed ora è proprio l’erede di quella stirpe antica che regna laggiù, in Savoia, al di là delle Alpi. L’erede dei signori di Moriana, signore in quel di Chambery da dove tende le sue dita verso queste terre che un tempo si definivano libere.

Un tempo. 

Eppure da trecento anni ormai la Valle di Aosta è indissolubilmente legata al nome di Savoia. Maledetto quel giorno in cui questa terra divenne contea di Umberto Biancamano!

Se fosse rimasta, chissà, nelle mani dei barbari longobardi, ora non saremmo qui a salutare per l’ultima volta la nostra casa. Non saremmo qui a dover montare a cavallo per intraprendere un viaggio verso un nuovo paese, una nuova valle… una terra che non ci appartiene. E a cui noi non apparteniamo.

Noi apparteniamo a questa terra. Qui, a Montjovet, alla Valle di Ajas. Non conosciamo le terre che furono della grande Adelaide di Susa. Non apparteniamo ad esse. Non abbiamo là un storia. La nostra storia è qui. Tra queste montagne. Non tra quelle.

Ma se il conte di Savoia comanda, gli umili vassalli debbono ubbidire.

Il mio pugno si stringe intorno alle briglie di cuoio. Se Aurora, dalle lunghe trecce laggiù ad est, voltasse lo specchio della sua vanità verso di me potrei vedere le gocce infuocate di rabbia scintillare nei miei stessi occhi. Chissà cosa pensa di me, il cielo rosato dell’oriente…

‘Guarda, laggiù… un ragazzo a cavallo. Guarda, nobili e servitori e cavalli, tutti in fila sulla polverosa via che striscia verso sud! Tutti in fila. E quel ragazzo col capo chino che monta un cavallo grigio.’

Guardami, aurora. Guardami, rimanda il mio sguardo. Perché non mi vedrai mai più tra queste montagne, né io ti vedrò mai più da esse. E’ il tuo ultimo sguardo per me. Sei la mia ultima alba. L’ultima, poiché tali non possono definirsi quelle che sorgono su valli diverse. Non hanno la stessa sfumatura, la stessa melodia… lo stesso colore che imperla le rocce della montagna come questo che tu spargi come sudore sulle fronti arrossate del Mont Lyan.

Guardami. Guarda la rabbia e il dolore e il tradimento in questi occhi.

Imbrogliati. Cacciati. Esiliati.

Taglieggiare i viandanti. Sì, questo mio nonno fa secondo il Conte. Come se non fosse normale per una famiglia che controlla un punto strategico sul via vai commerciale della valle come la nostra riscuotere i dovuti tributi. Ma solo quelli.

Mio nonno non ha mai approfittato della posizione privilegiata della nostra terra. E nemmeno mio padre. E’ solo una menzogna. Una calunnia!

Eppure… eppure è troppo ricco questo feudo per farselo sfuggire. Troppo potere ammassato nelle mani di una semplice nobile famiglia valligiana. Già. Quale scusa migliore per appropriarsi della nostra terra se non accusarci di essere dei ladri.

Anche un cieco vedrebbe che è tutto inventato. Che siamo stati cacciati dalle nostre terre per la comodità del conte di Savoia. E quel che è peggio è che mio nonno Guglielmo e mio padre Roleto non hanno fatto altro che chinare il capo e accettare la cosa. Mio nonno… lo chiamano il faydito ora. Il cavaliere errante, il brigante. Guglielmo Faydito di Montjovet. Mio nonno! Che è sempre stato giusto e buono e…

… E se continuo a pensarci rischio di esplodere.

Eppure mio nonno ha firmato. Ha firmato quel maledetto documento. Ha scambiato il nostro feudo, la nostra valle con terre che e paesi che non abbiamo mai sentito nominare.

  in mandamento de Covazes, et Valle Zyoja…2  

Immagino che razza di posti possano essere! Paesini dal nome ridicolo persi nel nulla, nel buio e nella nebbia delle vallate barbare di Torino. Luoghi dimenticati da Dio. Ma certo non dal conte di Savoia, che se li è tenuti da parte solo per gettarli in faccia a noi, imbellettati da toni austeri e promesse e… e menzogne.

Coazze, Covazes che dir si voglia. Che nome è? Che cos’è in confronto a Montjovet, Montis Jovis il monte di Giove! Un paese sperduto dove non hanno mai nemmeno conosciuto la gloria e la civiltà di Roma. Un paese barbaro con un nome altrettanto barbaro. E’ lì che stiamo andando. Nella tenebra e nel grigiore del nulla. In un paese che non abbiamo mai sentito nominare. E che mio nonno ha scambiato con Montjovet. Montjovet che è un feudo ricco, potente e importante.

Che ne sarà di questa terra una volta che sarà passata nelle grinfie avide del conte? Se solo penso a cosa ne farebbe il nostro conte e signore… al perché voleva questo feudo… sento il sangue ribollente del leone che balza sulla nostra arme ruggire dentro di me. Perché il conte non terrà questa terra per sé. Oh no. Per lui è solo merce di scambio. Ad altri fa gola la nostra signoria e io quegli altri li conosco bene. E sono pure nostri parenti. Ironia della sorte…

Qual è, però, l’obiettivo vero del conte non so dire.

Scuotere la testa non serve a niente. Eppure mi ritrovo a farlo, sospirando, e pure un sorriso mi sale sulle labbra. Non so davvero se ridere o piangere per questa situazione. Io sono nato qui. Qui ho vissuto per vent’anni. In quel castello, lassù, fiero e arrogante con la sua torre che sfida il cielo.

Mi volto indietro, piegandomi sulla sella.

I miei fratelli hanno la mia stessa espressione sul volto. Tutti. Solo Giovanni, di fianco a me, tiene il capo chino, rassegnato. Anche lui, come nostro padre, ha accettato la cosa. Calunniati, cacciati eppure nessuno ha osato far valere la nostra verità. Non vedono? Non vedono che il nostro nome, la nostra storia è stata annientata? Non lo vedono?

I miei occhi vagano alle mie spalle, là dove ormai non vive che il passato. Quello che eravamo. Quello che siamo stati.

E’ finita. E’ un taglio netto nella tela della storia e la mano che regge la forbice appartiene ad un uomo che vive a chilometri di distanza, al di là delle montagne, in Francia. Cosa ne sa lui di cos’è questa terra? Cosa ne sa di noi? Non siamo altro che nomi per lui. Nomi gettati in macchie d’inchiostro sulla pergamena, con non curanza, con nessuno rispetto.

Sono così preso dai miei pensieri che nemmeno mi accorgo di aver fermato il cavallo. Rimango lì, a fissare dietro di me, a guardare per l’ultima volta quelle montagne, quelle valli, quelle rocce. Le conosco tutte. Una a una. Conosco i loro nomi. Potrei salutarle tutte, chiamarle con il loro nome. Sono come sorelle per me. Sorelle che ho conosciuto sin da quando ero bambino, e loro erano già vecchie, curve e sapienti, cantastorie di tempi immemori. Ultimi testimoni di battaglie, di re, viandanti, nobili. Ora conserveranno anche la nostra memoria? Ricorderanno questo giorno? Quando i Copperio di Montjovet hanno lasciato per sempre la loro terra? Ricorderanno il nostro guidone, anche quando noi non saremmo che polvere, e polvere saranno i nostri nomi e la nostra storia? Si ricorderanno di quel leone di fuoco rampante in un campo d’argento? Si ricorderanno?

Guardo per un’ultima volta il nostro castello; la sua torre perfetta, erta nel cielo ancora scuro dell’alba come un gigante imperturbabile che guarda. Guarda tutto. Guarda anche noi.

Sospiro.

La mia testa si china da sola. I miei occhi si posano a terra. Sono l’ultimo. Rimasto solo, solo con le montagne. I miei fratelli, mio padre… hanno tutti voltato le spalle ormai. Non si sono più voltati indietro mentre gli zoccoli dei loro cavalli sfiorano rudemente le pietre della strada. La nostra strada. Le nostre pietre.

Guardo le spalle di mio padre, coperte da un mantello nero. Non si è voltato indietro. E’ andato avanti. Forse, non ha avuto la forza di dire addio. Forse, per lui voltare le spalle è l’unico modo per andare avanti. Ma per me no. Io non posso voltarmi e fare finta che sia tutto finito. Fingere che dimenticherò questa terra. Mai.

Smonto. I miei piedi toccano ancora una volta la terra e la polvere che mi hanno generato. Io sono figlio di questa terra. E figlio di queste valli.

Guardo il castello di Saint Germain, lassù. Ancora una volta. Non posso… non riesco ad allontanare gli occhi da quella costruzione in cui sono cresciuto, in cui ho vissuto. Non riesco a dire addio.

Qualcuno si è fermato, alle mie spalle. Ho sentito il cavallo fermarsi, sbuffare, voltarsi verso di me. So che è mio padre. So che mi aspetta. Ma io non mi giro. I miei occhi esistono solo per le montagne, per le pietre del castello, per il cielo cupo e biondo dell’alba che ne sfiora le merlature della torre come la languida carezza di una lacrima. Forse quella stessa lacrima che ora bagna i miei occhi, che rotola giù lungo la mia guancia senza che possa in qualche modo fermarla, catturando in sé quell’ultima immagine della mia terra.

Mi chino a terra. Mi chino per raccogliere una pietra dalla strada polverosa.

Una semplice pietra. Piccola, azzurra, poco più piccola del palmo della mia mano. La stringo forte nel pugno mentre mi rialzo.

Non voglio dire addio. Non voglio andare. Non senza un po’ di queste montagne con me, nel palmo della mia mano.

E poi quella scia di fuoco nel cielo. Una stella caduta che vola sopra la figura immobile del castello. Una palla di fuoco di un fulgore meraviglioso come mai avevo visto. Scivola nel cielo, sopra le montagne, e il mio sguardo la segue mentre si dirige verso sud, a meridione, come noi. Continuo a guardare quella splendida scia di fuoco mentre scivola a mezzogiorno fino a perdersi nel viola dell’aurora.

Sospiro. Ancora. I miei occhi tornano al castello.

E così, addio Montjovet. Addio, Valle di Aosta. Addio a tutti. Anzi, arrivederci. Arrivederci, perché non posso dire addio, non posso pensare, né credere che vi rivedrò più. Farò di tutto per tornare. Lo prometto.

“Filippo!”

Mio padre mi chiama. Getto una svelta occhiata verso di lui, immobile sul suo cavallo baio, l’espressione cupa, triste. Mi guarda e io capisco che lui capisce. Lo vedo nei suoi occhi. Neanche lui vuole dire addio. Lo vedo da come il suo sguardo si posa sul nostro castello mentre chiama me.

Infilo la pietra nella sacca sulla sella del mio cavallo, quindi monto in groppa e i miei piedi si allontano dal suolo che hanno sempre calpestato.

Non mi guardo più indietro. Sprono il cavallo e raggiungo la figura immobile di mio padre. E’ ora di andare.

E’ ora di andare.


*******           

 

1 Il detto Faydito permutò. Tratto dall’atto di scambio tra Faydito di Montjovet e Amedeo V, da una copia degli archivi generali del Regno, Provincia di Susa, mazzo VI, Coazze, n.1
2 nei mandamenti di Coazze e Valgioie. Tratto da (vale quanto sopra).


Note dell'autrice.


Che ne pensate?

Capisco che può essere difficoltoso da capire, anche per chi è della zona di Coazze e non conosce la storia (e mi dispiace dire che sono tanti).

Vi riassumo brevemente la vicenda.

Siamo nel 1294. Gugliemo Faydito di Montjovet cede il feudo di Montjovet e le Valli di Challant e di Ajas (in Val d’Aosta) con il conte Amedeo V di Savoia, che gli cede, in cambio, i feudi di Coazze e Valgioie ora in provincia di Torino. Questo perché Faydito era stato accusato (a quanto apre ingiustamente) di taglieggiare i viandanti e di approfittare della posizione privilegiata del feudo di Montjovet per richiedere pedaggi esagerati.

Comunque, questo è l’inizio della storia dei feudatari di Coazze, che da Faydito hanno preso il nome diventando i Feyditi, purtroppo quasi sconosciuti ora nel loro stesso paese. Motivo per cui ho deciso di scrivere una storia su di loro. Storia che si basa sì su fatti storici e personaggi realmente esistiti, ma che sarà anche molto fantasy, con draghi e magia (ricordate la scia di fuoco che vede il nostro protagonista, perché è importante).

Tra l’altro, il protagonista, Filippo, non è mai esistito. E’ un personaggio inventato. Anche se l’ho messo tra i figli di Roleto Feyditi, in realtà, tra questi non è mai esistito alcun Filippo.

Altra cosa, questa storia vuole essere un tributo alla famiglia Feyditi e al paese di Coazze e non vuole in alcun modo mancare di rispetto a loro, alla stirpe di Savoia, all’Abazia di San Michele della Chiusa, alla Città di Avigliana, alla Città di Giaveno e altri personaggi e luoghi realmente esistenti ed esisti presenti in essa.

La storia non sarà in prima persona. Soltanto il prologo. Dal prossimo capitolo in poi la narrazione sarà in terza persona.

Spero che la storia vi intrighi. Aspetto le vostre recensioni, mi raccomando. Mi servono molto perché questa storia è destinata ad essere pubblicata (speriamo) quindi ho assoluto bisogno di commenti e critiche.

Non so quando aggiornerò. Dipende dalle traduzioni che sto facendo, di cui una piuttosto impegnativa. Spero di aggiornare non troppo in là nel tempo.

A presto.
 
 
 
  
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