Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |      
Autore: Surgeon    22/03/2012    11 recensioni
«Sta dormendo?» le chiedo, accennando a una delle porte che mi è vicina.
«Sì Niall, ma puoi entrare ugualmente, tesoro.»
La ringrazio e mi avvicino alla stanza 129. Prima di entrare, do un’occhiata alla scena attraverso il vetro trasparente e vedo un’immagine che ormai conosco a memoria.
Oltre la lastra limpida, attaccata a decine di tubi, c’è lei.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Niall Horan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Free Fallin'


Esco dall’ascensore e l’odore tipico degli ospedali mi investe. Odio gli ospedali. Li detesto. Eppure sono tutti i giorni qui.
Non è tanto il misto di medicinali e disinfettante, ormai ci ho fatto l’abitudine, è più per il fatto che in questi posti anche l’aria trapela di dolore, un dolore che è anche un po’ mio. Attraverso il corridoio cercando di mantenere un’andatura normale, ma in realtà vorrei correre.
Nel reparto dove mi trovo ora ci sono una decina di sedie di plastica blu, rovinate e impregnate dei profumi della gente che ci si è seduta, inzuppate nelle lacrime di chi ci si è appoggiato. Sono quasi tutte vuote, tranne per due signori sulla sessantina che non sembrano nemmeno notarmi e che hanno lo sguardo perso nel vuoto, come quasi tutte le persone che aspettano negli ospedali. Uno dei due ha un giornale in mano, e sono sicuro che stia facendo finta di leggerlo per non parlare con l’altro, perché ha paura delle parole che potrebbe dire. Ha paura di poter scoppiare a piangere, ha paura di poter far capire a qualcuno che non ce la fa più, che sta per cadere. Come faccio a saperlo? Perché anche io sono terrorizzato dal fatto di poter esplodere. E non devo, non posso.
«Ciao, Niall.» Mi giro e riconosco un viso che vedo ogni giorno da due anni a questa parte.
Eloise è un’infermiera grassottella e bionda che potrebbe essere mia madre. Lavora qui e tutte le volte mi scruta con quei suoi occhi umidi e compassionevoli, e anche se non l’ha mai detto, ha scritto in faccia a caratteri cubitali ‘Povero ragazzo’, incurante del fatto che non sono io quello da commiserare. Costringo la mia bocca a trasformarsi in qualcosa di simile a un sorriso, ma credo di non essere abbastanza allenato ultimamente, quindi il risultato è una specie di smorfia.
«Sta dormendo?» le chiedo, accennando a una delle porte che mi è vicina.
«Sì, ma puoi entrare ugualmente, tesoro.»
La ringrazio e mi avvicino alla stanza 129. Prima di entrare, do un’occhiata alla scena attraverso il vetro trasparente e vedo un’immagine che ormai conosco a memoria.
Oltre la lastra limpida, attaccata a decine di tubi, c’è lei.
 
La prima volta che la vidi fu il 28 luglio 2007, alla festa dei 18 anni di un amico. Ricordo che avevo sete, così andai a prendermi qualcosa da bere. Mi trovai davanti la cosa più bella che avessi mai visto. La sua chioma rossa fu la prima cosa che notai. Dovevo avere un’aria da idiota totale, perché mi guardava divertita.
«Ciao» fu la prima cosa che mi disse.
«Mi piacciono… i tuoi capelli…» risposi io, senza pensare.
Lei scoppiò a ridere, e io mi innamorai.
 
Entro nella stanza, attento a non far rumore, e chiudo la porta alle mie spalle. Lo sgabello accanto al letto è ancora lì, al suo posto. Mi siedo e la guardo. Il viso rilassato è pallido e magro e da più di un anno al posto dei boccoli rossi e ribelli c’è una bandana verde, ‘Verde perché tu sei irlandese e perché è il colore della speranza’, mi ha spiegato Grace.
‘La speranza, dicono, è l’ultima a morire’. Ho sempre pensato che sì, è l’ultima, ma alla fine muore pure lei.
Ho un groppo in gola, e non riesco a mandarlo giù.
 
La prima volta che ci baciammo fu cinque mesi dopo il nostro incontro.
Ci avevo messo un’eternità a decidermi di chiederle «Vuoi uscire con me?» e altrettanto tempo per farlo davvero.
Quando successe, lei posò le sue labbra sulle mie. Da quel momento non ricordo un giorno nel quale Grace non fosse il centro di tutto. 
 
Le accarezzo la guancia, istintivamente, e lei apre gli occhi di scatto. Mi riconosce e si illumina.
«Ehi»
«Non volevo svegliarti.»
Mi scruta con quegli occhi azzurri, che erano così energici e vivaci. Quegli occhi dove affogo, sempre.
Ora però sembra che il mare burrascoso che c’era dentro si sia calmato, stanco. Sembrano quasi scoloriti, come se qualcuno ci avesse buttato della candeggina. Ma io, quel piccolo guizzo, lo vedo ancora.
 
La prima volta che Grace disse quelle tre parole, e quando le dissi anche io, fu quasi quattro anni fa.
Nevicava.
«Corri, Niall!» si buttò letteralmente nel giardino, e rideva, lanciandomi le palle di neve.
«Grace, sembra che tu non l’abbia mai vista.»
«Non capisci, non succede tutti i giorni! Guarda come tutto è più bello!!»
«Hai due anni, davvero.» la presi in giro io.
Mi avvicinai e lei mi saltò addosso, anche se cercavo di evitarla non ci riuscii, era come un polipo. Poi si staccò e scappò via, ridendo. Cominciai a rincorrerla tentando di non scivolare, ma ogni tre secondi ci trovavamo col sedere per terra. Riuscii ad acchiapparla, ormai eravamo fradici e stremati, così ci sdraiammo sul prato ormai bianco. Grace tirò fuori la lingua verso il cielo tentando di assaggiare i fiocchi, e io la imitai. Dopo un po’ si girò e mi studiò.
«Niall.»
Le rivolsi uno sguardo interrogativo. 
«Niall, ti amo.»
«Ti amo.» ripetei io, avvicinandomi alle sue labbra stampandole quelle tre parole sulla bocca.
 
«Che hai fatto oggi?»
«Ho accompagnato Harry ad iscriversi all’università. Ha seguito il tuo consiglio.»
«Finalmente!» commenta «Non credo avrebbe potuto continuare a consegnare pizze a vita.» poi resta zitta per un bel po’.
Quando vado a trovarla è così. I pomeriggi volano con lei che mi chiede che succede fuori dall’ospedale, mi chiede anche cosa ho mangiato a pranzo. Mi chiede che film vedrò dopo cena, mi chiede che canzoni ho ascoltato in macchina mentre venivo qui. E poi ascolta. Resta in silenzio e sorride come se le stessi raccontando la storia più bella che abbia mai sentito. Potrei passare la mia vita, così. L’unica cosa che mi dà la forza è lei, ed è abbastanza strana come cosa, dovrei essere io quello che deve darle forza. Invece no, non è così. Lei, nonostante la sua condizione, mi dona energia quando sorride con gli occhi.
Mi prende la mano e la stringe.
«Grazie…»
Da quando è bloccata su questo lettino a lottare per la sua vita mi ringrazia ogni giorno. Mi tiene accanto e lo sussurra.
Non so perché lo faccia, non gliel’ho mai chiesto, ma vivo per questo, ormai, perché a dirmelo è lei.
 
La prima volta che scrissi su Google ‘leucemia’ fu due anni fa.
Premevo i tasti della tastiera terrorizzato da quello che avrei trovato. Non ne sapevo molto, e ancora meno ne avrei voluto sapere. Quando finii di leggere tutte le informazioni possibili erano le due di notte ed era buio, attorno a me. 
Spensi il computer e spensi il mio cuore. ‘Perché?’ mi chiedevo ‘Perché proprio lei? Perché non me?’.
Mi buttai a peso morto sul letto e strinsi il cuscino.  Avrei voluto spaccare tutto, ma fui capace soltanto di piangere, piangere tanto, piangere ancora, piangere troppo. Piansi tutto, singhiozzai via la mia vita.
 
Grace stringe forte gli occhi e storce la bocca.
E’ peggiorata, tanto, ultimamente. Continua ad avere dolori e le è difficile anche solo sedersi. I medici alternano le due versioni, quella ‘Non le resta molto’ e quella ‘C’è ancora qualche sottile possibilità’, ma non c’è una grande differenza. Praticamente mi hanno sputato in faccia centinaia di volte la realtà, e io continuo a non volerci credere.
«Ehi! E’ tutto ok? Cos’hai? Chiamo qualcuno?» le chiedo immediatamente, alzandomi in piedi.
«No, Niall…» dice riaprendo gli occhi «Non è niente…» ovviamente so che non è così, ma mi supplica di sedermi e lo faccio.
«Ascolta, prima che…» l’ultima parola l’ha detta talmente piano che ho dovuto leggere il labiale, ma ho capito che cosa intende. E ho un tuffo al cuore. Anzi, no. Si è proprio spezzato per la milionesima volta, frantumando gli ultimi pezzettini che erano rimasti miseramente attaccati tra di loro.
«No, Grace. Che significa?» Lo so, che cosa significa. I malati lo sanno, quando è il momento. Ho cercato di immaginare questa situazione in migliaio di volte, ma finivo sempre col dirmi che era una sciocchezza, che non poteva succedere davvero, non alla mia Grace.
«Ascoltami un attimo.»
La guardo dritta in faccia e mi zittisco. Ce l’ha sempre avuto, questo dono di riuscire a farmi smettere di parlare guardandomi.
«Ti ricordi la domanda che mi hai fatto tre giorni fa?» continua debolmente, ormai la sua voce è quasi impercettibile.
«La risposta è sì, sì, sì e mille altre volte sì.».
Ora siamo entrambi in lacrime, che scorrono però fino ai nostri sorrisi.
«Sì?»
«, Niall. Ti amo più di ogni altra cosa.»
Le nostre mani sono ancora intrecciate, ed io mi inchino a baciarle la fronte.
Lei chiude lentamente gli occhi.
 
Respiro una due tre quattro cinque sei dieci venti cento mille volte. Non serve a niente. L’ho capito. Lo so. Come può essere possibile?
Lo sento quel ‘tuuuuu’ interminabile che proviene dal monitor nero che si trova sopra al lettino. 
Lo vedo che le vette della linea dei battiti cardiaci non ci sono più e che al loro posto c’è soltanto una striscia verde.
‘Verde è il colore della speranza’. Fanculo la speranza. Fanculo il verde, fanculo tutto.
Dovrei chiamare l’infermiera? Cosa devo fare? Non lo so, ma mi alzo e sbatto lo sgabello a terra. Prendo la bottiglietta dell’acqua che è poggiata sul tavolino e la lancio contro il muro. Ho una rabbia incredibile, che prende il posto del grande buco che ho nel cuore. Io sono distrutto, perché quello che mi è attorno non dovrebbe esserlo? Perché lei è lì e non respira? Perché io sono ancora vivo?
Mi pulsa il cervello, vedo nero. ‘Perché? Perché? Perché?’.
Ho il cervello che brucia, gli occhi che bruciano, le orecchie che bruciano, i polmoni che bruciano e il cuore che brucia. Tutto va a fuoco, e non c’è un estintore in tutto il mondo che potrebbe salvarmi.
Piango forte, urlo. Ho le spalle al muro e mi lascio cadere giù fino al pavimento.
Piango ancora, urlo ancora, mi mordo le mani finché non esce sangue.
Continuo a singhiozzare, e a strillare il suo nome. Poi entra qualcuno, ma io continuo a gridare. Ormai non vedo più niente, non sento nemmeno i miei ululati. Sento due braccia che mi tengono fermo e due voci sconosciute, ma non ne sono sicuro; ora come ora potrei non riconoscere nemmeno la mia.
«Tranquillo, basta così. Piangi, piangi. Sfogati.»

«Portalo via, fallo uscire.»
Le due voci continuano a dire qualcosa, ma ormai è tutto ovattato, sento solo un suono lungo, piatto, infinito. 
Forse questo è il rumore che fa il nulla.
 
Sono in caduta libera, verso il buio più totale, senza uno spiraglio di niente, senza bagliori, perché la mia luce è stata spenta.
 
Tre giorni fa entrai nella stanza 129 del St.Maldon Hospital.
Mi sdraiai accanto alla mia luce e non parlai, le sorrisi soltanto.
La mia luce lo fece di rimando, e questo mi rese ancora più sicuro della domanda che le stavo per porre.
Sicuro che solo lei mi avrebbe potuto illuminare per sempre.
«Vuoi sposarmi, Grace?»





My corner.
Sono consapevole del fatto che è una grandissima presa a male, ma avevo tanta voglia di scriverla e stranamente sono anche abbastanza soddisfatta. 
Cooomunque! Spero di essere riuscita a trasmettere quello che volevo! E’ la prima OS che scrivo sui One Direction, quindi lasciatemi una recensioncina, please! Dovete solo scrivere due parole, giusto per farmi capire cosa ne pensate, mi farebbe molto piacere!
Niall sta dicendo 'Dovresti recensire!' (?)

                                                                                

  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Surgeon