We didn’t have much
But we had enough
Non avevamo molto
Ma ci bastava
(
[...]
Bianco come la luna il suo cappello
Come l'amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue l'aquilone
(La canzone di Marinella, Fabrizio De André)
Duecentotredici
La spada e non il libro hai nella mano
It’s a little secret, just the Desztor’s affair
Poi un giorno mi
prese il treno
L’erba, il prato e quello
ch’era mio
Scomparivano piano
piano
E piangendo parlai
con Dio
(Montagne verdi,
Marcella Bella)
Pál
Desztor era nato il 13 Agosto 1813, al culmine
dell’estate ungherese.
Quel giorno nevicava.
L’aveva
sempre raccontato ridendo, Kolnay, che del resto, senza la neve sui cento ponti
della sua Budapest non sapeva vivere.
Era il
suo primo figlio ed era fastidiosamente biondo, per lui che, per quanto
ungherese, sfoggiava una fiera selva di capelli nerissimi.
“Di biondo ho avuto soltanto un
criceto, il giorno del mio settimo compleanno. Poi mio cugino Kende l’ha annegato nel Danubio.
E’ stato traumatico, penso. Dopo,
però. Dopo che papà mi ha impedito di annegare Kende, voglio
dire”, aveva confessato a Milan.
“Te ne farai una ragione, Kols”, aveva risposto l’amico,
serafico.
Era una
visione buffa e adorabile, un Kolnay Desztor non ancora quindicenne con in
braccio il suo bambino troppo biondo, per le vie più malfamate di Budapest, le sue vie.
Kende un
po’ glielo invidiava, Pál.
Suo
cugino, il più ribelle e spericolato del Regno d’Ungheria, aveva un angelo di
moglie che si sarebbe gettata nel fuoco per lui e un figlio…come Pál.
Perché
non c’erano, non esattamente, aggettivi per Pál.
Aveva le
fiamme nel turchese limpido dei suoi occhi, aveva il sole nell’oro liquido dei
suoi capelli.
Era un
bambino straordinario, nello splendore del viso il ritratto di sua madre, e
Kolnay ne era fiero al punto di portarselo quotidianamente all’Emporio di
Bohumil Desztor, colui che Pál avrebbe presto conosciuto come il nonno meno affettuoso
del mondo, ma anche il più incredibile.
C’erano i
Desztor ribelli e i Desztor eroici.
Quelli
che vivevano per un ideale e quelli che smaniavano per arruolarsi.
C’erano i Desztor inutili, come
Kende.
Scapestrati
angelici, demoni di strada, avanzi di galera.
I loro
tratti distintivi spiccavano come un riflesso sul
Balaton.
Luminosi.
Inconfondibili.
Erano
abituati a vivere senza donne, i Desztor.
A Bohumil
la sposa era scappata, letteralmente.
Non ce la
faceva, con quel brigante.
Ma avevano avuto un figlio come
Kolnay.
Poi
c’erano gli Szebenics.
Zsófike Szebenics, per la precisione.
Bellissima
e coraggiosa.
Ma non abbastanza, per Kolnay.
Cinque
figli, una sola femmina.
Cinque
figli leggendari, ognuno a modo loro.
Pál era l’eroe.
Capitano
degli ussari della morte, il servizio militare in Prussia, al culmine della sua
fama…
E poi era
tornato in Siberia, dove ormai viveva la sua famiglia.
Dall’Ungheria alla Siberia.
Lui era
quello che l’aveva conosciuta di più, Budapest.
Eppure, della loro Patria erano
tutti innamorati.
Fedeli.
Il patriottismo dei Desztor, quel
patriottismo da eroi…
Non
sarebbe mai cambiato.
Prendi il tuo
destriero e con la fantasia
Batti il cavaliere
nero e porta via la tua poesia
(Cosa non si fa, Claudio Baglioni)
Non c’era
mai stato modo di fargli imparare qualcosa che riguardasse la grammatica o la
letteratura.
Sapeva a
malapena leggere e scrivere, sia l’ungherese che il
russo.
Adolescenza di spari al cielo,
duelli e sigarette.
Era
cresciuto così, Pál Desztor.
Bello più che mai, ma innamorato
della guerra.
Non aveva
mai avuto una ragazza, perché non gl’importava proprio niente.
Se gli
capitava di farsi piacere, così, al primo sguardo, una ragazzina, bruciava il
ricordo con un colpo di fucile.
Dimenticava
ogni sorriso.
E ritornava discepolo del ferro e
del fuoco.
Uno
Spartano nato in Ungheria.
Era forse
il giovane ribelle più sinceramente gentile
di Forradalom.
Somigliava
tanto a Jàn, in questo.
Lo era di
natura, ecco.
Ma sul campo di battaglia
raramente era disposto a perdonare.
Se Feri e
Jànos vincevano i duelli occasionali -e li vincevano tutti, sempre-, Pál viveva così.
Mai sconfitto, perché non poteva.
Come
sconfitta avrebbe avuto la morte, un giorno.
E poteva aspettare.
Con suo
fratello Csák andava piuttosto d’accordo, ma era meno impulsivo di lui.
Determinato,
sì. Tantissimo.
Csák era
una furia, Pál era astuto e strategico.
Pál era
nato nel 1813, Csák nel 1817.
I più
pratici e razionali della famiglia, forse.
Il loro
primo sogno, la divisa dell’esercito.
E adesso
erano a Krasnojarsk, nello stesso reggimento.
Due militari nati, come ripeteva
Kolnay.
Ma lui
preferiva la libertà rivendicata da Feri e Jànos.
Il
candore di Hajnalka.
Le speranze dei ragazzi di
Forradalom.
A
Forradalom loro c’erano poco, ma amavano il loro quartiere.
L’allegria
dei suoi soldati.
Loro
ragionavano così.
Pál,
però, aveva un codice d’onore.
Era per questo che si ricordava di
quella sera.
29
Dicembre 1832.
E anche
se fosse riuscito a perdonare suo fratello…
Lei non avrebbe potuto farlo.
Mi ricordo montagne
verdi
Quella sera, negli occhi tuoi
Quando hai detto: “Si è fatto tardi,
Ti accompagno, se tu lo vuoi”
(Montagne verdi,
Marcella Bella)
Di
Natal’ja, poi, Pál ricordava poco.
I sensi di colpa, soprattutto.
Nikolaj
l’aveva affidata a loro.
Nikolaj si fidava di loro.
Nikolaj
Zirovskij, il suo amico…
E Lys, lo scricciolo biondo che
dovevano portare in Kazakistan.
Gli
Zaristi avevano riconosciuto in suo nonno uno dei capi della Rivolta
Decabrista.
Iljodor Zirovskij, il Generale
cosacco, era stato cacciato dall’esercito.
Ora volevano
distruggere la sua famiglia.
Iljodor Zirovskij aveva
quarantanove anni e aveva combattuto ad Austerlitz.
Era stato
nominato Generale appena ventunenne, tre inverni prima della Battaglia.
La battaglia che gli aveva
bruciato la mente e i sogni.
Una
strategia militare anche per la sua famiglia…
Li avrebbe sconfitti con niente, i
mostri dell’autocrazia.
Non erano
riusciti a condurlo al patibolo come avevano fatto con il suo primo figlio.
Vasilij,
che l’aveva visto solo per ventisette anni e otto mesi,
il sole.
Era per ventisette
anni e otto mesi che doveva vivere un figlio?
Nei suoi
rari momenti di lucidità Il’ja giurava che l’inferno del 14 Dicembre
1825 lui l’avrebbe scatenato ancora.
Non gli avrebbero rubato di più.
Anželika
e Julyeta erano già al sicuro a Forte Korjakovskij, dove non le avrebbero
cercate.
E se l’avessero fatto,
i Cosacchi del suo villaggio natale avrebbero preparato il patibolo per loro.
Per quei
maledetti Zaristi.
Natal’ja no, Natal’ja era con
Nikolaj.
Era
sempre con Nikolaj, lei.
Tra gli ussari.
Aveva
solo sette anni, ed era la bambina più coraggiosa che Pál avesse mai
conosciuto.
Avrebbe
fatto qualsiasi cosa per difenderla.
Le voleva bene, davvero.
Sapeva
cosa erano in grado di fare gli Zaristi…
Anche lui aveva quattro numeri sul
polso.
Anche
lui.
Ma Csák…
Csák aveva bisogno di quei
millecento rubli.
Erano dei
disgraziati, dei miserabili!
A
Krasnojarsk come a
E quella
ragazzina chi era, cos’era, per loro?
Chi diavolo era, Natal’ja?
Oh, sì, la ragazza di Feri.
Ma cosa
poteva saperne, lui?
Feri era contento così.
Con la
sua strada e le sue suole bucate.
Con le
sue sigarette e i fiammiferi di Natal’ja.
Con il
suo niente e la cenere negli occhi.
Con i
pugni vuoti e il vento che gli correva tra le dita.
Con i
piedi nudi e i passi quasi disperati.
E se
qualche volta sveniva per la fame…
Si rialzava,
lui.
Csák non
voleva arrivare a quel punto.
Csák non sarebbe arrivato a quel
punto.
Avrebbe
avuto quei millecento rubli, sì…
Avrebbe avuto quei millecento
rubli consegnando Natal’ja.
La
piccola Zirovskaja per un pugno di monete.
Fin troppo facile, davvero.
Millecento
rubli da rovesciare sul tavolo…
Da
contare fino al tramonto con la luce negli occhi.
Quel giorno aveva venduto la
libertà di Natal’ja.
Ragazzo che parti, ragazzo che vai
Quest'uomo fa pena, fa pena e lo sai
Voleva tenersi le tue verità
Ma poi gli hanno detto "Non esca di qua"
Ragazzo, ricordi,
ricordi Lucia?
Fa presto, ti prego, mi portano via
Su, dimmi, era bella, adesso che fa?
Ma tu sei passato, non vedi fin qua
(Ragazzo che parti, ragazzo che vai,
Roberto Vecchioni)
Pál non
lo sapeva.
Pál
l’aveva capito solo all’ultimo momento, quando aveva scorto in lontananza il
cavallo di Ivan Bolkonskij e, dietro di lui, la carrozza degli Zaristi.
Capì che
Csák li aveva condotti lì con un fine…
Millecento maledetti rubli.
E lui,
ormai, non poteva più fare niente…
Perché Csák aveva organizzato
tutto troppo bene.
Come
poteva accusarlo, se quell’assassinio -perché
la stavano uccidendo, Natal’ja- sembrava esser sul punto di accadere solo
per una spaventosa coincidenza?
L’aveva
realizzato solo guardandolo negli occhi, perché quegli occhi non li aveva mai
avuti nessuno, nella loro famiglia.
I Desztor non erano così.
Ma ormai
era finita…
Ogni sua vana
speranza di cambiare le cose, di sfuggire a Bolkonskij e al tradimento di suo fratello, e i tre colpi di pistola che
l’avevano scaraventato giù dal cavallo.
Era finita, per Natal’ja.
Sono io, oppure sei tu
Che hanno mandato più lontano
Per poi giocargli il ritorno sempre all'ultima mano?
E sono io, oppure sei tu
Che ha sbagliato più forte
Che per avere tutto il mondo fra le braccia
Ci s'è trovato anche la morte?
(La Canzone Popolare, Ivano Fossati)
E non
voleva, non voleva, lui…
Non voleva lasciarla andare.
Quanto
aveva odiato suo fratello in quel momento…
Quanto
aveva odiato gli Zaristi!
I loro
dannati lavori forzati, di cui lui
portava ancora le cicatrici.
Ci aveva lasciato due dita, lui,
sotto la prigione crollata.
Ma
l’avrebbe rivista, Natal’ja…
Lui che
non aveva potuto fare niente…
Lui che ce l’aveva messa tutta.
Lui che
ogni volta che tornava a Forradalom e la incontrava, ogni volta che le
sorrideva…
Si sentiva spezzare il cuore.
Perché
non era giusto, no…
Non era stato giusto neanche per
un giorno.
E se poi,
quasi per sbaglio, aveva rivolto ancora la parola a suo fratello…
Si era chiesto perché non l’avesse
ancora ucciso.
L’aveva
chiesto a Csák.
“Sono tuo fratello, Pál! Lei chi
era?”
“Un essere umano, Csák. Con i tuoi stessi diritti. Con la tua stessa libertà. Prima”.
Non era
un santo, Pál…
Era un Desztor.
E i
Desztor non si comportavano come gli Zaristi.
Mai.
I Desztor
piuttosto dormivano per strada…
Con le
piaghe del freddo, scottando di febbre.
I Desztor
piuttosto morivano di fame…
Per
giorni interi, sputando sangue.
Bevevano
lacrime per vedere il domani…
Ma non si comportavano come Csák.
Libertà, l'ho vista
dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato
(Il Suonatore Jones, Fabrizio De
André)
Krasnojarsk, 9 Settembre
1833
Per amore, solo per
amore
Dei miei gesti, delle mie parole
Delle notti che me le confondo insieme
E del vino, lento fiume nelle vene
Per amore, solo per amore
Di quel viso che non può tornare
Della stella che non può cadere giù
La tua mano che non sa tenermi più
(Per amore mio, Roberto Vecchioni)
-E’ crollata la prigione!-
Kolnay
Desztor afferrò il giovane Ul’janov per il colletto della camicia, sollevandolo
da terra.
-Chi
c’era dentro?-
-Natal’ja…-
biascicò il ragazzo, divincolandosi invano -Natal’ja
degli Zirovskij-
-Chi?-
-Ma sì,
la biondina, la cugina di Nikolaj… La figlia di Julyeta!-
Lo
zingaro ungherese s’incupì.
-L’amica
di Feri? Quella che ha il padre in Svezia, Danimarca…-
-Inghilterra?- propose Akakij, inarcando un
sopracciglio.
-Oh, è
sempre in Scandinavia!-
-Direi di
no, ma per l’occasione…-
-Com’è
successo?-
-Non si
sa con precisione, quelli della Mërtvogo Doma se ne fregano, delle condizioni
dei loro prigionieri, almeno finché possono lavorare-
-Lo so- quasi ringhiò Kolnay.
Era per
questo che avevano ucciso la sua Zsófike.
-Adesso
come sta?-
-Parrebbe
essersi solo ferita ad una mano. Dana Davidoff, la sua compagna di cella,
invece, non si è fatta niente.
Un gran
bello spavento, tutto qua-
-Ferita ad una mano?!-
Non era
possibile.
-Sì, ma è
stata brava, sai, non ha nemmeno pianto…-
-Non ha
nemmeno pianto?!-
La sua
Zsófike non aveva pianto.
L’aveva
fatto mille altre volte, ma quando la prigione le era crollata sulla mano
destra no, non una sola lacrima.
Le avevano sparato la mattina
dopo.
Il giorno
del Natale cattolico, il giorno del trentaduesimo compleanno di Kolnay.
Pál, che
allora aveva diciassette anni, nel crollo aveva perso due dita, ma s'era fatto mandare ugualmente in miniera.
Né Kolnay né il
suo primogenito erano riusciti a difenderla dall’immediata fucilazione.
Sarebbe morta
comunque per l’infezione, gli aveva detto il loro compagno di cella per
consolarlo.
Lei non
aveva pianto, aveva cercato di nascondere la mano, il sangue e il dolore, ma il
carceriere l’aveva capito subito, che non poteva più lavorare.
-Maledetto…-
-In fondo
si diverte molto di più a vederla piangere tutte le notti, Viktor Zarkhov. Non
gli conveniva farla fucilare-
-Viktor
Zarkhov?!-
“Beh, ormai vostra moglie è
inutile, proprio come lo è stata la vostra ardente passione nel sostenere il
moto Decabrista.
Sarà fucilata domani all’alba,
numero 0347".
Era lui.
Viktor
Zarkhov, il carceriere di Natal’ja.
I tempi
erano cambiati.
Zsófike
era morta da tre anni, lui ne doveva compiere trentacinque, adesso.
Pál ne
aveva venti ed era un bel ragazzo, un ussaro promettente.
La sua
ultimogenita, Hajnalka, aveva otto anni, l’età
di Natal’ja.
Otto anni.
No, le
cose sarebbero cambiate.
Natal’ja Zirovskaja sarebbe uscita
di lì.
-I
miei due figlioli arruolati chiederanno una licenza. Verranno tutti, Pál, Csák,
Feri, Jànos e anche la piccola Hajnal.
Devono
sapere cosa si fa in queste situazioni. Devono vedere come ci si ribella alle
ingiustizie e come vendicherò la loro madre! Dio, Sophie…-
Un colpo
al cuore, un po’ più lieve di tre anni prima.
Un
sorriso amaro, un sorriso di ghiaccio.
A volte
aveva paura di non farcela, Kolnay…
Ma aveva
ancora cinque figli e la Rivoluzione.
Poteva ancora liberare Natal’ja.
-Kolnay,
lasciami dire ch’è un poco imprudente. Hajnalka ha otto anni, Jànos dieci e
Feri quattordici.
Vacci
solo con i primi due, a venti e sedici anni se la possono cavare-
-Decido
io, per i miei figli! E poi non è mica la ragazza di Feri, la Zirovskaja?-
Akakij
Ul’janov sgranò gli occhi.
-A otto anni?-
-Beh,
qualcosa del genere. Passavano le giornate a predicare la Rivoluzione sociale,
sessuale, politica e Dio sa che cos’altro, prima che
la portassero via…-
-Nataljetshka
è sempre stata un pochino ribelle. E’ la figlia d’un sognatore, suo padre vive
di filosofia-
-Il
Danese?-
-L’Inglese, Kolnay-
-Com’è
che sai tante cose sugli Zirovskij?-
-Lui si
chiama Harold, Harold Jean-Jacques
Morrison. Ma Nataljetshka non può mica usare il suo cognome, lui Julyeta
non l’ha mai sposata…-
-Tu però
la sposeresti subito, vero?-
-Non
entriamo in questioni personali, Kolnay-
-Diamine!
Prima mi snocciola l’albero genealogico della mia dirimpettaia carcerata e poi
parla di questioni personali…
Lo sapevo, io, che non dovevo dar retta a un giornalista!-
E l’aveva
giurato, sì, Kolnay Desztor.
La
piccola fiammiferaia di Forradalom sarebbe tornata a casa.
A qualsiasi costo.
Sì, Signore, sto
parlando a te
E’ una vita che
cammino, ma la strada non c’è
Stanchi di vedere
che per noi non si fa giorno
Un biglietto per
domani, per favore
Senza ritorno
(Un biglietto per
domani, Shel Shapiro)
Natal’ja
magari non lo dava a vedere, perché le avevano insegnato così.
Non lo dava a vedere, quanto le
avevano fatto male.
Nove mesi
in prigione a sette anni, il suo ottavo compleanno in catene.
Natal’ja
di Krasnojarsk, Natal’ja di Forradalom.
Natal’ja Zirovskaja, la sgualdrina
evasa di galera chissà quante volte, da quel giorno…
Una
piccola maliarda che aveva meritato quella sorte.
Era
l’idea che la Russia aveva di lei.
Il mondo
intero, forse.
E lei non ci credeva, ma poi…
Poi pensava a quei millecento
rubli…
E se lei
qualche volta, aprendo un cassetto qualsiasi, a casa, trovava qualche
spicciolo, due o tre kopeki…
Li
stringeva forte tra le dita e le dita le tremavano.
Erano di
metallo…
Metallo
gelido.
E lei che
rideva, lei che sperava…
Lei che
correva per le steppe innevate, leggeva Puškin sui gradini e scriveva promesse
di Rivoluzione, promesse d’amore a George…
Lei era
come quel metallo.
Non
valeva di più.
Per chissà
quante di quelle monetine, che sembravano innocue, alla vista, che un po’ le
scaldavano le mani, prima di gettarle sulla bancarella delle castagne…
Le
avevano messo le catene ai polsi e alle caviglie, le avevano sputato in faccia un altro nome,
un nome di numeri che bruciavano sulla pelle e con uno schiaffo, il più forte, l’avevano
costretta a reclinare lo sguardo, perché
non era come loro.
Millecento rubli, la vita.
E allora
cosa era vero, al mondo…
Se non aveva più la libertà?
I carcerieri di una
società
Ti impediranno di cercare il sole
La tua libertà
Se vuoi, la puoi avere
(La tua libertà, Francesco Guccini)
Note
La spada
e non il libro hai nella mano: Asia, Francesco Guccini. Diciamo che descrive
bene Pál, questa frase! ;)
It’s a
little secret, just the Desztor’s affair: E’ un piccolo segreto, cose da
Desztor.
Piccola
modifica a un verso Mrs Robinson (Simon & Garfunkel), giusto il cognome, ecco! ;)
Il
“piccolo segreto” dei Desztor si può interpretare sia come il tradimento di
Csák, di cui sono a conoscenza solo Pál e Nikolaj, o come i tratti distintivi
dei Desztor in generale, dell’inizio del capitolo ;)
Sono
riuscita, finalmente, a finire questo capitolo!
A parlare
di Pál e un po’ anche di Csák, e del momento in cui Kolnay decide di andare a
liberare Lys.
Sinceramente…
La prima parte l’ho scritta tra Ottobre e Novembre e quella di Kolnay e Akakij
a Dicembre, a Vienna, quest’inverno.
O meglio,
sui gradini del Castello di Schönbrunn, dove è nato Niko, nell’ora che abbiamo
dovuto aspettare per entrare.
Tutto il
resto, oggi.
E che
dire, ne sono contenta, adesso.
Praticamente
esausta, ma contenta.
Mi ci
sono affezionata tantissimo scrivendolo, ad ogni singola parola e citazione.
Diciamo
che non ho niente da aggiungere, il capitolo parla da solo…
E’ uno
scorcio sui Desztor ancora meno conosciuti, e sulle vicende più oscure della
storia…
Anche se
era nato come presentazione di Pál ;)
Spero
tanto che vi sia piaciuto! ;)
A presto,
Marty