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Autore: Natalja_Aljona    22/03/2012    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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We didn’t have much


We didn’t have much

But we had enough

 

Non avevamo molto

Ma ci bastava

(Liverpool 8, Ringo Starr)


[...]


Bianco come la luna il suo cappello

Come l'amore rosso il suo mantello

Tu lo seguisti senza una ragione

Come un ragazzo segue l'aquilone

(La canzone di Marinella, Fabrizio De André)

 

Duecentotredici

La spada e non il libro hai nella mano

It’s a little secret, just the Desztor’s affair

 

Poi un giorno mi prese il treno

L’erba, il prato e quello ch’era mio

Scomparivano piano piano

E piangendo parlai con Dio

(Montagne verdi, Marcella Bella)

 

Pál Desztor era nato il 13 Agosto 1813, al culmine dell’estate ungherese.

Quel giorno nevicava.

L’aveva sempre raccontato ridendo, Kolnay, che del resto, senza la neve sui cento ponti della sua Budapest non sapeva vivere.

Era il suo primo figlio ed era fastidiosamente biondo, per lui che, per quanto ungherese, sfoggiava una fiera selva di capelli nerissimi.

“Di biondo ho avuto soltanto un criceto, il giorno del mio settimo compleanno. Poi mio cugino Kende l’ha annegato nel Danubio.

E’ stato traumatico, penso. Dopo, però. Dopo che papà mi ha impedito di annegare Kende, voglio dire”, aveva confessato a Milan.

“Te ne farai una ragione, Kols”, aveva risposto l’amico, serafico.

Era una visione buffa e adorabile, un Kolnay Desztor non ancora quindicenne con in braccio il suo bambino troppo biondo, per le vie più malfamate di Budapest, le sue vie.

Kende un po’ glielo invidiava, Pál.

Suo cugino, il più ribelle e spericolato del Regno d’Ungheria, aveva un angelo di moglie che si sarebbe gettata nel fuoco per lui e un figlio…come Pál.

Perché non c’erano, non esattamente, aggettivi per Pál.

Aveva le fiamme nel turchese limpido dei suoi occhi, aveva il sole nell’oro liquido dei suoi capelli.

Era un bambino straordinario, nello splendore del viso il ritratto di sua madre, e Kolnay ne era fiero al punto di portarselo quotidianamente all’Emporio di Bohumil Desztor, colui che Pál avrebbe presto conosciuto come il nonno meno affettuoso del mondo, ma anche il più incredibile.

C’erano i Desztor ribelli e i Desztor eroici.  

Quelli che vivevano per un ideale e quelli che smaniavano per arruolarsi.

C’erano i Desztor inutili, come Kende.

Scapestrati angelici, demoni di strada, avanzi di galera.

I loro tratti distintivi spiccavano come un riflesso sul Balaton.

Luminosi.

Inconfondibili.

Erano abituati a vivere senza donne, i Desztor.

A Bohumil la sposa era scappata, letteralmente.

Non ce la faceva, con quel brigante.

Ma avevano avuto un figlio come Kolnay.

Poi c’erano gli Szebenics.

Zsófike Szebenics, per la precisione.

Bellissima e coraggiosa.

Ma non abbastanza, per Kolnay.

Cinque figli, una sola femmina.

Cinque figli leggendari, ognuno a modo loro.

Pál era l’eroe.

Capitano degli ussari della morte, il servizio militare in Prussia, al culmine della sua fama…

E poi era tornato in Siberia, dove ormai viveva la sua famiglia.

Dall’Ungheria alla Siberia.

Lui era quello che l’aveva conosciuta di più, Budapest.

Eppure, della loro Patria erano tutti innamorati.

Fedeli.

Il patriottismo dei Desztor, quel patriottismo da eroi…

Non sarebbe mai cambiato.

 

Prendi il tuo destriero e con la fantasia

Batti il cavaliere nero e porta via la tua poesia

(Cosa non si fa, Claudio Baglioni)

 

Non c’era mai stato modo di fargli imparare qualcosa che riguardasse la grammatica o la letteratura.

Sapeva a malapena leggere e scrivere, sia l’ungherese che il russo.

Adolescenza di spari al cielo, duelli e sigarette.

Era cresciuto così, Pál Desztor.

Bello più che mai, ma innamorato della guerra.

Non aveva mai avuto una ragazza, perché non gl’importava proprio niente.

Se gli capitava di farsi piacere, così, al primo sguardo, una ragazzina, bruciava il ricordo con un colpo di fucile.

Dimenticava ogni sorriso.

E ritornava discepolo del ferro e del fuoco.

Uno Spartano nato in Ungheria.

Era forse il giovane ribelle più sinceramente gentile di Forradalom.

Somigliava tanto a Jàn, in questo.

Lo era di natura, ecco.

Ma sul campo di battaglia raramente era disposto a perdonare.

Se Feri e Jànos vincevano i duelli occasionali -e li vincevano tutti, sempre-, Pál viveva così.

Mai sconfitto, perché non poteva.

Come sconfitta avrebbe avuto la morte, un giorno.

E poteva aspettare.

Con suo fratello Csák andava piuttosto d’accordo, ma era meno impulsivo di lui.

Determinato, sì. Tantissimo.

Csák era una furia, Pál era astuto e strategico.

Pál era nato nel 1813, Csák nel 1817.

I più pratici e razionali della famiglia, forse.

Il loro primo sogno, la divisa dell’esercito.

E adesso erano a Krasnojarsk, nello stesso reggimento.

Due militari nati, come ripeteva Kolnay.      

Ma lui preferiva la libertà rivendicata da Feri e Jànos.

Il candore di Hajnalka.

Le speranze dei ragazzi di Forradalom.

A Forradalom loro c’erano poco, ma amavano il loro quartiere.

L’allegria dei suoi soldati.

Loro ragionavano così.

Pál, però, aveva un codice d’onore.

Era per questo che si ricordava di quella sera.

29 Dicembre 1832.

E anche se fosse riuscito a perdonare suo fratello…

Lei non avrebbe potuto farlo.

 

Mi ricordo montagne verdi
Quella sera, negli occhi tuoi

Quando hai detto: “Si è fatto tardi,

Ti accompagno, se tu lo vuoi”

(Montagne verdi, Marcella Bella)

 

Di Natal’ja, poi, Pál ricordava poco.

I sensi di colpa, soprattutto.

Nikolaj l’aveva affidata a loro.

Nikolaj si fidava di loro.

Nikolaj Zirovskij, il suo amico…

E Lys, lo scricciolo biondo che dovevano portare in Kazakistan.

Gli Zaristi avevano riconosciuto in suo nonno uno dei capi della Rivolta Decabrista.

Iljodor Zirovskij, il Generale cosacco, era stato cacciato dall’esercito.

Ora volevano distruggere la sua famiglia.

Iljodor Zirovskij aveva quarantanove anni e aveva combattuto ad Austerlitz.

Era stato nominato Generale appena ventunenne, tre inverni prima della Battaglia.

La battaglia che gli aveva bruciato la mente e i sogni.

Una strategia militare anche per la sua famiglia…

Li avrebbe sconfitti con niente, i mostri dell’autocrazia.

Non erano riusciti a condurlo al patibolo come avevano fatto con il suo primo figlio.

Vasilij, che l’aveva visto solo per ventisette anni e otto mesi, il sole.

Era per ventisette anni e otto mesi che doveva vivere un figlio?

Nei suoi rari momenti di lucidità Il’ja giurava che l’inferno del 14 Dicembre 1825 lui l’avrebbe scatenato ancora.

Non gli avrebbero rubato di più.

Anželika e Julyeta erano già al sicuro a Forte Korjakovskij, dove non le avrebbero cercate.

E se l’avessero fatto, i Cosacchi del suo villaggio natale avrebbero preparato il patibolo per loro.

Per quei maledetti Zaristi.

Natal’ja no, Natal’ja era con Nikolaj.

Era sempre con Nikolaj, lei.

Tra gli ussari.

Aveva solo sette anni, ed era la bambina più coraggiosa che Pál avesse mai conosciuto.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per difenderla.

Le voleva bene, davvero.

Sapeva cosa erano in grado di fare gli Zaristi…

Anche lui aveva quattro numeri sul polso.

Anche lui.

Ma Csák…

Csák aveva bisogno di quei millecento rubli.

Erano dei disgraziati, dei miserabili!

A Krasnojarsk come a Budapest.

E quella ragazzina chi era, cos’era, per loro?

Chi diavolo era, Natal’ja?

Oh, sì, la ragazza di Feri.

Ma cosa poteva saperne, lui?

Feri era contento così.

Con la sua strada e le sue suole bucate.

Con le sue sigarette e i fiammiferi di Natal’ja.

Con il suo niente e la cenere negli occhi.

Con i pugni vuoti e il vento che gli correva tra le dita.

Con i piedi nudi e i passi quasi disperati.

E se qualche volta sveniva per la fame…

Si rialzava, lui.

Csák non voleva arrivare a quel punto.

Csák non sarebbe arrivato a quel punto.

Avrebbe avuto quei millecento rubli, sì…

Avrebbe avuto quei millecento rubli consegnando Natal’ja.

La piccola Zirovskaja per un pugno di monete.

Fin troppo facile, davvero.

Millecento rubli da rovesciare sul tavolo…

Da contare fino al tramonto con la luce negli occhi.

Quel giorno aveva venduto la libertà di Natal’ja.


Ragazzo che parti, ragazzo che vai
Quest'uomo fa pena, fa pena e lo sai
Voleva tenersi le tue verità
Ma poi gli hanno detto "Non esca di qua"

Ragazzo, ricordi, ricordi Lucia?
Fa presto, ti prego, mi portano via
Su, dimmi, era bella, adesso che fa?
Ma tu sei passato, non vedi fin qua

(Ragazzo che parti, ragazzo che vai, Roberto Vecchioni)

 

 

Pál non lo sapeva.

Pál l’aveva capito solo all’ultimo momento, quando aveva scorto in lontananza il cavallo di Ivan Bolkonskij e, dietro di lui, la carrozza degli Zaristi.

Capì che Csák li aveva condotti lì con un fine…

Millecento maledetti rubli.

E lui, ormai, non poteva più fare niente…

Perché Csák aveva organizzato tutto troppo bene.

Come poteva accusarlo, se quell’assassinio -perché la stavano uccidendo, Natal’ja- sembrava esser sul punto di accadere solo per una spaventosa coincidenza?

L’aveva realizzato solo guardandolo negli occhi, perché quegli occhi non li aveva mai avuti nessuno, nella loro famiglia.

I Desztor non erano così.

Ma ormai era finita…

Ogni sua vana speranza di cambiare le cose, di sfuggire a Bolkonskij e al tradimento di suo fratello, e i tre colpi di pistola che l’avevano scaraventato giù dal cavallo.

Era finita, per Natal’ja.

Sono io, oppure sei tu
Che hanno mandato più lontano

Per poi giocargli il ritorno sempre all'ultima mano?

E sono io, oppure sei tu

Che ha sbagliato più forte
Che per avere tutto il mondo fra le braccia

Ci s'è trovato anche la morte?

(La Canzone Popolare, Ivano Fossati)

E non voleva, non voleva, lui…

Non voleva lasciarla andare.

Quanto aveva odiato suo fratello in quel momento…

Quanto aveva odiato gli Zaristi!

I loro dannati lavori forzati, di cui lui portava ancora le cicatrici.

Ci aveva lasciato due dita, lui, sotto la prigione crollata.

Ma l’avrebbe rivista, Natal’ja…

Lui che non aveva potuto fare niente…

Lui che ce l’aveva messa tutta.

Lui che ogni volta che tornava a Forradalom e la incontrava, ogni volta che le sorrideva…

Si sentiva spezzare il cuore.

Perché non era giusto, no…

Non era stato giusto neanche per un giorno.

E se poi, quasi per sbaglio, aveva rivolto ancora la parola a suo fratello…

Si era chiesto perché non l’avesse ancora ucciso.

L’aveva chiesto a Csák.

“Sono tuo fratello, Pál! Lei chi era?”

“Un essere umano, Csák. Con i tuoi stessi diritti. Con la tua stessa libertà. Prima”.

Non era un santo, Pál…

Era un Desztor.

E i Desztor non si comportavano come gli Zaristi.

Mai.

I Desztor piuttosto dormivano per strada…

Con le piaghe del freddo, scottando di febbre.

I Desztor piuttosto morivano di fame…

Per giorni interi, sputando sangue.

Bevevano lacrime per vedere il domani…

Ma non si comportavano come Csák.

 

Libertà, l'ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato

(Il Suonatore Jones, Fabrizio De André)

 

Krasnojarsk, 9 Settembre 1833

 

Per amore, solo per amore
Dei miei gesti, delle mie parole
Delle notti che me le confondo insieme
E del vino, lento fiume nelle vene
Per amore, solo per amore
Di quel viso che non può tornare
Della stella che non può cadere giù
La tua mano che non sa tenermi più
(Per amore mio, Roberto Vecchioni)

 

 

-E’ crollata la prigione!-

Kolnay Desztor afferrò il giovane Ul’janov per il colletto della camicia, sollevandolo da terra.

-Chi c’era dentro?-

-Natal’ja…- biascicò il ragazzo, divincolandosi invano -Natal’ja degli Zirovskij-

-Chi?-

-Ma sì, la biondina, la cugina di Nikolaj… La figlia di Julyeta!-

Lo zingaro ungherese s’incupì.

-L’amica di Feri? Quella che ha il padre in Svezia, Danimarca…-

-Inghilterra?- propose Akakij, inarcando un sopracciglio.

-Oh, è sempre in Scandinavia!-

-Direi di no, ma per l’occasione…-

-Com’è successo?-

-Non si sa con precisione, quelli della Mërtvogo Doma se ne fregano, delle condizioni dei loro prigionieri, almeno finché possono lavorare-

-Lo so- quasi ringhiò Kolnay.

Era per questo che avevano ucciso la sua Zsófike.

-Adesso come sta?-

-Parrebbe essersi solo ferita ad una mano. Dana Davidoff, la sua compagna di cella, invece, non si è fatta niente.

Un gran bello spavento, tutto qua-

-Ferita ad una mano?!-

Non era possibile.

-Sì, ma è stata brava, sai, non ha nemmeno pianto…-

-Non ha nemmeno pianto?!-

La sua Zsófike non aveva pianto.

L’aveva fatto mille altre volte, ma quando la prigione le era crollata sulla mano destra no, non una sola lacrima.

Le avevano sparato la mattina dopo.

Il giorno del Natale cattolico, il giorno del trentaduesimo compleanno di Kolnay.

Pál, che allora aveva diciassette anni, nel crollo aveva perso due dita, ma s'era fatto mandare ugualmente in miniera.
Né Kolnay né il suo primogenito erano riusciti a difenderla dall’immediata fucilazione.

Sarebbe morta comunque per l’infezione, gli aveva detto il loro compagno di cella per consolarlo.

Lei non aveva pianto, aveva cercato di nascondere la mano, il sangue e il dolore, ma il carceriere l’aveva capito subito, che non poteva più lavorare.

-Maledetto…-

-In fondo si diverte molto di più a vederla piangere tutte le notti, Viktor Zarkhov. Non gli conveniva farla fucilare-

-Viktor Zarkhov?!-

“Beh, ormai vostra moglie è inutile, proprio come lo è stata la vostra ardente passione nel sostenere il moto Decabrista.

Sarà fucilata domani all’alba, numero 0347".

Era lui.

Viktor Zarkhov, il carceriere di Natal’ja.

I tempi erano cambiati.

Zsófike era morta da tre anni, lui ne doveva compiere trentacinque, adesso.

Pál ne aveva venti ed era un bel ragazzo, un ussaro promettente.

La sua ultimogenita, Hajnalka, aveva otto anni, l’età di Natal’ja.

Otto anni.

No, le cose sarebbero cambiate.

Natal’ja Zirovskaja sarebbe uscita di lì.

-I miei due figlioli arruolati chiederanno una licenza. Verranno tutti, Pál, Csák, Feri, Jànos e anche la piccola Hajnal.

Devono sapere cosa si fa in queste situazioni. Devono vedere come ci si ribella alle ingiustizie e come vendicherò la loro madre! Dio, Sophie…-

Un colpo al cuore, un po’ più lieve di tre anni prima.

Un sorriso amaro, un sorriso di ghiaccio.

A volte aveva paura di non farcela, Kolnay…

Ma aveva ancora cinque figli e la Rivoluzione.

Poteva ancora liberare Natal’ja.

-Kolnay, lasciami dire ch’è un poco imprudente. Hajnalka ha otto anni, Jànos dieci e Feri quattordici.

Vacci solo con i primi due, a venti e sedici anni se la possono cavare-

-Decido io, per i miei figli! E poi non è mica la ragazza di Feri, la Zirovskaja?-

Akakij Ul’janov sgranò gli occhi.

-A otto anni?-

-Beh, qualcosa del genere. Passavano le giornate a predicare la Rivoluzione sociale, sessuale, politica e Dio sa che cos’altro, prima che la portassero via…-

-Nataljetshka è sempre stata un pochino ribelle. E’ la figlia d’un sognatore, suo padre vive di filosofia-

-Il Danese?-

-L’Inglese, Kolnay-

-Com’è che sai tante cose sugli Zirovskij?-

-Lui si chiama Harold, Harold Jean-Jacques Morrison. Ma Nataljetshka non può mica usare il suo cognome, lui Julyeta non l’ha mai sposata…-

-Tu però la sposeresti subito, vero?-

-Non entriamo in questioni personali, Kolnay-

-Diamine! Prima mi snocciola l’albero genealogico della mia dirimpettaia carcerata e poi parla di questioni personali…

Lo sapevo, io, che non dovevo dar retta a un giornalista!-

E l’aveva giurato, sì, Kolnay Desztor.

La piccola fiammiferaia di Forradalom sarebbe tornata a casa.

A qualsiasi costo.

 

Sì, Signore, sto parlando a te

E’ una vita che cammino, ma la strada non c’è

Stanchi di vedere che per noi non si fa giorno

Un biglietto per domani, per favore

Senza ritorno

(Un biglietto per domani, Shel Shapiro)

 

Natal’ja magari non lo dava a vedere, perché le avevano insegnato così.

Non lo dava a vedere, quanto le avevano fatto male.

Nove mesi in prigione a sette anni, il suo ottavo compleanno in catene.

Natal’ja di Krasnojarsk, Natal’ja di Forradalom.

Natal’ja Zirovskaja, la sgualdrina evasa di galera chissà quante volte, da quel giorno…

Una piccola maliarda che aveva meritato quella sorte.

Era l’idea che la Russia aveva di lei.

Il mondo intero, forse.
E lei non ci credeva, ma poi…

Poi pensava a quei millecento rubli…

 

E se lei qualche volta, aprendo un cassetto qualsiasi, a casa, trovava qualche spicciolo, due o tre kopeki…

Li stringeva forte tra le dita e le dita le tremavano.

Erano di metallo…

Metallo gelido.

E lei che rideva, lei che sperava…

Lei che correva per le steppe innevate, leggeva Puškin sui gradini e scriveva promesse di Rivoluzione, promesse d’amore a George…

Lei era come quel metallo.

Non valeva di più.

Per chissà quante di quelle monetine, che sembravano innocue, alla vista, che un po’ le scaldavano le mani, prima di gettarle sulla bancarella delle castagne…

Le avevano messo le catene ai polsi e alle caviglie, le avevano sputato in faccia un altro nome, un nome di numeri che bruciavano sulla pelle e con uno schiaffo, il più forte, l’avevano costretta a reclinare lo sguardo, perché non era come loro.

 

Millecento rubli, la vita.

E allora cosa era vero, al mondo…

Se non aveva più la libertà?

 

I carcerieri di una società
Ti impediranno di cercare il sole
La tua libertà
Se vuoi, la puoi avere

(La tua libertà, Francesco Guccini)

 

 

 

 

 

Note

 

La spada e non il libro hai nella mano: Asia, Francesco Guccini. Diciamo che descrive bene Pál, questa frase! ;)

It’s a little secret, just the Desztor’s affair: E’ un piccolo segreto, cose da Desztor.

Piccola modifica a un verso Mrs Robinson (Simon & Garfunkel), giusto il cognome, ecco! ;)

Il “piccolo segreto” dei Desztor si può interpretare sia come il tradimento di Csák, di cui sono a conoscenza solo Pál e Nikolaj, o come i tratti distintivi dei Desztor in generale, dell’inizio del capitolo ;)

 

Sono riuscita, finalmente, a finire questo capitolo!

A parlare di Pál e un po’ anche di Csák, e del momento in cui Kolnay decide di andare a liberare Lys.

Sinceramente… La prima parte l’ho scritta tra Ottobre e Novembre e quella di Kolnay e Akakij a Dicembre, a Vienna, quest’inverno.

O meglio, sui gradini del Castello di Schönbrunn, dove è nato Niko, nell’ora che abbiamo dovuto aspettare per entrare.

Tutto il resto, oggi.

E che dire, ne sono contenta, adesso.

Praticamente esausta, ma contenta.

Mi ci sono affezionata tantissimo scrivendolo, ad ogni singola parola e citazione.

Diciamo che non ho niente da aggiungere, il capitolo parla da solo…

E’ uno scorcio sui Desztor ancora meno conosciuti, e sulle vicende più oscure della storia…

Anche se era nato come presentazione di Pál ;)

Spero tanto che vi sia piaciuto! ;)

 

A presto,

Marty

  
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