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Autore: Ray Wings    22/03/2012    2 recensioni
Sophie era una ragazza come molte ma con una particolarità: era appassionata dei libri di Tolkien... in particolare "il signore degli anelli". Oltretutto si era talmente immedesimata nel libro che aveva cominciato a provare un certo interesse sentimentale verso uno dei personaggi. Un giorno il caso (o forse no? ;) ) la trascinò sulla terra tanto amata e sognata. Sophie in un primo momento si sentì dispersa e impaurita ma poi comprese di avere un compito e di non essere stata mandata lì per caso. Inizia così un’avventura difficoltosa che le porterà tanti pericoli, ma la sua determinazione e il suo amore saranno tali da aiutarla a trovare sempre la forza di alzare la testa e andare avanti fino alla fine. (N.B. Questa ff è una "riscrittura". Ovvero avevo già scritto questa storia in precedenza ma dato che ero alle prime armi non ne era uscita una cosa molto carina dal punto di vista linguistico. Ora, con la maturazione di oggi, spero di averla resa più interessante)
Genere: Avventura, Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal momento in cui Boromir mi aveva accusata ingiustamente sbattendomi in quel postaccio nessun pensiero attraversò la mia mente, nessun aquila si alzava in volo, tutto era immobile come in una giornata di gelo in inverno, dopo una lunga nevicata che ha lasciato dietro di sé solo morte e desolazione. Non c’era vento nel mio deserto. Non c’era acqua nel mio mare. Non c’era cuore nel mio petto.
Mi raggomitolai in un angolo della prigione, tremando di freddo in quanto il mio mantello era rimasto a Faramir e quel posto era gelido e umido. Abbracciai le gambe e posai la testa tra le ginocchia mentre le immagini della sera prima mi attraversavano la mente, memorie ormai lungi dall’essere di nuovo mie, benché vicine di poche ore. Ora non potevo più contare sul suo mantello per scaldarmi, non potevo contare sulle sue braccia, sul suo calore, non potevo più contare su di lui, non era lì con me e mai ci sarebbe stato.
Mai.
Era dunque lì che avrei dovuto passare il resto dei miei giorni? Quella sarebbe diventata la mia casa? Già, la mia casa. Quanto mi mancava. E la mia mamma, la donna più dolce e gentile che avessi mai incontrato, cosa avrei dato per poter rivedere il suo volto. Chissà come si stava disperando notando la mia scomparsa, ero sparita durante la notte nel nulla, senza salutare né avvisare. Povera la mia mamma. E mio fratello, cosa avrei dato per poterlo riabbracciare come una volta, stritolandolo come potevo. Invece ero lì, immersa nell’oscurità di una prigione, inghiottita dall’oblio del mio dolore, priva di futuro, lontana da tutto ciò che mi apparteneva e che faceva parte di me, insieme a una manciata di ricordi che non riuscivo a riconoscere né a trattenere.
<< Quale triste sorte incatena un cuore incompreso >> mormorai tra me e me e sentii la mia voce rispondermi nell’eco della montagna, mia unica compagna.
<< In cuor di donna, quanto dura amore? >> dissi a voce alta, e attesi che il mio eco rispondesse << Ore >>.
<< Ed egli non m’amò com’io l’amai? >> gridai ancora e ancora una volta attesi la risposta del mio eco << Mai >>.
<< Or chi sei tu, che sì ti lagni meco? >> e la mia stessa voce nelle profondità della grotta rispose << Eco >>.
Non era stata un’invenzione mia, avevo letto quella poesia nel libro del Fu Mattia Pascal e mi aveva sempre affascinato, ancor di più quando lessi la storia di Eco scritta nelle Metamorfosi di Ovidio. Era stato un esperimento il mio, ed era ben riuscito. Non che avessi voglia di cimentarmi in vane sperimentazioni, non desideravo niente se non rimanere sola con me stessa, ma in quel momento mi sembrava di esserci riuscita, avevo appena conversato con me stessa e mi ero ricordata quanto è vano l’amore, quant’è futile e sfuggevole, scivoloso e tagliente al tatto, accecante alla vista, stordente all’udito.
<< Che triste poesia che avete recitato, mia signora >>. Una voce. Una voce nell’ombra! Non ero sola. Mi risvegliai dal mio incanto: chi c’era lì con me? Mi alzai e andai vicino alle sbarre per poter guardare attorno alla mia cella se mai avessi visto qualcuno. Ma tutto era vuoto, buio e silenzioso.
<< Chi siete? >> chiesi con curiosità continuando a guardarmi attorno. Solo allora vidi una figura mostrarsi alla luce al di là di altre sbarre, davanti a me, due celle più a destra.
<< Chi sono? Non ricordo il mio nome, sono passati tanti anni e nessuno me l’ha mai rammentato.>> era un povero uomo dai lunghi capelli e dalla lunga barba bionda, con qualche guizzo di bianco, segno della vecchiaia incombente. Era molto magro, i suoi abiti non toccavano la sua pelle al di sotto, ma la cosa che più mi colpì furono i suoi occhi: semiaperti, quel tanto che bastava per vedere che sotto le palpebre c’era solo del bianco. Niente pupilla, niente iridi, solo un bianco un po’ opaco e velato. Vidi che volgeva lo sguardo dritto davanti a sé nonostante io non fossi lì, questo fu l’ultimo segno che mi confermò che avevo a che fare con un uomo cieco.
<< Ricordo vagamente la voce di qualcuno, qualche persona, non ricordo chi, che volgeva gli occhi verso di me pronunciando il nome Falastur, penso sia quello il mio nome, ma non ne sono certo e non ricordo la mia casata. Chiamatemi pure Falastur se desiderate, mia signora >> parlava con lentezza, con voce grave e pesante, come se facesse fatica a muovere la lingua nella bocca o addirittura a respirare. Mi ricordava un po’ Barbalbero.
<< E’ un piacere fare la tua conoscenza Falastur, il mio nome è Sophia e anch’io non ricordo la mia casata né la mia provenienza, se ciò ti può mettere a tuo agio >>.
<< Strana trovata quella del Sovrintendente Denethor di incarcerare gli smemorati >> disse ma il suo tono non sembrava divertito benché sapevo che stava ironizzando.
<< Non mi ha incarcerata il Sovrintendente Denethor, e nemmeno perché sono smemorata. E’ stato il figlio >> indugiai un po’, pronunciare il suo nome sapevo che mi avrebbe fatto crollare addosso altre macerie << Boromir, dopo avermi accusato ingiustamente dell’assassinio di suo padre e del tentato omicidio di suo fratello >>.
<< Che curiosa e singolare vicenda! >> commentò Falastur << Mi piacerebbe saperne di più >>.
Non risposi subito, infondo poteva sembrare gentile quanto voleva ma era pur sempre un carcerato, non è bene raccontare i fatti propri ai criminali, e poi non lo conoscevo nemmeno e non mi piaceva raccontare la mia vita al primo malcapitato che trovavo per la via.
<< Oh, comprendo il vostro silenzio >> intervenne lui << Perdonate la mia curiosità, ma sono stato solo e isolato per così tanto tempo che sentire una voce amica raccontarmi di un po’ di faccende provenienti dal mondo di sopra mi diletta >>.
Sorrisi, infondo anch’io avrei dovuto passare il resto dei miei giorni lì dentro, tanto valeva farsi un amico, almeno non avrei passato l’inferno completamente sola.
<< Sire Denethor è stato preso dalla follia, le tenebre del male hanno annebbiato la sua mente, e dopo aver mandato alla morte suo figlio Faramir, dopo aver visto la guerra che si sta scatenando al di fuori delle mura della sua città, la pazzia ha preso la sua mente e ha commesso un gesto sconsiderato quanto riprovevole. Ha raccolto un po’ di legna e ha cosparso di olio lui e suo figlio, deciso a dar fuoco entrambi per giungere alla casa dei suoi padri come meglio preferiva. Io ho tentato di salvarlo da questa pazzia, o quanto meno salvare suo figlio Faramir che non era morto ma solo ferito gravemente, ma ho fallito per metà. Faramir è sopravvissuto ma Denethor è morto bruciato. Boromir è giunto poco dopo sul luogo e, dato che già aveva poca fiducia in me a causa di alcuni miei gesti poco chiari commessi in passato, mi ha dato la colpa di tutto e mi ha sbattuta qua dentro con l’accusa di essere una traditrice omicida. >> raccontai lasciandomi andare alla tristezza e facendo uscire la voce dalla mia gola con difficoltà.
<< Oh >> fu dapprima il commento di Falastur << Così non vi ha voluto credere? >>
<< Mi considera una strega in grado di annebbiare la mente degli uomini, alleata con il nemico >> spiegai ancora con un filo di voce.
<< Devo credere che voi non siate semplicemente una donna della sua corte se nel raccontare di quanto è accaduto la vostra voce trema di tristezza e dolore. >>
<< Siete molto arguto >> commentai.
<< La cecità mi ha donato di un altro tipo di vista >> spiegò lui in poche parole prima di ritornare sull’argomento << Sire Boromir dev’essere una persona che vi sta molto a cuore, non è così? >>
Titubai un po’, prima di lasciarmi scivolare a terra e mettermi a sedere sulla fredda roccia, con la spalla sinistra poggiata alle sbarre << Più di quanto chiunque possa immaginare >> risposi.
<< Ed egli non m’amò com’io l’amai? >> disse lui ripetendo sovrappensiero le parole della poesia che avevo detto poco prima. Fece una pausa che io colmai rispondendo con voce sottile << Mai. >>
Un altro lungo silenzio seguì, io incapace di aggiungere altro, lui pensieroso, probabilmente chiedendosi come si possa consolare un cuore strutto che non ha speranza di vedere la luce.
<< E così Sire Denethor è morto >> interruppe quel silenzio così mortale forse con l’intenzione di cambiare argomento per continuare a parlare con me pur non facendomi soffrire.
<< Sì >> risposi semplicemente. << Forse allora c’è qualche speranza anche per questo povero vecchio >> disse sforzandosi di fare una risata che uscì come un colpo di tosse dalla sua gola. Alzai lo sguardo dal pavimento umido al suo volto, curiosa di sapere che volesse dire e aspettando che continuasse a parlare dandomi spiegazioni, cosa che fece quasi subito << La mente del nostro Sovrintendente già da tempo era annebbiata, da anni, tanti quanti io mi trovo qui. La mia colpa fu quella di disobbedire ai suoi ordini ritenuti follia. Fui accecato come punizione con olio bollente e sbattuto in prigione. Forse ora il nuovo Sire al trono capirà il suo errore e mi libererà. Chi c’è ora al trono? >>
<< Nessuno che io sappia, ma presto arriverà un valoroso Re, mio amico, figlio di una nobile casata, così com’è nobile la sua anima. Ti libererà sicuramente. >> spiegai sorridendo al ricordo del volto di Aragorn, forse avrebbe liberato anche me, infondo lui aveva sempre avuto fiducia in me e nelle mie verità.
<< Chi è costui? >> chiese Falastur e non aspettai oltre per nominarlo con orgoglio << Aragorn è il suo nome. Figlio di Arathor, discendente di Isildur >>
<< Oh, Elessar >> commentò con la voce colma di felicità e di orgoglio << Dunque sta tornando >>
<< E’ già in cammino >> spiegai.
<< Minas Tirith avrà nuova vita >> disse sempre con il suo tono fiducioso e felice.
<< L’albero bianco tornerà di nuovo in fiore. >> sorrisi anche io chiedendomi se mai sarei riuscita a godere di quello spettacolo, ma la speranza era corsa via, oltre i campi, oltre le foreste, oltre i monti e i mari, laddove era impossibile arrivare. Mi rattristai nuovamente: giorni bui mi attendevano.
<< Re Elessar libererà anche voi, mia signora, non struggetevi. >>
<< Non avrebbe motivo, non ha prove contro la mia colpevolezza. >> Stava cercando di aiutarmi, voleva tirarmi su di morale, riuscivo a capirlo, ma il suo era un tentativo inutile, le sue dita scivolavano sullo specchio su cui cercava di arrampicarsi.
<< Quindi tu non sei sempre stato cieco? >> dissi ritornando a parlare, mi ero resa conto che anch’io avevo bisogno di sentire una voce amica, qualsiasi fosse l’argomento, mi aiutava a non cadere negli abissi. Probabilmente il mio tentativo era tanto disperato da rendermi conto solo dopo aver posto la domanda che ero stata un’insensibile, ma Falastur non parve darci peso e rispose con malinconia ma volentieri.
<< I miei occhi un tempo hanno veduto cose così belle che la memoria non abbandona. Fiori e campi, cieli stellati, cavalli in corsa per le terre selvagge, colori meravigliosi, arcobaleni e il sole rosso di prima mattina. La luna, com’è bella la luna! Con il suo volto perlato e la sua espressione colma di meraviglia, come se dopo anni di sovranità in quei cieli ancora non riconoscesse il magnifico mondo che ha davanti. E donne, oh sì, ne ho vedute di donne >> rise << Ero uno a cui piaceva vederle al tempo, adoravo vederle impegnate nei loro lavori quotidiani, litigare con i capelli che impedivano loro di svolgere i comuni compiti, i loro occhi sbarazzini che curiosavano in giro. Sempre molto curiose le donne, non si lasciano sfuggire niente e adorano conoscere quante più cose, serve del loro cuore e di nient’altro. Che creature meravigliose. Capelli biondi, rossi o scuri, occhi azzurri, grigi, verdi, marroni o neri. Ne ho veduti di occhi, ne ho veduti, e tutti erano più belli dell’altro. >>
Era un Don Giovanni! Un malinconico Don Giovanni, privato della sua vita.
<< Mi dispiace. >> ammisi tristemente non sapendo che altro dire << Ma c’è sempre il lato positivo delle cose, almeno adesso non sarai costretto a vedere lo squallore di questo posto, i tuoi amati fiori appassiti, i tuoi campi bruciati, i tuoi cavalli morti o fuggiti, gli occhi delle donne colmi di terrore, i loro capelli sporchi e sbiaditi, ricoperti di cenere dalla provenienza sconosciuta, non vedrai i cieli neri dalle nubi e il volto del sole e della luna coperti quotidianamente tanto da confondersi l’un con l’altro. >>
Falastur fece una breve pausa riflettendo su quanto gli avevo detto, o semplicemente per il piacere di fare una pausa, non gli piaceva parlare d’istinto come facevo io, rifletteva e soppesava ogni singola lettera prima di farla uscire dalla bocca.
<< Mondo miserabile >> commentò con un sospiro << Però mi sarebbe piaciuto in questo momento poter avere di nuovo i miei occhi per poter vedere voi, mia signora, anche solo per poco tempo, giusto per potervi figurare nella mia mente e non avere la sensazione di parlare con uno spettro dal cuore spezzato >>.
Sorrisi, Falastur mi piaceva, aveva un’anima pura.
<< L’immaginazione in questi casi aiuta >> suggerii e Falastur rimase in silenzio ancora un altro po’ prima di domandarmi << Di che colore avete gli occhi? >>
<< Verdi ma che si colorano di un marroncino vicino alla pupilla >>.
Ancora silenzio, sembrava stesse costruendo qualcosa, stava assemblando i pezzi.
<< Capelli? >> chiese ancora e ancora una volta risposi senza timore ma con un pizzico di gioia, mi piaceva pensare che stessi aiutando qualcuno come lui a realizzare quel piccolo capriccio innocente.
<< Biondi, lunghi fino al seno ma che tengo sempre legati sopra la nuca per comodità. Pelle bianca, corpo esile, alta non più di… >> feci il calcolo mentalmente convertendo i miei 165 centimetri in piedi, la loro unità di misura << cinque piedi e mezzo >>.
Vidi Falastur sorridere dopo quelle mie indicazioni facendomi cenno di fermarmi << Basta così. Riesco a vedervi >> disse con un pizzico di emozione << Siete una bella donna, i miei occhi avrebbero sicuramente gradito la vostra immagine >>.
<< Ne sono lusingata >> sorrisi ancora, era strano ma non mi sentivo per niente in imbarazzo a fare discorsi di questo tipo con lui.
Il silenzio cadde di nuovo, ognuno perso nei propri pensieri, nelle proprie torture. Lui desiderava tornare a vedere, io desideravo tornare a trovare qualcosa da vedere.
E il tempo passò così, da soli seppur insieme, nelle consuete ore di tormento, quotidiane come pasti.
Ma il silenzio e il buio di quel luogo non mi piaceva tanto, perciò cominciai a canticchiare la melodia di una canzone, un po’ silenziosa, senza dire ad alta voce le parole solo pensandole, quasi temessi che quel luogo potesse incarcerare anche loro. Falastur udì la mia voce sottile e quasi con emozione mi disse << Sapete cantare, mia signora? >>
<< Mi piace farlo >> dissi semplicemente ma questa risposta bastò al mio compagno << Come mi piacerebbe udire una delle vostre canzoni! E’ da tempo che queste orecchie non sentono altro che il rumore dei passi provenire da fuori le celle o il litigi per il territorio degli insetti. >>
<< Stavo pensando a Sire Boromir >> ammisi un po’ imbarazzata << E’ una canzone un po’ particolare >> era la prima volta che mi sentivo in imbarazzo nel dover cantare una canzone, forse perché le altre volte nessuno capiva il senso dei miei pensieri invece ora sarebbe stato diverso. Falastur aveva in mano le carte che gli permettevano di poter cogliere ogni singola sfaccettatura della mia voce.
<< Ve ne prego >> mi supplicò e un po’ titubante esaudì il suo desiderio inondando il silenzio di quelle celle con la mia voce straziata dal dolore tanto da farla vibrare.
<< Erano pezzi di vetro sparsi sul nostro cammino, le nostre difese lasciate sospese. Fluida acqua che scorre, i nodi miei già si sciolgono come neve d’estate, ma ti guardo tornare su letti di spine. Le nostre parole lontane dal cuore, le nostre paure immotivate, congelate.  L’amore con te è come camminare in punta di piedi senza potersi fermare. Ma sento il tuo calore forte negli angoli bui delle mie stanze gelate. Appesa al tuo respiro mi vedo cadere per poi ritornare a sentirmi felice. Ma la tensione che sento verso il tuo respiro  mi distoglie dal pensiero di tutto ciò che abbiamo perso, e credo a volte di volere riparare, di poter ricostruire tutto nuovo e un po’ diverso. Ma sento il tuo calore forte negli angoli bui delle mie stanze gelate. Appesa al tuo respiro mi vedo cadere per poi ritornare a sentirmi felice. Mi fermo di fronte al tuo viso tu che dormi disteso e non sai di poterti affidare, di poterti fidare di me. >> feci una piccola pausa, fissando il pavimento, prima di sussurrare le ultime parole con un filo di voce << Puoi fidarti di me >>. Il silenzio che calò successivamente fu quasi sovraumano, sembrava quasi che Falastur avesse perfino smesso di respirare. Alzai gli occhi verso la sua cella per capire cosa stava facendo, perché era così silenzioso. Ma i miei occhi non giunsero alla sua cella, si fermarono prima, alla fine delle scale che conducevano in superficie, lontano dalle celle. Smisi anch’io di respirare e sentii un tuffo al cuore.
Immobile a fissarmi c’era lui, l’uomo dei miei tormenti, l’uomo che mi aveva strappato il cuore giocandoci a tennis, l’uomo più meraviglioso che avessi mai conosciuto ma anche il più testardo, cocciuto e orgoglioso. Boromir.
Si avvicinò alla mia cella  e nonostante la rabbia e la tristezza nei suoi confronti non potevo far a meno di ammirarlo nella sua fierezza e nella sua bellezza: brillava come una stella illuminando un cielo troppo buio. Si era cambiato con abiti puliti e più comodi, si era sicuramente lavato e sistemato, non c’era più quello strato di polvere sul suo viso che adesso brillava più bello che mai. Mi trovavo di fronte a un Dio, ma non mi era permesso avvicinarmi.
Rimasi immobile, non avendo la forza di volontà nemmeno di alzarmi, non volevo nemmeno parlargli per timore che avesse intenzione di ferirmi ancora con le sue parole affilate come lame, non volevo vederlo, sapere che mai sarei riuscita a raggiungerlo mi straziava, non volevo sentire il suo odore e cadervi di nuovo in tentazione, non volevo che fosse lì.
Nonostante tutto non riuscii a cacciarlo, né a rispondergli male, né a dire niente. Ero immobile, a guardarlo mentre si avvicinava alla mia cella e ne apriva la porta rugginosa che scricchiolò rimbombando nelle prigioni come la mia poesia aveva fatto qualche ora prima.
Mi si avvicinò lasciando la porta dietro di sé aperta, non preoccupandosi del fatto che io, prigioniera, sarei potuta fuggire. Mi venne davanti continuando a guardarmi con i suoi occhi di ghiaccio, freddi e pungenti, solo l’orgoglio bruciava dentro lui, non riuscivo a cogliere altro.
Mi porse il mio mantello e il mio braccialetto con entrambe le mani e rimase immobile aspettando che afferrassi le mie cose e che le parole gli uscissero dalle labbra. Mi alzai in piedi lentamente continuando a guardarlo in volto, non riuscivo proprio a capire cosa significasse quel gesto, cosa voleva dimostrare? Aveva forse avuto pietà di me tanto da volermi riportare le mie cose così che non avrei patito troppo il freddo in quel postaccio? Fece un sospiro e aprì le labbra per dire qualcosa, ma non uscì nessun suono. Poi ripeté la stessa azione ma sta volta parlò << Sei libera >> il mio stupore aumentò. Cosa era successo in quelle ore per fargli cambiare idea riguardo alla mia colpevolezza?
Presi il mio mantello lentamente osservandolo e toccandolo: il fuoco l’aveva rovinato parecchio, c’erano buchi e increspature un po’ ovunque.
<< Ho parlato con Legolas >> alzai di nuovo lo sguardo, ora cominciavo a capire! Lui doveva avergli raccontato tutto, ma per quale motivo? Non ero morta! Aveva mancato meno alla promessa! Ma…. forse era giusto così. Almeno non sarei più rimasta a far compagnia alle piattole << Ho riconosciuto il mio errore e sono giunto qui per porne rimedio. Ora sei libera, va’ dove credi sia giusto >>.
Nonostante tutto le cose non erano cambiate. Lui aveva capito, o almeno così diceva, eppure era così freddo e discostato con me, mi parlava con solennità come se nemmeno mi conoscesse. Tutto mi fu chiaro. Avevo compreso sempre più in quei giorni cosa stava cercando di dirmi Saruman: mai sarei riuscita a impossessarmi del cuore di Boromir con le mie sole forze, lui lo sapeva, l’aveva forse visto nel Palantir e voleva aiutarmi in cambio di una cospicua merce. Capii.
Quello non era il mio posto, la mia città, il mio mondo. Ero solo un’intrusa, non avevo ragione di essere lì, tutto mi era estraneo, compresa l’aria che respiravo. Niente di quel posto mi apparteneva né mai mi sarebbe appartenuto, che sciocca pensare che sarei potuta vivere felice in quella terra, non c’era vita per me, ero stata solo una comparsa un po’ scomoda. Saruman mi aveva portato lì, non il destino, non c’era mai stata nessuna missione per me, avevo sbagliato tutto. Mi sentivo così inappropriata in quel luogo, così fuori posto, non riconoscevo niente, nemmeno me stessa. Ero un’ombra che il sole tramontando aveva allungato, ma ora era giunta per me l’ora di sparire, ora il sole non c’era più, io ombra non venivo più proiettata su quella terra. Allungai la mano verso quella dell’uomo che ancora mi porgeva con sopra il mio braccialetto, sarei sparita, era questo che dovevo fare, abbandonare tutto e tornare ad essere il nulla, solo tracce invisibili su una terra che ben presto sarebbe cambiata e mi avrebbe cancellata dalle sue memorie. Indugiai. Forse potevo lasciare una parte di me lì, se avessi lasciato a lui il mio braccialetto si sarebbe ricordato di me e, incredibile a dirsi, mi sarebbe comunque bastato. Ma no, ormai tutto era stato scritto, troppo a lungo ero fuggita dalle mani del mio destino, troppo a lungo avevo combattuto, ora non avevo niente da vincere, ero un soldato ferito che aveva appena perso la sua guerra, niente di me lì sarebbe rimasto, inutile continuare a lottare, ormai tutto era vano. Afferrai il braccialetto sfiorando la mano calda dell’uomo, brividi lungo la schiena, gli ultimi che avrei mai provato. Boromir si fece da parte per farmi uscire dalla prigione, mi aveva offerto una liberta, vero, ma era una libertà lontana da quel posto. Solo andandomene sarei stata veramente libera, non c’era più spazio per me lì, lui stesso l’aveva capito e mi stava facendo andar via. Non mi avrebbe fermata, non mi avrebbe cercata, non mi avrebbe ricordata. Solo polvere, ecco cos’ero, polvere che stava venendo trascinata via dal vento mattutino di un nuovo giorno in una terra che più mi accettava, come una spina che col tempo viene espulsa dalla carne. Un sogno era stato, nulla più. Era giunto il momento di svegliarsi. Mi voltai e fuggii via, scappando dalla cella, senza voltarmi indietro, senza fermarmi a guardare un’ultima volta Boromir, dovevo impedire a qualsiasi cosa di bloccarmi e di farmi indugiare. Dovevo andarmene e non mi era concesso l’addio straziante dei film. Non dovevo indugiare.
Salii le scale che portavano in superficie, all’aria aperta, aria che mi scompigliò i capelli scivolati dalla coda che mi ero fatta, aria così avversa, sentivo l’eco di una voce che urlava “vattene”, ma forse era solo il mio cuore. Non conoscevo la strada ma furono i piedi a guidarmi, non sapevo dove andare, ma non me ne preoccupavo. Dovevo andarmene, non c’era più posto per me lì. Incrociai durante la mia folle corsa un piccolo hobbit che non guardai ma riconobbi Pipino dalla voce che mi chiamava incessantemente. Non indugiai, non dovevo. Non l’ascoltai e continuai a correre verso i cancelli di Minas Tirith senza voltarmi indietro. Il suono della voce di Pipino ancora arrivava alle mie orecchie, continuava a chiamarmi e forse aveva provato a inseguirmi, non saprei dirlo. Arrivai ai cancelli, spinsi delle guardie che per caso mi erano capitate sulla strada e uscii dall’enorme cancello distrutto che stavano cercando di riparare. Anche quando la pioggia cominciava a cadere incessante sui migliaia di morti che ancora giacevano sui campi Pelennor continuavo a correre, senza guardarmi attorno, mischiando la pioggia sul mio viso alle lacrime, così amare come mai lo erano state. Superai il campo di battaglia e solo allora rallentai la mia folle corsa e mi voltai indietro: avevo detto addio a tutti, compreso Boromir anche se in maniera alquanto rude, ma non a Minas Tirith, la città più bella e affascinante che abbia mai visto. Città che alla vista ora mi appariva così lontana e appannata, come un ricordo che pian piano si eclissa nella mente di chi sta per cadere in un sonno profondo. Riconobbi sopra uno dei cornicioni la piccola figura di Pipino che continuava a sbracciarsi, anche se non udivo più la sua voce, sapevo che continuava a chiamarmi non riuscendo a comprendere la mia decisione. Non aveva importanza, presto avrebbe dimenticato, come tutti gli altri.
<< Ombra mi avvolge, lo stesso timore che preclude un’addio, addio che da tempo era destinato ma che sempre ero riuscita a fuggire. Ma non ora. >> sussurrai e mi voltai nuovamente verso la foresta davanti a me, oltre i campi che quasi avevo percorso interamente << Addio >>.

 
Ormai ero dentro la foresta, la stessa foresta che il giorno prima mi aveva spaventata, la stessa foresta che il giorno prima mi aveva quasi inghiottito facendo vittima me e il mio cuore, ora mi ci ero tuffata, pronta ad essere strappata dalle mani della Terra di Mezzo. Gli alberi a me apparsi avversi ora lo erano ancor di più, tutto esprimeva odio e repulsione nei miei confronti. Dovevo andarmene, ma non sarei riuscita da sola. Mi guardai attorno terrorizzata e affranta come non mai.
<< Saruman!! >> gridai facendo echeggiare la mia voce in quella foresta ormai morta, ormai sotto il potere del male. << Fammi tornare a casa! >> gridai ancora con voce straziata e sofferente, ero disperata, stufa di quel sogno che ora più che mai era un incubo. Volevo svegliarmi, volevo andarmene.
<< Saruman!! >> gridai riprendendo a correre verso mete sconosciute, in cerca di qualsiasi cosa mi avesse fatto pensare ad un suo aiuto << Saruman! Riportami a casa, Saruman! >> sforzai tanto la  mia voce da farne uscire un grido acuto. Mi voltai di scatto, continuando a guardarmi intorno disorientata << Riportami a casa!!! Adesso! Saruman! >> , mi voltai ancora e ancora, correndo da una parte all’altra della foresta, in cerca di un segno, di un qualsiasi cosa. Desideravo più di qualsiasi cosa riuscire a toccare di nuovo l’erba del mio giardino, il mio parquet, il mio letto, stringere di nuovo i miei pupazzi, la mia mamma, mio fratello e tornare a guardare da esterno tutto quel che era successo, sorridendo alle mie illusioni infrante.
<< Saruman! >> gridai ancora disperatamente, voltandomi e tornando a correre senza vedere una radice che sporgeva dal terreno e cadendo a terra, dentro una pozzanghera fangosa. I singhiozzi ormai erano incessanti e implacabili, urla tormentose uscivano dalla mia gola, ferite che bruciavano come ferri ardenti. << Ti prego >> mi disperai ancora << Ti prego, voglio tornare a casa. >> Rimasi stesa dentro quella pozzanghera inerme. Era tutto inutile, non sarei mai riuscita a tornare a casa, Saruman non mi sentiva o forse non voleva sentirmi, o forse….era morto. Avevo dimenticato quel particolare. Le mie urla altro non erano che urla, il mio dolore fuoco, la mia anima polvere e i miei desideri ombra in una notte senza stelle.
Mossi le mani in quella fanghiglia con la quale quasi mi mischiavo, non desideravo alzarmi, mi sentivo parte di lei. Singhiozzi e lamenti. << Fammi tornare a casa >> ma ormai non c’era più speranza per me, non avevo futuro, tutto era finito, nessun posto era adatto a me, nessun luogo raggiungibile. Avevo desiderato troppo forse, quella era la mia punizione. Sentii dei passi pesanti e delle voci roche provenire da davanti a me, alzai la testa e vidi, anche se in maniera molto confusa, degli orchi venirmi incontro mormorando qualcosa. Eccolo il mio destino: a lungo aveva tentato di prendermi, ora non mi sarei più ribellata. Chinai la testa chiudendo gli occhi e lasciando che le lacrime lavassero via il fango dal mio volto mentre quelle pesanti braccia mi strappavano con violenza dalla mia pozza e mi sollevarono caricandomi sulle loro spalle. Ormai niente era recuperabile, era giunta la mia fine, come nei sogni che facevo sempre di notte a casa mia: la felicità di incontrarlo, la felicità di innamorarmene ed esser ricambiata e poi quell’addio causato dalle tre frecce d’orco. Finivano sempre così i miei sogni, con un addio, con la sua scomparsa e la mia fine. E quella volta non fu diverso.

   
 
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