Dal momento in
cui Boromir mi aveva
accusata ingiustamente sbattendomi in quel postaccio nessun pensiero
attraversò
la mia mente, nessun aquila si alzava in volo, tutto era immobile come
in una
giornata di gelo in inverno, dopo una lunga nevicata che ha lasciato
dietro di
sé solo morte e desolazione. Non c’era vento nel
mio deserto. Non c’era acqua
nel mio mare. Non c’era cuore nel mio petto.
Mi raggomitolai in un angolo della
prigione, tremando di freddo in quanto il mio mantello era rimasto a
Faramir e
quel posto era gelido e umido. Abbracciai le gambe e posai la testa tra
le
ginocchia mentre le immagini della sera prima mi attraversavano la
mente,
memorie ormai lungi dall’essere di nuovo mie,
benché vicine di poche ore. Ora
non potevo più contare sul suo mantello per scaldarmi, non
potevo contare sulle
sue braccia, sul suo calore, non potevo più contare su di
lui, non era lì con
me e mai ci sarebbe stato.
Mai.
Era dunque lì che avrei dovuto passare il
resto dei miei giorni? Quella sarebbe diventata la mia casa?
Già, la mia casa.
Quanto mi mancava. E la mia mamma, la donna più dolce e
gentile che avessi mai
incontrato, cosa avrei dato per poter rivedere il suo volto.
Chissà come si
stava disperando notando la mia scomparsa, ero sparita durante la notte
nel nulla,
senza salutare né avvisare. Povera la mia mamma. E mio
fratello, cosa avrei
dato per poterlo riabbracciare come una volta, stritolandolo come
potevo.
Invece ero lì, immersa nell’oscurità di
una prigione, inghiottita dall’oblio
del mio dolore, priva di futuro, lontana da tutto ciò che mi
apparteneva e che
faceva parte di me, insieme a una manciata di ricordi che non riuscivo
a
riconoscere né a trattenere.
<< Quale triste sorte incatena un
cuore incompreso >> mormorai tra me e me e sentii la mia
voce rispondermi
nell’eco della montagna, mia unica compagna.
<< In cuor di donna, quanto dura
amore? >> dissi a voce alta, e attesi che il mio eco
rispondesse <<
Ore >>.
<< Ed egli non m’amò
com’io l’amai?
>> gridai ancora e ancora una volta attesi la risposta
del mio eco
<< Mai >>.
<< Or chi sei tu, che sì ti lagni
meco? >> e la mia stessa voce nelle profondità
della grotta rispose
<< Eco >>.
Non era stata un’invenzione mia, avevo
letto quella poesia nel libro del Fu Mattia Pascal e mi aveva sempre
affascinato, ancor di più quando lessi la storia di Eco
scritta nelle
Metamorfosi di Ovidio. Era stato un esperimento il mio, ed era ben
riuscito.
Non che avessi voglia di cimentarmi in vane sperimentazioni, non
desideravo
niente se non rimanere sola con me stessa, ma in quel momento mi
sembrava di
esserci riuscita, avevo appena conversato con me stessa e mi ero
ricordata
quanto è vano l’amore,
quant’è futile e sfuggevole, scivoloso e tagliente
al
tatto, accecante alla vista, stordente all’udito.
<< Che triste poesia che avete
recitato, mia signora >>. Una voce. Una voce
nell’ombra! Non ero sola. Mi
risvegliai dal mio incanto: chi c’era lì con me?
Mi alzai e andai vicino alle
sbarre per poter guardare attorno alla mia cella se mai avessi visto
qualcuno.
Ma tutto era vuoto, buio e silenzioso.
<< Chi siete? >> chiesi con
curiosità continuando a guardarmi attorno. Solo allora vidi
una figura
mostrarsi alla luce al di là di altre sbarre, davanti a me,
due celle più a
destra.
<< Chi sono? Non ricordo il mio
nome, sono passati tanti anni e nessuno me l’ha mai
rammentato.>> era un
povero uomo dai lunghi capelli e dalla lunga barba bionda, con qualche
guizzo
di bianco, segno della vecchiaia incombente. Era molto magro, i suoi
abiti non
toccavano la sua pelle al di sotto, ma la cosa che più mi
colpì furono i suoi
occhi: semiaperti, quel tanto che bastava per vedere che sotto le
palpebre
c’era solo del bianco. Niente pupilla, niente iridi, solo un
bianco un po’
opaco e velato. Vidi che volgeva lo sguardo dritto davanti a
sé nonostante io
non fossi lì, questo fu l’ultimo segno che mi
confermò che avevo a che fare con
un uomo cieco.
<< Ricordo vagamente la voce di
qualcuno, qualche persona, non ricordo chi, che volgeva gli occhi verso
di me
pronunciando il nome Falastur, penso sia quello il mio nome, ma non ne
sono
certo e non ricordo la mia casata. Chiamatemi pure Falastur se
desiderate, mia
signora >> parlava con lentezza, con voce grave e
pesante, come se
facesse fatica a muovere la lingua nella bocca o addirittura a
respirare. Mi ricordava
un po’ Barbalbero.
<< E’ un piacere fare la tua
conoscenza Falastur, il mio nome è Sophia e
anch’io non ricordo la mia casata
né la mia provenienza, se ciò ti può
mettere a tuo agio >>.
<< Strana trovata quella del
Sovrintendente Denethor di incarcerare gli smemorati >>
disse ma il suo
tono non sembrava divertito benché sapevo che stava
ironizzando.
<< Non mi ha incarcerata il
Sovrintendente Denethor, e nemmeno perché sono smemorata.
E’ stato il figlio
>> indugiai un po’, pronunciare il suo nome
sapevo che mi avrebbe fatto
crollare addosso altre macerie << Boromir, dopo avermi
accusato
ingiustamente dell’assassinio di suo padre e del tentato
omicidio di suo
fratello >>.
<< Che curiosa e singolare vicenda!
>> commentò Falastur << Mi
piacerebbe saperne di più >>.
Non risposi subito, infondo poteva
sembrare gentile quanto voleva ma era pur sempre un carcerato, non
è bene
raccontare i fatti propri ai criminali, e poi non lo conoscevo nemmeno
e non mi
piaceva raccontare la mia vita al primo malcapitato che trovavo per la
via.
<< Oh, comprendo il vostro silenzio
>> intervenne lui << Perdonate la mia
curiosità, ma sono stato solo
e isolato per così tanto tempo che sentire una voce amica
raccontarmi di un po’
di faccende provenienti dal mondo di sopra mi diletta >>.
Sorrisi, infondo anch’io avrei dovuto
passare il resto dei miei giorni lì dentro, tanto valeva
farsi un amico, almeno
non avrei passato l’inferno completamente sola.
<< Sire Denethor è stato preso
dalla follia, le tenebre del male hanno annebbiato la sua mente, e dopo
aver
mandato alla morte suo figlio Faramir, dopo aver visto la guerra che si
sta
scatenando al di fuori delle mura della sua città, la pazzia
ha preso la sua
mente e ha commesso un gesto sconsiderato quanto riprovevole. Ha
raccolto un po’
di legna e ha cosparso di olio lui e suo figlio, deciso a dar fuoco
entrambi
per giungere alla casa dei suoi padri come meglio preferiva. Io ho
tentato di
salvarlo da questa pazzia, o quanto meno salvare suo figlio Faramir che
non era
morto ma solo ferito gravemente, ma ho fallito per metà.
Faramir è
sopravvissuto ma Denethor è morto bruciato. Boromir
è giunto poco dopo sul
luogo e, dato che già aveva poca fiducia in me a causa di
alcuni miei gesti
poco chiari commessi in passato, mi ha dato la colpa di tutto e mi ha
sbattuta
qua dentro con l’accusa di essere una traditrice omicida.
>> raccontai
lasciandomi andare alla tristezza e facendo uscire la voce dalla mia
gola con
difficoltà.
<< Oh >> fu dapprima il
commento di Falastur << Così non vi ha voluto
credere? >>
<< Mi considera una strega in grado
di annebbiare la mente degli uomini, alleata con il nemico
>> spiegai
ancora con un filo di voce.
<< Devo credere che voi non siate
semplicemente una donna della sua corte se nel raccontare di quanto
è accaduto
la vostra voce trema di tristezza e dolore. >>
<< Siete molto arguto >>
commentai.
<< La cecità mi ha donato di un
altro tipo di vista >> spiegò lui in poche
parole prima di ritornare
sull’argomento << Sire Boromir
dev’essere una persona che vi sta molto a
cuore, non è così? >>
Titubai un po’, prima di lasciarmi
scivolare a terra e mettermi a sedere sulla fredda roccia, con la
spalla
sinistra poggiata alle sbarre << Più di quanto
chiunque possa immaginare
>> risposi.
<< Ed egli non m’amò
com’io l’amai?
>> disse lui ripetendo sovrappensiero le parole della
poesia che avevo
detto poco prima. Fece una pausa che io colmai rispondendo con voce
sottile
<< Mai. >>
Un altro lungo silenzio seguì, io
incapace di aggiungere altro, lui pensieroso, probabilmente chiedendosi
come si
possa consolare un cuore strutto che non ha speranza di vedere la luce.
<< E così Sire Denethor è morto
>> interruppe quel silenzio così mortale forse
con l’intenzione di
cambiare argomento per continuare a parlare con me pur non facendomi
soffrire.
<< Sì >> risposi
semplicemente. << Forse allora c’è
qualche speranza anche per questo
povero vecchio >> disse sforzandosi di fare una risata
che uscì come un
colpo di tosse dalla sua gola. Alzai lo sguardo dal pavimento umido al
suo
volto, curiosa di sapere che volesse dire e aspettando che continuasse
a
parlare dandomi spiegazioni, cosa che fece quasi subito
<< La mente del
nostro Sovrintendente già da tempo era annebbiata, da anni,
tanti quanti io mi
trovo qui. La mia colpa fu quella di disobbedire ai suoi ordini
ritenuti
follia. Fui accecato come punizione con olio bollente e sbattuto in
prigione.
Forse ora il nuovo Sire al trono capirà il suo errore e mi
libererà. Chi c’è
ora al trono? >>
<< Nessuno che io sappia, ma presto
arriverà un valoroso Re, mio amico, figlio di una nobile
casata, così com’è
nobile la sua anima. Ti libererà sicuramente.
>> spiegai sorridendo al
ricordo del volto di Aragorn, forse avrebbe liberato anche me, infondo
lui
aveva sempre avuto fiducia in me e nelle mie verità.
<< Chi è costui? >> chiese
Falastur e non aspettai oltre per nominarlo con orgoglio
<< Aragorn è il
suo nome. Figlio di Arathor, discendente di Isildur >>
<< Oh, Elessar >> commentò
con la voce colma di felicità e di orgoglio <<
Dunque sta tornando
>>
<< E’ già in cammino
>>
spiegai.
<< Minas Tirith avrà nuova vita
>> disse sempre con il suo tono fiducioso e felice.
<< L’albero bianco tornerà di nuovo
in fiore. >> sorrisi anche io chiedendomi se mai sarei
riuscita a godere
di quello spettacolo, ma la speranza era corsa via, oltre i campi,
oltre le
foreste, oltre i monti e i mari, laddove era impossibile arrivare. Mi
rattristai nuovamente: giorni bui mi attendevano.
<< Re Elessar libererà anche voi,
mia signora, non struggetevi. >>
<< Non avrebbe motivo, non ha prove
contro la mia colpevolezza. >> Stava cercando di
aiutarmi, voleva tirarmi
su di morale, riuscivo a capirlo, ma il suo era un tentativo inutile,
le sue
dita scivolavano sullo specchio su cui cercava di arrampicarsi.
<< Quindi tu non sei sempre stato
cieco? >> dissi ritornando a parlare, mi ero resa conto
che anch’io avevo
bisogno di sentire una voce amica, qualsiasi fosse
l’argomento, mi aiutava a
non cadere negli abissi. Probabilmente il mio tentativo era tanto
disperato da
rendermi conto solo dopo aver posto la domanda che ero stata
un’insensibile, ma
Falastur non parve darci peso e rispose con malinconia ma volentieri.
<< I miei occhi un tempo hanno
veduto cose così belle che la memoria non abbandona. Fiori e
campi, cieli
stellati, cavalli in corsa per le terre selvagge, colori meravigliosi,
arcobaleni e il sole rosso di prima mattina. La luna,
com’è bella la luna! Con
il suo volto perlato e la sua espressione colma di meraviglia, come se
dopo
anni di sovranità in quei cieli ancora non riconoscesse il
magnifico mondo che
ha davanti. E donne, oh sì, ne ho vedute di donne
>> rise << Ero
uno a cui piaceva vederle al tempo, adoravo vederle impegnate nei loro
lavori
quotidiani, litigare con i capelli che impedivano loro di svolgere i
comuni
compiti, i loro occhi sbarazzini che curiosavano in giro. Sempre molto
curiose
le donne, non si lasciano sfuggire niente e adorano conoscere quante
più cose,
serve del loro cuore e di nient’altro. Che creature
meravigliose. Capelli
biondi, rossi o scuri, occhi azzurri, grigi, verdi, marroni o neri. Ne
ho
veduti di occhi, ne ho veduti, e tutti erano più belli
dell’altro. >>
Era un Don Giovanni! Un malinconico Don
Giovanni, privato della sua vita.
<< Mi dispiace. >> ammisi
tristemente non sapendo che altro dire << Ma
c’è sempre il lato positivo
delle cose, almeno adesso non sarai costretto a vedere lo squallore di
questo
posto, i tuoi amati fiori appassiti, i tuoi campi bruciati, i tuoi
cavalli
morti o fuggiti, gli occhi delle donne colmi di terrore, i loro capelli
sporchi
e sbiaditi, ricoperti di cenere dalla provenienza sconosciuta, non
vedrai i
cieli neri dalle nubi e il volto del sole e della luna coperti
quotidianamente
tanto da confondersi l’un con l’altro.
>>
Falastur fece una breve pausa riflettendo
su quanto gli avevo detto, o semplicemente per il piacere di fare una
pausa,
non gli piaceva parlare d’istinto come facevo io, rifletteva
e soppesava ogni
singola lettera prima di farla uscire dalla bocca.
<< Mondo miserabile >>
commentò con un sospiro << Però mi
sarebbe piaciuto in questo momento
poter avere di nuovo i miei occhi per poter vedere voi, mia signora,
anche solo
per poco tempo, giusto per potervi figurare nella mia mente e non avere
la
sensazione di parlare con uno spettro dal cuore spezzato
>>.
Sorrisi, Falastur mi piaceva, aveva
un’anima pura.
<< L’immaginazione in questi casi
aiuta >> suggerii e Falastur rimase in silenzio ancora un
altro po’ prima
di domandarmi << Di che colore avete gli occhi?
>>
<< Verdi ma che si colorano di un
marroncino vicino alla pupilla >>.
Ancora silenzio, sembrava stesse
costruendo qualcosa, stava assemblando i pezzi.
<< Capelli? >> chiese ancora
e ancora una volta risposi senza timore ma con un pizzico di gioia, mi
piaceva
pensare che stessi aiutando qualcuno come lui a realizzare quel piccolo
capriccio innocente.
<< Biondi, lunghi fino al seno ma
che tengo sempre legati sopra la nuca per comodità. Pelle
bianca, corpo esile,
alta non più di… >> feci il calcolo
mentalmente convertendo i miei 165
centimetri in piedi, la loro unità di misura
<< cinque piedi e mezzo
>>.
Vidi Falastur sorridere dopo quelle mie
indicazioni facendomi cenno di fermarmi << Basta
così. Riesco a vedervi
>> disse con un pizzico di emozione <<
Siete una bella donna, i
miei occhi avrebbero sicuramente gradito la vostra immagine
>>.
<< Ne sono lusingata >>
sorrisi ancora, era strano ma non mi sentivo per niente in imbarazzo a
fare
discorsi di questo tipo con lui.
Il silenzio cadde di nuovo, ognuno perso
nei propri pensieri, nelle proprie torture. Lui desiderava tornare a
vedere, io
desideravo tornare a trovare qualcosa da vedere.
E il tempo passò così, da soli seppur
insieme, nelle consuete ore di tormento, quotidiane come pasti.
Ma il silenzio e il buio di quel luogo
non mi piaceva tanto, perciò cominciai a canticchiare la
melodia di una
canzone, un po’ silenziosa, senza dire ad alta voce le parole
solo pensandole,
quasi temessi che quel luogo potesse incarcerare anche loro. Falastur
udì la
mia voce sottile e quasi con emozione mi disse << Sapete
cantare, mia
signora? >>
<< Mi piace farlo >> dissi
semplicemente ma questa risposta bastò al mio compagno
<< Come mi
piacerebbe udire una delle vostre canzoni! E’ da tempo che
queste orecchie non
sentono altro che il rumore dei passi provenire da fuori le celle o il
litigi
per il territorio degli insetti. >>
<< Stavo pensando a Sire Boromir
>> ammisi un po’ imbarazzata <<
E’ una canzone un po’ particolare
>> era la prima volta che mi sentivo in imbarazzo nel
dover cantare una
canzone, forse perché le altre volte nessuno capiva il senso
dei miei pensieri
invece ora sarebbe stato diverso. Falastur aveva in mano le carte che
gli
permettevano di poter cogliere ogni singola sfaccettatura della mia
voce.
<< Ve ne prego >> mi supplicò
e un po’ titubante esaudì il suo desiderio
inondando il silenzio di quelle
celle con la mia voce straziata dal dolore tanto da farla vibrare.
<< Erano pezzi di vetro sparsi sul
nostro cammino, le nostre difese lasciate sospese. Fluida acqua che
scorre, i
nodi miei già si sciolgono come neve d’estate, ma
ti guardo tornare su letti di
spine. Le nostre parole lontane dal cuore, le nostre paure immotivate,
congelate. L’amore
con te è come
camminare in punta di piedi senza potersi fermare. Ma sento il tuo
calore forte
negli angoli bui delle mie stanze gelate. Appesa al tuo respiro mi vedo
cadere
per poi ritornare a sentirmi felice. Ma la tensione che sento verso il
tuo
respiro mi
distoglie dal pensiero di
tutto ciò che abbiamo perso, e credo a volte di volere
riparare, di poter
ricostruire tutto nuovo e un po’ diverso. Ma sento il tuo
calore forte negli
angoli bui delle mie stanze gelate. Appesa al tuo respiro mi vedo
cadere per
poi ritornare a sentirmi felice. Mi fermo di fronte al tuo viso tu che
dormi
disteso e non sai di poterti affidare, di poterti fidare di me.
>> feci
una piccola pausa, fissando il pavimento, prima di sussurrare le ultime
parole
con un filo di voce << Puoi fidarti di me
>>.
Immobile a fissarmi c’era lui, l’uomo dei
miei tormenti, l’uomo che mi aveva strappato il cuore
giocandoci a tennis,
l’uomo più meraviglioso che avessi mai conosciuto
ma anche il più testardo,
cocciuto e orgoglioso. Boromir.
Si avvicinò alla mia cella
e nonostante la rabbia e la tristezza nei
suoi confronti non potevo far a meno di ammirarlo nella sua fierezza e
nella
sua bellezza: brillava come una stella illuminando un cielo troppo
buio. Si era
cambiato con abiti puliti e più comodi, si era sicuramente
lavato e sistemato,
non c’era più quello strato di polvere sul suo
viso che adesso brillava più
bello che mai. Mi trovavo di fronte a un Dio, ma non mi era permesso
avvicinarmi.
Rimasi immobile, non avendo la forza di
volontà nemmeno di alzarmi, non volevo nemmeno parlargli per
timore che avesse
intenzione di ferirmi ancora con le sue parole affilate come lame, non
volevo
vederlo, sapere che mai sarei riuscita a raggiungerlo mi straziava, non
volevo
sentire il suo odore e cadervi di nuovo in tentazione, non volevo che
fosse lì.
Nonostante tutto non riuscii a cacciarlo,
né a rispondergli male, né a dire niente. Ero
immobile, a guardarlo mentre si
avvicinava alla mia cella e ne apriva la porta rugginosa che
scricchiolò
rimbombando nelle prigioni come la mia poesia aveva fatto qualche ora
prima.
Mi si avvicinò lasciando la porta dietro
di sé aperta, non preoccupandosi del fatto che io,
prigioniera, sarei potuta
fuggire. Mi venne davanti continuando a guardarmi con i suoi occhi di
ghiaccio,
freddi e pungenti, solo l’orgoglio bruciava dentro lui, non
riuscivo a cogliere
altro.
Mi porse il mio mantello e il mio
braccialetto con entrambe le mani e rimase immobile aspettando che
afferrassi
le mie cose e che le parole gli uscissero dalle labbra. Mi alzai in
piedi
lentamente continuando a guardarlo in volto, non riuscivo proprio a
capire cosa
significasse quel gesto, cosa voleva dimostrare? Aveva forse avuto
pietà di me
tanto da volermi riportare le mie cose così che non avrei
patito troppo il
freddo in quel postaccio? Fece un sospiro e aprì le labbra
per dire qualcosa,
ma non uscì nessun suono. Poi ripeté la stessa
azione ma sta volta parlò
<< Sei libera >> il mio stupore
aumentò. Cosa era successo in quelle
ore per fargli cambiare idea riguardo alla mia colpevolezza?
Presi il mio mantello lentamente
osservandolo e toccandolo: il fuoco l’aveva rovinato
parecchio, c’erano buchi e
increspature un po’ ovunque.
<< Ho parlato con Legolas >>
alzai di nuovo lo sguardo, ora cominciavo a capire! Lui doveva avergli
raccontato tutto, ma per quale motivo? Non ero morta! Aveva mancato
meno alla
promessa! Ma…. forse era giusto così. Almeno non
sarei più rimasta a far
compagnia alle piattole << Ho riconosciuto il mio errore
e sono giunto
qui per porne rimedio. Ora sei libera, va’ dove credi sia
giusto >>.
Nonostante tutto le cose non erano
cambiate. Lui aveva capito, o almeno così diceva, eppure era
così freddo e
discostato con me, mi parlava con solennità come se nemmeno
mi conoscesse.
Tutto mi fu chiaro. Avevo compreso sempre più in quei giorni
cosa stava
cercando di dirmi Saruman: mai sarei riuscita a impossessarmi del cuore
di
Boromir con le mie sole forze, lui lo sapeva, l’aveva forse
visto nel Palantir
e voleva aiutarmi in cambio di una cospicua merce. Capii.
Quello non era il mio posto, la mia
città, il mio mondo. Ero solo un’intrusa, non
avevo ragione di essere lì, tutto
mi era estraneo, compresa l’aria che respiravo. Niente di
quel posto mi
apparteneva né mai mi sarebbe appartenuto, che sciocca
pensare che sarei potuta
vivere felice in quella terra, non c’era vita per me, ero
stata solo una
comparsa un po’ scomoda. Saruman mi aveva portato
lì, non il destino, non c’era
mai stata nessuna missione per me, avevo sbagliato tutto. Mi sentivo
così
inappropriata in quel luogo, così fuori posto, non
riconoscevo niente, nemmeno
me stessa. Ero un’ombra che il sole tramontando aveva
allungato, ma ora era
giunta per me l’ora di sparire, ora il sole non
c’era più, io ombra non venivo
più proiettata su quella terra. Allungai la mano verso
quella dell’uomo che
ancora mi porgeva con sopra il mio braccialetto, sarei sparita, era
questo che
dovevo fare, abbandonare tutto e tornare ad essere il nulla, solo
tracce
invisibili su una terra che ben presto sarebbe cambiata e mi avrebbe
cancellata
dalle sue memorie. Indugiai. Forse potevo lasciare una parte di me
lì, se
avessi lasciato a lui il mio braccialetto si sarebbe ricordato di me e,
incredibile a dirsi, mi sarebbe comunque bastato. Ma no, ormai tutto
era stato
scritto, troppo a lungo ero fuggita dalle mani del mio destino, troppo
a lungo
avevo combattuto, ora non avevo niente da vincere, ero un soldato
ferito che
aveva appena perso la sua guerra, niente di me lì sarebbe
rimasto, inutile
continuare a lottare, ormai tutto era vano. Afferrai il braccialetto
sfiorando
la mano calda dell’uomo, brividi lungo la schiena, gli ultimi
che avrei mai
provato. Boromir si fece da parte per farmi uscire dalla prigione, mi
aveva
offerto una liberta, vero, ma era una libertà lontana da
quel posto. Solo
andandomene sarei stata veramente libera, non c’era
più spazio per me lì, lui
stesso l’aveva capito e mi stava facendo andar via. Non mi
avrebbe fermata, non
mi avrebbe cercata, non mi avrebbe ricordata. Solo polvere, ecco
cos’ero,
polvere che stava venendo trascinata via dal vento mattutino di un
nuovo giorno
in una terra che più mi accettava, come una spina che col
tempo viene espulsa
dalla carne. Un sogno era stato, nulla più. Era giunto il
momento di
svegliarsi. Mi voltai e fuggii via, scappando dalla cella, senza
voltarmi
indietro, senza fermarmi a guardare un’ultima volta Boromir,
dovevo impedire a
qualsiasi cosa di bloccarmi e di farmi indugiare. Dovevo andarmene e
non mi era
concesso l’addio straziante dei film. Non dovevo indugiare.
Salii le scale che portavano in
superficie, all’aria aperta, aria che mi
scompigliò i capelli scivolati dalla
coda che mi ero fatta, aria così avversa, sentivo
l’eco di una voce che urlava
“vattene”, ma forse era solo il mio cuore. Non
conoscevo la strada ma furono i
piedi a guidarmi, non sapevo dove andare, ma non me ne preoccupavo.
Dovevo
andarmene, non c’era più posto per me
lì. Incrociai durante la mia folle corsa
un piccolo hobbit che non guardai ma riconobbi Pipino dalla voce che mi
chiamava incessantemente. Non indugiai, non dovevo. Non
l’ascoltai e continuai
a correre verso i cancelli di Minas Tirith senza voltarmi indietro. Il
suono
della voce di Pipino ancora arrivava alle mie orecchie, continuava a
chiamarmi
e forse aveva provato a inseguirmi, non saprei dirlo. Arrivai ai
cancelli,
spinsi delle guardie che per caso mi erano capitate sulla strada e
uscii
dall’enorme cancello distrutto che stavano cercando di
riparare. Anche quando
la pioggia cominciava a cadere incessante sui migliaia di morti che
ancora
giacevano sui campi Pelennor continuavo a correre, senza guardarmi
attorno,
mischiando la pioggia sul mio viso alle lacrime, così amare
come mai lo erano
state. Superai il campo di battaglia e solo allora rallentai la mia
folle corsa
e mi voltai indietro: avevo detto addio a tutti, compreso Boromir anche
se in
maniera alquanto rude, ma non a Minas Tirith, la città
più bella e affascinante
che abbia mai visto. Città che alla vista ora mi appariva
così lontana e
appannata, come un ricordo che pian piano si eclissa nella mente di chi
sta per
cadere in un sonno profondo. Riconobbi sopra uno dei cornicioni la
piccola
figura di Pipino che continuava a sbracciarsi, anche se non udivo
più la sua
voce, sapevo che continuava a chiamarmi non riuscendo a comprendere la
mia
decisione. Non aveva importanza, presto avrebbe dimenticato, come tutti
gli
altri.
<< Ombra mi avvolge, lo stesso
timore che preclude un’addio, addio che da tempo era
destinato ma che sempre
ero riuscita a fuggire. Ma non ora. >> sussurrai e mi
voltai nuovamente
verso la foresta davanti a me, oltre i campi che quasi avevo percorso
interamente << Addio >>.
Ormai ero dentro la foresta, la stessa
foresta che il giorno prima mi aveva spaventata, la stessa foresta che
il
giorno prima mi aveva quasi inghiottito facendo vittima me e il mio
cuore, ora
mi ci ero tuffata, pronta ad essere strappata dalle mani della Terra di
Mezzo.
Gli alberi a me apparsi avversi ora lo erano ancor di più,
tutto esprimeva odio
e repulsione nei miei confronti. Dovevo andarmene, ma non sarei
riuscita da
sola. Mi guardai attorno terrorizzata e affranta come non mai.
<< Saruman!! >> gridai
facendo echeggiare la mia voce in quella foresta ormai morta, ormai
sotto il
potere del male. << Fammi tornare a casa!
>> gridai ancora con voce
straziata e sofferente, ero disperata, stufa di quel sogno che ora
più che mai
era un incubo. Volevo svegliarmi, volevo andarmene.
<< Saruman!! >> gridai
riprendendo a correre verso mete sconosciute, in cerca di qualsiasi
cosa mi
avesse fatto pensare ad un suo aiuto << Saruman!
Riportami a casa,
Saruman! >> sforzai tanto la
mia
voce da farne uscire un grido acuto. Mi voltai di scatto, continuando a
guardarmi intorno disorientata << Riportami a casa!!!
Adesso! Saruman!
>> , mi voltai ancora e ancora, correndo da una parte
all’altra della
foresta, in cerca di un segno, di un qualsiasi cosa. Desideravo
più di
qualsiasi cosa riuscire a toccare di nuovo l’erba del mio
giardino, il mio
parquet, il mio letto, stringere di nuovo i miei pupazzi, la mia mamma,
mio
fratello e tornare a guardare da esterno tutto quel che era successo,
sorridendo alle mie illusioni infrante.
<< Saruman! >> gridai ancora
disperatamente, voltandomi e tornando a correre senza vedere una radice
che
sporgeva dal terreno e cadendo a terra, dentro una pozzanghera fangosa.
I
singhiozzi ormai erano incessanti e implacabili, urla tormentose
uscivano dalla
mia gola, ferite che bruciavano come ferri ardenti. << Ti
prego >>
mi disperai ancora << Ti prego, voglio tornare a casa.
>> Rimasi
stesa dentro quella pozzanghera inerme. Era tutto inutile, non sarei
mai
riuscita a tornare a casa, Saruman non mi sentiva o forse non voleva
sentirmi,
o forse….era morto. Avevo dimenticato quel particolare. Le
mie urla altro non
erano che urla, il mio dolore fuoco, la mia anima polvere e i miei
desideri
ombra in una notte senza stelle.
Mossi le mani in quella fanghiglia con la
quale quasi mi mischiavo, non desideravo alzarmi, mi sentivo parte di
lei.
Singhiozzi e lamenti. << Fammi tornare a casa
>> ma ormai non c’era
più speranza per me, non avevo futuro, tutto era finito,
nessun posto era
adatto a me, nessun luogo raggiungibile. Avevo desiderato troppo forse,
quella
era la mia punizione. Sentii dei passi pesanti e delle voci roche
provenire da
davanti a me, alzai la testa e vidi, anche se in maniera molto confusa,
degli
orchi venirmi incontro mormorando qualcosa. Eccolo il mio destino: a
lungo
aveva tentato di prendermi, ora non mi sarei più ribellata.
Chinai la testa
chiudendo gli occhi e lasciando che le lacrime lavassero via il fango
dal mio volto
mentre quelle pesanti braccia mi strappavano con violenza dalla mia
pozza e mi
sollevarono caricandomi sulle loro spalle. Ormai niente era
recuperabile, era
giunta la mia fine, come nei sogni che facevo sempre di notte a casa
mia: la
felicità di incontrarlo, la felicità di
innamorarmene ed esser ricambiata e poi
quell’addio causato dalle tre frecce d’orco.
Finivano sempre così i miei sogni,
con un addio, con la sua scomparsa e la mia fine. E quella volta non fu
diverso.