So many dreams were broken and so much was sacrificed
Was it worth the ones we loved and had to leave behind?
So many years have past, who are the noble and
the wise?
Will all our sins be justified?
(Hand of sorrow – Within Temptation)
Il suono leggero delle sue scarpe – scarpette, fottutissime scarpette da
ginnastica – sul parquet faceva da contrappunto a quello violento e irregolare
del suo cuore.
Aveva attraversato quel corridoio più e più volte
quella sera, così tante che era convinto di avervi scavato un solco; eppure,
non appena entrava nel cono di luce creato dalla cameretta di Sammy, era
costretto a farsi indietro, a ritrarsi, come un dannato vampiro. O un patetico
vigliacco, spaventato dal figlio di quattro anni.
Ma, davvero, come poteva guardarlo in faccia,
considerando quello che stava per fare? Come poteva sostenere quei vispi occhi
verdi, che lo fissavano con la venerazione che si riserva a un eroe, quando si
preparava a chiuderli per sempre?
Certo, John non si sarebbe potuto definire un
perfetto modello genitoriale, ma rispetto a lui era sicuramente il padre del
secolo.
“Dean,” cinguettò Caroline dalla stanza del
piccolo, “il tuo ometto è in pigiama, ma non ha alcuna intenzione di andare a
letto senza la sua fiaba della buona notte. Vieni e salvaci tutti,” aggiunse,
con una risata.
Spinto dal suo richiamo, Dean si spostò sulla
soglia. Ma non l’attraversò, non ancora.
In piedi sul lettino, a cui da poco erano state
tolte le sbarre, Sammy, le braccia incrociate sul petto e un adorabile broncio
sul viso, scuoteva la testa per impedire a sua madre di sistemargli i capelli
appena lavati.
“Sai che li preferisce Bon Jovi prima versione,”
commentò Dean, un nodo alla gola.
“PAPÀ!” gridò il piccolo, saltando sul materasso.
“La storia! La storia!”
“Meglio che vi lasci soli,” disse Caroline.
Schioccò a Sam un bacio e sfiorò il fianco di Dean, passandogli accanto.
“Questa è tutta colpa tua,” le sussurrò Dean,
quando fu a portata d’orecchio. “Dovevo cantargli Enter Sandman[1]
la prima notte e questa tradizione non avrebbe mai attecchito.”
“Sta’ zitto, che l’adori,” soffiò Caroline, e
spense la luce.
La piccola abat-jour sul comodino proiettava già
un tenue bagliore, accogliente e caldo. Dean si sedette sul letto e Sam si
accoccolò contro il suo braccio. Poi gli posò un libro sulle ginocchia con un
soddisfatto “Ecco”.
“Sai, pulce, dovresti variare i tuoi interessi,
fra poco potremo mettere in scena Le
avventure di Lilo e Stitch,” brontolò il padre, divertito.
“Solo l’ultima volta, papà,” spergiurò il bimbo,
per la milionesima, e Dean si sentì morire.
“Allora, dov’eravamo arrivati?” chiese,
sbiancandosi le dita contro la copertina.
“Stitch veniva imbarcato sull’astronave,” mormorò
Sammy, pieno di terrore, dimentico che in quella, come in tutte le altre sue
fiabe, niente poteva andar storto. Non a lungo, non sino alla fine.
“Stitch saliva a lenti passi lungo la piattaforma
che portava alla nave spaziale. Sentiva su di sé lo sguardo severo della
Presidentessa del Consiglio, ma anche quello distrutto e disperato di Lilo. La
sua amica, la sua famiglia. ‘Stitch deve salire a bordo?’ chiese.” Dean fece
una pausa, osservando con la coda dell’occhio il suo piccolo che annuiva,
rapito. “‘Sì,’ rispose la Presidentessa, stupita. Da quando 626 era così ben
educato? ‘Stitch può salutare?’ domandò ancora l’alieno azzurro. ‘Va bene, sì,’
acconsentì lei, faticando a riconoscere in quella creatura tanto dolce e
gentile l’esperimento fallito che si era trovata davanti solo poco tempo prima.
‘Grazie,’ mormorò Stitch, avvicinandosi con le orecchie abbassate alle due
strane forme di vita terrestri. ‘Ma… chi siete voi?’ chiese l’aliena, a
dispetto di se stessa e delle sue leggi: mostrarsi agli umani era vietato,
comunicare con loro intollerabile e pericoloso. Era il codice galattico a
stabilirlo.”
Sammy sbadigliò, rannicchiandosi maggiormente
contro suo padre. Prima di continuare, Dean gli cinse le fragili spalle con un
braccio, posando un bacio su morbide ciocche che profumavano di shampoo per
bambini. Un odore che aveva ormai associato a suo figlio e che, come nessun
altro, sapeva infondergli pace. Sentì le prime lacrime brucianti salirgli agli
occhi e strinse con forza le palpebre. Non avrebbe rovinato il loro ultimo
momento insieme, non poteva.
“‘Questa è mia famiglia, l’ho trovata per conto
mio,’ ribatté Stitch, con orgoglio. ‘È piccola e disastrata. Ma bella. Sì.
Molto bella…’” concluse Dean, uscito perdente dalla sua lotta contro le lacrime.
Poco importava. Sammy si era addormentato.
L’adagiò delicatamente sul cuscino e gli rimboccò
con cura le coperte, nonostante la vocina nella sua testa sussurrasse che, in
fondo, i bambini mai nati non possono sentire freddo.
“Sogni d’oro, pulce,” disse, in un sussurro
spezzato. “E grazie per avermi risparmiato l’Ohana, non credo l’avrei retto,
questa notte.”
“È un povero
orfanello, l’abbiamo adottato. Non ti importa niente dell’Ohana?”
“È stato qui
solo per poco tempo!”
“Be’, anch’io.
Papà diceva che Ohana significa famiglia. Ohana vuol dire famiglia…”
“E famiglia vuol dire che nessuno viene
abbandonato, o dimenticato,” mormorò sulla soglia, lanciando un’ultima occhiata
a suo figlio.
La voce di Caroline lo guidò nella nursery. Sua
moglie modulava una dolce nenia, mentre il piccolo John, stretto fra le sue
braccia, succhiava dal biberon.
Allattamento
misto, ricordò Dean: Caroline era convinta che il suo latte non fosse
sufficiente e che il bimbo non crescesse abbastanza in fretta.
“Il sangue
di demone è meglio di ovomaltina, vitamine e minerali. Ti rende grande e
forte,” gli sibilò la voce di Azazel con scherno, e un brivido lo scosse.
Il pensiero che fosse già accaduto, che Caroline avesse stretto un patto con
lui, per Dio solo sapeva cosa, e adesso il sangue di quel figlio di puttana
scorresse nelle vene di suo figlio, gli dava la nausea.
“Caroline,” mormorò, cercando di non suonare
tradito quanto si sentiva, “ti spiace se continuo io?”
Lei scosse la testa e si chinò con un sorriso su
John. “Il tuo papà arriva sempre dopo il cambio del pannolino, non lo trovi
anche tu un po’ sospetto, tesoro?”
“Shhh, non rovinarmi
l’immagine agli occhi del bambino. Ancora non lo sa che il suo papà è un
completo disastro.”
La donna parve accorgersi della nota stonata nella
sua voce. “È per quello che è successo ieri notte?” chiese, porgendogli John.
“Qualche mano di bianco, un nuovo lampadario e il soggiorno tornerà a posto.
L’importante è che tu stia bene.” Fece un sospiro, poi continuò. “Non
allontanarmi, Dean. Non allontanarci. Siamo una famiglia, affrontiamo la cosa
come tale.”
“Va bene,” mentì lui, baciandole fuggevolmente le
labbra.
Affondò nella poltrona che aveva occupato sua
moglie fino a un attimo prima, il tessuto sotto di lui ancora caldo, e si mise
a osservarla in silenzio. Caroline, coi capelli raccolti e il suo improponibile
pigiama a righe verdi e rosa, raccattava i giochi e i disegni lasciati lì da
quella peste del loro primogenito. Caroline che lui aveva creduto l’amore della
sua vita, ma di cui probabilmente si era invaghito solo a causa di un obeso
figlio di puttana in pannolino, interessato esclusivamente alla loro linea di
sangue. D’un tratto, la donna sentì il suo sguardo su di sé e si voltò. “Non
dirmi che è il pigiama… È il pigiama, vero?” chiese, indignata, la voce che
saliva di un’ottava, un orsetto levato minacciosamente contro di lui.
Dean ridacchiò. “No, non è il pigiama,” rispose,
accennando un comico colpo di tosse.
“Ti odio,” ribatté Caroline.
“Lo so,” confermò lui, con un sorriso.
“A-Ascolta,” cominciò poi, insicuro, “tu credi negli universi paralleli? Stesse
persone, vite diverse?”
“Non lo so, non c’ho mai riflettuto,” rispose
l’altra, avvicinandosi. “Sei sicuro che sia tutto okay, Dean? Sei così strano…”
Suo marito annuì. “Sì, davvero. È che magari ci
amiamo anche in un altro universo. Dovrebbe essere possibile, no? La nostra
famiglia, da qualche altra parte,” mormorò, perso.
Lei gli si avvicinò ancora. “Suppongo di sì,”
concesse, sfiorandogli il viso e posandogli un bacio sulla fronte. “Ma anche se
così non fosse, cosa importa? Noi siamo qui, Dean. Noi siamo qui...”
La serranda del garage venne su, lenta e rumorosa
come non mai. Doveva oliarne i cardini da mesi, per non parlare dei vecchi
scatoloni da portare al deposito e dell’attrezzatura sportiva che aveva
promesso all’esercito della salvezza… “Trasferirsi
è l’unica soluzione,” aveva dichiarato, e ora la profetica ironia delle sue
parole lo colpiva come uno schiaffo.
Si accasciò contro il sedile, sfinito, e un
gridolino strozzato lo fece trasalire. Illuminò l’abitacolo e si accertò di
aver schiacciato... sì, proprio la paperella di gomma del suo Sammy, l’ultima
arrivata in casa Winchester.
Per pranzo, li aveva portati in un ristorantino a
conduzione familiare poco distante, e la proprietaria, che adorava pizzicare le
guanciotte del suo primogenito, aveva fatto loro un forte sconto e regalato al
piccolo la paperella. “Vergognati,” aveva commentato Caroline, appena usciti,
“sfruttare così biecamente il faccino del nostro Sammy...”
“Ehi,” aveva ribattuto Dean, piccato, “sono cose
come questa che hanno reso grande il nostro paese. E Sam è un patriota, vero,
pulce?”
Il piccolo li aveva ignorati, troppo preso dalla
sua nuova amica, e i genitori erano scoppiati in una risata complice…
Dean ingranò la marcia e imboccò lentamente il
vialetto, senza mai guardare la sua casa allontanarsi nello specchietto
retrovisore. Si diresse verso Lawrence, l’ultima tappa lungo il sentiero degli
addii.
Più distanza metteva fra sé e la sua famiglia, più
il pensiero di Sam si faceva pressante. Ossessivo. Non era il fratello di cui
si era preso cura tutta la vita che vedeva, però. Nella sua mente, si
affollavano le immagini di un Sam diverso, innocente e felice. Un Sam che non
aveva avuto bisogno di un Dean che lo tenesse al sicuro, ma semplicemente di un
fratellone con cui scolarsi un paio di birre una volta ogni tanto. Un Sam con
in tasca una laurea conseguita in una università prestigiosa e al fianco la sua
fidanzatina del liceo. Non Jessica, no. Ma una brunetta dalla lingua tagliente
che Mary aveva immediatamente bollato come nemico pubblico numero uno e di cui
Sam era perdutamente innamorato. Ricordava la notte in cui il suo precisissimo
fratellino l’aveva chiamato da un pub, completamente ubriaco, per chiedergli
come ci si dichiarasse alla donna che ami. Era stata l’ultima volta in cui
l’aveva sentito. In ospedale, qualche giorno più tardi, era stato loro
consegnato l’anello che aveva scelto, insieme agli altri suoi effetti
personali.
“Cristo!” scoppiò, colpendo con violenza il
volante. Non era giusto. Era questa
la vita che Sam meritava, era questo
il suo posto. E invece, l’unico modo per mettere fine ai suoi tormenti era
trascinarlo di nuovo nell’inferno da cui provenivano, con l’anima lacerata e la
certezza che non vi fosse una soluzione.
Quando finalmente arrivò a Lawrence, era notte
inoltrata. Suonò il campanello, più e più volte, aspettandosi di essere
abbagliato dalle luci del portico da un momento all’altro. Niente, sua madre
non era in casa. E dove poteva essere una rispettabile ex cacciatrice
cinquantenne a quell’ora della notte? Dean pensava di avere una mezza idea in
merito. Si lanciò al volante e ripartì, prima ancora di aver chiuso la
portiera. Se aveva ragione, non c’era un solo secondo da perdere…
Scavalcò i rugginosi cancelli dello Stull,
atterrando silenzioso sull’erba umida del cimitero. Si rimise in piedi e un
brivido gli solcò la schiena: aveva già perso Sam due volte, in questo posto.
Mosse con determinazione verso una serie di lapidi
più recenti, il lugubre richiamo di una civetta che risuonava sulla sua testa.
Superato un gruppo di cipressi, scorse un rosso bagliore poco distante.
I suoi passi accelerarono in un’angosciosa corsa,
che si bloccò di scatto quando riuscì infine a scorgere la familiare sagoma di
Mary che si stagliava contro l’impietoso riverbero delle fiamme. Nascosto alla
sua vista, il fuoco stava già divorando ciò che restava di suo fratello, e una
morsa strinse il petto di Dean. Aveva distrutto le spoglie di così tanti
spiriti, nella sua vita, e li aveva visti gridare e contorcersi nella
sofferenza prima di venire consumati e sparire per sempre. Per la prima volta,
si chiese quanto dolore potessero provare in quei momenti, e dentro di sé
chiese perdono a Sam, per non essere riuscito a risparmiargli almeno questo.
“Mamma...” mormorò, avvicinandosi tremante.
Mary si voltò di scatto. Il caldo bagliore che
saliva dalla tomba di Sam le danzò sul volto per un attimo, illuminando le scie
delle sue lacrime.
“Dean!” esclamò, sorpresa, ma lo smarrimento non
durò che un istante, prima che Mary muovesse pochi passi veloci per stringerlo
a sé e soffocare le lacrime sul suo petto. Non le importava sapere come suo
figlio fosse arrivato lì, era soltanto grata che ci fosse. “È finita... ora è
finita,” gemette.
Dean le portò un mano alla nuca, cercando
istintivamente di calmarla, nonostante la rabbia – verso se stesso? Contro di
lei? – lo stesse avvelenando.
“Shhh... tranquilla,
mamma,” mormorò. “Hai fatto quello che dovevi.” E presto sistemerò tutto quanto, vedrai.
Alle sue parole, si sollevò un vento impetuoso e
la temperatura calò di diversi gradi, trasformando i loro respiri in bianca
condensa. Sam era di certo il fantasma più attaccato ai cliché che avesse mai
incontrato.
Nerd,
pensò con una sorta di orgoglio.
Mary si staccò da lui all’istante. “Resta al mio
fianco,” ordinò, in un tono di voce che non ammetteva repliche e che
sicuramente avrebbe reso fiero suo padre.
Un nuovo e più violento bagliore si accese
d’improvviso, a pochi metri da loro. Mary non riuscì a trattenere uno strozzato
singhiozzo mentre, di fronte ai loro occhi, prendeva forma l’immagine di Sam,
le fiamme ad avvolgerlo, una maschera di dolore il suo viso. Il fantasma emise
un grido disperato, e Mary fece un istintivo passo verso di lui, certa che tra
meno di un attimo lo avrebbe visto bruciare fino a consumarsi. Ma il fuoco
continuava ad ardere, e Sam continuava a gridare.
In un sussurro sgomento, Dean pronunciò
impercettibilmente il nome del fratello, una lacrima tremante che gli scendeva
lungo la guancia mentre, impietrito, osservava per la prima volta la vera
condanna eterna di uno spirito.
D’un tratto, Sam si volse verso di loro e un
gemito rabbioso salì rauco dalla sua gola. I suoi occhi disperati e infuriati
si posarono su Mary. Prima di riuscire a reagire, la donna si sentì sollevare e
scagliare via con forza.
Il suo volo finì contro una lapide poco distante,
la cacciatrice batté la testa e perse conoscenza. Dean le fu accanto in un
attimo, le dita sulla sua gola che si accertavano della presenza di un battito.
Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, grato. E la voce di suo nonno non
tardò a rimproverarlo. “Ipocrita,”
sibilò, fra i suoi pensieri. “Hai venduto
la tua stessa madre! Si trattava di lei o Sam, e tu hai scelto Sam.”
E lo farei
di nuovo, ancora e ancora. Senza mai pentirmene, si disse Dean. Gli occhi
serrati per non puntarli sull’anima straziata di suo fratello, alzò il volto al
cielo e parlò.
“Muovi il tuo culo piumato, Michael. È tempo di
rimettere a posto le cose.” Sfiorò un’ultima volta il viso di sua madre e urlò
con quanto fiato aveva nei polmoni. “Sì!”
Un biancore accecante ingoiò la notte.
1. Dean
si riferisce al brano Enter Sandman
dei Metallica, che di certo nessun bambino chiederebbe mai di ascoltare una
seconda volta. Qui il testo.
Note: Ed ecco l’ultimo capolavoro
della nostra Vahly. Sì, so che la vorreste come fanartist, ma lei è tutta nostra! *avvinghiano ♥*