Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
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Autore: claws    23/03/2012    0 recensioni
Non era paura, nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio e di silenzio.
[AU, linguaggio volgare; Danimarca e Macao][≈6700 parole]
[Prima classificata al Contest "[Hetalia] La Fiera del Crack" indetto da _Ayame_ e reilin]
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Danimarca
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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In questo capitolo, le citazioni usate per dividere il flashback dal resto del racconto sono:
«Og hvis de sparker den ind» --- «E se loro lo buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Fuck nu det – kom igen» --- «Diremo / Fanculo - vieni qua di nuovo».
Vi lascio a quest'ultimo capitolo! C:



Capitolo III


[Og hvis de sparker den ind]

«Men, come on! Shake a leg!» Urlò Walter, dalla cabina di pilotaggio.
«Che palle, Wal! Ci siamo!» Gli gridò di rimando Jørgen, mentre correva al fianco di Ester e Lars verso il piccolo aeroplano privato.
Il norvegese stava salendo i quattro gradini che lo separavano dal proprio sedile, quando udì uno sparo. Poi un altro, e un ultimo colpo.
«Lars, muoviti! Andate!» Ester imprecò, sfilando la pistola dalla cintura e mirando verso quella figura alta e sinuosa nascosta dalla nebbia.
Jørgen era caduto in ginocchio, con una tosse strozzata. Un proiettile doveva essersi conficcato nel suo fianco, e un altro nella coscia. Il terzo, Ester non lo sapeva, non lo aveva visto, come non aveva visto quegli altri: ma mentre i primi due avevano procurato ferite al fratello, l'ultimo le fu d'aiuto. Il loro nemico doveva avere ancora sette - o meno probabilmente nove - bossoli pronti a far fuoco.
Trascinò il corpo del danese dietro un paio di container cubici, strappandosi la manica del cappotto per legarglielo attorno al fianco e alla coscia come laccio emostatico. Prima era doveroso eliminare o rendere innocuo l'avversario, poi avrebbe potuto pensare al fratello.
L'aereo si trovava ancora immobile sulla pista di decollo.
Lars era sceso, perché potevano dirgli qualsiasi cosa, ma non avrebbe mai lasciato indietro dei compagni, men che meno in gravi condizioni.
«Lars!» Gli disse la danese quando le fu accanto, dietro quegli enormi cubi metallici. «Carica Jørgen sull'aereo e filate a Copenaghen. Ci rivedremo il prima possibile.»
L'altro annuì, in silenzio. Non avrebbe potuto fare altro, perché Ester non glielo avrebbe in alcun modo permesso.
«Vi copro io!» Aggiunse l'agente Ørsted, uscendo dal proprio nascondiglio armata di due pistole cariche e di una rabbia cieca. La nebbia rendeva più complicato distinguere bene le forme delle cose e delle persone, ma non aveva altra scelta.
Sparò un colpo, poi un altro, e così via, a ritmi diversi, verso quella silhouette che aveva riconosciuto per l'andatura.
«Sappiate, agenti,» disse Amàlia, «che accetto i bari solo nei casinò.»
«Lars!»
«Ja, ci sono. Puoi andare, Wal.»
«Non li sopporto, se non nel gioco d'azzardo.»
Un rombo che fracassò i timpani proruppe dall'aereo. Una fiammata illuminò la pista, e fu in quel momento che Ester vide l'altro sorriso dell'agente Aviz.
Terrificante. Come un bambino che ha paura dei fantasmi e ne trova uno nel proprio incubo, la danese rimase immobile per qualche secondo. Per riprendersi dovette scrollare la testa: solo allora ricominciò a sparare, con una grintosa rabbia che emergeva dalle dita.
Un bossolo doveva aver colpito l'avversaria - udì gemiti di dolore poco più in là -, ma molti di più erano andati a vuoto, sia dalla sua parte, che da quella della nemica. Si rannicchiò dietro quel container un'ultima volta.
«Vanno sradicati, come la malerba.»
Con un ultimo ringhio il veicolo s'era sollevato in aria, abbandonando nella sera lunghi sbuffi di fumo nero.
Ester baciò la canna della pistola. Era il suo ultimo colpo.
«E, agente, mi faccia un favore.»
«Col cavolo! Non scendo a patti con una stronza che cerca di far fuori mio fratello!»
«Ripeta quattro volte la frase: "Io baro".»
Ester ruggì, come un'orsa che ha annusato un pericolo per propri cuccioli. Si alzò da dietro il grande cubo di metallo.
Faccia a faccia, sorriso a sorriso.
«Mio fratello non mi ha abituato a dire bugie!» Gridò, premendo il grilletto. Mezzo secondo dopo, si ritrovò riversa a terra, un braccio insanguinato e un ginocchio contuso.


La nebbia era insopportabile tanto quanto il furore, per Amàlia.
Le ginocchia si erano sciolte sotto quell'ultimo sparo. La gamba destra, prima bianca e lunga, ora era macchiata di rosso e contratta in quello che pareva un singhiozzo.
Anche la sua avversaria era finita col viso a terra.
Rotolò su un fianco, per guardare il cielo. S'era lasciata coinvolgere da un disonorevole oltraggio, e forse quella consapevolezza, più dell'essere stata ferita a un polpaccio, le inumidì gli occhi.
O forse era solo la bellezza di quel cielo che si rifletteva nei suoi occhi e li perforava, fino a far sanguinare acqua?
Ricordò che a Macao il cielo era piastrellato da grattacieli.


La mattina successiva una pattuglia di poliziotti raggiunse il luogo della sparatoria, dietro segnalazione di alcuni addetti dell'aeroporto. Ma non trovarono due corpi stesi sul cemento, bensì due pozzanghere di sangue ancora fresco, e il lamento del vento freddo del Nord.

[Så si’r vi / Fuck nu det – kom igen]




Ester scattò di lato, premendo il grilletto. Il colpo partì, ma si conficcò nel pavimento, lontano dall'agente Aviz - che scartò lateralmente, e con una capriola tornò in piedi.
Si squadrarono come due arieti che stanno per cominciare un duello.
«Come sta l'agente Andersen?» Amàlia camminava in linea trasversale, la pistola diritta e ferma rivolta alla testa della danese. Danzavano in cerchio, spostandosi su una circonferenza immaginaria.
Ester sorrise, strafottente. Non poteva mostrare oltre la propria rabbia. «Top secret, agente Aviz. Non ha i requisiti per accedere alle informazioni desiderate.»
«Capisco. Allora dovrò scoprire di persona le sue condizioni.»
I tavoli da gioco, rovesciati a causa della fuga del resto degli avventori, tacevano. Era un silenzio pesante, interrotto solo qualche minuto dopo dall'arrivo di una squadra di guardie, armate di pistole e di spalle larghe.
Amàlia li vide. E li fermò, alzando una mano e un sorriso indecifrabile.
«Dite alla signorina che non deve preoccuparsi. Sistemerò io quest'intrusa.»
La danese approfittò dell'occasione. Con un rùgghio penetrante sparò altri due colpi. Sfortunatamente per lei, la macaense alle spalle aveva la balconata che si apriva sul piano inferiore, e con un salto e una capriola si lanciò di sotto, atterrando come una gatta in piedi.
Minacciata da quei tipacci in smoking, l'agente Ørsted optò per l'inseguimento della propria avversaria: tuttavia, per evitare di ammazzarsi da sola - conoscere i propri limiti era parte del suo lavoro -, scelse di prendere le scale. Con una rapida rincorsa saltò sul corrimano in piedi e, come se si trovasse alle Hawaii durante una gara di surf, scivolò lungo il marmo lucido, raggiungendo illesa il piano inferiore.
«Si sta divertendo, eh, agente Ørsted?»
«Oh, la prego, mi chiami Ester, Amàlia.» Disse la danese, facendo la vocina di una bambinaia sottomessa. Si nascose dietro un tavolo rotolato vicino alla parete, mentre la macaense trovò riparo dietro una colonna.
«Scommetto che sono state le triadi.» A dirle dove l'avrebbe potuta trovare, a dirle il nome, il cognome, qual era il suo piatto preferito, che incenso amava, e che fiore portava tra i capelli.
Ester parve rifletterci su. «Ha iniziato lei sparando a mio fratello, agente Aviz.»
Doveva trovare un espediente per avvicinarla e da lì combattere corpo a corpo. Aveva meno proiettili della sua nemica e ciò incrinava tutte le sue probabilità di uscirne viva e vittoriosa.
«Oh, la prego, mi chiami Amàlia, signorina Ester.» Rispose, imitando la voce dell'europea - che si sentì in dovere di farle conoscere il proprio risentimento sparandole a qualche centimetro dagli occhi. «Devo dedurre che lei è qui per l'agente Andersen.»
«Non solo, Amàlia. In fondo, me lo ha consigliato lei, di venire, con quel biglietto di sola andata per Macao. Sono qui per lui e per me stessa.»
«Il rancore è un demone della peggior specie, signorina Ester.»
La risposta tardò ad arrivare. La donna si insospettì. O aveva di fronte un'avversaria furibonda - il che era a proprio vantaggio, perché l'ira percuote la concentrazione -, o stava macchinando qualcosa.
«Nej. No, non è rancore.» Una piccola pausa. «Piuttosto, la paura di perdere una persona cara.»
«Allora, mi dica, perché sta cercando di uccidermi?» Domandò Amàlia, togliendo la sicura da entrambe le pistole. C'era troppo silenzio. Non le piaceva per nulla: senza contare le fiches sparse sul pavimento come coriandoli, le carte rimaste impigliate tra una sedia e un ventaglio, e perfino qualche bicchiere ancora pieno di champagne - o qualcosa di simile - che, caduto in terra, s'era spaccato in tanti minuscoli frammenti di vetro, all'apparenza anche eleganti, disposti a raggiera attorno alle lacrime di spumante, ma sottili e pungenti come degli aghi.
Il suo nascondiglio distava circa venti metri dal tavolo dietro cui si era rifugiata Ester; tra loro, una terra di nessuno composta dai tavoli e da tutto ciò che era rotolato giù da essi, con la malagrazia di uno spavento.
«Perché le voglio far capire cosa si prova ad essere lì, sul filo del rasoio, con le dita della Morte che ticchettano sulla spalla.»
Niente. La voce proveniva ancora da dietro quel tavolo rovesciato. Dov'era il trucco? Perché non avvertiva nessun rumore?
Alzò lo sguardo.
Accidenti. E dire che in tutti i film di spionaggio di terza categoria c'era sempre un dannato lampadario che si sfracellava!
In effetti, Ester sparò alla catena che reggeva l'enorme lampadario di cristallo al soffitto. Ed esso crollò, con il sibilo di un missile, disintegrandosi sul terreno. Il cristallo si spezzò in tante gocce che rimbalzarono in aria, come se fossero le stille di una fontana italiana, una di quelle che sottraggono il fiato dalla gola, e lasciano esterrefatti da tanta bellezza.
Amàlia si riparò dietro la colonna di marmo, coprendosi il viso con le braccia. Qualche pezzetto di vetro raggiunse le sue gambe, ma furono taglietti di poco valore. Ben più problematico fu capire qual era l'attuale posizione della danese.
«Amàlia, io l'ho vista, la Morte. Le posso assicurare che vorrei non rivederla per un bel po'.»
Strano. Stranissimo. L'origine della voce era ancora dall'altra parte della stanza, dietro quel dannato tavolo. Ma allora perché far saltare i ganci del lampadario e aggiungere disordine a un terreno di battaglia già dissestato? Non era vantaggioso per nessuna delle due, specie per Ester, che aveva già utilizzato almeno mezzo caricatore.
«Però avevo deciso che le avrebbe fatto bene guardarla in faccia, Amàlia. Lasci che l'aiuti a incontrarla.»
Di per sè, la luce all'interno del casinò era già molto soffusa. Con la distruzione del lampadario, s'era ridotta alle applique sulle pareti, che comunque non rendevano molto nitida la visione delle cose. Questo tornava a vantaggio della danese, a ben pensarci, come tornava utile a lei. L'agente Aviz conosceva perfettamente l'edificio, si sarebbe potuta muovere agilmente anche a luci spente - certo, si sarebbe ferita, con tutti quei vetri per terra, e avrebbe fatto rumore, ma anche la sua nemica avrebbe corso rischi simili. Tacque. No, ancora nessun suono.
Ma dove...?
«Mi stava cercando, Amàlia
Stavolta proveniva dall'alto. Vide di sfuggita un'ombra balzare giù dalla balconata, e subito quella figura le fu addosso, sbattendola per terra.
«Sa,» disse la danese, calciando lontano le pistole della macaense «mi sto divertendo. Ma i giochi sono finiti.»
«Lei era dietro il tavolo.»
«Come? Lei stessa ha affermato che c'entravano le triadi. Non le ho risposto subito, ma ora posso assicurarglielo. Ja, loro c'entrano. Loro e la loro tecnologia. Anche se, a ben pensarci,» aggiunse, «chiunque può trovare in un negozio un registratore.» Era un sorrisone arrogante e divertito insieme, quello di Ester, soddisfatta per l'effetto che aveva sortito. «Se poi aggiunge quelle belle tende spesse alle finestre, e il tappeto rosso su tutti i gradini e parte del piano superiore, posso dirle che è stato facile muoversi in mezzo alla confusione creata dal lampadario.»
S'era fatta fregare. Quel lampadario era uno specchio per le allodole!
Il piede schiacciato sul torace non permetteva ad Amàlia di respirare normalmente.
«Cosa spera di fare, ora, signorina Ester? Ha intenzione di farmi fuori?»
«No, gliel'ho detto.» Non aveva intenzione di ucciderla, come avrebbero voluto le triadi e quell'insopportabile Li Xiao Chun; non voleva neanche annientarla psicologicamente - e forse non ne sarebbe stata nemmeno capace.
Fin dall'inizio Ester aveva deciso di portare a termine uno e un solo compito.
Infine, l'aveva guardata dall'alto in basso, con il disprezzo di chi ha scelto tra l'odio e la più pietosa compassione; s'era avvicinata fino a trafiggere il suo sguardo con i propri occhi d'acqua; e sì, le aveva anche dato un sonoro pugno tra le costole, all'altezza del cuore.
Silenzio.

Ssh.
«Perché, Ester? Perché?» La voce di Amàlia si era dischiusa in un rantolo. Si aspettava calci, pugni, sberle, insulti, tutto. Si aspettava tutto, ma non quello.
Ester l'aveva pugnalata con uno sguardo liquido, limpido, puro.
Era veramente fuori dagli schemi, quella donna.
«La mia unica intenzione era capire cosa provavo. Se quella sensazione che mi tormentava era l'esasperazione dell'egoismo, o era l'apice dell'affetto fraterno.» Cominciò Ester, riparando gli occhi dietro una mano. «Ma poi ho capito. Quello che sentivo era un forte sentimento di appartenenza. Ho sentito dolore perché mio fratello è dentro di me, e dato che era stato ferito, soffrivo anch'io.» Scoppiò a ridere, sinceramente sollevata. «Era una forza che mi ha sconvolto, che mi ha distrutto, ma che mi ha fatto sentire viva.»
La macaense chiuse gli occhi, stupefatta. Credeva di aver capito tutto, quando ciò che custodiva tra le mani era solo la cenere di un sentimento. Di un modo di vivere.
«Deve essere bello.»
Ester sorrise, senza abbassare la guardia - ma si permise uno sguardo lontano, rivolto al fratello, o forse solo a quel rancore che, scacciato, tentava invano di ingannarla ancora.

Un sussurro, che sfumò nell'aria.
«Lo è.»




[L'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.]




FINE








Note Autrice:
Eccoci qui per l'ultimo capitolo.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito, aspettando quest'ultimo aggiornamento. Grazie! *Piccolo inchino.*
E un grazie anche a chi ha aperto la pagina pensando di trovare qualcosa di suo gradimento: chi lo sa, spero l'abbia trovato, almeno un po'. C:
Se avete domande da porre, critiche da presentarmi, sono sempre - o quasi - qui, disponibile.
Alla prossima! :D
claws_Jo
  
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