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Autore: Lue    23/03/2012    2 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole
- Quarto capitolo -



 

Quella sera passammo ore a raccontarci episodi, frammenti, legami che avevamo avuto nella nostra vita.
Gli raccontai che il mio più grande desiderio era di vivere scrivendo poesie, ma che sapevo quanto fosse impossibile, gli dissi tutto dei miei inutili fidanzati, e più parlavo più mi veniva da piangere.
“Hai mai amato qualcuno? Tanto da non volerlo lasciare mai?”.
“Un ragazzo, tempo fa...”.
Lui mi descrisse la sua famiglia, e ridemmo tantissimo immaginando la sua prozia ottantenne che voleva comprarsi un motorino e imparare ad andarci, e mi raccontò che suo fratello più grande era partito per l’America in cerca di fortuna e ora lavorava in un McDonald’s.
“Ho sempre avuto due paure grandissime, fin da quando ero bambina: il buio e l’abbandono”.
“Perché il buio?”.
“Quando è buio nulla esiste, è come se il mondo mi inghiottisse, non so come spiegarlo...”.
“E chi hai paura che ti abbandoni?”.
“Chiunque potrebbe farlo e lasciarmi sola”.
Disse che gli era capitato di stare con ragazze di cui non era innamorato, l’ultima volta aveva trascinato la cosa per settimane, finché la poveretta, esasperata dalla sua scarsa partecipazione, gli aveva comunicato che tra loro era finita.
“Perché non l’hai lasciata prima?”.
“Immagino perché le volevo bene, e pensavo che magari, col tempo...”.
“Il tempo non fa diventare un pomodoro una zucchina, scusa”.
“Giusto, ma io non potevo saperlo. Se non ci provi non lo saprai mai, no?”.
Ma io li avevo lasciati tutti senza esitazione.
“No, cioè, sì, ma è anche vero che se non lo senti subito, insomma, è difficile che tu ti possa innamorare, un po’ come SuperMario, e finisci gli ottanta livelli e, non lo so... Passami ancora vino”.
Mi raccontò che non riusciva a baciare delle ragazze sconosciute, incontrate alle feste.
Ma io sapevo di non essere una sconosciuta, e lo baciai.
Ci baciammo per molto tempo, e intanto la bottiglia di vino rotolava vuota per terra, un antifurto scattava giù in strada, e nella stanza vicina gli altri mangiavano una torta e bevevano birra.
Gli raccontai della mia migliore amica, Nina, di tutte le volte che avevamo litigato, di tutte quelle in cui pensavo di averla persa per sempre, di quelle in cui ci bastava un tè caldo, parlando del più e del meno, per essere felici. Nina aveva i capelli riccissimi e gli occhi gialli, come quelli di un gatto; lei insisteva nel dire che erano color nocciola, ma ogni volta che cambiava la luce loro cambiavano tonalità di colore: gialli, verdi, castani. Mi piacevano i suoi occhi e mi piaceva la sua compagnia, e nonostante tutte le nostre litigate, i bisticci, le cattiverie... Le braccia di una erano la casa dell’altra.
“Certe volte mi chiedo come facciamo a trovare le persone giuste per noi, gli amici, l’amore”.
“Mica le troviamo, le persone si scelgono”, ribatté lui prima di baciarmi di nuovo.
Tornai a casa sorridendo, frastornata dall’alcol e dal sapore di Enea sulle mie labbra, che scoprivo uguale a quello che avevo immaginato nel mio sogno.
Proprio come nel sogno una parte di me voleva scappare, non erano nemmeno passate due ore e mi dicevo: “Sei una stupida, cos’hai fatto!, è sbagliato, lui se ne andrà, scappa finché sei in tempo”. Ma poi chiusi gli occhi e mi addormentai e tutti i cattivi pensieri sparirono.
Mi ero innamorata una volta; avevo quindici anni e l’avevo conosciuto a un corso di canto: si chiamava Vittorio, era alto e magro e aveva una risata buffa, a singhiozzo; m’era bastato guardarlo negli occhi per capire che non l’avrei dimenticato più. Avevo bramato la sua compagnia per un anno, affascinata dalla sua personalità carismatica, dalla sua intelligenza, dai suoi occhi verde foglia.
Mi aveva baciato quattro minuti prima del saggio di canto, lasciandomi tremante, estasiata.
Mi presentò ai suoi amici, mi pagò una cena, disse che ero la cosa più bella che gli fosse mai capitata, e poi il giorno dopo mi lasciò. Non ci furono scuse né spiegazioni, ci fu solo il suo sguardo distaccato, quasi annoiato, le sue parole fredde che tagliavano come coltelli ed erano identiche a quelle che avrei rivolto io ai miei filarini inutili negli anni a venire.
Non avevo più avuto il coraggio di buttarmi di nuovo.
Fino a quel momento.
 
La mattina dopo fui svegliata dal bip del mio telefono: era Enea, e il mio cuore fece una capriola.
Mi chiedeva di uscire, in modo un po’ imbarazzato e confusionario; accettai senza pensarci due volte.
Decidemmo di incontrarci in un piccolo locale in cui ci trovavamo a volte coi nostri amici, era in una zona centrale e l’atmosfera che vi regnava pareva quella degli anni Ottanta.
L’appuntamento era alle sette e io mi trovai, alle quattro del pomeriggio seduta sul divano di casa mia, già pronta per la serata, con lo smalto lasciato ad asciugare sulle unghie.
Ero terrorizzata.
Ora che ci penso mi capitò molte altre volte di essere tremendamente spaventata prima di un nostro incontro, anche dopo mesi, anche dopo anni: la sua presenza mi mandava in confusione, e ogni volta si manifestava in me la paura che lui potesse stufarsi di me, lasciarmi sola.
Mi avvicinai al locale, e tremavo tutta dall’agitazione.
Lui era già lì, fuori, ad aspettarmi. Quando mi sorrise gli si formarono due minuscole rughe ai lati degli occhi.
“Ciao Vera, ti va se entriamo?”.





___________



Eee la storia cominciò davvero!
:)

   
 
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