“Alla fine dell’estate, chi è stato l’ultimo a uscire dal mare?
L’ultimo è tornato a casa senza chiudere il coperchio del mare.
E allora, per tutto questo tempo, il mare è rimasto scoperchiato”
(Banana Yoshimoto, “Il coperchio del mare”)
L’ultimo è tornato a casa senza chiudere il coperchio del mare.
E allora, per tutto questo tempo, il mare è rimasto scoperchiato”
(Banana Yoshimoto, “Il coperchio del mare”)
L’allegra estate dei morti
Cosa accade nei paesini della Riviera, quelli tirati su apposta per la villeggiatura, quando la stagione è agli sgoccioli e se la porta via il fragore del mare? Allora l’estate si rannicchia in un angolo, nei capannoni assieme alle sdraio e alle pinze per cavar le cartacce dalla sabbia la sera, e si addormenta cullata dall’odore di alghe sul dorso dei pedalò e dal ritmo della risacca.
Nel suo rifugio protetto dai ladri e dal vento trascorre lunghi mesi a sognare scaglie di sole a picco sulle onde, la bassa marea paziente del mezzogiorno, le virgole dei gabbiani e a riva i passi stanchi dell’uomo del cocco bello.
Quando l’estate si ritira dal litorale e i chioschi delle piade si accovacciano sotto i pini con la scritta arrivederci all’anno venturo, allora i morti scendono a prendere l’ultimo sole, quello adatto alle trasparenze, che scalda senza dissolvere.
In quel periodo il camposanto sboccia di colori e lumini rossi. Giungono i vivi con passo lieve, coi crisantemi e i ciclamini di serra, che odorano di muschio per nostalgia del bosco.
Ma i morti s’incamminano verso il mare in comitive allegre, e indossano zoccoletti nelle ossa dei piedi, cappelli di paglia e i costumi di tanti anni prima. Gli uomini hanno asciugamani sulle spalle e quotidiani che appena aperti si sfaldano in crusca. “Tanto già lo sapevo com’era andato il derby,” mormorano tra sé.
In Riviera, l’autunno ha i piedi bianchi dei morti che sostano pensierosi sul bagnasciuga e l’acqua, ritirandosi, gli porta via la sabbia da sotto i calcagni. In silenzio contemplano l’orizzonte, il cielo identico al mare che s’increspa più sotto: entrambi grigi e lucidi come il marmo, fluorescenti d’un tratto quando un lampo li percorre sotto la pelle.
I morti prediligono i giorni nuvolosi per godere dell’ultimo pallore autunnale. Temono di dissolversi se la luce è troppo forte.
Dopo un po’, il bagnasciuga si anima. Ci sono i bambini con le formine e i secchielli, gli ombrelloni aperti per non scottarsi, anche se spesso hanno solamente le stecche. Radio accese per ascoltare notizie che non riescono a uscire, perché le pile sono scariche dal giorno delle esequie.
Come in ogni lido che si rispetti non mancano le ragazze. Passeggiano a gruppetti tenendosi per mano, e chiacchierano fitto tra loro. Gli altri morti le seguono con la malinconia che nell’aldilà si riserva alla bellezza, ma c’è in quegli sguardi anche la compassione di chi conosce la storia del pozzo: dieci fanciulle non una di più, gettate in quel pertugio in mezzo alla pineta che solo dopo mesi è stato ritrovato. I corpi ammassati uno sull’altro come per riscaldarsi o prendere coraggio. I capelli hanno continuato a crescere intrecciati.
Su chi fosse il colpevole e se era del paese, anche i morti del posto hanno discusso a lungo.
Finché ogni clamore è andato perduto nel tempo della morte, così come, sulla spiaggia, scende oramai la foschia del crepuscolo, e un brivido di umidità avverte che è ora di ritornare.