Distretto 2 - Red like… a Payne?
Red
L’aria
del Distretto 2 era metallica. Tutto, nella regione delle armi, dei
soldati di Capitol City - i pacificatori - rimandava alla guerra, al
sangue,
alla forza. Anche il vestito della capitolina, grigio e lucido come il
rivestimento di un proiettile, sembrava voler comunicare voglia di
scontro. Le
facce degli abitanti, del resto, erano non fraintendibili; su ogni
volto
dell’immensa piazza si leggeva preparazione, coraggio, forse
ansia, ma non
paura, neanche sui dodicenni, che in qualsiasi distretto - forse anche
nell’1 -
avevano negli occhi un guizzo di terrore mentre si pescava il
bigliettino. Era
per questo che Lio, la capitolina adibita all’estrazione dei
tributi nel
distretto delle armi, amava il suo ruolo. Se c’era una cosa
che odiava erano i
piagnucoloni, gli spaventati, i drammatici; amava la forza e la tenacia
e lì la
potenza era nell’aria, si respirava a pieni polmoni. Proprio
dopo un lungo
respiro di quell’aria così pesante, ma in un certo
senso così pura, la
capitolina, dalla folta chioma intrecciata color verde mela
esordì: — Salve
Distretto 2! Benvenuti alla Mietitura dei trentaseiesimi Hunger Games.
Si fermò volutamente, osservando con più
attenzione il suo pubblico, che,
come prima, non mostrava alcun segno di preoccupazione o angoscia.
— So che qui nessuno di voi vuol perdere tempo, vero? Allora
bando alle
ciance e vediamo insieme chi sarà la fortunata ragazza a
venire estratta!
Proprio mentre la donna stava per aprire la grande urna di vetro, dalla
fila delle diciassettenni si levò una voce chiara e forte.
Una testa rosso
carota si distingueva tra quelle quasi tutte nere delle sue coetanee
mentre
procedeva tra la folla, fino a sbucare al centro del corridoio umano
costituito
dal lato dei ragazzi e da quello delle ragazze. Erano inevitabili i
brusii tra
le file, in fondo tutti conoscevano quella ragazza; vuoi per la sua
bellezza
estremamente particolare e affascinante, vuoi per il carattere
pungente, vuoi
per la fama della sua famiglia, la rossa, o meglio il rosso, non era
una novità
nel distretto.
Mentre la ragazza si avvicinava al palco con passo svelto e fiero,
fissando
i mentori dietro la capitolina, seduti vicino al sindaco, con i
penetranti
occhi marroni, Lio, sbigottita per tanta mancanza di rispetto
esclamò in tono stupito,
ma più che altro infastidito: — Mai in nove anni
di carriera avevo visto una
tale mancanza di educazione! Ragazzina, avresti potuto darmi il tempo
di
pescare.
La rossa, ormai salita sul palco, dopo un cenno con la testa a Knife,
il
mentore più vecchio del distretto – se vecchio si
può chiamare un uomo ancora
così dannatamente affascinante, seppur di mezza
età, sia per le capitoline, sia
per le donne comuni – guardò accigliata la buffa
donna dai capelli verdi
scoppiando in una fragorosa risata: — Io mancare di rispetto?
Ma dai, Lio, ti
sei vista? Tu sei una mancanza di rispetto alla natura!
La capitolina rimase interdetta, quasi non credesse alle parole di
quella
miserabile ragazzina.
— Ragazzina, come osi? Sei solo un mis…
Non finì di parlare, la donna-proiettile, che la rossa la
interruppe,
stavolta adirata: — Ma stai zitta un po’? Ti
conviene non parlare, idiota,
tanto sono io che vado a morire, mica tu… purtroppo per la
società.
Lio era ancora a bocca aperta, con una faccia da vera ebete, che la
diciassettenne prese il microfono, o meglio, glielo strappò
dalle mani,
portandoselo alla bocca.
— Ehi Capitol, sono Red Payne e vincerò. I rossi
sono tornati.
Un sorrisetto, o ghigno, che dir si voglia, accompagnò la
risposta di Red,
decisa a mostrare il lato forte del suo carattere. Avrebbe vinto,
portandosi
dietro quel tocco di classe; in fondo era una Payne e, in qualche modo,
doveva
essere ricordata.
Fu un sospiro, il sospiro del padre, a convincerla a rilanciare il
microfono in mano a Lio, che, ancora stordita dalla baraonda in cui era
finita,
finì per farlo cadere, facendo scoppiare tra le file
addirittura qualche
risolino.
Quella
mattina
Red si era svegliata presto. Aveva pianto quella notte e il cuscino si
era
inzuppato, come al solito. Andava cambiato e asciugato prima che si
svegliassero tutti, così era stata costretta a dormire meno
del dovuto; poco
male, Morfeo non aveva proprio voglia di cullarla quel giorno. Se solo
Knife
avesse saputo che la figlia aveva dormito meno delle otto ore stabilite
si
sarebbe arrabbiato non poco, costringendola a qualche sorta di strana
punizione
fisica; strana poiché farle fare qualche flessione, o
qualche giro di corsa era
inutile, per il suo corpo allenato. Dopo aver sistemato il cuscino,
così, la
rossa si decise a far finta, nuovamente, di dormire, in attesa della
sveglia
che, in casa Payne, suonava alle sette in punto. Quasi come in una
caserma
ognuno si svegliava, si preparava ed iniziava ad allenarsi per
fortificare
ancora di più il proprio spirito e il proprio corpo, come se
non lo fossero già
abbastanza. Il giorno della Mietitura, il suo giorno, Red decise di
allenarsi
da sola, o meglio, di non allenarsi. Si era allenata tutta una vita e
un giorno
in più di allenamento non avrebbe cambiato la sua sorte.
Decise, così, di
salire su un albero - il suo albero - la
grande quercia nell’immenso giardino di casa Payne; da
lì era possibile vedere
i ragazzi dell’Accademia allenarsi e lei si divertiva un
mondo a osservare la
gente, capire come era fatta, analizzarla e poi… disegnarla.
Stranamente,
infatti, una delle più grandi passioni della bellicosa,
sanguinaria Red Payne
era il disegno, e, difatti, non appena vi era un momento libero
cacciava il
taccuino dalle tasche del suo immancabile parka, cominciando a
disegnare
qualunque cosa la ispirasse in quel momento; sempre, naturalmente,
nascosta
dagli sguardi di fuoco della sua famiglia.
Quel giorno, lì
sull’albero, con una leggera brezza che sapeva di primavera,
Red era ispirata
da un soggetto particolare: la sua famiglia.
Subito cominciò
a muovere la matita sul foglio e semplici tratti presero vita.
A destra,
imponente si stagliava Knife Payne, il primo vincitore del Distretto, o
meglio,
il primo ancora in vita. Vittorioso nei noni Hunger Games, ideatore
della prima
alleanza tra i primi distretti, i futuri Favoriti, uomo duro, severo,
rigoroso.
L’uomo da cui Red avrebbe dovuto prendere esempio, o meglio,
da cui aveva
sempre cercato di prendere esempio, senza, però, mai
riuscirci appieno. Lui era
il suo burattinaio, lei la sua marionetta; il problema era uno, Red
voleva a
tutti costi spezzare i fili e scappare, viva, libera delle proprie
scelte ed
azioni. Knife, insomma, era colui che le aveva tarpato le ali. Vicino a
Knife,
prese forma la figura di una donna, bella e giovane, dalla folta chioma
rossa:
Cruz Michaels, sua madre. Tatuatrice e piercer, anche della stessa
figlia, che,
però, per lei, figlia non era. Red, infatti, era troppo
simile a Knife: sadica,
crudele, arrogante, acida. Il suo opposto insomma; come Cruz infatti,
plasmata
praticamente dalla sua stessa carne, vi era solo Cross.
L’immagine della riccia
– caratteristica unica, nella famiglia Payne –
ventitreenne malinconica
Melcross era appena sbucata accanto a quella di Cruz, nel disegno che
ora
iniziava a prendere forma. Red voleva bene a Cross, la capiva, in
fondo. Forse.
Perché Red ancora non aveva vinto, non aveva ucciso, ma
sapeva cosa significasse
perdere qualcuno a cui si vuole bene. Melcross aveva vinto a soli
quindici
anni; spronata dall’amore verso il suo ragazzo, Esteban,
aveva trovato la forza
di uccidere anche il suo ultimo avversario, il suo compagno di
distretto,
nonché fratello dodicenne di Esteban, Make. Era tornata per
amore e aveva
trovato morte. Poichè Esteban, che aveva perso la persona
più cara per lui, -
che non era Cross, ma bensì il proprio fratellino, il
piccolo Make, il bambino
che la sua ragazza
aveva giurato di
difendere… per poi uccidere - si era tolto la vita. Red
pensò alla tristezza
della sorella per il proprio gesto, pensò a quanto
soffrisse, a quando nei suoi
occhi vedeva buio, gelo, a differenza dell’arroganza e della
presunzione
intrinseci nelle iridi degli altri vincitori di casa Payne.
Così decise di
cancellare la sorella, e con rabbia raschiò via il colore,
perché lei non
avrebbe mai dovuto essere coinvolta nella lunga catena di dolore dei
rossi del
distretto 2. Quando la diciassettenne ebbe finito di grattare,
però, il foglio
era ancora rosso, rosso sangue. Non sentiva nemmeno più il
dolore se le
facevano male, Red, quindi quando le unghie, premute così
violentemente sul
foglio, si erano spezzate, non se ne era neanche accorta. In effetti ci
mise
qualche secondo a capire da dove venisse il sangue che aveva macchiato
il viso
del perfetto Knife disegnato, non che gliene importasse, comunque;
infatti, una
volta pulitasi dai residui rosso vermiglio che sporcavano le esili
dita,subito
riprese il carboncino e, seppur con più sofferenza - non per
il dolore fisico,
ma per la tortura interna che si auto infliggeva pensando al destino
che aveva
avuto la sorella- riprese a muoverlo con foga sul foglio. Proprio
mentre
continuava, con sguardo triste, o truce - come poteva sembrare se
osservato
dall’esterno- a
disegnare, sul foglio
presero forma due
figure maschili, i due
fratelli di Red. Stab e Unber furono entrambi vincitori a quattordici
anni,
entrambi rossi, entrambi forti, entrambi non coscienti, almeno secondo
la
sorella. Unber era un vincitore recente, di appena tre anni prima. La
sua
fortuna erano stati gli sponsor, che gli avevano concesso di vivere
lontano
dall’alleanza dei favoriti. Aveva vinto non sporcandosi
nemmeno le mani, aveva
vinto con il fuoco. Lo stesso fuoco che gli bruciava negli occhi se ci
parlavi,
lo stesso fuoco che, a guardare quel ragazzino, sembrava divorarti, una
propagazione, quasi, della sua anima. Stab, invece, era un veterano
oramai.
Allenatore al Centro d’Addestramento a Capitol City,
ufficialmente fidanzato
con una delle vincitrici più acclamate del Distretto 1,
Hemingway Des Giftes,
vinse contro un gigante del Distretto 10 conficcandogli un orecchino in
un
occhio. Un colpo di fortuna, forse, o semplicemente bravura. Fatto sta
che era
un altro nome che si aggiungeva alla lista dei vincitori rossi del 2.
Pensando
alla storia d’amore del fratello Red non poté fare
a meno di disegnare una
figura slanciata, ma sbilenca: sua sorella Iphigenia. Iph aveva vinto
barando,
e se c’era qualcosa che Red odiava erano i falsi. La allora
sedicenne Payne
finse di amare un ragazzo dell’1 per poi scuoiarlo
brutalmente e vincere.
Eppure una ragazza così malvagia e perfida aveva in pugno
ciò che di più
prezioso avesse Red: il cuore di Rusty.
Mai Red era
riuscita a conquistare il bell’istruttore
dell’Accademia di suo padre - nonostante
la sua bellezza, che molte persone ritenevano insuperabile -
perché lui aveva sempre
preferito Iphigeneia. E forse era proprio questo il motivo per cui Red
odiava
la sorella… forse, perché non l’avrebbe
mai ammesso. Prima
di continuare a muovere la mano sul
foglio, però, Red si bloccò. Una pausa di un solo
istante, un solo attimo per
capire, per riprendere lucidità, per auto controllarsi. Ogni
volta che pensava
a Rusty… cioè, al suo Joey, aveva un colpo al
cuore. Stava male. Doveva fermarsi.
E Red non poteva farlo davanti agli altri. Così negli anni
aveva sviluppato un
certo controllo di se stessa. Ogni volta che veniva distratta da
qualcosa –
qualcosa nella sua testa, sia chiaro. Qualcosa come le emozioni, che
per suo
padre erano totalmente inutili e debilitanti- annullava ogni suo
ricordo,
concentrandosi solo su quello che aveva intorno. Si legava, in perfetta
simbiosi, alla natura. Ma con Joey che vorticava furiosamente nella sua
testa
non ci riusciva. Non del tutto. Quel dannato secondo le serviva sempre.
Ed è
per questo che evitava di pensarci. E per non pensarci
l’unica soluzione era
allontanare la sorella, allontanare Iphigeneia. Allontanarla non
fisicamente,
ma psicologicamente. Annullarla come persona, trasformarla in un
fantasma. E,
proprio come uno spettro, circondato da un’aura candida e
quasi eterea, comparve
sul foglio la prima figura che di
rosso non aveva i capelli –che in realtà erano
bianchi come la neve - bensì gli
occhi: Bloodie. Vincitrice dell’anno precedente, ad appena 12
anni, Bloodie era
figlia di Poison e Zoe, zii di Red, entrambi morti, l’uno per
disperazione, l’altra
nei giochi. La pallida bambina dagli occhi cremisi, però non
era solo la cugina
della diciassettenne Payne, ma, probabilmente, la sua maggiore rivale.
L’aveva
sempre odiata, Red, quella
bambina
malefica, forse perché aveva avuto più coraggio ,
più prontezza, più
sfrontatezza di lei nel presentarsi ai giochi ancora così
piccola. Forse quello
Red provava era semplice invidia, ma non lo avrebbe mai
ammesso,comunque, né
agli altri, né tantomeno a se stessa. Quindi, quando il
foglio fu riempito
dall’esile corpicino tratteggiato della minuta Bloodie, Red
non dubitò del
sentimento che le saliva dalle viscere. La rossa era una guerriera
senza mezze
misure e, sicura come non mai, capì, sospirando e alzando
finalmente la mano
dal foglio, che quello che provava verso quella bambina dalle fattezze
angeliche era semplice e puro, come l’aria a primavera o la
risata di un
bambino. Era disprezzo.
Quando un
uccello decise di posarsi su un ramo vicino al suo e iniziare a
cantare,
finalmente Red si riscosse dalla sorta di torpore creativo che
l’aveva presa. Quando
capì che era finita, nulla le impedì di guardare
la propria opera; realistica,
perfetta nell’imperfezione dei personaggi rappresentatevi .
Vi era tutta la sua
famiglia, escluse Cross e le piccole Brenda e Blade. C’era,
in basso, quasi in
disparte, una piccola Red, mentre i vincitori della famiglia Payne
brillavano
di luce propria. E la rossa odiò quel disegno
poiché rappresentava la sua
miserabile vita, fatta di destini già scritti e scelte
già prese; fatta di sangue,
fatta di morte. Così, non appena Infinity, il suo cane, le
corse incontro
abbaiando forsennatamente, decise di distruggere tutto, di liberarsi da
quelle
catene imposte dal proprio sangue e di volare, finalmente, almeno prima
di
seguire le tracce che il destino aveva lasciato per lei. I pezzi della
meravigliosa opera si dispersero nell’aria, tra quel vento
primaverile, cullati
dal canto dell’uccellino, dall’abbaiare di
Infinity, dal silenzio
destabilizzante di Red. Tra le pagine gialle del taccuino,
però qualcosa, quasi
con prepotenza, bramava
di uscire allo
scoperto; un’immagine, disegnata da mani inesperte, tremanti,
di una piccola
artista; e quell’ artista era lei. Su quel foglio, tra colori
pastelo, nuvole
verdi e alberi blu era racchiusa tutta la sua felicità:
c’era Valentine, il suo
migliore amico, c’era Andra, l’unica ragazza a cui
era legata,e c’era anche una
piccola Infinity. La cosa che notò, però, era
un’altra. Sul volto di un piccolo
personaggio con tanto di chioma ramata ed efelidi vistose - che
nonostante
fosse così particolare era non meno importante degli altri,
non meno bello e
non meno strano - vi era qualcosa di cui aveva dimenticato da molto
tempo la
forma originale, la purezza; un sorriso, rosso. Come lei.
Kwon
Kim
Tutto
ciò che Lio voleva, dopo la figuraccia cui era stata
sottoposta da
quella sfrontata ragazzina rossa, era finire quella cerimonia il
più
velocemente possibile. Nonostante i molti anni di servizio, in effetti,
ancora
si domandava come mai ci fossero le mietiture. Insomma, bastava
prendere due
ragazzini a caso in ogni distretto! Automaticamente, però,
mentre infilava la
mano nell’enorme urna di vetro contenente i nomi dei ragazzi,
scosse la testa.
A cosa serviva quell’assurda messa in scena? A fare
spettacolo. Insomma, prima
di diventare un’inviata alle mietiture si divertiva un mondo
a guardare da casa
le estrazioni; si intratteneva con piacere con la sua famiglia, seduti
sul
grande divano di pelle giallo canarino, per scommettere su se fossero
stati
estratti ragazzi pallidi e denutriti o ragazze robuste e feroci. Si
giocava con
le vite degli abitanti dei distretti come un gatto gioca con un
gomitolo e
questo non toccava minimamente nessuno, perché, alla fine,
nessuno si poneva
delle domande e lei d’altronde, chi era per porsele?
Così, col più raggiante
dei sorrisi, per il quale a Capitol City era famosa e amata,
annunciò il nome
del tributo di sesso maschile estratto.
—Bene signori e signore, dopo questo simpatico siparietto
— disse la donna,
fermandosi volutamente sul “simpatico”,
lanciando allo stesso tempo uno sguardo di puro odio a
Red, — è ora di
svelare chi sarà il fortunato tributo che entrerà
nell’arena insieme alla
nostra Red. — Dopo un altro sguardo truce tra la rossa
diciassettenne e la
donna dai capelli verdi, Red capì che era meglio evitare di
prestarle ascolto,
per non metterle le mani intorno al collo e strozzarla in meno di dieci
secondi. Lio, però, a quanto pare non capì che
quello che la rossa le stava
facendo era un favore, anzi, pensò di aver vinto la
battaglia di sguardi e di
averla fatta tornare finalmente nei ranghi. Così, con
sguardo divertito
annunciò: — Kwon Kim Hyun, sali sul palco caro.
Nell’aria nulla si mosse. Tra la folla, niente. E poi,
d’improvviso,
dall’angolo destro dell’enorme quadrato di
ragazzini, una testa bionda iniziò a
incamminarsi verso il centro della grande piazza. Un pallido ragazzo si
fece
strada tra le centinaia di coetanei e, finalmente, dopo
un’attesa estenuante,
per quanto breve, giunse di fronte al palco. Mentre saliva le scalette
di ferro
che portavano in cima alla piattaforma, Lio non potè fare a
meno di notare che,
seppure avesse
un’aria innocente e
tranquilla, il ragazzo aveva una buona forma fisica e
l’altezza era dalla sua
parte. Sotto il chiaro ciuffo biondo, spiccavano, inoltre, due
inquietanti
occhi scuri, a mandorla, che non tradivano emozioni, uniti alle labbra
serrate
e ai pugni stretti lungo i fianchi.
—Ciao Kwon. Posso chiamarti solo Kwon, vero?—
Chiese Lio, non appena
il ragazzo le fu
accanto. La risposta
del tributo non fu che una misera scrollata di spalle. Kwon non aveva
voglia di
parlare, specialmente con quella tizia strana. Insomma, quale malato si
tingerebbe i capelli di verde?
—Non sei molto loquace vedo. Beh Kwon, cosa vuoi dire agli
abitanti del tuo
distretto? — concluse Lio, ormai del tutto sfinita a causa di
quei tributi
particolari. — Che dovrei dire? Vedrete con i vostri occhi
— concluse in breve
il ragazzo, quasi annoiato dalla situazione. Sarebbe dovuto andare a
Capitol City,
che odiava addirittura più del proprio Distretto, quindi, di
certo, non era una
grande carica positiva a muoverlo. L’atmosfera sul palco e
sull’intera piazza,
dopo le poche parole del giovane, era divenuta insostenibile, ogni
singola
persona, Lio compresa, non voleva altro che tornare a casa.
Così, il breve
silenzio, rotto prima solo dal ronzio delle telecamere, venne
completamente
distrutto dalla voce squillante di Lio, che, per la gioia di tutti,
annunciò: —
Bene, Distretto 2, un applauso ai coraggiosi tributi che vi
rappresenteranno in
questi trentaseiesimi Hunger Games. E possa la buona sorte essere
sempre a
vostro favore.
E mentre il popolo applaudiva con grinta, aspettandosi un altro anno di
prosperità, se non per la vincita della rossa Payne - che
aveva una lunga catena
di vittorie alle spalle, nella propria famiglia – per quella
di Kwon Kim Hyun,
che seppure non
godeva della popolarità
di Red, era comunque allenato e pronto a uccidere, Lio pensava che
quell’anno
si sarebbe divertita a veder morire quei ragazzini saccenti e avrebbe
riso di
gusto, proprio come prima avevano fatto quei poveracci prendendosi
gioco di
lei, guardando come avrebbero tagliato loro la gola.
—Non
dovresti
avere paura? Ormai il tuo nome c’è abbastanza
volte ,—chiese il ragazzino dai
folti capelli neri, addentando una fetta di pane. —
Perché dovrei? Ci sono
migliaia di nomi lì dentro. E io non ho mai preso neanche
una tessera. Comunque,
se dovesse succedere, sono allenato, Choi. — rispose Kwon
Kim, sedendosi al
tavolo, di fronte al fratellino. Quel giorno avrebbe partecipato alla
sua prima
mietitura, era normale che ponesse delle domande, la tensione si faceva
sentire. Quando hai dodici anni e sai che potresti essere scelto per
andare in
chissà che genere di posto ad ammazzare o ad essere
ammazzato, non importa da
che distretto vieni, la paura ti stringe come un serpente. In quel
preciso
istante, varcò la porta della piccola cucina il resto della
famiglia. —Sarebbe
troppo chiederti di offrirti, vero Kwon? Hai diciassette anni e ancora
non hai
cacciato le palle per farlo!— Esordì Hana, sua
sorella. — Avresti potuto farlo
tu, dato che ci tieni tanto —ribattè Kwon, non
degnandola nemmeno di uno
sguardo, iniziando a giocherellare con un coltello e una mela.
— Tua sorella,
quando era ancora in età per essere estratta si occupava di
me, ingrato che non
sei altro. Lei si è spezzata la schiena e tu invece ti
allenavi. Per cosa? Per
non offrirti neanche. Spero Choi non venga su come te.
Mika Hyun, era
appena entrata dalla porta del giardinetto sul retro e non aveva potuto
fare a
meno di interferire nella discussione dei figli. Kwon Kim era la sua
maggiore
delusione. Uno smidollato, un codardo. Anni di allenamento, di soldi
pagati all’
Accademia per niente. Intanto, mentre sia sua madre che sua sorella
prendevano
posto, Kwon infilzava il coltello nella mela con più
violenza. Le odiava. Nella
loro mente vi erano solo soldi, Hunger Games e fama. La loro famiglia
non era
povera, andare ad aggiungere altri soldi al loro patrimonio, rischiando
la vita
di un figlio non era concepibile, almeno nella mente di Kwon. Eppure il
padre,
quell’ennesima mattina, si accaparrò in toto il
disprezzo del figlio, una volta
per tutte. — Mika, non c’è nulla di cui
preoccuparsi — esordì, — se questo
sciagurato non si
offrirà, né quest’anno,
né il successivo, potrà sempre prendere il suo
posto Choi, non appena avrà
quattordici anni.
Kwon alzò lo sguardo, smettendo per un attimo di torturare
la mela, ormai
ridotta a brandelli, e lo portò sul volto del fratello. Choi
era terrorizzato,
gli occhi sbarrati. Non ce l’avrebbe mai fatta. Non a
quattordici anni. Non
prima che in Accademia gli insegnassero a uccidere una persona reale e
non un
manichino. Il che avveniva a quindici anni e mezzo. — Non
puoi farlo. Non puoi
obbligarlo. — sbottò Kwon, guardando il padre con
aria glaciale. — E chi me lo
impedirà? Tu? Siete i miei figli. Io vi ho dato la vita e,
volendo — concluse
urlando, — io ve la tolgo!
—Tu non sei un cazzo di nessuno! — rispose Kwon Kim
a tono — Vacci tu a
morire, fallito! E se proprio ti fa piacere, te la tolgo io la vita.
Non concluse neanche la frase che il coltello, prima infilato nella
mela,
fu alla gola del grasso e lento Lee Hyun — Vedi questo
coltello, papà? Prova ad
obbligare Choi ad andare lì dentro e finisce dritto dritto
nella tua gola da
porco.
Kwon riusciva a vedere negli occhi del padre lo stesso terrore che
aveva
visto prima in quelli del fratello. Paura di morire. E fu allora che
lanciò il
coltello, facendolo
conficcare nel
tavolo di mogano*, lasciando finalmente libero di respirare il padre.
Odiava
quella famiglia. Non era sua. Lui non era come loro. Dopo quello che
era
successo nessuno parlò, né la madre,
né l’acida Hana, forse troppo
terrorizzate. Gli unici a parlare erano gli occhi vispi di Choi che
dicevano
tante cose: grazie, come hai potuto, non offrirti. Dicevano talmente
tanto che
Kwon non sopportò oltre e se ne andò, lasciando
tutti lì, a bocca aperta.
Avrebbe passato da qualche altra parte la sua giornata. Il posto che
scelse era
il suo preferito, seppur ci fosse stato solo una volta. Quello che
scoprì dopo
aver ucciso la sua prima vittima, a quindici anni. Era una donna,
giovane, di
forse vent’anni. Capelli rossi e occhi azzurro cielo. Era
bella. Era una donna
vera, di quelle senza muscoli, senza sguardi truci, con il senso del
pudore e
il senso di maternità. Era un essere quasi soprannaturale,
nel Distretto 2. Non
aveva avuto neanche il tempo di conoscerla, Kwon, che la sua
istruttrice già
gli aveva detto di ucciderla.
Sorrise nel vedere il disagio negli occhi del ragazzo. Era divertente
vedere un ragazzino, di quelli innocenti, diventare un assassino.
Conoscendo le abilità di Kwon con le armi da taglio,
probabilmente avrebbe
scelto il coltello. E infatti
così fu.
Magari prima qualche tortura…
E invece no. Kwon
si avvicinò piano
alla ragazza, che ora piangeva. Era una senza-voce, dalla sua bocca non
uscivano parole, gemiti, ma solo suoni gutturali e strozzati. Capitol
mandava i
condannati a morte nei Distretti 1 e 2 ogni anno per liberarsene. Era
gratis e
in più quelle persone avrebbero sofferto. Nel 4, infatti,
pur essendo un
distretto favorito, non erano spedite persone da mandare al macello,
perché,
secondo Snow, ma anche secondo i primi due distretti favoriti, nel
distretto 4
erano molto più smidollati – o molto
più umani, secondo Kwon – di loro.
Quando la ragazza guardò Kwon negli occhi capì
che non c’era speranza, ma
capì anche che quel ragazzo non le avrebbe destinato una
sorte troppo dolorosa
e orribile, da portare nell’aldilà. — Mi
dispiace. — Un sussurro del ragazzo
dagli occhi a mandorla e la gola della ragazza venne recisa
precisamente, con
un taglio pulito e profondo. Il corpo della donna cadde a terra
pesantemente e
velocemente fu circondato da una pozza di sangue.
—Le hai tagliato la gola? Hai sprecato una donna
così giovane solo per
tagliarle la gola? — Elle era scioccata. — Cosa
avrei dovuto fare Elle? — rispose
Kwon —Torturarla? Per far godere una troietta sadica come te?
No. E ora, se
permetti, vorrei andarmene. Ah, e dì a qualcuno di pulire
questo schifo, a meno
che tu non voglia bere il sangue di quella povera ragazza.
Kwon corse per un tempo indeterminato nella sterminata campagna intorno
all’Accademia.
Solo al tramonto trovò un posto ideale, un paradiso in
miniatura. Su una
piccola collinetta si stagliava un grosso sperone di roccia che Kwon,
un po’
per distrarsi, un po’ per curiosità,
scalò in fretta e senza problemi. Il
panorama che gli si parò davanti era fenomenale. Il sole, di
un giallo
aranciato, scompariva dietro alle innumerevoli luci dei palazzoni del
distretto. Un venticello leggero gli scompigliava il ciuffo dello
stesso colore
dei capelli della madre e ogni cosa, lì intorno, era pura e
semplice pace. Non
c’era dolore, violenza, sangue. Kwon avrebbe voluto rimanere
per sempre lì
sopra, a pensare a tutto o a pensare a niente, a godersi i suoni della
natura
o, semplicemente, a vivere. Eppure non potè. E la sua vita
riprese. Fino alla
mattina della sua settima mietitura.”
La risposta dell’orizzonte, a sua volta, fu chiara. Una
sirena. La
mietitura stava per iniziare.
*riferimenti puramente casuali.
MARTINA IS BACK BITCHEEES. Okay, ho perso millemila lettori. Vogliatemi bene lo stesso. O ucciderò i vostri miseri tributi muahaha.
Se non vi ricordate più come funzionano gli sponsor andate nel capitolo precedente :3 E RECENSITE. CAPITO? RECENSITE. *vi osservo*