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Autore: _Maisha_    24/06/2013    4 recensioni
Ventiquattro ragazzi, ventitre morti, un solo vincitore.
Ma è meglio morire felice di aver vissuto o vivere sperando di morire?
La 36esima edizione degli Hunger Games abbia inizio.
[interattiva]
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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cap 3 interattiva mietitura d'2


Distretto 2 - Red like… a Payne?

 

 

 

Red

L’aria del Distretto 2 era metallica. Tutto, nella regione delle armi, dei soldati di Capitol City - i pacificatori - rimandava alla guerra, al sangue, alla forza. Anche il vestito della capitolina, grigio e lucido come il rivestimento di un proiettile, sembrava voler comunicare voglia di scontro. Le facce degli abitanti, del resto, erano non fraintendibili; su ogni volto dell’immensa piazza si leggeva preparazione, coraggio, forse ansia, ma non paura, neanche sui dodicenni, che in qualsiasi distretto - forse anche nell’1 - avevano negli occhi un guizzo di terrore mentre si pescava il bigliettino. Era per questo che Lio, la capitolina adibita all’estrazione dei tributi nel distretto delle armi, amava il suo ruolo. Se c’era una cosa che odiava erano i piagnucoloni, gli spaventati, i drammatici; amava la forza e la tenacia e lì la potenza era nell’aria, si respirava a pieni polmoni. Proprio dopo un lungo respiro di quell’aria così pesante, ma in un certo senso così pura, la capitolina, dalla folta chioma intrecciata color verde mela esordì: — Salve Distretto 2! Benvenuti alla Mietitura dei trentaseiesimi Hunger Games.
Si fermò volutamente, osservando con più attenzione il suo pubblico, che, come prima, non mostrava alcun segno di preoccupazione o angoscia.
— So che qui nessuno di voi vuol perdere tempo, vero? Allora bando alle ciance e vediamo insieme chi sarà la fortunata ragazza a venire estratta!
Proprio mentre la donna stava per aprire la grande urna di vetro, dalla fila delle diciassettenni si levò una voce chiara e forte. Una testa rosso carota si distingueva tra quelle quasi tutte nere delle sue coetanee mentre procedeva tra la folla, fino a sbucare al centro del corridoio umano costituito dal lato dei ragazzi e da quello delle ragazze. Erano inevitabili i brusii tra le file, in fondo tutti conoscevano quella ragazza; vuoi per la sua bellezza estremamente particolare e affascinante, vuoi per il carattere pungente, vuoi per la fama della sua famiglia, la rossa, o meglio il rosso, non era una novità nel distretto.
Mentre la ragazza si avvicinava al palco con passo svelto e fiero, fissando i mentori dietro la capitolina, seduti vicino al sindaco, con i penetranti occhi marroni, Lio, sbigottita per tanta mancanza di rispetto esclamò in tono stupito, ma più che altro infastidito: — Mai in nove anni di carriera avevo visto una tale mancanza di educazione! Ragazzina, avresti potuto darmi il tempo di pescare.
La rossa, ormai salita sul palco, dopo un cenno con la testa a Knife, il mentore più vecchio del distretto – se vecchio si può chiamare un uomo ancora così dannatamente affascinante, seppur di mezza età, sia per le capitoline, sia per le donne comuni – guardò accigliata la buffa donna dai capelli verdi scoppiando in una fragorosa risata: — Io mancare di rispetto? Ma dai, Lio, ti sei vista? Tu sei una mancanza di rispetto alla natura!
La capitolina rimase interdetta, quasi non credesse alle parole di quella miserabile ragazzina.
— Ragazzina, come osi? Sei solo un mis…
Non finì di parlare, la donna-proiettile, che la rossa la interruppe, stavolta adirata: — Ma stai zitta un po’? Ti conviene non parlare, idiota, tanto sono io che vado a morire, mica tu… purtroppo per la società.
Lio era ancora a bocca aperta, con una faccia da vera ebete, che la diciassettenne prese il microfono, o meglio, glielo strappò dalle mani, portandoselo alla bocca.
— Ehi Capitol, sono Red Payne e vincerò. I rossi sono tornati.
Un sorrisetto, o ghigno, che dir si voglia, accompagnò la risposta di Red, decisa a mostrare il lato forte del suo carattere. Avrebbe vinto, portandosi dietro quel tocco di classe; in fondo era una Payne e, in qualche modo, doveva essere ricordata.
Fu un sospiro, il sospiro del padre, a convincerla a rilanciare il microfono in mano a Lio, che, ancora stordita dalla baraonda in cui era finita, finì per farlo cadere, facendo scoppiare tra le file addirittura qualche risolino.

 

 

Quella mattina Red si era svegliata presto. Aveva pianto quella notte e il cuscino si era inzuppato, come al solito. Andava cambiato e asciugato prima che si svegliassero tutti, così era stata costretta a dormire meno del dovuto; poco male, Morfeo non aveva proprio voglia di cullarla quel giorno. Se solo Knife avesse saputo che la figlia aveva dormito meno delle otto ore stabilite si sarebbe arrabbiato non poco, costringendola a qualche sorta di strana punizione fisica; strana poiché farle fare qualche flessione, o qualche giro di corsa era inutile, per il suo corpo allenato. Dopo aver sistemato il cuscino, così, la rossa si decise a far finta, nuovamente, di dormire, in attesa della sveglia che, in casa Payne, suonava alle sette in punto. Quasi come in una caserma ognuno si svegliava, si preparava ed iniziava ad allenarsi per fortificare ancora di più il proprio spirito e il proprio corpo, come se non lo fossero già abbastanza. Il giorno della Mietitura, il suo giorno, Red decise di allenarsi da sola, o meglio, di non allenarsi. Si era allenata tutta una vita e un giorno in più di allenamento non avrebbe cambiato la sua sorte. Decise, così,  di salire su un albero - il suo albero - la grande quercia nell’immenso giardino di casa Payne; da lì era possibile vedere i ragazzi dell’Accademia allenarsi e lei si divertiva un mondo a osservare la gente, capire come era fatta, analizzarla e poi… disegnarla. Stranamente, infatti, una delle più grandi passioni della bellicosa, sanguinaria Red Payne era il disegno, e, difatti, non appena vi era un momento libero cacciava il taccuino dalle tasche del suo immancabile parka, cominciando a disegnare qualunque cosa la ispirasse in quel momento; sempre, naturalmente, nascosta dagli sguardi di fuoco della sua famiglia.
Quel giorno, lì sull’albero, con una leggera brezza che sapeva di primavera, Red era ispirata da un soggetto particolare: la sua famiglia.
Subito cominciò a muovere la matita sul foglio e semplici tratti presero vita.
A destra, imponente si stagliava Knife Payne, il primo vincitore del Distretto, o meglio, il primo ancora in vita. Vittorioso nei noni Hunger Games, ideatore della prima alleanza tra i primi distretti, i futuri Favoriti, uomo duro, severo, rigoroso. L’uomo da cui Red avrebbe dovuto prendere esempio, o meglio, da cui aveva sempre cercato di prendere esempio, senza, però, mai riuscirci appieno. Lui era il suo burattinaio, lei la sua marionetta; il problema era uno, Red voleva a tutti costi spezzare i fili e scappare, viva, libera delle proprie scelte ed azioni. Knife, insomma, era colui che le aveva tarpato le ali. Vicino a Knife, prese forma la figura di una donna, bella e giovane, dalla folta chioma rossa: Cruz Michaels, sua madre. Tatuatrice e piercer, anche della stessa figlia, che, però, per lei, figlia non era. Red, infatti, era troppo simile a Knife: sadica, crudele, arrogante, acida. Il suo opposto insomma; come Cruz infatti, plasmata praticamente dalla sua stessa carne, vi era solo Cross. L’immagine della riccia – caratteristica unica, nella famiglia Payne – ventitreenne malinconica Melcross era appena sbucata accanto a quella di Cruz, nel disegno che ora iniziava a prendere forma. Red voleva bene a Cross, la capiva, in fondo. Forse. Perché Red ancora non aveva vinto, non aveva ucciso, ma sapeva cosa significasse perdere qualcuno a cui si vuole bene. Melcross aveva vinto a soli quindici anni; spronata dall’amore verso il suo ragazzo, Esteban, aveva trovato la forza di uccidere anche il suo ultimo avversario, il suo compagno di distretto, nonché fratello dodicenne di Esteban, Make. Era tornata per amore e aveva trovato morte. Poichè Esteban, che aveva perso la persona più cara per lui, - che non era Cross, ma bensì il proprio fratellino, il piccolo Make, il bambino che la  sua ragazza aveva giurato di difendere… per poi uccidere - si era tolto la vita. Red pensò alla tristezza della sorella per il proprio gesto, pensò a quanto soffrisse, a quando nei suoi occhi vedeva buio, gelo, a differenza dell’arroganza e della presunzione intrinseci nelle iridi degli altri vincitori di casa Payne. Così decise di cancellare la sorella, e con rabbia raschiò via il colore, perché lei non avrebbe mai dovuto essere coinvolta nella lunga catena di dolore dei rossi del distretto 2. Quando la diciassettenne ebbe finito di grattare, però, il foglio era ancora rosso, rosso sangue. Non sentiva nemmeno più il dolore se le facevano male, Red, quindi quando le unghie, premute così violentemente sul foglio, si erano spezzate, non se ne era neanche accorta. In effetti ci mise qualche secondo a capire da dove venisse il sangue che aveva macchiato il viso del perfetto Knife disegnato, non che gliene importasse, comunque; infatti, una volta pulitasi dai residui rosso vermiglio che sporcavano le esili dita,subito riprese il carboncino e, seppur con più sofferenza - non per il dolore fisico, ma per la tortura interna che si auto infliggeva pensando al destino che aveva avuto la sorella- riprese a muoverlo con foga sul foglio. Proprio mentre continuava, con sguardo triste, o truce - come poteva sembrare se osservato dall’esterno-  a disegnare, sul foglio presero forma  due figure maschili, i due fratelli di Red. Stab e Unber furono entrambi vincitori a quattordici anni, entrambi rossi, entrambi forti, entrambi non coscienti, almeno secondo la sorella. Unber era un vincitore recente, di appena tre anni prima. La sua fortuna erano stati gli sponsor, che gli avevano concesso di vivere lontano dall’alleanza dei favoriti. Aveva vinto non sporcandosi nemmeno le mani, aveva vinto con il fuoco. Lo stesso fuoco che gli bruciava negli occhi se ci parlavi, lo stesso fuoco che, a guardare quel ragazzino, sembrava divorarti, una propagazione, quasi, della sua anima. Stab, invece, era un veterano oramai. Allenatore al Centro d’Addestramento a Capitol City, ufficialmente fidanzato con una delle vincitrici più acclamate del Distretto 1, Hemingway Des Giftes, vinse contro un gigante del Distretto 10 conficcandogli un orecchino in un occhio. Un colpo di fortuna, forse, o semplicemente bravura. Fatto sta che era un altro nome che si aggiungeva alla lista dei vincitori rossi del 2. Pensando alla storia d’amore del fratello Red non poté fare a meno di disegnare una figura slanciata, ma sbilenca: sua sorella Iphigenia. Iph aveva vinto barando, e se c’era qualcosa che Red odiava erano i falsi. La allora sedicenne Payne finse di amare un ragazzo dell’1 per poi scuoiarlo brutalmente e vincere. Eppure una ragazza così malvagia e perfida aveva in pugno ciò che di più prezioso avesse Red: il cuore di Rusty.
Mai Red era riuscita a conquistare il bell’istruttore dell’Accademia di suo padre - nonostante la sua bellezza, che molte persone ritenevano insuperabile - perché lui aveva sempre preferito Iphigeneia. E forse era proprio questo il motivo per cui Red odiava la sorella… forse, perché non l’avrebbe mai ammesso.  Prima di continuare a muovere la mano sul foglio, però, Red si bloccò. Una pausa di un solo istante, un solo attimo per capire, per riprendere lucidità, per auto controllarsi. Ogni volta che pensava a Rusty… cioè, al suo Joey, aveva un colpo al cuore. Stava male. Doveva fermarsi. E Red non poteva farlo davanti agli altri. Così negli anni aveva sviluppato un certo controllo di se stessa. Ogni volta che veniva distratta da qualcosa – qualcosa nella sua testa, sia chiaro. Qualcosa come le emozioni, che per suo padre erano totalmente inutili e debilitanti- annullava ogni suo ricordo, concentrandosi solo su quello che aveva intorno. Si legava, in perfetta simbiosi, alla natura. Ma con Joey che vorticava furiosamente nella sua testa non ci riusciva. Non del tutto. Quel dannato secondo le serviva sempre. Ed è per questo che evitava di pensarci. E per non pensarci l’unica soluzione era allontanare la sorella, allontanare Iphigeneia. Allontanarla non fisicamente, ma psicologicamente. Annullarla come persona, trasformarla in un fantasma. E, proprio come uno spettro, circondato da un’aura candida e quasi eterea,  comparve sul foglio la prima figura che di rosso non aveva i capelli –che in realtà erano bianchi come la neve - bensì gli occhi: Bloodie. Vincitrice dell’anno precedente, ad appena 12 anni, Bloodie era figlia di Poison e Zoe, zii di Red, entrambi morti, l’uno per disperazione, l’altra nei giochi. La pallida bambina dagli occhi cremisi, però non era solo la cugina della diciassettenne Payne, ma, probabilmente, la sua maggiore rivale. L’aveva sempre odiata, Red,  quella bambina malefica, forse perché aveva avuto più coraggio , più prontezza, più sfrontatezza di lei nel presentarsi ai giochi ancora così piccola. Forse quello Red provava era semplice invidia, ma non lo avrebbe mai ammesso,comunque, né agli altri, né tantomeno a se stessa. Quindi, quando il foglio fu riempito dall’esile corpicino tratteggiato della minuta Bloodie, Red non dubitò del sentimento che le saliva dalle viscere. La rossa era una guerriera senza mezze misure e, sicura come non mai, capì, sospirando e alzando finalmente la mano dal foglio, che quello che provava verso quella bambina dalle fattezze angeliche era semplice e puro, come l’aria a primavera o la risata di un bambino. Era disprezzo.
Quando un uccello decise di posarsi su un ramo vicino al suo e iniziare a cantare, finalmente Red si riscosse dalla sorta di torpore creativo che l’aveva presa. Quando capì che era finita, nulla le impedì di guardare la propria opera; realistica, perfetta nell’imperfezione dei personaggi rappresentatevi . Vi era tutta la sua famiglia, escluse Cross e le piccole Brenda e Blade. C’era, in basso, quasi in disparte, una piccola Red, mentre i vincitori della famiglia Payne brillavano di luce propria. E la rossa odiò quel disegno poiché rappresentava la sua miserabile vita, fatta di destini già scritti e scelte già prese; fatta di sangue, fatta di morte. Così, non appena Infinity, il suo cane, le corse incontro abbaiando forsennatamente, decise di distruggere tutto, di liberarsi da quelle catene imposte dal proprio sangue e di volare, finalmente, almeno prima di seguire le tracce che il destino aveva lasciato per lei. I pezzi della meravigliosa opera si dispersero nell’aria, tra quel vento primaverile, cullati dal canto dell’uccellino, dall’abbaiare di Infinity, dal silenzio destabilizzante di Red. Tra le pagine gialle del taccuino, però qualcosa, quasi con prepotenza,  bramava di uscire allo scoperto; un’immagine, disegnata da mani inesperte, tremanti, di una piccola artista; e quell’ artista era lei. Su quel foglio, tra colori pastelo, nuvole verdi e alberi blu era racchiusa tutta la sua felicità: c’era Valentine, il suo migliore amico, c’era Andra, l’unica ragazza a cui era legata,e c’era anche una piccola Infinity. La cosa che notò, però, era un’altra. Sul volto di un piccolo personaggio con tanto di chioma ramata ed efelidi vistose - che nonostante fosse così particolare era non meno importante degli altri, non meno bello e non meno strano - vi era qualcosa di cui aveva dimenticato da molto tempo la forma originale, la purezza; un sorriso, rosso. Come lei.

 

 

 

 

Kwon Kim

Tutto ciò che Lio voleva, dopo la figuraccia cui era stata sottoposta da quella sfrontata ragazzina rossa, era finire quella cerimonia il più velocemente possibile. Nonostante i molti anni di servizio, in effetti, ancora si domandava come mai ci fossero le mietiture. Insomma, bastava prendere due ragazzini a caso in ogni distretto! Automaticamente, però, mentre infilava la mano nell’enorme urna di vetro contenente i nomi dei ragazzi, scosse la testa. A cosa serviva quell’assurda messa in scena? A fare spettacolo. Insomma, prima di diventare un’inviata alle mietiture si divertiva un mondo a guardare da casa le estrazioni; si intratteneva con piacere con la sua famiglia, seduti sul grande divano di pelle giallo canarino, per scommettere su se fossero stati estratti ragazzi pallidi e denutriti o ragazze robuste e feroci. Si giocava con le vite degli abitanti dei distretti come un gatto gioca con un gomitolo e questo non toccava minimamente nessuno, perché, alla fine, nessuno si poneva delle domande e lei d’altronde, chi era per porsele? Così, col più raggiante dei sorrisi, per il quale a Capitol City era famosa e amata, annunciò il nome del tributo di sesso maschile estratto.
—Bene signori e signore, dopo questo simpatico siparietto — disse la donna, fermandosi volutamente sul “simpatico”,  lanciando allo stesso tempo uno sguardo di puro odio a Red, — è ora di svelare chi sarà il fortunato tributo che entrerà nell’arena insieme alla nostra Red. — Dopo un altro sguardo truce tra la rossa diciassettenne e la donna dai capelli verdi, Red capì che era meglio evitare di prestarle ascolto, per non metterle le mani intorno al collo e strozzarla in meno di dieci secondi. Lio, però, a quanto pare non capì che quello che la rossa le stava facendo era un favore, anzi, pensò di aver vinto la battaglia di sguardi e di averla fatta tornare finalmente nei ranghi. Così, con sguardo divertito annunciò: — Kwon Kim Hyun, sali sul palco caro.
Nell’aria nulla si mosse. Tra la folla, niente. E poi, d’improvviso, dall’angolo destro dell’enorme quadrato di ragazzini, una testa bionda iniziò a incamminarsi verso il centro della grande piazza. Un pallido ragazzo si fece strada tra le centinaia di coetanei e, finalmente, dopo un’attesa estenuante, per quanto breve, giunse di fronte al palco. Mentre saliva le scalette di ferro che portavano in cima alla piattaforma, Lio non potè fare a meno di notare che,  seppure avesse un’aria innocente e tranquilla, il ragazzo aveva una buona forma fisica e l’altezza era dalla sua parte. Sotto il chiaro ciuffo biondo, spiccavano, inoltre, due inquietanti occhi scuri, a mandorla, che non tradivano emozioni, uniti alle labbra serrate e ai pugni stretti lungo i fianchi.
—Ciao Kwon. Posso chiamarti solo Kwon, vero?— Chiese Lio, non appena il  ragazzo le fu accanto. La risposta del tributo non fu che una misera scrollata di spalle. Kwon non aveva voglia di parlare, specialmente con quella tizia strana. Insomma, quale malato si tingerebbe i capelli di verde?
—Non sei molto loquace vedo. Beh Kwon, cosa vuoi dire agli abitanti del tuo distretto? — concluse Lio, ormai del tutto sfinita a causa di quei tributi particolari. — Che dovrei dire? Vedrete con i vostri occhi — concluse in breve il ragazzo, quasi annoiato dalla situazione. Sarebbe dovuto andare a Capitol City, che odiava addirittura più del proprio Distretto, quindi, di certo, non era una grande carica positiva a muoverlo. L’atmosfera sul palco e sull’intera piazza, dopo le poche parole del giovane, era divenuta insostenibile, ogni singola persona, Lio compresa, non voleva altro che tornare a casa. Così, il breve silenzio, rotto prima solo dal ronzio delle telecamere, venne completamente distrutto dalla voce squillante di Lio, che, per la gioia di tutti, annunciò: — Bene, Distretto 2, un applauso ai coraggiosi tributi che vi rappresenteranno in questi trentaseiesimi Hunger Games. E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore.
E mentre il popolo applaudiva con grinta, aspettandosi un altro anno di prosperità, se non per la vincita della rossa Payne - che aveva una lunga catena di vittorie alle spalle, nella propria famiglia – per quella di Kwon Kim Hyun, che seppure  non godeva della popolarità di Red, era comunque allenato e pronto a uccidere, Lio pensava che quell’anno si sarebbe divertita a veder morire quei ragazzini saccenti e avrebbe riso di gusto, proprio come prima avevano fatto quei poveracci prendendosi gioco di lei, guardando come avrebbero tagliato loro la gola.

 

 

—Non dovresti avere paura? Ormai il tuo nome c’è abbastanza volte ,—chiese il ragazzino dai folti capelli neri, addentando una fetta di pane. — Perché dovrei? Ci sono migliaia di nomi lì dentro. E io non ho mai preso neanche una tessera. Comunque, se dovesse succedere, sono allenato, Choi. — rispose Kwon Kim, sedendosi al tavolo, di fronte al fratellino. Quel giorno avrebbe partecipato alla sua prima mietitura, era normale che ponesse delle domande, la tensione si faceva sentire. Quando hai dodici anni e sai che potresti essere scelto per andare in chissà che genere di posto ad ammazzare o ad essere ammazzato, non importa da che distretto vieni, la paura ti stringe come un serpente. In quel preciso istante, varcò la porta della piccola cucina il resto della famiglia. —Sarebbe troppo chiederti di offrirti, vero Kwon? Hai diciassette anni e ancora non hai cacciato le palle per farlo!— Esordì Hana, sua sorella. — Avresti potuto farlo tu, dato che ci tieni tanto —ribattè Kwon, non degnandola nemmeno di uno sguardo, iniziando a giocherellare con un coltello e una mela. — Tua sorella, quando era ancora in età per essere estratta si occupava di me, ingrato che non sei altro. Lei si è spezzata la schiena e tu invece ti allenavi. Per cosa? Per non offrirti neanche. Spero Choi non venga su come te.
Mika Hyun, era appena entrata dalla porta del giardinetto sul retro e non aveva potuto fare a meno di interferire nella discussione dei figli. Kwon Kim era la sua maggiore delusione. Uno smidollato, un codardo. Anni di allenamento, di soldi pagati all’ Accademia per niente. Intanto, mentre sia sua madre che sua sorella prendevano posto, Kwon infilzava il coltello nella mela con più violenza. Le odiava. Nella loro mente vi erano solo soldi, Hunger Games e fama. La loro famiglia non era povera, andare ad aggiungere altri soldi al loro patrimonio, rischiando la vita di un figlio non era concepibile, almeno nella mente di Kwon. Eppure il padre, quell’ennesima mattina, si accaparrò in toto il disprezzo del figlio, una volta per tutte. — Mika, non c’è nulla di cui preoccuparsi — esordì, — se questo sciagurato  non si offrirà, né quest’anno, né il successivo, potrà sempre prendere il suo posto Choi, non appena avrà quattordici anni.
Kwon alzò lo sguardo, smettendo per un attimo di torturare la mela, ormai ridotta a brandelli, e lo portò sul volto del fratello. Choi era terrorizzato, gli occhi sbarrati. Non ce l’avrebbe mai fatta. Non a quattordici anni. Non prima che in Accademia gli insegnassero a uccidere una persona reale e non un manichino. Il che avveniva a quindici anni e mezzo. — Non puoi farlo. Non puoi obbligarlo. — sbottò Kwon, guardando il padre con aria glaciale. — E chi me lo impedirà? Tu? Siete i miei figli. Io vi ho dato la vita e, volendo — concluse urlando, — io ve la tolgo!
—Tu non sei un cazzo di nessuno! — rispose Kwon Kim a tono — Vacci tu a morire, fallito! E se proprio ti fa piacere, te la tolgo io la vita.
Non concluse neanche la frase che il coltello, prima infilato nella mela, fu alla gola del grasso e lento Lee Hyun — Vedi questo coltello, papà? Prova ad obbligare Choi ad andare lì dentro e finisce dritto dritto nella tua gola da porco.
Kwon riusciva a vedere negli occhi del padre lo stesso terrore che aveva visto prima in quelli del fratello. Paura di morire. E fu allora che lanciò il coltello,  facendolo conficcare nel tavolo di mogano*, lasciando finalmente libero di respirare il padre. Odiava quella famiglia. Non era sua. Lui non era come loro. Dopo quello che era successo nessuno parlò, né la madre, né l’acida Hana, forse troppo terrorizzate. Gli unici a parlare erano gli occhi vispi di Choi che dicevano tante cose: grazie, come hai potuto, non offrirti. Dicevano talmente tanto che Kwon non sopportò oltre e se ne andò, lasciando tutti lì, a bocca aperta. Avrebbe passato da qualche altra parte la sua giornata. Il posto che scelse era il suo preferito, seppur ci fosse stato solo una volta. Quello che scoprì dopo aver ucciso la sua prima vittima, a quindici anni. Era una donna, giovane, di forse vent’anni. Capelli rossi e occhi azzurro cielo. Era bella. Era una donna vera, di quelle senza muscoli, senza sguardi truci, con il senso del pudore e il senso di maternità. Era un essere quasi soprannaturale, nel Distretto 2. Non aveva avuto neanche il tempo di conoscerla, Kwon, che la sua istruttrice già gli aveva detto di ucciderla.

 “— Ucciderla? Perché dovrei ucciderla? Non ha fatto niente!— Protestò Kwon. Elle gli rise in faccia. — Devi ucciderla, perché devi, ragazzino. Credi che negli Hunger Games ucciderai solo perché ti hanno fatto qualcosa? Devi uccidere dei bambini, che probabilmente, proveranno addirittura a fidarsi di te. Devi uccidere perché funziona così. Vivi o muori. — detto questo, la bionda venticinquenne gli diede in mano una lancia, un coltello e una corda: — scegli tu.
Sorrise nel vedere il disagio negli occhi del ragazzo. Era divertente vedere un ragazzino, di quelli innocenti, diventare un assassino.
Conoscendo le abilità di Kwon con le armi da taglio, probabilmente avrebbe scelto il coltello. E  infatti così fu. Magari prima qualche tortura…
E invece no.  Kwon si avvicinò piano alla ragazza, che ora piangeva. Era una senza-voce, dalla sua bocca non uscivano parole, gemiti, ma solo suoni gutturali e strozzati. Capitol mandava i condannati a morte nei Distretti 1 e 2 ogni anno per liberarsene. Era gratis e in più quelle persone avrebbero sofferto. Nel 4, infatti, pur essendo un distretto favorito, non erano spedite persone da mandare al macello, perché, secondo Snow, ma anche secondo i primi due distretti favoriti, nel distretto 4 erano molto più smidollati – o molto più umani, secondo Kwon – di loro.
Quando la ragazza guardò Kwon negli occhi capì che non c’era speranza, ma capì anche che quel ragazzo non le avrebbe destinato una sorte troppo dolorosa e orribile, da portare nell’aldilà. — Mi dispiace. — Un sussurro del ragazzo dagli occhi a mandorla e la gola della ragazza venne recisa precisamente, con un taglio pulito e profondo. Il corpo della donna cadde a terra pesantemente e velocemente fu circondato da una pozza di sangue.
—Le hai tagliato la gola? Hai sprecato una donna così giovane solo per tagliarle la gola? — Elle era scioccata. — Cosa avrei dovuto fare Elle? — rispose Kwon —Torturarla? Per far godere una troietta sadica come te? No. E ora, se permetti, vorrei andarmene. Ah, e dì a qualcuno di pulire questo schifo, a meno che tu non voglia bere il sangue di quella povera ragazza.
Kwon corse per un tempo indeterminato nella sterminata campagna intorno all’Accademia. Solo al tramonto trovò un posto ideale, un paradiso in miniatura. Su una piccola collinetta si stagliava un grosso sperone di roccia che Kwon, un po’ per distrarsi, un po’ per curiosità, scalò in fretta e senza problemi. Il panorama che gli si parò davanti era fenomenale. Il sole, di un giallo aranciato, scompariva dietro alle innumerevoli luci dei palazzoni del distretto. Un venticello leggero gli scompigliava il ciuffo dello stesso colore dei capelli della madre e ogni cosa, lì intorno, era pura e semplice pace. Non c’era dolore, violenza, sangue. Kwon avrebbe voluto rimanere per sempre lì sopra, a pensare a tutto o a pensare a niente, a godersi i suoni della natura o, semplicemente, a vivere. Eppure non potè. E la sua vita riprese. Fino alla mattina della sua settima mietitura.”

 Kwon era stanco. Aveva camminato per molto tempo per ritrovare quel posto. L’erbaccia era cresciuta e non era stata tagliata e raggiungere la collinetta era stato abbastanza arduo da fargli raggiungere la cima del roccione ansimante. — Alla fine sono tornato qui, — disse all’orizzonte — speravo di non tornarci più, eppure mi son ritrovato di nuovo tra le mani l’occasione per uccidere. Sarò un assassino? No, no. Possono estrarmi, costringermi, ma deciderò io cosa fare. Sempre. Non saranno loro a scegliere per me, non questa volta. È una promessa.
La risposta dell’orizzonte, a sua volta, fu chiara. Una sirena. La mietitura stava per iniziare.






*riferimenti puramente casuali.





Martina's red corner: 

MARTINA IS BACK BITCHEEES. Okay, ho perso millemila lettori. Vogliatemi bene lo stesso. O ucciderò i vostri miseri tributi muahaha. 

Ah, ringraziate Arianna, che in questi mesi mi ha stalk... ehm, spronato a scrivere *^* Coomunque, che c'è da dire. Red e Kwon Kim. Sono fighi. Strani. Ma fighi. Per la mentore di Kwon, beh, spero non mi ucciderai per qualche piccola parolaccia :3 ( e per avergli fatto minacciare il padre...ehm) . Dunque dopo mesi me ne esco con un capitolo di cacca. Perchè no, non sono contenta, ma voi siatelo, tanto non lo cambierò muahaha. Come sono perfida. D'altronde sono una capitolina, zoccola [cit. Arianna]
Se non vi ricordate più come funzionano gli sponsor andate nel capitolo precedente :3 E RECENSITE. CAPITO? RECENSITE. *vi osservo*

                                 







Red Payne







Kwon Kim Hyun


  
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