Ciao!
Lo so… Era ora!!
Pregate
per me perché la terza prova del mio esame si avvicina!!
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Elia sospirò silenziosamente, lasciando
scivolare la cravatta di seta nel tentativo di ottenere un perfetto nodo
Windsor. Ad ogni modo non era la sua apparenza a preoccuparlo, bensì il peso di
quella responsabilità che lo attanagliava ormai da settimane. Sposare una donna
per far piacere a suo padre. Forse era davvero troppo. Non che credesse
nell’istituzione matrimoniale, tantomeno nella storia dell’anima gemella, ma
l’idea di legarsi a qualcuno solo per siglare un contratto riusciva a renderlo
nervoso. Katrina Pushkina, l’ultima ed unica volta che l’aveva vista avrà avuto
non più di dodici anni, uno sguardo di pudore ed ansia sul suo giovane viso,
nulla più che le sembianze di una bambina spaventata. Altri dodici anni erano
passati da quella “vacanza di famiglia” a San Pietroburgo e adesso non aveva idea
di cosa aspettarsi, o di cosa dire, o di cosa fare.
“Vuoi farlo davvero?!”
Sarà stata la ventesima volta in quella
sola ora che Joseph ripeteva la domanda, incapace di credere che Elia volesse
sposarsi. Sposarsi. Non riusciva nemmeno a pensare quella parola senza il
desiderio di vomitare.
Elia sistemò il colletto evitando di rispondere.
Nathaniel si aggiunse alla conversazione
“Joseph ha ragione. Non vediamo questa
ragazza da un secolo! Voglio dire, potrebbe essere grassa come una balena o
magari calva…”
Elia sollevò un sopracciglio
“…Vuoi davvero andare a letto con una
balena calva?”
Il maggiore scosse la testa, ma senza
dubbio anche lui ci stava pensando, seppur in altri termini. Suo padre aveva
buttato giù un contratto, aspettandosi un matrimonio ed ovviamente dei sani
nipoti che perpetrassero il nome dei Michealson. Ciò voleva dire che avrebbe dovuto
dormire con questa donna qualunque fosse il suo aspetto attuale e, soprattutto,
qualsiasi fosse il suo stato d’animo. Probabilmente la ragazza era disperata o
spaventata e gli sarebbe toccato consumare i suoi doveri coniugali con un corpo
freddo ed immobile, solamente per accontentare William, come sempre.
“E’ per la famiglia.”
“E’ solo per lui!”
Ribatté Joseph
“…E’ solo per i suoi sporchi scopi e lo
sai bene.”
Non era nemmeno troppo chiaro perché
quell’idea gli bruciasse tanto. Suo fratello sposato ad una russa, una russa
sconosciuta che avrebbe un giorno ereditato l’intero mercato malavitoso del metano
e del petrolio. Il matrimonio. Inutile negare l’ovvietà, se William non avesse
sposato sua madre nessuno di loro sarebbe stato lì, eppure l’idea di ripetere i
passi dei suoi lo disgustava. Silenzi senza fine. Discussioni agguerrite.
Gerarchie intoccabili. Fotografie di sorrisi fasulli appese alle pareti. Come
biasimare sua madre per aver dormito un altro?
Katrina avrebbe prima o poi fatto lo
stesso, sbattendosi l’autista o il giardiniere alle spalle di suo fratello,
finendo per sfornare un altro piccolo bastardo come lui. Elia lo avrebbe
odiato, maltrattato, umiliato, trasformandosi lentamente in una nuova copia di
William. La storia trova sempre il modo di ripetersi.
La porta della stanza si spalancò,
riportando tutti alla realtà. Caspar, relegato al ruolo di annunciatore,
rivolse loro un cenno del capo
“Di là ti aspettano.”
Il taciturno primogenito, capelli lisci,
naso appuntito e spalle larghe, non aggiunse nulla di più. Stare in secondo
piano rispetto ad Elia aveva dei lati positivi dopo tutto, ad esempio il potersi
scegliere una donna da solo. Non che William fosse minimamente al corrente
della sua liaison con la figlia della governante.
Elia annuì. Era il momento di compiere
l’ennesimo dovere. Con un po’ di fortuna Katrina si sarebbe rivelata una moglie
silenziosa e lui avrebbe trovato abbastanza improrogabili impegni da non
doverle stare vicino troppo a lungo.
Ignorando Joseph e lo scuotere del suo
viso, raggiunse a testa alta il grande salotto. Il camino era acceso e
l’argenteria brillava sulla tovaglia damascata, segno che suo padre voleva far
colpo. E che a lui non era concesso sbagliare.
“Ecco qui il fortunato!”
Tuonò Wiliam raggiungendolo sulla soglia
“Vieni figliolo.”
Poggiandogli una mano sulla spalla,
proprio come un vero padre avrebbe fatto, lo condusse al centro della stanza
dove Vladijmir sorseggiava vodka pura senza ghiaccio. Un gentile omaggio
portato dalla sua terra. Ogni aspetto di quella situazione ricordava
fastidiosamente la dinastia Tudor. Il magnate russo sgranò lentamente un
sorriso, quasi fosse un gesto innaturale
“Elia.”
Gli porse la mano, gelida come la neve
nonostante il fuoco acceso. Il giovane Michaelson rispose alla stretta con
altrettanta energia.
“Sto per affidare a te il mio più
prezioso tesoro…”
Elia si limitò ad annuire. Il ghigno
forzato sul viso pallido del sovietico lasciava intendere tutt’altro avvertimento.
Gli avrebbe fatto patire amare sofferenze se non avesse garantito l’incolumità
e la soddisfazione della sua unica figlia, sangue del suo sangue.
“…Vieni figlia mia.”
Dall’angolo della stanza, fuori dal
rifugio offerto dalla grande libreria di quercia, si rilevò la tanto attesa
promessa sposa. Lunghi capelli scuri, mossi e voluminosi sulle spalle minute,
grandi occhi d’ebano, lunghe ciglia nere ed una piccola bocca a cuore, carnosa
e perfetta su quel viso bianco come latte.
Avanzò abbassando appena lo sguardo, le
gambe tornite esposte fino al ginocchio, la vita sottile ed i fianchi rotondi,
abbracciati dal raso del vestito nero. Pareva fosse vestita per un funerale
piuttosto che per una festa di fidanzamento, non fosse per i piccoli bottoni in
madreperla lasciati aperti sulla scollatura. Il seno piccolo e rotondo si
lasciava facilmente immaginare.
Nessun dubbio, la piccola Katrina era
venuta su bene.
Elia deglutì davanti a quella visione.
Si sarebbe aspettato di tutto, ma mai quel vuoto al cuore.
Katrina gli improvvisò un inchino di
fronte, mostrando il giusto rispetto al futuro suocero.
“Felice di rivedere voi.”
Azzardò, con l’accento di chi,
nonostante l’altissima educazione, non parla spesso la sua seconda lingua.
Elia sentì la gola secca e le mani
umide, come mai gli era successo prima, nemmeno quella volta che aveva versato
cianuro nel bicchiere dell’ambasciatore cinese, proprio nel bel mezzo del gran
gala alla Sotheby’s. La pronuncia marcata, il suono quadrato di qualche vocale
in più, non toglieva alcun fascino a quella visione celestiale. La sua futura
moglie.
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“Spero
non sia necessario incatenare anche te.”
Il
suono della sua voce non era cambiato, tantomeno l’abitudine di raccogliere
continuamente i capelli sulla spalla sinistra. Elia rimase in piedi, braccia
tese sui fianchi e spalle al muro, così da poter monitorare tutti i 180 gradi
della sua visuale.
Katrina
aveva lo stesso aspetto, lo stesso fuoco negli occhi, le stesse movenze
sinuose, tuttavia sembrava una persona del tutto diversa. Continuava a tenergli
gli occhi addosso, ma ogni singola volta che rischiava di incrociare quelli di
lui, il suo sguardo cambiava immediatamente direzione. Strano, vista la
sicurezza con cui gli si era avvicinata nell’appartamento di suo fratello.
Lui,
d’altro canto, non riusciva a proferire parola.
Al
di là della porta Joseph e Nathaniel attendevano buone nuove seduti su scomode
sedie impagliate, le mani legate dietro la schiena. Entrambi segnati in viso
dalle percosse subite, si erano intesi alla perfezione con un solo sguardo:
nessuna inutile conversazione, nessuna parola di troppo, nessun segno di
ribellione o cedimento.
Joseph
rivolse un nuovo sguardo ai gemelli con la coda dell’occhio. Rispetto alla sua
prima sistemazione quella sedia sembrava morbida come piume d’oca sotto il suo
sedere ed aveva almeno due buone ragioni per sentirsi sollevato: prima che lo
trascinassero lì, lasciato finalmente solo, era riuscito a concedersi qualcosa
come un’ora di sonno Rem. Fondamentale. Seconda e più importante ragione,
Nathaniel era ancora vivo, tutto intero ed accanto a lui. Ora non restava che
trovare una falla nel piano dei Pryce e non vi era dubbio che ve ne fosse
almeno una, specialmente conoscendo la loro impulsività.
L’atmosfera
era troppo rilassata lì dentro. Little K era appoggiato alla parete con tutto
il proprio peso, la gomma del suo scarpone destro raschiava l’intonaco cadente.
Morgan dava loro le spalle, tenendo le mani in tasca mentre sussurrava qualcosa
alla sua copia. Nessun altro nella stanza, nessuna traccia di Cara. Joseph strinse
i denti di riflesso, non era proprio il caso di pensare a lei adesso,
soprattutto dopo l’ultima conversazione. Con tutto quel desiderio di vendetta e
quei meccanismi mentali contorti, la ragazza dell’aereo era ormai una causa
persa.
La
morte dei suoi genitori tuttavia, raccontata attraverso pezzi di flashback che
lui poteva solo immaginare, aveva inevitabilmente risvegliato i nitidi ricordi
di un’altra dipartita.
Riusciva
ancora a vederlo perfettamente, il volto di sua madre addormentato, il suo
corpo steso a terra, stranamente privo della sua compostezza, in mezzo ad una
nuvola di pillole per il mal di testa sparse sul tappeto. Si era avvicinato
lentamente urlando il nome di Elia, per la prima volta in vita sua terrorizzato
da qualcosa. Le si era inginocchiato accanto allungando piano la mano,
invocando più e più volte “mamma” a mezza voce. Era ancora calda e morbida. I
lunghi capelli ramati stesi sul pavimento, il pallore della morte che pian
piano si prendeva le sue labbra. In quel momento infinito aveva urlato anche il
nome di suo padre, desiderato perfino la sua presenza purché qualcuno
condividesse quel dolore, quel taglio al cuore che non poteva, non riusciva a
sopportare.
Dopo
l’arrivo del fidato medico di famiglia ed una seduta privata in stanza da letto
cui William aveva voluto partecipare da solo, il verdetto era stato
inimpugnabile. Morte naturale per emorragia subaracnoidea, fatale e del tutto
imprevedibile. Pur essendo un Michaelson, un uomo senza amore né sentimenti, quella
scena l’avrebbe tormentato per sempre.
La
porta si aprì di scatto, spingendo dentro un tizio in completo scuro.
Elia.
I
fratelli minori tesero i muscoli contro il legno, Elia era lì presente, senza
segni di percosse né catene ai polsi. Dietro di lui il picchiettio di tacchi
sul pavimento, una donna dai lunghi capelli scuri che avanzava con la sicurezza
di una top model, una scarpa firmata dietro l’altra. Sollevò appena lo sguardo
con la sfida tra le ciglia.
Katrina
Pushkina. Ancor più troia di quanto ricordasse, stretta nella sua tenuta da
film sadomaso.
Non
aveva senso, ma comunque resistette alla tentazione di parlare. Con Elia non
era necessario. Come se non fosse abbastanza si aggiunse alla scena Cara,
sfilandogli davanti con gli occhi al pavimento e le sue belle gambe avvolte nei
jeans slavati. I suoi stivali di pelle marrone la portarono fino all’angolo, a
mezzo metro almeno da Little K.
“Ecco.
Vivi e vegeti.”
Katrina
rivolse loro un cenno disinteressato, mantenendo gli occhi su Elia.
L’attenzione di quest’ultimo totalmente catalizzata al centro della stanza.
“Liberali.”
Lei
si concesse un sorriso sardonico
“Non
così semplice.”
Stavolta
Elia si voltò a guardarla, sforzandosi di patire la sua concreta presenza
“Che
cosa vuoi?”
La
stanza era affollata, piena di persone nervose che consumavano ossigeno, eppure
la scena pareva svolgersi tra due attori solamente.
“Chiama
tuo padre.”
“Perché?”
“Fa’
venire qui tuo padre e ti prometto che almeno uno di tuoi preziosi fratelli
uscirà da qui sulle sue gambe.”
Il
tono ancora caldo ed avvolgente nonostante le minacce. Elia strinse i pugni
“No.”
Katrina
sollevò il viso, scontrandosi con i suoi occhi per la prima volta, ardente
dello stesso risentimento che alimentava il marito
“Non
ti fidi?... Io mantengo sempre mie promesse.”
“Non
sempre.”
La
risposta fu immediata ed inevitabile, sfuggita alle sue labbra con uno spasmo
di muscoli addominali. Più o meno fasulla che fosse, aveva comunque infranto la
più solenne delle promesse. Finché morte non ci separi. Probabilmente era convinta che con uno come
lui la morte non si facesse attendere poi tanto.
Quella
piccola provocazione le rimbalzò di fronte, facendo tremare le morbide curve
del suo labbro superiore. C’era così tanta rabbia dentro di lei, così tanto
risentimento nascosto dall’ostentazione, un bruciore ancora insopportabile.
Elia non poteva vederlo, non ne era capace, non si era mai neanche minimamente
accorto che fosse lì.
“Chiama
William.. Myж.”
Katrina
era sempre stata la più brava dei due ad individuare i punti deboli. Non a caso
la scelta di chiamarlo “marito” in un russo suadente, così come era solita fare
nell’intimità della loro stanza, quando il riverbero dell’orgasmo abbassava le
loro difese, facendoli sembrare la più comune delle coppie.
I suoi fianchi stretti tra le mani, la
pelle liscia appena un po’ umida dopo la prolungata frizione tra i loro corpi,
i suoi lunghi capelli mossi che gli solleticavano il petto, le ginocchia di lei
incollate alla vita, il respiro ancora accelerato e quel sorriso… Quel sorriso.
“Moй Myж.”
Katrina lasciò scorrere le dita sul viso
di Elia, indugiando con l’indice sulle sue labbra schiuse.
Elia inspirò accarezzando il suo seno
con gli occhi ancora una volta, concedendo a sé stesso il più disarmato dei
momenti. La donna che suo padre aveva scelto per lui riusciva a svuotargli
corpo e mente, riempiendolo di pensieri che non avrebbe mai pensato di avere.
La fredda sconosciuta venuta dall’est portava il fuoco dentro.
“Moя Жeha.”
Rispose lui contraendo gli addominali
per tirarsi su, gambe intrecciate tra le lenzuola ed occhi allo stesso livello,
scuro contro scuro. Katrina sorrise di nuovo come ogni volta poiché adorava
sentirlo usare la sua lingua natia, perché riusciva a sentirsi a casa. Il sorriso sparì presto lasciando spazio all’emozione del momento, insicura,
fragile ed inaspettata. Gli poggiò le mani sulle spalle, avvicinando lentamente
la bocca a quella di lui, prendendola in un bacio lento e delicato.
Poteva succedere davvero? Innamorarsi di
qualcuno che non abbiamo scelto? Innamorarsi?
La vibrazione del telefono contro il
legno del comodino distrusse il momento. Katrina abbassò gli occhi spostandosi
nella sua parte di letto, Elia allungò il braccio per afferrare il cellulare
“Padre…”
Una breve attesa silenziosa
“…Va bene. Arrivo subito.”
Sempre così, le telefonate di William
non duravano più di trenta secondi. Le sue richieste erano sempre dirette e
mai, mai, si era posto il problema di chiedere se Elia avesse qualcosa di più
importante da fare.
Non che Elia avesse qualcosa di più
importante da fare.
Katrina tirò su le lenzuola che lui
aveva scostato e si coprì fino alle spalle. Elia infilò calzini e pantaloni
dandole le spalle.
“Che succede?”
Lui raggiunse l’armadio scegliendo una
camicia pulita color panna
“Non lo so.”
Rispose. Ogni mattone del suo muro era
già tornato al proprio posto. Si infilò la giacca e passò il pettine tra i
capelli, rimettendolo nel suo esatto posto sulla mensola di marmo del bagno.
Girò attorno al letto e le si avvicinò, curvando la schiena per poggiarle un
bacio sulla fronte
“Torno più tardi.”
Non poteva darle indicazione migliore.
Katrina sprofondò nel materasso dopo lo sbattere del portone, trovandosi sola col
resto della sua giornata ancora una volta.
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“Chiama
William.. Myж.”
Era
riuscita a scurirgli lo sguardo
“Perché?”
Non
gli piaceva ripetere le domande. Katrina indicò i suoi fratelli ancora una
volta
“Perché
loro sono l’unica cosa di cui ti importa…”
Sollevò
il sopracciglio destro
“…Non
è vero?”
Elia
strinse i pugni trattenendo l’istinto di afferrarla per il collo e sbatterla al
muro.
“Fallo
venire qui o muoiono subito.”
A
quelle parole Little K si scostò dalla parete, brandendo un coltello finora
nascosto sotto la maglietta. Afferrò Nathaniel per i capelli e mostrò le sue
chiare intenzioni. Il minore dei Michaelson non si scompose, mentre Joseph gli
digrignava i denti accanto.
Quella
scena gli spostò un nervo di troppo. Elia espirò rumorosamente e fece per
muoversi verso il gemello dai capelli gellati
“Io
ti…”
“Fermo
Michaelson…”
Lo
interruppe Morgan con nonchalance, abbandonando l’angolo per andargli vicino,
ruotandogli intorno fino a raggiungere il fianco di Katrina. Le avvolse la vita
con un braccio, un gesto semplice che svelava una certa confidenza
“…Ti
consiglio di valutare bene la prossima mossa.”
Concluse
avvicinando il viso alla chioma di Katrina, inspirando il dolce antico profumo
di tuberosa. Lei non si mosse di un millimetro, tesa per la situazione, ma a
suo agio nella presa del nemico. Morgan sorrise osservando la reazione di Elia
con la coda dell’occhio, godendo della rabbia pura che gli andava dipingendo il
viso. Non troppo inconsciamente sperava che l’altro cedesse alla tentazione e
gli fornisse una buona scusa per scatenare la rissa. Il suo amore per il sangue
non aveva limiti, non gli sarebbe dispiaciuto mandare tutto a monte per lo
scrocchio di ossa rotte sotto le sue nocche anzi, avrebbe volentieri
organizzato una parata per sbattere in faccia ad Elia ciò che gli aveva preso.
Presuntuoso Michaelson.
“Porta
qui quel coglione di tuo padre.”
Elia
non aveva occhi che per lei mentre lentamente tirava fuori il cellulare dalla
tasca. Tutta quella vicinanza tra Pryce e Katrina gli aveva portato alla mente
un’immagine insolita, uno strisciante crotalo adamantino. Cosa non avrebbe dato
per avere una dose del suo veleno da sputare in faccia a Morgan, cosa non
avrebbe dato in quel momento per guardare la sua faccia perfetta decomporsi tra
atroci dolori, lasciandolo dissanguare senza pietà.
“Padre,
ho bisogno di te qui. Vecchio deposito di Lewis. Capannone 19.”
Era
fatta. Con la speranza che William portasse con sé un intero esercito.
Morgan
sorrise di nuovo
“Padre.”
Ripeté
accentuandone il suono per schernirlo
“Dev’essere
alquanto castrante dover ancora sottostare alle regole del vecchio…”
Di
nuovo passò le sue sporche mani tra i boccoli della russa, attorcigliando una
ciocca attorno al dito e premendo il suo corpo contro il fianco di Katrina
“…Non
mi sorprende che tua moglie abbia cercato qualcosa di meglio.”
Colpo
basso. Joseph assisteva alla scena dalla sua postazione, sperando che suo
fratello non abboccasse all’amo. Per quella troia non valeva davvero la pena.
William non si sarebbe mai presentato da solo e le corde attorno ai suoi polsi
iniziavano già ad allentarsi per il lento movimento continuo. Sarebbe arrivato
anche a slogarseli fosse servito ad uscire vivo da lì. Non poteva certo dare la
soddisfazione della sua morte a questi vermi. I suoi occhi si spostarono su
Cara, unica anima nella stanza che non aveva ancora aperto bocca. Era
visibilmente nervosa, rigida come un palo contro la parete. Poteva vederlo
anche da lì, bramava quel finale, bramava l’arrivo di William più di ogni altra
cosa al mondo, del resto di loro non le importava assolutamente nulla,
alimentata dall’adrenalina più che dall’ossigeno.
Il
Lupo si prese un attimo per riflettere, arrivando alla conclusione che quel
misero piano faceva acqua da tutte le parti. Per quanto i gemelli fossero
stupidi, non potevano aspettarsi davvero che William si presentasse da solo ad
un invito inaspettato, benché fosse venuto dal suo figlio preferito. Quattro
contro quattro, un incontro alla pari, solo che… Si guardò di nuovo attorno…
Morgan e Little K non avevano remore né scrupoli, probabilmente erano pronti a
scagliarsi in mezzo a qualsiasi mischia... Cara era una bomba ad orologeria
arrivata all’ultimo minuto di conto alla rovescia, un elemento del tutto inaffidabile…
Katrina d’altro canto… Non che avesse una qual si voglia ammirazione per le
abilità della cognata, ma senz’altro l’effetto sorpresa poteva rivelarsi a loro
vantaggio, lasciando il tempo ad uno degli altri tre di sparare un colpo in
più.
Ma
dov’era Mancini in tutto questo? Non era forse sua l’idea di base di far fuori
William e prole? Possibile che lasciasse organizzare ai suoi soldati un piano
tanto scadente? A meno che… Gli balenò nel cervello l’idea che anche Robert
Mancini fosse lì, attorniato dai migliori cecchini, comodamente seduto da
qualche parte ad aspettare l’istante perfetto per la sua entrata in scena.
Ecco, quello sì sarebbe stato un buon piano. Wiliam poteva aspettarsi parecchie
grane, ma non avrebbe mai pensato che fossero i merli a pestargli i piedi.
Doveva
muovere le mani in fretta, dislocando il pollice dalla sua sede naturale per
liberarsi il più velocemente possibile. Il tutto senza fare alcun rumore, restando
ai margini della scena come fino a quel momento.
“Brucia
vero Michaelson?”
Morgan
non mostrava intenzione d’interrompere la sua tortura, suonando i nervi di Elia
in un ritmo veloce e sguaiato, fatto di sorrisetti ammiccanti e strusciatine
alla sua donna. Katrina restava immobile, forte di una ritrovata sicurezza. Era
anche la sua vendetta dopo tutto.
“Sarà
questa l’ultima scena che ricorderai.”
Aggiunse,
passando volgarmente la lingua sulla guancia della donna, lasciandogli
esclusivamente immaginare quante altre confidenze si fosse preso con la sua
consorte. Elia raggiunse il limite, pur essendo un eccellente freddo
calcolatore, il suo orgoglio ribolliva nero e pastoso come catrame. Era pronto
a scagliare ogni sua arma, pronto a massacrare quell’essere ripugnante. Strinse
i pugni e si piegò su sé stesso in un rapido movimento fluido. Dietro di lui la
canna di una pistola si tese tra le sue scapole, tenuta dritta e ferma tra le
mani della giovane Barbie, l’insignificante biondina che suo fratello aveva
ripescato nell’oceano e che lui avrebbe dovuto uccidere immediatamente. C’era
da ammetterlo, tra tante capacità e specialità cui erano stati addestrati,
proprio nessuno aveva speso una parola con loro sul come comportarsi con le
donne.. Che venisse da lì il pessimo gusto nello sceglierle?
Joseph
piantò gli occhi sulla scena. Non c’era certo da affidarsi all’autocontrollo di
Cara, totalmente sul punto di esplodere non avrebbe pensato due volte prima di
fare secco Elia.
“No!”
Le
urlò, bloccando il suo dito sottile sul grilletto. Cara sussultò appena,
spostando la mira dal maggiore verso il Lupo. Tutta la stanza sembrò tremare,
satura di tensione ed eccitazione. Qualcosa doveva succedere lì dentro.
Cara
inspirò profondamente sollevando appena le ciglia. I suoi grandi occhi blu
oceano sembravano quasi riuscire ad attraversarlo da parte a parte. Aveva
condiviso qualcosa con quell’uomo che tanto odiava, singoli momenti in cui
aveva concesso a piccoli frammenti di sé di venire a galla. Ora le sembrava
quasi di riuscire a sentir qualcosa, qualcosa di simile ad un’emozione vera,
una sensazione che non avrebbe potuto decifrare. Joseph Michaelson era l’unica
persona a cui avesse raccontato la sua storia. Aveva sempre pensato che il
mondo sarebbe crollato se avesse confessato a qualcuno di aver sofferto, di
sentire la mancanza dei suoi genitori come una bimba spaurita ed indifesa…
Eppure il mondo girava ancora, incasinato come sempre.
Una
cosa doveva comunque riconoscergliela, aveva avuto abbastanza umanità e
rispetto da non riderle in faccia. Non le aveva risposto nemmeno, nonostante il
prezzo da pagare fosse la sua stessa vita. Sorprendente.
Cara
sistemò il peso del proprio corpo sulle assi del pavimento allargando
leggermente le gambe e decise che avrebbe sparato. Adesso, lì, senza aspettare
William, senza ripensamenti. Non poteva sopportare un secondo in più di
quell’umano sentire, non poteva tollerare l’idea che il suo subconscio stava
suggerendo.. Non l’avrebbe lasciato vivere. No. Riusciva a renderla debole. Non
l’avrebbe lasciato vivere.
Trattenne
il respiro e strinse la pistola.
Joseph
deglutì. Stava succedendo tutto in un secondo, ma sembrava scorrere come un
film al rallentatore. La sua mano destra stava lentamente scivolando fuori dal
triplo nodo, ma le era comunque troppo lontano, non l’avrebbe mai raggiunta in
tempo.
La
ragazzina dell’aereo si era rivelata la peggior scelta della sua vita. L’unica
buona azione della sua esistenza che gli si ritorceva contro. Che ironia. Tutto
per aver ascoltato uno stomaco ed un cuore che credeva ormai morti da tempo,
fino all’attimo in cui Cara Phillis gli aveva attraversato la vista.
Gli
venne da sorridere ed abbassò lo sguardo.
Solo
allora riuscì a notarlo. Il minuscolo puntino rosso luminoso che tremava appena
addosso a Cara, più o meno all’altezza del suo fegato. Un mirino laser.
Calcolò
in una frazione di secondo l’angolazione e la distanza. Veniva da dietro di
lui, dal piccolo lucernaio che lasciava filtrare una lacrima di sole. Qualcuno
li stava osservando, qualcuno la teneva sotto tiro.
Possibile
che William fosse stato tanto rapido e previdente?
Cara
si accorse del repentino cambio d’espressione ed allentò ancora una volta la
presa sul grilletto, seguendo con gli occhi lo sguardo di Joseph rivolto alle
sue budella.
Puntino
rosso. Immediatamente puntò le pupille al lucernaio, facendo gli stessi calcoli
di Joseph in una frazione di secondo.
“Ma
che…”
Non
finì nemmeno la frase. I suoi muscoli scattarono d’istinto e saltò in avanti, finendo
dritta contro la sedia di Joseph, facendolo cadere e liberandolo dell’ultimo
pezzo di corda senza nemmeno accorgersene.
Il
proiettile diretto al suo fegato espose in un mezzo boato e si conficcò nel
muro, scatenando in un secondo la più inaspettata confusione. William? Mancini?
Un’altra trappola?
Qualcosa
si scagliò contro la porta chiusa della stanza, mettendo in seria difficoltà il
legno della sua struttura. Un tonfo e un altro ancora, accompagnato dallo
scricchiolio del rovere. Le facce di Morgan e Little K confermarono la loro estraneità alla
situazione ed Elia non attese un secondo in più prima di approfittarne. Doveva
trattarsi di William, solo lui avrebbe potuto seguirli fin lì.
Concluse
il movimento iniziato poco prima e dall’interno del calzino sinistro tirò fuori
una specie di capsula metallica. Premuto solo un tasto la lanciò a terra e
l’aggeggio iniziò immediatamente a sputare denso fumo grigiastro dall’odore
pungente. Ne aveva sempre un paio con sé, nascoste nei posti più impensati,
pronto a lasciarle esplodere per sparire dalle situazioni scomode come un
vecchio mago o il ninja di un film di serie b.
A
lui quell’odore non dava alcun fastidio, lasciandogli fiato e vista più a lungo
che ai merli. Si scagliò contro Morgan mollandogli un pugno sul naso ben
assestato, mentre con l’altra mano afferrava l’avambraccio di Katrina in una
stretta presa.
Joseph
riuscì finalmente a tirarsi su, la mano sinistra era ancora intrecciata alla
corda, ma poteva bastargliene una per rubare il coltello di mano a Little K e
concludere l’opera silenziosamente iniziata da Nathaniel. Anche l’altro
fratello balzò in piedi, bloccato nelle sue intenzioni dallo spalancarsi della
porta. Tre tizi incappucciati di nero si gettarono nella stanza coi fucili
puntati, accolti dalla nuvola di grigio ed acre.
Non
è così che vestono i soldati di William.
La
rissa fu inevitabile, seppur inscenata nella semi cecità. Elia voleva solo
uscire dì lì il prima possibile, ma uno degli sconosciuti gli bloccava l’uscita
e probabilmente una sola mano era davvero troppo poco per fermare un
kalashnikov. Poco male, non avrebbe mollato Katrina per nessuna possibile
ragione al mondo, nonostante lei continuasse a graffiargli il polso nel
tentativo di liberarsi.
Nathaniel
mise definitivamente a terra Little K, correndo in aiuto del fratello maggiore
preso a disarmare un altro degli imbucati. Quest’ultimo respinse Joseph con un
calcio, allontanandolo abbastanza da potergli puntare il fucile in fronte. Ci
fu un solo secondo di panico, uno appena prima che Cara sparasse il colpo
decisivo con la sua pistola, dritto nella tempia dello sconosciuto.
Joseph
rimase di sasso. Sbaglio o la ragazza dell’aereo gli aveva appena salvato la
vita?
Cara
puntò l’arma verso l’uscita. Le bruciavano gli occhi e non vedeva molto più che
sagome in movimento, tuttavia doveva fuggire in fretta e quella era la sola via
di fuga possibile. Se avesse preso Elia tanto meglio. Se fosse stata Katrina
bhé, comunque non erano mai state troppo amiche.
Sparò
tre colpi, uno dietro l’altro, guardando cadere la silhouette scomposta del suo
ostacolo. La porta fu libera e tutti, senza distinzione di sesso o fazione, si
precipitarono fuori dalla nuvola. Qualcuno riuscì a passare subito, qualcuno
forse no.
Elia
sbatté contro un corpo duro e gelido appena fuori dalla soglia del capannone
19. Katrina smise di tirare verso la parte opposta.
Pochi
secondi per riabituare gli occhi alla luce e gli fu di colpo chiaro chi fossero
quelle persone. Quel maledetto viso spigoloso.
Dietro
le spalle di Elia Katrina allentò la presa sulla mano che la teneva
prigioniera, il suo tocco non più ostile, ma deciso, come se gli si stesse
aggrappando per sfuggire da un nuovo pericolo, ben più temibile di un
matrimonio fallito.
Fu
proprio lei a parlare per prima
“Oteц.”
Sussurrò
tra i denti.
Oteц,
parola russa che sta per “Padre”.