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Autore: SidRevo    13/12/2011    16 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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12.Together again.


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6x12 – Together again.



New York non gli era mai piaciuta davvero.
Fin dal primo giorno in cui vi aveva messo piede, quando era ancora un bimbo di appena sei anni, tutto quel caos assordante, quelle luci che non si assopivano mai e la fretta con cui sembravano vivere i suoi cittadini, l’avevano spaventato.
Non capiva cosa tutti ci trovassero di tanto eccitante e spesso rimpiangeva il suo tranquillo paesino sperduto tra le nevi del Montana, nonostante il fatto che quel posto così caotico gli avesse concesso più occasioni, conoscenze e gratificazioni di quante se ne sarebbe mai aspettate.
Gary era cresciuto nel caos della Grande Mela, ma in tutto quel tempo non si era mai abituato a viverci, né era mai riuscito a sentirla come casa propria.
Tante volte aveva pensato di andarsene, anche se lì era iniziata la sua carriera, e sempre lì era nata la sua fama come agente. Per anni aveva guardato l’azzurro del cielo attraverso le ampie vetrate dell’ufficio, osservando le scie bianche degli aerei e sognando di volare altrove, fino al giorno in cui una figura sottile, candida e dal sorriso luminoso, era piombata nella sua vita e l’aveva rischiarata come un lampo di luce.
Era bello Justin Taylor; era bello in un modo tutto suo, come mai ne aveva visti prima. Attirava le persone con quel suo disarmante sorriso che mozzava il fiato e scaldava il cuore; incantava con una semplice occhiata di quegli occhi blu chiaro, ma profondi come un abisso, mentre quei fili dorati e luminosi dei suoi capelli formavano una cornice perfetta a quella che sarebbe stata la descrizione esatta del volto di un angelo.
L’aveva semplicemente stregato e, da quel giorno, New York non gli era parsa poi più così tanto invivibile. In un modo o nell’altro aveva imparato ad apprezzarla al fianco di quel ragazzino e a godersi di più ogni minuto vissuto in quel caos.
Sorrise, ripensando a quanto la sua vita fosse cambiata dal momento in cui aveva conosciuto Justin, e fece scorrere la rubrica del cellulare fino a quel nome, per poi premere il tasto verde ed avviare la chiamata.
Il classico suono cadenzato echeggiò per circa un minuto, finché uno acuto arrivò alle sue orecchie ed annunciò il collegamento alla segreteria telefonica.
Stranito da quella mancata risposta tentò una seconda volta, componendo però il numero del loft, ma neanche in questa occasione ebbe successo. «E adesso dove si è cacciato?» mormorò allora, aggrottando la fronte e ripercorrendo la rubrica, stavolta alla ricerca di un altro numero: quello di Jace.
Di nuovo quel classico suono, ma in quel caso bastarono pochi squilli per far sì che una voce lo raggiungesse sorprendendolo per il suo tono decisamente agitato: «Proprio tu! Che cazzo vuoi?!»
Gary restò interdetto per qualche secondo. Controllò di non aver sbagliato, dando una veloce occhiata al display, e disse: «Jace?»
«Chi vuoi che sia!»
«Ma che ti prende?» domandò aggrottando la fronte e sforzandosi di mantenersi calmo. «Stavo cercando Justin comunque. Sai dov’è?»
«Sì.» annunciò l’altro duramente. «È in ospedale, a causa tua.»
«Che cazzo stai dicendo?» mormorò, con il fiato reso corto da quella rivelazione.
«Hai capito bene.» lo sentì sibilare, come se avesse pronunciato le parole a denti stretti. «Lo sto raggiungendo adesso e ti consiglio caldamente di stare alla larga. Se solo ti dovessi vedere, potrei non rispondere di me.»
«Dov’è ricoverato?» domandò però l’uomo, ignorandolo completamente.
«Hai sentito quello che ti ho detto?»
«Sì, ma non m’interessa. Sono il suo agente e...»
«Certo.» lo interruppe Jace, con tono acido. «Ciao Gary.» lo salutò poi, quasi con ironia, prima di riattaccargli in faccia senza dargli possibilità di replica.



*'*'*


“Here nor there” – Andy Stochansky



Per la prima volta nella sua vita si sentiva davvero troppo patetico.
Aveva perso il conto di tutte le volte in cui lo avevano definito “checca isterica”, o quelle in cui il suo caro amico Brian lo aveva apostrofato come ridicolo e patetico, appunto; ma per quante volte sentisse arrivare quelle parole alle orecchie, non gli aveva mai dato veramente peso.
Stavolta però era diverso, perché non era una voce esterna ad urlarglielo, ma una interna che martellava nella sua testa e che proprio non poteva ignorare.
Non aveva mai capito come funzionassero tutte quelle stronzate sulla coscienza o sul subconscio, ma era decisamente certo che il suo doveva essersi risvegliato da solo, tutto insieme, e lo stava assillando da giorni.
Una vocina fastidiosa che rimbalzava nella sua mente ogni volta che si trovava a fissare il cellulare con i suoi occhi azzurri accesi di speranza; ogni qual volta che quello stesso stramaledetto telefono emetteva il classico trillo acuto per avvertirlo di una chiamata, ma sul display non compariva mai il nome che avrebbe voluto.
Patetico. Emmett si sentiva un coglione patetico che continuava a sperare in una chiamata da parte di Jace.
Aveva avanzato mille ipotesi nella testa: sapeva bene che il designer si era preso un periodo di vacanze per seguire Justin a Pittsburgh, ma si era ritrovato anche a pensare che non avesse il tempo di chiamarlo perché si era deciso a rientrare prima a lavoro ed era troppo impegnato. Si era anche detto che probabilmente doveva sistemare alcune sue faccende, e che la vita di New York era così caotica da non lasciarlo respirare; ne aveva immaginate davvero tante, ma nessuna di queste era stata abbastanza convincente da togliergli l’idea che, semplicemente, Jace non lo chiamava perché non voleva farlo.
In fondo perché avrebbe dovuto?
Avevano trascorso solo una serata al Babylon insieme, perché si erano trovati per puro caso e perché si erano recati lì da soli. Erano stati bene – o almeno lui lo era stato davvero – ma non c’era un vero motivo per cui poi avrebbero dovuto sentirsi ancora, anche se si erano scambiati i numeri.
Probabilmente l’invito di Jace a New York per una sessione di shopping era stato solo un modo carino di dire, ma in realtà non ci pensava proprio a trascorrere un pomeriggio in sua compagnia; forse quella sera gli era bastata e anche avanzata.
A quel pensiero Emmett emise un sospiro e controllò ancora una volta il suo caro cellulare. Ovviamente, non c’era nessuna chiamata.
«Emmett Honeycutt, stai diventando incredibilmente patetico.» si disse, con tono di rimprovero. «Non ti chiama? Chi se ne frega!» fece per riporlo, quando un’altra idea gli balenò in testa.
Magari Jace stava pensando la stessa identica cosa.
Neanche lui lo aveva mai chiamato in tutto quel tempo, quindi poteva credere che fosse lui a non avere alcun interesse a risentirlo o vederlo.
Arricciò le labbra indeciso e spostò le dita sui tasti fino a raggiungere quel numero in rubrica. Un altro sospiro e premette con decisione il tasto verde, inoltrando la chiamata.
Uno, due, tre...anche più di trenta squilli susseguirono, ma non ricevette alcuna risposta.
Sbuffò sconsolato tornando ad osservare il piccolo display con uno sguardo triste, quando qualcuno lo fece sobbalzare pronunciando il suo nome. «Emmett!» si sentì chiamare da una voce squillante alle sue spalle e, nel momento in cui si decise a voltarsi con una mano sul petto, certo di non essere morto dinfarto, ebbe davvero paura che il suo piccolo cuore non potesse reggere alla sorpresa.
Di tutte le persone a cui la sua mente aveva pensato, quella lì davanti a lui, non era stata neanche calcolata tra le ultime.
E invece era lì; con i suoi capelli lunghi, di un biondo luminoso, gli occhi celesti e così chiari come due acquamarine ed un sorriso appena accennato e decisamente imbarazzato.
«Sierra?» pronunciò Emmett un po turbato e lievemente a disagio. Dopo che Drew aveva fatto il suo coming out non laveva più vista e non aveva saputo più niente di lei. In cuor suo si era sempre sentito un po in colpa, soprattutto perché quella donna era stata una delle poche persone davvero gentili con lui e che non laveva giudicato o disprezzato per il suo essere – così “vistosamente”, sempre a detta del suo caro amico Brian – gay. Si era sentito un vero schifo quando gli aveva parlato del suo Drew e di come fosse il suo eroe, ben sapendo che la stesse tradendo; e si era sentito anche più in colpa, nonostante sapesse che fosse la cosa più giusta per tutti, quando finalmente il famoso giocatore di football si era deciso a rivelare la sua vera identità e a rompere con lei, insieme a tutti i suoi sogni.
Proprio per questo motivo, tirare fuori il coraggio per parlare, insieme alla voce, davanti a quegli occhioni tanto limpidi, fu davvero difficile, ma in qualche modo si sentiva in dovere di dirle qualcosa. «Come...» balbettò. «...come stai?»
«Bene.» affermò lei con convinzione, allargando il suo bel sorriso. «E tu?»
«Un po impegnato ma bene.» le rispose, sollevando uno degli angoli della bocca.
«Ho saputo che come organizzatore di eventi hai fatto davvero tanta strada. Infatti la scorsa settimana ero ad una festa organizzata proprio da te.»
«La festa degli Smiths?»
«Esatto.» confermò lei. «Julia è una mia cara amica e devo dire che è stata molto entusiasta di quello che hai fatto...e pensare che è anche una dai gusti piuttosto difficili!»
«Oh, non dirglielo, ma lho notato.» si portò una mano alla bocca come se stesse per rivelarle un segreto di importanza mondiale e bisbigliò: «Avrà cambiato idea sulle composizioni per almeno venti volte, per non parlare poi dei colori tema che voleva usare. Roba passata di moda da anni!»
Sierra scoppiò a ridere ed Emmett sentì il cuore alleggerirsi un po
. «Hai ragione!» convenne la donna. «Julia è incontentabile e ogni tanto ha delle idee discutibili! Le voglio davvero bene, ma credo che abbia fatto proprio bene a rivolgersi a te per organizzare il suo party! Pensavo di trovarti lì però, ma non ceri.»
«Oh no, avevo un rinfresco per un matrimonio di cui occuparmi.» rispose di getto, ma se ne pentì quando rifletté sulle parole appena pronunciate. Doveva occuparsi anche del matrimonio di Drew e Sierra, ma non era mai avvenuto perché lui non se l
era sentita di aiutarla e perché poco dopo la loro storia era finita. «Ho lasciato una mia fidata collaboratrice a controllare che tutto procedesse per il meglio.» si affrettò ad aggiungere, ma quando finalmente trovò il coraggio di guardarla negli occhi, non trovò traccia di rancore.
«Sta
tranquillo, Emmett.» disse infatti, come se gli avesse appena letto la mente. «È tutto ok. Non ce lho con te...non sono arrabbiata nemmeno con Drew.»
«Sierra, ti giuro che mi dispiace davvero tanto. Non avevo il diritto di rovinare...»
«Non hai rovinato niente, piuttosto hai portato alla luce la verità. La vera rovina sarebbe stata se io e lui ci fossimo davvero sposati. Sarebbe stata una bugia.»
«Ma tu lo amavi...» mormorò lui allora, con un filo di voce.
Sierra annuì. «Sì, è vero...ma amavo qualcuno che non mi amava come credevo. Drew mi voleva davvero bene, questo lo so...ma non poteva amarmi davvero. Ero qualcosa come una cara sorella per lui, non la persona da amare.»
«Lhai più rivisto?»
«Non nell
ultimo periodo. Sai...lui non frequenta più le nostre vecchie amicizie e, a dire il vero, molte di queste ho scoperto essere totalmente false e di convenienza, nel momento in cui ci siamo lasciati.»
«Mi dispiace.» ripeté mesto Emmett e lei gli sorrise.
«A me no, per questo. Almeno ho capito da chi ero circondata. Credo di sapere di chi mi posso fidare adesso.» gli posò una mano sul braccio e si sporse appena per guardarlo dritto negli occhi. «Emmett, stai tranquillo. Io sto bene, davvero.»
Lui abbozzò un sorriso. «Limportante è questo.»
«Tu l
hai rivisto?»
«A parte che sulle riviste, in tv o sui cartelloni pubblicitari?» commentò con tono ironico. «Togliendo quelli, no. Non ci siamo più sentiti né rivisti.»
«Pensavo foste rimasti in contatto visto che...» sollevò le sopracciglia ed arricciò le labbra con una lieve punta di disagio. «...insomma, lha fatto anche per te. Credo che Drew ti amasse.»
«No, non credo.» negò in risposta Emmett, con un sorriso amaro. «Lui era nuovo nel nostro
gaio mondo. Penso mi volesse bene, ma non credo mi amasse davvero. Era come un diciassettenne...un bambino in un parco giochi. Drew non mi poteva amare, doveva fare le sue...esperienze
«Capisco.» annuì lei. «Ma non ti piacerebbe rivederlo?»
«Non lo so.» rispose sinceramente, con una scrollata di spalle. «Penso di sì.»
Sierra restò un po in silenzio; sembrava intenta a pensare qualcosa, poi gli disse: «Senti Emmett, hai impegni per capodanno?»
«Ah...» borbottò lui, colto di sorpresa. «Dovrei vedere l
agenda ma...in che senso?»
«Un
altra mia amica era alla ricerca di un organizzatore di eventi per la sua festa. Julia ovviamente aveva pensato di darle il tuo numero, ma quando ha chiamato ci hanno detto che eri pieno dimpegni fino ai capelli.» gli sorrise apertamente e si lasciò andare ad una breve risata. «So che approfittare della tua conoscenza per scavalcare altri clienti non è carino ma, mi chiedevo se potessi trovare un po di tempo per noi e se potessi anche presenziare alla festa.»
Emmett osservò con attenzione quegli occhi chiari, così ricchi di speranza proprio come li ricordava. Avevano la stessa luminosità di quando gli aveva parlato del suo matrimonio e proprio per questo motivo una lieve fitta lo colpì al petto. Era inutile dire quanto si sentisse in debito e in colpa con lei. «Be
...» iniziò allora e prese il proprio palmare dalla tracolla. «...posso vedere di spostare qualcosa e...» premette con la pennina sullo schermo e concluse: «Posso essere da te in questa settimana per parlare dei primi accorgimenti. Che ne dici di...dopodomani?»
«Sarebbe perfetto!» esclamò lei, prendendogli le mani nelle sue. «Ti ringrazio, Em! Ci stai salvando la vita!»
«Ti prometto che sarà il party più favoloso che Pittsburgh abbia mai visto e, già che ci sei...perché non estendi linvito a tutte quelle arpie che ti hanno voltato le spalle? Le faremo verdi dinvidia!»
Sierra scoppiò a ridere. «Ecco, non saprei. Tu credi che sarà la cosa giusta visto che...be
, ci sarà anche Drew.»
«Drew?!» chiese Emmett, quasi strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Sì, è per questo che ti ho chiesto di presenziare anche al party.»
«Perché lo fai?» le chiese dopo qualche secondo trascorso ad osservarla. «Perché stai facendo questo per me...dopo che io...»
«Non lo so.» replicò lei e a lui parve una risposta sincera. «Io voglio ancora bene a Drew, davvero...e ecco...tu sei sempre stato così gentile con me. So che hai anche rifiutato la mia offerta perché non volevi proseguire con quella farsa. Drew mi ha detto che hai chiuso con lui dopo e io...sì insomma, lho apprezzato. Soprattutto quando ho visto quante persone mi hanno voltato le spalle. E allora ho pensato che...»
«Hai pensato che avrei voluto rivederlo?»
«Qualcosa del genere, sì.» ammise con un po dimbarazzo.
Emmett prese un respirò più profondo e le sorrise.
Non sapeva se era davvero pronto a rivedere Drew, visto che dopo quellultima loro chiacchierata non laveva più incontrato, se non su qualche immagine o su uno schermo. Non sapeva se era il momento per farlo, visto il modo in cui già si sentiva scombussolato per via di Jace, ma era certo che non poteva rimangiarsi la parola data e rinunciare al lavoro. «Organizzerò il party.» le disse quindi. «Ma non assicuro la mia presenza per la festa. Ci penserò su.»
«Ok.» convenne lei comprensiva e gli regalò l
ennesimo sorriso. «Grazie comunque Emmett. Adesso devo proprio andare, ma mi ha fatto davvero piacere incontrarti.»
«Anche a me.» replicò sincero. «A dopodomani, allora.»
Sierra annuì entusiasta e lo salutò con un cenno della mano, prima di andarsene.
Emmett la seguì con lo sguardo, incapace di non pensare a quanta forza dovesse nascondersi in quello scricciolo biondo che era stata capace di incassare il colpo basso ricevuto con dignità e maturità, mentre le sue aspettative venivano infrante sotto il peso di una grande bugia.
Si ritrovò ad invidiarla un po’ per tutta quella energia e, gettando ancora un altro sguardo al display sul cellulare, si decise a riporlo nella borsa e a smetterla con le sue congetture mentali.
Per quanto facesse male, i veri problemi erano altri e lui ne aveva affrontati tanti.
Una chiamata non ricevuta non era la fine del mondo.



*'*'*



Terrorizzato. Completamente terrorizzato.
Dal momento in cui aveva concluso la telefonata con Maria, il terrore puro si era impadronito di lui e a malapena era stato in grado di alzare la mano per chiamare un taxi e indicargli la via da raggiungere.
Per tutto il tragitto che lo separava dal palazzo in cui vivevano sia lui che Justin, Jace aveva avuto il cuore incastrato a metà gola, e quasi si era sentito morire nel momento in cui, una volta raggiunta la destinazione, la stessa Maria gli aveva detto che il 911 era già arrivato a soccorrere Justin e l’aveva trasportato fino all’ospedale più vicino.
Gli sembrava di rivivere un vecchio incubo che mai l’aveva abbandonato davvero. Si sentiva catapultato anni addietro, quando al centro di ogni suo pensiero, ad alimentare le sue paure, c’era la sorte del suo fratellino.
Anche in quell’occasione temeva che il cuore potesse scoppiargli da un momento all’altro, ed anche allora non appena era riuscito a raggiungere l’ospedale, si era gettato in una corsa folle attraverso quei corridoi bianchi, come una trottola impazzita, badando appena alle persone che lo circondavano e che rischiava di travolgere, fino a che non era riuscito a trovare qualcuno in grado di dargli un attimo di pace e qualche notizia.
Dal poco che era riuscito a sentir trapelare dalle persone che lo avevano scortato fino all’ospedale, Justin, qualunque cosa avesse avuto, non sembrava essere in serio pericolo, eppure nonostante quello, proprio non riusciva a calmarsi e a darsi pace.
Diede una fugace occhiata all’entrata sotto di lui, attraverso le ampie vetrate, e si rese conto di come i paparazzi e giornalisti avessero già iniziato ad appostarsi lì davanti in attesa di qualche scoop. Era più che certo che, nel giro di qualche ora, sarebbe diventata una situazione invivibile.
Justin era una stella in ascesa; aveva incuriosito migliaia di persone con la sua arte ed aveva attirato anche di più l’attenzione su di sé proprio per il suo essere così schivo ed impenetrabile.
Nessuno conosceva Justin Taylor come persona. Nessun giornalista era stato in grado di strappare informazioni personali a quel brillante genio che sembrava essere apparso dal nulla tra i grattacieli della Grande Mela; come per magia.
Sapevano che era nativo di Pittsburgh e, ovviamente, non aveva mai nascosto la sua omosessualità, proprio perché ne andava orgoglioso. Aveva confessato di aver frequentato l’istituto delle belle arti della sua città e qualche piccola informazione era saltata fuori circa un – non meglio specificato – “incidente” avuto anni prima.
Ma erano tutte informazioni di poco conto, o inutili frammenti che non portavano da nessuna parte; una biografia totalmente scarna, come se tutto il suo passato, Justin l’avesse abbondantemente avvolto e nascosto con cura dietro un alone di spessa riservatezza.
C’era chi addirittura considerava la sua identità fittizia, che neanche il suo nome fosse reale. Tutti erano attratti da quel ragazzino bello come un angelo, ma schivo ed inafferrabile come l’aria.
Justin parlava di sé solo con i suoi quadri; si faceva conoscere solo con l’arte.
Era come se la sua sola identità fosse solo quella d’artista e che non avesse fatto altro per tutta la vita; come se non avesse un passato.
Tutto questo mistero lo rendeva ancora più interessante e giornalisti e paparazzi, invece di arrendersi davanti a quel muro bianco che trovavano sempre sulla loro strada, non facevano altro che fomentarsi maggiormente, spinti soprattutto dalla gente comune e dai critici d’arte, il cui interesse sembrava allargarsi a macchia d’olio con una velocità impressionante.
Ovunque andasse era un successo, ma era sempre anche un buco nell’acqua per quanto si trattava del saperne di più su di lui. Sembrava che la fama non stesse scalfendo neanche un po’ la facciata dietro cui nascondeva la sua persona; e Jace era più che certo che non ci sarebbero mai riusciti, se solo questo incidente non si fosse verificato.
Si era aperta una piccola falla su quel muro candido, ed era ovvio che nessuno si sarebbe mai lasciato sfuggire lo scoop del momento.
Con uno sbuffo preoccupato, Jace afferrò il cellulare. Fece per premere un tasto, quando si accorse della chiamata persa che neanche aveva sentito.
Nel vedere il nome di Emmett, l’agitazione scemò per un breve istante concedendo alle sue labbra di distendersi in un breve sorriso, prima che la realtà tornasse a colpirlo e a ricordargli che non poteva perdere tempo.
Raggiunse la rubrica, ripromettendosi di richiamarlo più tardi, e scorse veloce al numero di Jennifer. Pochissimi squilli e riuscì a sentire la sua voce. «Pronto?»
«Jen.» la chiamò senza salutarla, cercando di non farsi riprendere dall’agitazione. «Dovresti venire subito a New York?»
«A New York?» gli fece eco lei, confusa.
«Sì, il prima possibile. Si tratta di Justin.»



*'*'*



Quel giorno in ufficio sembrava proprio non voler passare.
Non mancava che qualche minuto all’orario in cui tutti i suoi dipendenti se ne sarebbero tornati a casa, ed il lavoro da sbrigare sembrava accumularsi sempre di più.
Chissà, forse era davvero giunto il momento di assumere altro personale, ma in quel momento era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
La mente di Brian già vagava all’attimo in cui avrebbe riaperto la porta del suo loft e l’avrebbe trovato ancora una volta vuoto e freddo, esattamente come l’aveva lasciato quella stessa mattina, dopo essersi svegliato di soprassalto da un sogno con Justin, che l’aveva reso intrattabile per il resto della giornata.
Prese a giocherellare con il tagliacarta, battendone la punta sulla scrivania, con un ritmo che neanche lui conosceva finché, stanco anche di quello e senza alcuna voglia né intenzione di restarsene lì ad ammuffire ancora, si alzò dalla sedia con un gesto secco e carico di frustrazione ed afferrò il proprio costoso cappotto nero.
Si sistemò la sciarpa al collo ed infilò le ultime cose nella ventiquattrore, insieme a qualche fascicolo che si ripromise di controllare a casa per impiegare il tempo, accompagnato da un bicchiere di Jim Beam, quando la porta in vetro del proprio ufficio venne aperta senza alcun avvertimento.
Solo Cynthia o Ted si azzardavano ad entrare senza bussare – e non pensare che un tempo lo aveva fatto anche Justin, fu impossibile quanto doloroso – perciò non si voltò neanche, aspettando di sentire una delle loro voci.
Quella che però giunse alle sue orecchie, non apparteneva a nessuno di loro due: «Ehi...disturbo?»
Brian si voltò interdetto, certo di conoscere fin troppo bene quel tono, ma anche incredulo dal saperlo lì. «Ciao Blake.» pronunciò in seguito, quando le sue ipotesi si rivelarono esatte, per quanto assurde.
«Ciao Brian.» replicò laltro, passandosi una mano sui corti capelli biondi, per poi accennare ad un sorriso. «Cercavo Teddy.»
«Be...Teddy non cè in questo momento.» rispose lui con tono secco, chiudendo la propria valigetta. Il fatto di essere così sorpreso da quella visita, non era certo servito a cancellare il fastidio ed il senso di frustrazione per il sogno su Justin, né per lavere davanti la presenza di Blake. In fondo non laveva mai nascosto che quel tipo non gli era mai andato troppo a genio, nonostante il fatto che, alla fine dei conti, si era sempre tenuto da parte nel momento in cui Ted aveva deciso di tenerlo nella sua vita. «Posso lasciargli un messaggio da parte tua, o magari mi fai il grosso favore di andartene e non presentare più la tua faccia qui?»
Gli occhi azzurri di Blake si accesero di vera sorpresa. «Cosa? Io...ecco, non credo di aver capito.»
«Ti prego. Non fare lingenuo con me.» sbuffò Brian scocciato, dopo aver sollevato gli occhi verso il soffitto. «Sai Blake, ti preferivo di più quando ti drogavi...almeno non eri tanto ipocrita da mettere su quella faccia da agnellino piccolo e innocente. O forse era il tuo cervello ad essere talmente andato da non permetterti di farlo.»
«Continuo a non capire.»
Il bel pubblicitario piegò le labbra allinterno della bocca e sollevò le sopracciglia, prima di rivolgergli uno dei suoi sorrisi storti e ironici. «Ok, allora te lo spiegherò con paroline molto semplici.» spinse la lingua verso la guancia ed aggiunse: «Non mi sei mai piaciuto, né quando eri un povero drogatello, né adesso che ti spacci per consulente contro le dipendenze.»
«Io non mi spaccio per...»
«Ma non è un mio problema.» lo interruppe, tornando serio e scrollando le spalle. «Alla fine non sono io che ti scopo, ma Ted...il che significa che la scelta è la sua.»
Blake aggrottò la fronte, sempre più confuso da quelle parole. «Infatti, quindi non capisco dove sta il problema.»
«Il problema, caro Blake...sta nel fatto che questa è già la quarta volta che gli fai del male e non ti preoccupi minimamente di prenderlo a bastonate.» snocciolò con noncuranza, allargando le braccia. «Purtroppo per lui, Theodore è un coglione e ti ha perdonato sempre...ed io lho sempre lasciato fare. La vita è la sua, il cuore anche e se gli piace vederlo sbriciolato non mi riguarda affatto.»
«Quindi?»
«Quindi, se sei qui per implorare il suo perdono e ricominciare per lennesima volta...prego, fa pure. Ted tornerà tra poco dalla banca.»
«Bene...»
«Non ho finito.» lo interruppe ancora. «Fa pure, per lultima volta.»
«Come?» domandò laltro, con unespressione stranita.
«Hai capito benissimo.» ribatté Brian. Non lavrebbe mai ammesso, ma da quando Ted aveva confessato loro di come erano andate le cose con Blake, quellex tossico gli era piaciuto sempre meno. «Questa è lultima volta che farò finta di niente...se mai dovesse succedere ancora, se non sarà lui stesso a farlo, sarò io a prenderti a calci in culo e a spedirti il più lontano possibile da qui. Sono stato abbastanza chiaro?» lo fissò negli occhi con durezza ed un cipiglio di puro disprezzo andò a segnargli la fronte. «Per quanto sia idiota, è unidiota che non si merita di soffrire, anche se spesso e molto volentieri avrei voglia di prenderlo a schiaffi per quanto è imbranato o per quanto si rende ridicolo.»
«È il tuo modo di dirmi che gli vuoi bene e che non vuoi che nessuno lo ferisca?» gli chiese l’altro, ancora un po’ interdetto, ma con un sorriso che spingeva sulle sue labbra per nascere.
Brian roteò gli occhi. «È il mio modo per dirti quello che penso di te, e che se mai ci dovesse essere unaltra situazione simile non perderò loccasione di rispedirti da dove sei venuto.»
«Io amo Teddy.»
«Lo vedo...» commentò caustico il pubblicitario, sollevando le sopracciglia.
«È stato solo un momento dinsicurezza e paura...ma sono pentito. Non avrei mai voluto farlo soffrire ancora e adesso sono certo di quello che voglio e di quale sarà la mia risposta.»
Brian scosse la testa e si lasciò sfuggire una breve risata ilare. «Purtroppo per me, so già che il caro Theodore ti riaccoglierà a braccia aperte.» si leccò le labbra e tornò a fissarlo. «Come ti ho detto, lessere un perfetto idiota è parte integrante di lui...quindi sei avvertito Blake, questa è lultima volta che ti lascio fare.»
«Ok.» annuì il consulente debolmente, ma con uno strano senso di gratitudine che gli dilagava dentro. Per quanto Brian Kinney fosse rinomato per essere un terribile stronzo era ovvio che dovesse tenere davvero molto ai pochi che avevano il privilegio di essere considerati suoi veri amici. «Devi volergli proprio bene. Ted sarebbe felice di saperlo.»
«Theodore non verrà mai a saperlo...anche perché non centra proprio niente con quello che dici tu.» ribatté immediatamente, come se fosse stato punto sul vivo. Oltre ad essere un terribile stronzo, era anche rinomato per il suo orgoglio e lego mastodontico. Era ovvio che non avrebbe ammesso una cosa del genere neanche sotto tortura...considerando poi che, per confessare al suo Justin di amarlo, cera voluta addirittura una bomba. «Nonostante tutte le sue infinite stronzate è un ottimo contabile e il suo cervello mi serve integro e funzionante. Non me ne faccio niente di una povera checca depressa per amore.» portò ancora una volta le sue labbra a piegarsi dentro la bocca e scrollò le spalle. «Tutto qui. Se rappresenti un pericolo per la Kinnetik, devo provvedere a toglierti di mezzo.»
«Certo...per la Kinnetik.» annuì Blake, senza credere ad una parola. Quella scusa che aveva messo su su due piedi faceva acqua da tutte le parti. Ormai anche lui aveva imparato a conoscerlo un po. «Vado ad aspettare Ted.» gli disse poi e, prima di uscire, si voltò ancora verso di lui. «Ah Brian...grazie.»
«Non capisco per cosa e neanche minteressa, ma prego.»



*'*'*



Se c’era un motivo per cui Cynthia non aveva mai desiderato figli, contrariamente alla maggior parte delle donne del mondo, era proprio perché non aveva la più pallida idea di come gestirne uno, specie quando questi si trasformavano in degli adolescenti esagitati che scorrazzavano a destra e a manca come uragani in preda alla pazzia.
Non capiva quel loro continuo urlare come squilibrati e non riusciva neanche a spiegarsi perché una ragazzina di circa quindici anni, con i capelli rossi come il fuoco ed un paio di occhi blu chiaro che le erano – per qualche assurdo motivo – fin troppo familiari, se ne stava davanti a lei a gesticolare come se fosse preda di qualche demonio e le chiedeva di vedere Brian.
Brian Kinney, il suo acidissimo ed intrattabile capo che in quel preciso momento sembrava una donna nel bel mezzo del suo ciclo mestruale.
Si era mantenuta a debita distanza dal suo ufficio per quasi tutto il giorno, se non per casi speciali in cui era stata costretta a raggiungerlo, con il terrore che la scaraventasse fuori da una delle finestre; e adesso non aveva alcuna intenzione di rischiare ancora, soprattutto per dar ascolto alle richieste di una ragazzina che era certa di non aver mai visto prima, anche se la sensazione che somigliasse a qualcuno d’importante la stava assillando.
«Devo vedere Brian!» strillò ancora questa, lasciandola basita per la sua energia. «È una cosa importantissima!»
«Tesoro.» tentò nuovamente lei, cercando di salvarla dalla sorte terribile che le si sarebbe sicuramente abbattuta addosso se solo avesse tentato di varcare quella soglia. «Il signor Kinney è molto impegnato in questo momento e non può essere proprio disturbato.»
«Ma io lo conosco bene! Devo vederlo e devo parlargli!»
«Se lo conosci tanto bene, perché non l’hai chiamato direttamente?» indagò, con il suo solito fare da pettegola impicciona.
«L’avrei fatto, se solo rispondesse al suo dannatissimo telefono! È stata mamma a farmi venire qui!»
Nel sentire la parola “mamma” Cynthia si autoconvinse che la ragazzina dovesse essere una dei pargoli di qualche parente che Brian ovviamente detestava, perciò s’impuntò maggiormente sulle sue ragioni, sperando di evitare una Terza Guerra Mondiale. «Mi dispiace ma non...» non fece però in tempo a terminare la frase, che l’arrivo di Ted con la sua faccia sorpresa, le impedì di proseguire.
«Molly?!» la chiamò e la ragazza dai capelli fulvi si voltò immediatamente verso di lui. Se perfino Theodore la conosceva, allora non doveva appartenere alla “prole di Satana”.
«Teddy! Meno male che sei qui!» esclamò lei, andandogli incontro. «Devo parlare subito con Brian. Si tratta di Justin!»
«Justin?» gli fece eco Cynthia, con un’espressione in faccia come quella di chi ha appena visto un fantasma.
«Cynthia...» la chiamò Theodore con un sospiro esasperato, già consapevole di ciò che aveva combinato la sua amata collega. Brian l’avrebbe sbranata nel giro di un secondo. «Questa è Molly, la sorellina di Justin.»
«Oh cazzo.» fu il commento di lei, soprattutto quando quella ragazzina le sorrise e le mostrò un sorriso gemello di quello del fratello.
«Te l’avevo detto che lo conoscevo bene!»
«Potevi dirmi subito di essere la sorella di quell’angelo!» piagnucolò la donna. «La mia fine è vicina!» aggiunse poi con fare melodrammatico, nel momento in cui si ritrovò a pensare a quello che le avrebbe fatto Brian se avesse scoperto che aveva impedito alla sorella del suo grande amore di vederlo.
«Puoi giurarci.» borbottò Ted e fece finta di non vedere l’occhiataccia che gli lanciò la collega subito dopo, mentre accompagnavano Molly fino all’ufficio di Brian.
Cynthia allungò una mano per afferrare la maniglia, quando questa venne aperta dall’altra parte, mostrando un Brian già impeccabilmente pronto per uscire.
«Ma che cazzo...» imprecò il pubblicitario nel trovarsi i tre davanti, finché i suoi occhi elaborarono un’immagine precisa e il suo cervello riconobbe Molly in quella bella cascata di capelli rossi. «E tu che diavolo ci fai qui?!» esclamò aggrottando la fronte. «Non ho proprio il tempo di giocare con te. Tornatene a casa, prima che alla tua cara mammina venga un infarto!»
«Razza di buzzurro! Hai idea della fatica che ho durato per venire fin qui?!» strillò in risposta lei e Cynthia non poté fare a meno di strabuzzare i suoi occhi azzurri nel sentir pronunciare la parola “buzzurro”.
Buzzurro a Brian.
La ragazzina aveva un gran fegato e a quel punto non c’erano più dubbi: era una caratteristica intrinseca nel gene dei Taylor.
Brian assottigliò lo sguardo e restò a fissarla con quella sua classica aria che in genere non prometteva niente di buono. Spinse la lingua all’interno della guancia e sollevò le sopracciglia. «Bene.» commentò asciutto. «E adesso prenditi l’energia che ti resta e va’ a casa.»
«Sai una cosa? Ti facevo più sveglio da quel che mi avevano detto di te!» ribatté lei con sicurezza. «Forse la vecchiaia ti sta facendo perdere colpi.»
«Attenta Molly.» la ammonì Ted, tentando di tamponare i danni. «Stai rischiando grosso...»
La ragazzina però sembrò non prestargli il minimo ascolto e proseguì imperterrita «Secondo te perché sarei qui?»
«Non so.» scrollò le spalle Brian. «Forse per lo stesso motivo per cui mi hai invaso casa nell’ultimo periodo? Perché sei una zecca molto fastidiosa?»
«No!» strillò Molly, isterica. «È per Justin, deficiente!»
L’uomo restò in silenzio per qualche secondo a scrutarla con attenzione. A dire il vero, era comunque sempre Justin il motivo per cui se l’era ritrovata più volte a girovagare nel loft – o meglio, per la mancanza che la piccola Taylor aveva di lui – quindi non capiva cosa ci fosse di diverso in quell’occasione; eppure, nonostante l’ormai familiare espressione da schiaffi che quella ragazzina insolente metteva su durante una delle loro discussioni, in quegli occhi blu – fin troppo simili a quelli di quello che era stato un altro ragazzino insolente nella sua vita – si nascondeva qualcosa. «Che cazzo significa?» domandò allora e lei sembrò calmarsi, prima che quegli stessi occhi si inumidissero di lacrime.
«Ha chiamato Jace da New York.» mormorò con un groppo alla gola. «Justin si è sentito male. L’hanno ricoverato. Io...io non so cos’è successo. Non ho capito.» si soffermò ancora e riuscì a leggere chiaramente in quegli occhi color verde petrolio il terrore vero. «Sapevo solo di dover avvertire te.» concluse poi e, senza pensarci su, si aggrappò con una mano ad i lembi del costoso cappotto, alla ricerca di un appiglio e di conforto.
Intanto Brian non aveva mosso un solo muscolo e sembrava aver smesso anche di respirare. Continuava a fissare Molly con gli occhi sbarrati e le labbra schiuse. Lo sguardo era duro, ma anche carico di paura e, dal momento in cui aveva udito quelle parole, il suo corpo si era rifiutato di rispondere ai suoi comandi.
Justin si è sentito male. L’hanno ricoverato.
Nella sua testa non c
era altro che il pensiero di Justin, più doloroso, martellante e forte di sempre. Aggressivo, quasi soffocante, e lo avvolgeva in una morsa alla gola.
Justin – il
suo Justin – stava male e lui non era lì.
«Molly.» la chiamò Ted, cercando di capire di più. «Cos’è che ha detto Jace? Cosa ha detto precisamente
«Io non lo so.» piagnucolò lei, lasciandosi riprendere nuovamente dal panico. «Ha parlato con mamma e le ha detto di andare a New York. Io sono corsa qui!» lanciò un’occhiata a Brian ed aggiunse: «Dovevo dirtelo! Anche la mamma ha pensato...»
«Cynthia.» mormorò il pubblicitario interrompendo la ragazzina, riscossosi dallo stato catatonico in cui era caduto. Fece per dire altro, ma non ne ebbe il bisogno.
«Prenoto immediatamente un jet privato.» lo anticipò la donna, digitando qualcosa sul suo palmare.
Brian annuì. «Theodore.» chiamò poi, e il contabile accennò ad un sorriso.
«Ci pensiamo noi qui. Se c’è qualcosa ti chiamerò immediatamente. Tu vai.»
L’altro annuì ancora una volta ed attardò lo sguardo sull’amico, come per volergli rivolgere un muto ma sincero ringraziamento. «Chiama tua madre.» comunicò poi con fare telegrafico a Molly. «Dille che tra meno di venti minuti siamo sotto casa a prenderla.»
Lei fece un cenno di affermazione e compose il numero di Jennifer per avvertirla, mentre Cynthia, contrariamente, ripose il palmare nella tasca del bel tailleur e si riavvicinò al proprio capo. «Ti sta già aspettando un’auto qui fuori per portarti fino all’aeroporto. Il jet sarà pronto per quando sarete lì.»
«Ottimo.» replicò lui, per poi afferrare Molly per un braccio e trascinarla all’uscita. Poco prima di varcare la soglia però, si fermò e si voltò appena verso i propri fidati collaboratori. «Grazie.» annunciò, sorprendendoli per poi spostare l’attenzione su Ted. «Ah, Theodore. Nel tuo ufficio c’è Blake che ti aspetta. Non fare cazzate.»
Il contabile restò ad osservarlo sbalordito per quell’ennesima frase, mentre usciva con passo deciso dalla Kinnetik; un po’ per il nome che aveva sentito, ma anche – o meglio, soprattutto – per quell’ultima parte.
Non fare cazzate; gli aveva detto.
E Ted sapeva benissimo che quello era un altro dei discutibili e strani modi di Brian Kinney per incoraggiarlo e fargli capire che, comunque, sarebbe stato dalla sua parte.



*'*'*



Blake girovagava da minuti nell’ufficio di Ted, muovendo gli occhi per quelle mura e avvicinandosi a ciò che lo attirava per osservarlo meglio.
Era la prima volta che vi entrava da solo e nelle altre occasioni in cui era passato a trovarlo, non aveva mai prestato davvero attenzione ai suoi oggetti.
Eppure si compiacque di vedere quanto anche nelle piccole cose e nel suo ordine il contabile sapesse parlare di sé e del suo modo di essere. Gli piaceva vedere una copia della loro adorata Traviata presente anche lì, sull’elegante scrivania di legno scuro, perfettamente pulita; tre semplici cornici posizionate a formare un piccolo ed astratto triangolo su un lato, dove erano immortalati la sua famiglia, i suoi più cari amici e lui stesso...l’uomo che Ted amava e che avrebbe desiderato sposare, se solo non fosse stato tanto sciocco e codardo.
Sospirò sommessamente e sfiorò con le dita la morbida poltrona scura su cui Ted trascorreva chino intere giornate, brillando nel proprio lavoro e compiacendosene, pur lamentandosi puntualmente di quel capo tanto competente quanto arrogante e fascinoso.
Sorrise appena, ripensando ai tanti piccoli momenti in cui avevano riso insieme delle varie disavventure a cui doveva sottoporsi da quando lavorava per la famosa e prestigiosa Kinnetik, ed una piccola fitta di nostalgia andò a colpirgli il cuore.
Era stato uno stupido. Aveva una vita perfetta, una relazione felice...e invece di provare a renderla più salda e accrescerla facendo un passo avanti, si era tirato indietro e l’aveva rovinata, ferendo anche l’uomo di cui era innamorato da anni.
Si maledisse ancora e ancora, e quasi si spaventò per la sorpresa di sentir aprire la porta, troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersi che Ted era già arrivato. Lo fissò in silenzio per qualche secondo ed abbozzò un sorriso. «Ciao.» lo salutò.
«Ciao.» rispose l’altro, senza troppo entusiasmo, richiudendosi alle spalle la porta in vetro. «Brian mi ha detto che mi cercavi.»
«Sì, infatti.» confermò, ripensando alla precedente conversazione con il padrone della Kinnetik. «Sai, non è poi così male anche sul lavoro...forse un po’ più brusco del solito, ma...»
«Blake, io avrei del lavoro da sbrigare. Brian è dovuto partire per New York adesso e non possiamo permetterci di dormire.» affermò, cercando di non assumere un tono troppo duro e di non sembrare troppo scortese. Eppure nascondere il disagio provato dal momento in cui l’aveva rivisto, non era affatto facile; così come non lo era evitare di pensare alla ferita che ancora gli bruciava dentro per quel rifiuto. «Quando il boss è presente è un vero inferno, ma quando non c’è è anche peggio. Mandare avanti la baracca senza di lui non è facile, quindi se devi dirmi qualcosa, fallo.»
Blake abbassò lo sguardo dispiaciuto. «Sì, certo...scusami...hai ragione.»
«Scusami tu, io non volevo sembrare scortese...» si affrettò ad aggiungere Ted. «... è solo che quando si saprà che Brian non c’è si scatenerà il putiferio. Alcuni dei nostri clienti non vogliono neanche provare a trattare se non c’è lui. Temono tutti di non essere serviti nel migliore dei modi.»
«Be’...capisco. Brian è sempre stato una garanzia per loro.»
«Appunto.»
«Non voglio farti perdere altro tempo, quindi sarò breve.» iniziò Blake, sollevando finalmente gli occhi azzurri ad incontrare quelli scuri dell’altro. «Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto Teddy per come ho reagito...mi sono comportato da idiota. Sono scappato proprio quando non avrei dovuto, ma mi sono spaventato.»
«Questo l’ho capito Blake.»
«Davvero?» chiese speranzoso l’uomo.
«Sì, ma mi ha aiutato anche a pensare. Forse non avrei dovuto metterti fretta...» sollevò le spalle e sospirò. «... forse non era davvero il momento giusto, però...»
«Ci ho pensato anch’io Teddy.» lo interruppe Blake, non riuscendo a trattenere un sorriso di sollievo. «Ci ho pensato davvero in tutto questo tempo e ho capito che ho sbagliato e che in realtà dovremmo farlo. Io ti amo e tu ami me, perché non dovremmo?» si avvicinò a lui e gli prese le mani tra le sue. «Scusami, scusami.»
Ted però non riuscì a sorridergli e sciolse quel loro legame, allontanandosi di un passo. «Blake, ascoltami.» disse. «Per una parte di me è un vero sollievo sentirtelo dire, ma...quando ho pensato al perché mi hai risposto così, be’...sono giunto alla conclusione che forse non è davvero la cosa giusta da fare.»
«In che senso?»
«Forse non siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Se lo fossimo stati, sempre forse, tu avresti risposto immediatamente ‘sì’, senza ombra di dubbio...» sospirò ancora e stavolta fu lui ad abbassare lo sguardo. «... il fatto è che ci sono troppi ‘forse’ in mezzo e sono confuso.»
Blake scosse la testa ed aggrottò la fronte. «Teddy, io davvero non ti capisco...»
«Non mi capisco nemmeno io.» ammise il contabile e finalmente trovo la forza di risollevare lo sguardo. Dopo tutte quelle difficoltà che avevano affrontato insieme, glielo doveva; gli doveva il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre pronunciava quelle parole. «Credo di essere io, adesso, ad aver bisogno di tempo per pensare.»



*'*'*



New York.
Fin dal momento in cui aveva sentito quel nome pronunciato da un altoparlante dopo il loro atterraggio, aveva iniziato a provare una sorta di repulsione per quella città.
Per anni ed anni era stata il suo obbiettivo; per giorni aveva desiderato dare il suo addio alla gloriosa Pittsburgh per raggiungere la Grande Mela e costruirsi lì la sua nuova vita, eppure anche quando era stato ad un misero passo dal raggiungere quell’obbiettivo, la sua città natale lo aveva preteso per sé ed incatenato ancora.
Con il passare del tempo poi, New York non era diventata altro che l’ombra di un vecchio desiderio ormai svanito e, per quanto provasse a ricordare a tutti che alla prima occasione se ne sarebbe andato, nessuno ormai gli credeva più; perfino lui, non ci credeva più.
Ed il motivo – inutile negarlo – era che da quando quel ragazzino testardo come un muro era entrato di prepotenza nella sua vita, aveva smesso di provare quel desiderio di scappare; una voglia che lo aveva accompagnato per anni ed anni, ma che – ancora neanche era riuscito a capire come – si era dissolta come neve al sole; come neve riscaldata dal suo raggio di sole.
Si sarebbe fatto tagliare le palle piuttosto che ammetterlo ma, alla fine dei conti, aveva iniziato ad essere davvero felice.
Era felice di svegliarsi al mattino e di trovare quel corpo sottile e niveo addossato contro la sua schiena, con le lenzuola scure attorcigliate alle gambe ed un respiro leggero e regolare che lo cullava, soffiandogli delicatamente sulla pelle; era felice di respirare quel profumo buono e familiare, e lo era anche di più nel momento in cui, sollevando le palpebre rese pesanti dal sonno, scorgeva quella figura angelica beatamente addormentata.
Non l’avrebbe davvero ammesso – non poteva ammetterlo, perché in fondo, era sempre lui: Brian Kinney – ma lo rendeva felice anche solo saperlo vicino, lì per lui; baciarlo e stringerlo a sé o sentire la sua voce e la sua risata.
Semplicemente Brian era felice di avere Justin al suo fianco; una felicità che gli era stata portata via, proprio dal richiamo di quella città che aveva dimenticato.
New York si era presa Justin; e stavolta non solo per lo stupido capriccio di un ragazzino immaturo che cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione.
Justin si era costruito una vita e una vera fama tra quei grattacieli enormi. Aveva iniziato a brillare anche in mezzo a quel caos e si era inevitabilmente allontanato da lui.
«Andrà tutto bene.» la mano di Jennifer si posò delicata sulla sua e il tono dolce e premuroso con cui aveva pronunciato quelle parole, lo distolse per un po’ dai suoi frustranti pensieri. «È sempre mio figlio.»
«Lo so.» replicò lui semplicemente, continuando a fissare la strada dal finestrino, in attesa di poter finalmente scorgere l’ospedale. Restare immobile ed impotente nell’attesa, lo stava facendo impazzire.
«Non dovrebbe mancare molto.» riprese la donna, come se – esattamente come il figlio – avesse imparato a leggergli nel pensiero.
Brian spostò lo sguardo su di lei, trovando sulle sue labbra un sorriso tirato e negli occhi una luce di forte speranza.
Una parte di sé aveva sempre ammirato quella donna risoluta, con forza e grinta da vendere; una vera madre – quella che lui non aveva mai avuto – che sa amare il proprio figlio a prescindere da quello che è.
Si sforzò di abbozzare un sorriso, ma non fu proprio certo che non assomigliasse più ad una smorfia che altro, mentre di quanto i suoi nervi fossero tesi, se ne rese davvero conto nel momento in cui il cellulare di Jen prese a squillare, facendolo sobbalzare.
Il nome di Jace comparve sul display e la donna rispose subito, inserendo poi il vivavoce, così che anche Brian e Molly potessero sentire. «Pronto?»
«Jennifer, ascoltami. Davanti all’entrata dell’ospedale c’è un macello.» l’avvertì con un tono piuttosto infastidito. «Ci sono giornalisti e fotografi ovunque!»
«Quindi? Che facciamo?»
«Fatevi portare sul retro. Vi faranno entrare da un’altra porta.»
«Ok.» confermò lei, con voce più ansiosa. «Ma Justin? Sai qualcosa?»
«No. Non mi dicono niente. Stiamo aspettando tutti te.»
Brian diede una fugace occhiata all’esterno e, tra la confusione delle persone che vagavano ovunque, spesso con una macchina fotografica in mano, riuscì a vedere la sagoma dell’enorme ospedale. «Ci siamo, Jace.» comunicò allora, per poi dare indicazioni all’autista.
«Brian?» il ragazzo sembro sorpreso, poi aggiunse quello che parve essere un vero sospiro di sollievo. «Grazie a Dio, ci sei anche tu! Vi aspetto all’entrata.»
«Ok.» riconfermò Jennifer, chiudendo la chiamata, per poi osservare la quantità esorbitante di giornalisti appostati fuori dall’ospedale.
«Cazzo. Ma quanti sono?»
«Molly!» la riprese immediatamente la madre e Brian non riuscì a trattenere un sorrisetto.
«Scusa mamma.» pronunciò mesta. «Ma hai visto quanti sono?!»
«E non promette niente di buono.» mormorò il pubblicitario, aggrottando la fronte. «Questi stronzi non ci lasceranno respiro!»
«Brian!»
«Scusa mamma Taylor.» si affrettò ad aggiungere, con un altro breve sorriso.
Nel frattempo l’auto riuscì a compiere una gimcana tra le persone e a raggiungere il retro dell’ospedale. Brian s’impose per pagare e, tra i vari borbottii, scesero tutti e tre guardandosi freneticamente intorno per individuare Jace.
«Eccolo!» esclamò poi Molly, indicando una figura che si stava sbracciando sulla porta come un forsennato.
Con una breve corsa lo raggiunsero e lui si dimostrò essere nuovamente sollevato nel constatare con certezza anche della presenza di Brian, come se quello avesse appena cambiato tutte le carte in tavola; come se la stessa salute di Justin fosse legata a lui. «Eccovi! Andiamo, dobbiamo raggiungere un altro padiglione.»
«Insomma vuoi spiegarci che cazzo è successo?» chiese Brian, mentre si avviavano verso il reparto in cui era ricoverato il biondo artista.
«Non lo so neanch’io con certezza. Avevamo litigato e sono uscito di casa. Mi ha chiamato Maria, la nostra colf, per avvertirmi che Justin stava male.»
«Litigato?» indagò Jennifer.
«Ma tu e Justin non l’avete mai fatto. Che è successo?» rincarò Molly.
Jace grugnì rabbioso, ripensando ai motivi della loro diatriba. «È successo che il tuo caro fratello è un coglione che lavorava a ritmi impossibili. Abbiamo litigato per questo e per colpa di...» si soffermò per un attimo e chiamò proprio quel nome nel momento in cui riuscì a scorgerlo davanti all’entrata del reparto. «Gary!»
«Siete arrivati.» replicò il manager, mostrandosi piuttosto nervoso.
«Allora? Saputo qualcosa?»
«Secondo te?» rispose frustrato. «Non dicono niente e, da una parte è una fortuna, visto il casino che si è creato qua sotto, però è davvero snervante.»
Brian si guardò intorno, finché non vide un gruppo di infermiere. Gli si fece più vicino, ignorando le occhiate ammirate che queste avevano iniziato a lanciargli e chiese: «Scusate. La madre di Justin Taylor è arrivata. Possiamo parlare con un il medico?»
«Oh sì, certo!» si affrettò a rispondere una, afferrando la cornetta per comunicare con l’interno del reparto. «Sarà subito da voi.»
«Grazie.» si limitò a rispondere, tornando poi sui suoi passi.
«Ok, forse sei davvero geniale come dicono.» mormorò Molly. «Io non c’avrei mai pensato ad una soluzione tanto semplice.»
«Perché sei una donna e ti lasci prendere dalle crisi di panico.»
«È per caso un commento puramente maschilista quello che hai fatto?»
«Puoi giurarci, mocciosa.»
Jennifer sospirò esasperata. «Piantatela voi due. Siete peggio dei bambini. Quasi mi sembra di avere tre figli, invece di due.» lanciò un’occhiataccia a Brian, e non riuscì a trattenere un lieve ma dolce sorriso per quello che aveva appena detto.
Lui ricambiò quel sorriso, sforzandosi d’ignorare l’ansia per quella dannata attesa che era ritornata per torturarlo. Spostò poi lo sguardo sulla grande porta bianca e finalmente la vide aprirsi, mostrando loro un uomo avvolto nel proprio camice.
«Mi scusi, sono la madre di Justin Taylor.» intervenne immediatamente Jennifer. «Come sta? Posso vederlo?»
«Salve.» rispose questo, con un sorriso cortese. «Justin sta bene, ma ci sono delle cose di cui vorrei parlarle. Mi segua pure.» fece per voltarsi e rientrare nel reparto, ma quando vide che anche gli altri lo stavano seguendo, fu costretto a fermarsi, seppur a malincuore, per rispettare il protocollo. «Aspettate, voi siete?»
«Questa è mia figlia.» rispose Jennifer, passando un braccio sulle spalle di Molly ed il medico annuì, spostando poi la propria attenzione verso i tre uomini.
«Io sono il suo agente.» si presentò Gary.
«Sono un suo amico.» rispose in seguito Jace ma, nel momento in cui si accorse dell’espressione mortificata sul volto dell’uomo, comprese che non gli era ancora concessa l’entrata. «Immagino che questo non mi permetta di entrare, giusto?»
«Non ancora. Almeno fino a quando non verrà portato in reparto, mi spiace.» gli disse, sinceramente dispiaciuto, per poi rivolgersi a Brian. «Lei chi è?»
Lui schiuse le labbra, indeciso sulla sua risposta, ma la voce di Gary lo anticipò sorprendendo i presenti a conoscenza del reale ruolo di Brian nella vita di Justin. «Un amico.»
«Ma che cazzo...» commentò Jace stizzito, e fu subito afferrato per un braccio dal manager.
«Ci può scusare un minuto?» chiese poi, rivolgendosi al medico e allontanandosi di qualche passo per parlare con tutti gli altri.
«Che cazzo ti prende adesso? Cosè questa storia?» lo aggredì immediatamente il designer, visibilmente arrabbiato per quella sua infelice uscita. «Cazzo, ma non lhai ancora riconosciuto?!»
«So benissimo chi è.» gli confermò l’altro in tono pacato. «Ma penso tu abbia visto la quantità di giornalisti appostati là fuori.»
«E con questo?! Brian è...» tentò di protestare, ma Gary lo interruppe.
«Quelli sono qui perché cercano il loro dannatissimo scoop, e è probabile pensino che Justin sia stato ricoverato per aver abusato di qualche droga o schifezze del genere, ma pagherebbero oro per avere una qualsiasi altra notizia riguardante la sua vita.» aggrottò la fronte e si passò una mano tra i capelli scuri. «Credi davvero che i presenti qua dentro se ne starebbero zitti e buoni se venissero a sapere chi è Brian? Non so in che mondo vivi, ma qui siamo a New York, nel caso tu non te ne fossi ancora accorto e la gente non si fa i fatti suoi, specie se si tratta di qualcuno di famoso!»
Jace lo fissò con astio. «E allora? Se sapessero di Brian saprebbero solo la verità! Justin ha bisogno di lui.»
«Justin non ha mai voluto parlare della sua vita privata ed io intendo rispettare questa sua volontà.»
«Non mi pare che sia un segreto che mio figlio sia gay, signor Hudson. Quindi non vedo dove sia il problema.» intervenne Jennifer, già nervosa per la piega che stava prendendo la conversazione.
Gary spostò lo sguardo prima su di lei, per poi farlo saettare ad incontrare quello degli occhi verde scuro del bel pubblicitario.
Non riusciva a capire cosa stesse pensando; sembrava quasi impassibile, ma da quel poco che Justin gli aveva raccontato di lui, era pronto a giurare che stesse macchinando qualcosa.
Prese un lungo respiro e tornò a spiegare la situazione: «Non è questo, ma il fatto che lui non abbia mai accennato alla sua passata relazione con Brian.» tornò a fissare il diretto interessato per sondare la sua reazione e, per un breve attimo, ebbe la chiara impressione che, se non avesse dosato con attenzione le proprie parole, quelluomo bellissimo lavrebbe sicuramente ucciso con le proprie mani. «Se non lha fatto...» esitò per un istante e aggiunse: «...avrà avuto i suoi motivi ed intendo rispettarlo.»
«Che diavolo stai cercando di insinuare?» l
aggredì di nuovo Jace. «Lunico motivo per cui Justin non ha mai voluto parlare di Brian, è perché era preoccupato che questo potesse provocargli grane con il lavoro!» indicò una delle grandi vetrate che dava sullentrata principale e disse: «Temeva che quegli squali là fuori arrivassero fino a Pittsburgh per scavare nel suo passato e stravolgessero sia la vita di Brian che quella delle persone che ama! Temeva che scoprissero troppo sullaggressione e che magari andassero a scavare nella sua relazione con Brian e la descrivessero per quello che non è e non è mai stata! Che fraintendessero tutto! Era terrorizzato dal fatto che tutto questo potesse portare guai alla Kinnetik!» riprese fiato per un attimo e gli puntò il dito contro a monito. «Justin non ha mai voluto nascondere Brian, cercava solo di proteggerlo! Perciò, non ti azzardare mai più a...»
«Jace, lascia stare. Ha ragione.»
La voce profonda di Brian arrivò alle orecchie del designer come una stilettata. Sconvolto da quelle parole si voltò verso di lui e tentò di protestare, non riuscendo a comprenderne il perché: «Ma...»
Il pubblicitario scosse la testa e si passò il pollice sulla fronte. «Se questo è quello che vuole Justin, allora non cè neanche bisogno di discutere.» spostò lo sguardo su Gary e si accigliò, trattenendosi a stento dal piantare un pugno in mezzo a quella faccia. Justin era sempre stato un ingenuo in queste cose, ma Jace caveva visto giusto: il “caro” manager non desiderava un rapporto puramente lavorativo con lartista. «Lo vedrò più tardi, quando tutto sarà più tranquillo. Limportante è che stia bene e...»
«Ma che stai dicendo?» gli domandò Jennifer, guardandolo stupita ed oltraggiata, come se quelle parole l’avessero personalmente ferita. «Puoi scordarti che io finga che tu sia solo un amico di mio figlio! Non posso proprio farlo, non dopo quello che hai fatto per noi.» incrociò le braccia al petto e l’osservò irremovibile. «Non posso farlo, sapendo quello che rappresenti per Justin e soprattutto quanto lui ha bisogno di te! Per quel che mi riguarda quei giornalisti possono tutti andare a farsi fottere!»
«Mamma!» esclamò la figlia, stralunata dalla reazione di Jennifer.
«Scusa tesoro, ma Brian e tuo fratello hanno l’incredibile capacità di esaurire la mia pazienza con le loro decisioni.» gli lanciò l’ennesima occhiata ammonitrice, probabilmente riferendosi alla loro travagliata storia ed al matrimonio mancato, e si voltò verso il medico. «Dottore, lui può entrare.»
«Signora, aspetti...» provò a fermarla Gary, senza alcun risultato. Justin in fondo, da qualcuno doveva aver pur preso la propria determinazione, simile a quella di un treno in corsa.
«È il compagno di mio figlio.» annunciò infatti lei, traboccante d’orgoglio e senza prestare la minima attenzione al resto dei presenti.
«Ah...» mugugnò il medico, stranito dalla vicenda che gli si era appena presentata davanti agli occhi, per poi fare un cenno. «Sì, certo. Seguitemi.»
Brian scosse la testa ed affiancò Jennifer. Osservò la sua espressione determinata e si lasciò sfuggire un sorriso nel riconoscere in quei lineamenti quelli di Justin, e quel suo buffo modo d’imbronciarsi quando gli riserbava una delle sue classiche e famose sparate. «Grazie mamma Taylor.» sussurrò poi, con un tono canzonatorio.
Jennifer gli rivolse un’occhiataccia. «Un giorno poi mi spiegherete perché con voi due deve essere sempre tutto così difficile.»
Il pubblicitario si lasciò andare ad un sorriso più sincero, mentre quella dannata tensione andava ad allentarsi, nonostante il pessimo rapporto che continuava a mantenere con i corridoi bianchi e spogli degli ospedali.
«Ok.» disse il dottore, fermandosi poco prima della porta di una camera con tutti gli avvolgibili abbassati. «Justin è qui e sta ancora dormendo.»
«Adesso può dirci che è successo?» chiese Molly, impaziente.
«Si è trattato di un esaurimento. Justin ha davvero esagerato con il lavoro. Dalle analisi risultano valori sballati e mi chiedo quanto tempo fa abbia fatto un pasto come si deve. È dimagrito e stressato.»
«Ma si rimetterà presto no? Non ci sono conseguenze...»
«Certo, si rimetterà, sempre che riprenda a mangiare regolarmente e si dia anche dei limiti con il lavoro.» rispose l’uomo, facendo tirare finalmente a tutti e tre un vero sospiro di sollievo. «L’unica cosa di cui volevo parlarle e che...ho guardato la cartella clinica di suo figlio e ho visto dell’operazione...»
«Preferirei che dell’aggressione non trapelasse nulla.» lo ammonì Jennifer.
«No, certo che no. Non è certo quello il problema.» rispose lui. «Il fatto è che Justin ha sbattuto la testa cadendo.»
Brian sentì il sangue gelarsi nelle vene ed un vecchio incubo mai realmente sopito riaffiorare nella sua mente. Di nuovo il rumore secco della mazza che lo colpiva tornò a rimbombargli nelle orecchie e dovette respirare più a fondo per calmarsi. «C’è stato qualcosa, dovuto alla caduta?» chiese poi pronunciando quelle parole a fatica.
«Pare di no, almeno dalla T.A.C.» rispose il dottore con professionalità, nonostante avesse scorto perfettamente il terrore che aveva solcato quegli occhi verde scuro. «Ha riportato solo una piccola ferita poco sopra il sopracciglio, ma consiglio di tenerlo comunque d’occhio, soprattutto quando dorme. Dovreste svegliarlo ogni ora almeno per i primi giorni.»
«Teme che non si risvegli?» si azzardò a chiedere Jennifer.
«No, no. Sembra stare bene, ma è solo una procedura di sicurezza. Non voglio fare dell’allarmismo, è solo una precauzione.»
«Ok, non c’è problema.» rispose Brian. «Possiamo vederlo adesso?»
«Sì, certamente.»
«Vai tu intanto.» gli disse Jennifer, decisa a lasciagli un po’ di tempo da solo con il figlio. Ormai aveva imparato a conoscere Brian ed era certa che ne avesse davvero bisogno. «Io devo parlare ancora un attimo con il dottore per la dimissione.»
Lui le rivolse prima uno sguardo sorpreso, poi comprese il motivo del suo gesto e la guardò con sincera gratitudine, prima di stringere la mano sulla maniglia della porta.


“Fix you” – Coldplay


Per qualche secondo la sua mente viaggiò ancora indietro, ricordando in un flash un vecchio passato in cui era rimasto a vegliare su quel raggio di sole ogni notte, senza avere mai neanche tentato di varcare la soglia che li separava, fermato dal suo orgoglio e dalla sciocca convinzione di non aver bisogno di nessuno.
All’epoca, anche se sentiva chiaramente la presenza di quello squarcio doloroso al centro del petto, mai avrebbe ammesso quanto ci fosse di Justin in quella ferita.
Le cose però erano cambiate, senza che lui potesse davvero controllarle. Gli erano sfuggite di mano, e da uno stizzito “Che cazzo ci fai qui” era passato ad un “Dove cazzo sei”; dallo scacciarlo via e dirgli che lui non credeva nell’amore, era arrivato a sussurrargli di amarlo e di volerlo sposare, fino a sacrificare tutto per lui, pur di vederlo felice e senza alcun personale rimpianto.
Dalla prima volta in cui aveva sostato dall’altra parte di un vetro d’ospedale erano cambiate così tante cose da non riuscire neanche a tenerne il conto, e solo una costante era rimasta immutata: Justin.
Adesso però a fermarlo non c’erano più le sue sciocche questioni d’orgoglio, né i suoi dogmi. Non aveva paura di ammettere di tenere a qualcuno; non aveva paura di ammettere che Justin contava più di qualsiasi altra cosa...
Spinse su quella maniglia con decisione e mosse il primo passo oltre la soglia.
Il cuore prese a battergli furioso all’altezza della gola, prima di esser inghiottito da questa, nel preciso momento in cui i suoi occhi si posarono sulla figura minuta che giaceva sul letto, avvolta dal bianco candido delle lenzuola.
I lunghi capelli biondi, spanti casualmente ed arruffati sul cuscino, risaltavano come tanti piccoli raggi; una corona dorata e luminosa sotto cui la pelle di Justin sembrava esser fatta di pura porcellana. Le morbide palpebre che Brian amava baciare, ancora chiuse, terminavano nelle lunghe ciglia chiare che ombreggiavano la piccola porzione di pelle sotto gli occhi, già resa lievemente più scura dai segni della stanchezza, mentre le labbra dischiuse e rilassate, svettavano nel loro roseo colorito.
Justin dormiva beato, muovendosi appena nel petto per il ritmico e lento respiro, e per un attimo ancora a Brian tornò in mente quel ragazzino appena diciottenne che già era stato costretto a fare i conti con la morte ed a scamparne per un puro miracolo.
Della determinazione e della forza che scaturiva da quegli occhi blu chiaro non c’era alcuna traccia; si mostrava solo un ragazzo indifeso, bello come un angelo, e mai come allora Brian sentì dentro di sé il desiderio di proteggerlo.
Certo, l’aveva fatto innumerevoli volte – alcune anche senza rendersene conto – e gli aveva insegnato tanto per affrontare la vita, ma a volte tendeva a dimenticare che quello davanti a lui non era che un ragazzo di ventitré anni e non un uomo. Dimenticava la sua età per la maturità che aveva sempre dimostrato; si scordava quanto in realtà potesse aver bisogno di un aiuto, solo perché continuava a voler risolvere tutto da solo e a non chiedere mai niente a nessuno...
E anche in quell’occasione, l’unica vera motivazione per cui si era ridotto così, era proprio perché, come al solito, aveva voluto strafare.
Justin era sempre stato più maturo della sua età sì, ma anche lui aveva i suoi stupidi colpi di testa; anche lui prendeva decisioni sciocche, mosse dall’istinto e, anche lui aveva bisogno di qualcuno che sapesse tenergli testa e a cui potesse anche appoggiarsi e sostenersi.
Justin sapeva camminare da solo, aveva una strada da percorrere ed era anche perfettamente indipendente, proprio come lo era sempre stato lui, e questo lo rendeva più orgoglioso che mai...ma come tutti, aveva bisogno di qualcuno con cui poter gioire dei propri successi; qualcuno di cui gli importasse davvero, una persona per cui rientrare a casa con il sorriso...
Justin, semplicemente, aveva bisogno di Brian al suo fianco, non come persona a cui riferirsi o da idolatrare, ma come complemento della sua vita. Due pezzi che riescono anche a stare in piedi da soli, terribilmente diversi, ma allo stesso tempo componenti perfetti di un’unica entità.
E questa consapevolezza fu come una scarica al cervello per Brian.
L’aver finalmente capito che la sua presenza non avrebbe davvero interferito con la vita di Justin, ma ne sarebbe stato solo il pezzo mancante; esattamente come lo stesso Justin lo sarebbe stato per lui.
Con un sospiro si avvicinò a letto, maledicendosi per come quelle guance morbide e chiare si erano scavate per via della stanchezza o per quel cerotto bianco posto sul sopracciglio a nasconderne la ferita; e non riuscì a trattenere la propria mano quando questa si mosse per sfiorare l’artista in una carezza.
Le punte delle sue dita sfiorarono l’epidermide lattea, tracciando il contorno della guancia, risalendo per la tempia fino a raggiungere una di quelle ciocche dorate che lasciò scivolare distrattamente tra l’indice ed il pollice.
Fece per ripetere il gesto, quando vide il petto di Justin sollevarsi in un respiro un po’ più profondo dei precedenti, come se i suoi polmoni avessero percepito la sua presenza e cercassero di riempirsi del suo profumo.
Le palpebre tremarono per qualche secondo, prima di sollevarsi e mostrare le due perle blu che fino ad allora avevano nascosto. Brian sorrise nel momento in cui queste s’incontrarono con il suo sguardo ed anche un altro lieve sorriso andò ad increspare le labbra morbide dell’artista.
«Ehi...» mormorò il pubblicitario, passando una mano tra i capelli di Justin.
«Sto sognando?» gli rispose il ragazzo, spostando appena la testa per godere di più del tocco dell’uomo.
«No.» lo rassicurò Brian. «Sei sveglio e sei un perfetto coglione.»
Gli occhi blu chiaro, ancora appannati dal sonno, si spostarono lentamente per tutta la stanza. «Dove...dove sono?» domandò poi, inarcando le ciglia chiare.
«In ospedale. Hai avuto un esaurimento.»
«Ah...» si limitò a commentare, ancora confuso. «Non ricordo niente. Solo che...che stavo dipingendo, credo.»
«Forse avresti fatto meglio a mangiare qualcosa, invece che giocare con i pennelli, non credi?» disse in tono retorico ed ironico Brian; e a Justin non sfuggì che si trattava di un rimprovero.
«Mi dispiace.»
«Resti comunque un perfetto idiota.»
«Lo so.»
Brian avvicinò una delle sedie al letto e si tolse il cappotto. Si sedette il più vicino possibile e prese a giocherellare distrattamente con una delle mani di Justin; così piccole al confronto con le sue, ma le cui sottili dita sembravano esser state fatte apposta per potersi infilare tra le sue. «Come ti senti?» domandò poi, cercando di nascondere almeno un po’ l’apprensione dietro un tono disinvolto.
«Indolenzito e sfinito.» rispose Justin, dopo averci riflettuto un attimo.
Brian sorrise sornione e sollevò le sopracciglia. «Allora non c’è da preoccuparsi, dovresti esserci ormai abituato da anni.»
Le labbra dell’artista si piegarono in un sorriso, divertite dal riferimento dell’uomo alle loro ormai famose e sfiancanti performance tra le lenzuola; poi socchiuse le palpebre e voltò la testa verso il pubblicitario. «Sai? Quando ti ho visto ho creduto davvero fosse solo un sogno.» si leccò le labbra e sorrise ancora. «‘Ci vediamo nei tuoi sogni’...ricordi?»
«Qualcosa di vago.» borbottò Brian, pur ridacchiando di quel vecchio aneddoto; se solo all’epoca avesse potuto immaginare quanto si fosse sbagliato...
«Sicuro che non sto sognando?»
«Raggio di sole, non è che l’ospedale ti trasforma in una lesbica paranoica?»
Justin rise. «Ok, non è un sogno.»
«No, altrimenti non saremmo certo in una stanza che puzza di disinfettante, ma a scopare su qualche spiaggia caraibica.»
«Sempre così romantico.» commentò l’artista in tono canzonatorio, continuando a tenere gli occhi chiusi e quel lieve sorriso sulle labbra.
«Faccio del mio meglio.»
Continuarono a guardarsi – occhi verde scuro incantati da quelli blu – in un silenzio perfetto che non aveva minimamente il sapore d’imbarazzo, ma quello di un’intimità rassicurante, come se avessero improvvisamente creato una bolla tra loro ed il resto del mondo; come se si fossero rifugiati in un mondo fatto apposta per loro, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerli.
Si sorrisero vicendevolmente, entrambi consapevoli di quella realtà, e fu proprio per quella bellissima sensazione ritrovata che Brian si decise a parlare: «Ti voglio a casa con me.»
Sei semplici parole, pronunciate piano, ma che parvero rimbombare nella stanza come un eco infinito; una frase che alle orecchie di Justin sembrò una melodia netta, breve, ma bellissima, tanto da togliergli il fiato e lasciarlo incredulo per un breve istante.
Credette perfino di non aver sentito bene; che quello fosse davvero solo un sogno, ma nell’intensità con cui quegli occhi verde petrolio lo osservavano, capì di non essersi sbagliato.
Non era solo un’illusione. Brian aveva finalmente pronunciato quelle parole che per mesi e mesi aveva sperato di sentirgli dire, così tanto da non contarci più.
Avevano finito per trasformarsi in un desiderio vecchio e sbiadito, troppo lontano dalla realtà e troppo doloroso per essere ricordato; un po’ come quel loro mancato matrimonio.
Qualcosa però si era smosso nell’ostinato Brian Kinney; qualcosa che gli aveva improvvisamente ricordato che si vive una volta sola e che di rimpianti è meglio averne pochi o non averne affatto, soprattutto se a causa di convinzioni che non hanno né capo né coda.
Qualcosa gli aveva ricordato che qualche volta si deve reclamare per sé quel che si vuole; che può esserci la necessità di un minuscolo gesto egoistico, pur di esser felici; e Justin sapeva che quel qualcosa era la vecchia paura di perderlo, che era tornata a fargli visita e a dargli finalmente una scrollata. «Devi sempre aspettare che succeda qualcosa per dirmi che mi vuoi con te?» gli domandò allora con un sorriso.
Prima l’aggressione, poi l’arrivo di Ethan, il cancro, perfino una bomba ed infine il suo esaurimento con conseguente ricovero.
Brian era sempre stato un perfetto, inguaribile incapace con i sentimenti e questo non sarebbe mai cambiato neanche tra miliardi di anni o mille vite. C’era sempre voluto molto più di una bella scossa per smuoverlo.
«‘Certe cose non cambiano mai’.» lo citò infatti il pubblicitario con un sorrisetto. «L’hai detto anche tu, no?»
«Già, ma perfino i gatti hanno solo sette vite...e io sono già un bel po’ avanti con i jolly consumati.» emise un falso sospiro sconsolato e sollevò gli occhi. «Finirò per crepare bello e giovane come ogni artista che si rispetti.»
Brian gli tirò una lieve pacca sulla fronte. «Ma sta’ zitto, James Dean dei poveri
«Sei solo invidioso perché tu ormai non puoi più morire giovane
«Dì la verità, stronzetto, vuoi per caso consumare tutti insieme i jolly rimasti?»
Justin gli sorrise, mostrandogliene finalmente uno di quelli luminosi che gli era valso il soprannome affibbiatogli anni prima da Debbie. «Sono troppo stanco per discutere con te.»
«Allora riposati.» rispose Brian, accarezzandogli ancora una volta la fronte chiara. «Mi servi rigenerato per quando torneremo a casa. Ho intenzione di scoparti come si deve.»
Justin restò ad osservarlo ancora per un po’. Le palpebre si stavano facendo sempre più pesanti, ma non voleva chiuderle e addormentarsi. Brian gli aveva detto di volerlo con sé, ma era ancora troppo spaventato.
Una minuscola parte di sé continuava a temere che, se si fosse assopito anche solo per qualche secondo, tutto quello che si erano detti sarebbe svanito. «Non ho sonno. Non voglio dormire.» pronunciò allora, dandosi mentalmente dell’idiota per come la sua voce era apparsa incredibilmente infantile.
Brian però gli sorrise ed accostò appena le proprie labbra a quelle di Justin, in un dolce bacio, prima di sfiorare la punta del naso contro la sua. «Dormi.» gli ordinò poi. «Non vado da nessuna parte.» e a quel punto il piccolo artista, chiudendo gli occhi lentamente e increspando le labbra piene in un sorriso beato, comprese che l’uomo di cui era innamorato l’aveva capito ancora una volta, senza il bisogno di parole.
«Torniamo a casa.» fece poi in tempo a sussurrare, prima che il sonno arrivasse ad avvolgerlo nel suo abbraccio. 




"...Lights will guide you home,
and ignite your bones,
and i will try to fix you."



*** 

Note finali

No, come vedete non sono morta...almeno non per ora! XD Tra un po' non so se sarà lo stesso, visto che ho degli esami da dare, ma sorvoliamo! 
Mi dispiace aver tardato tanto, ma sono stata davvero tanto incasinata in questo periodo! Perdonatemi! :( 
Purtroppo sono ancora di fretta, quindi dovrò salutarvi frettolosamente...non so se questo capitolo vi è piaciuto ma, è un po' come se fosse la "fine" della prima parte di questa ipotetica sesta stagione. 
Come vedete Justin torna a casa, questo però, come insegnano i cari CowLip non è sempre sinonimo di tranquillità...e poi c'è ancora la situazione di Ted e Blake da risolvere, Emmett con Jace, ma anche un ipotetico ritorno di Drew ad "aleggiare" così come quello di "Auerbach" per Mel e Linz, che a loro volta sono ancora a Toronto con Gus e JR a cui badare; Gary non è ancora sparito e con lui neanche Brandon, per non parlare di Hunter o delle sue "ziette" - come le chiamerebbe Brian - Michael e Ben. 
Insomma, ne ho anche fin troppe da risolvere, quindi altrettante da scrivere
Intanto però spero vi siate godute questo capitolo, e spero di poter far arrivare il prossimo tra Natale e Capodanno, visto che parte del prossimo parlerà anche del 25 Dicembre
Farfugliamenti a parte credo sia l'ora di passare alla parte più importante di tutte: 
RINGRAZIAMENTI!
Un gigantesco grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere, a chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto grazie a: mindyxx, SusyJM, electra23, Thiliol, Clara_88, giacale, silvergirl, EmmaAlica79, Katie88, Gojyina e Erikioba per aver recensito! :) Grazie davvero

Detto questo devo proprio salutarvi e scappare! 
Spero davvero vi sia piaciuto anche questo capitolo! :) 

Un bacione e a presto. 
Veronica.

   
 
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