New York non gli
era mai piaciuta davvero.
Fin dal primo
giorno in cui vi aveva messo piede, quando era ancora un bimbo di
appena sei anni, tutto quel caos assordante, quelle luci che non si
assopivano mai e la fretta con cui sembravano vivere i suoi
cittadini, l’avevano spaventato.
Non capiva cosa
tutti ci trovassero di tanto eccitante e spesso rimpiangeva il suo
tranquillo paesino sperduto tra le nevi del Montana, nonostante il
fatto che quel posto così caotico gli avesse concesso più
occasioni, conoscenze e gratificazioni di quante se ne sarebbe mai
aspettate.
Gary era cresciuto
nel caos della Grande Mela, ma in tutto quel tempo non si era mai
abituato a viverci, né era mai riuscito a sentirla come casa
propria.
Tante volte aveva
pensato di andarsene, anche se lì era iniziata la sua carriera, e
sempre lì era nata la sua fama come agente. Per anni aveva guardato
l’azzurro del cielo attraverso le ampie vetrate dell’ufficio,
osservando le scie bianche degli aerei e sognando di volare altrove,
fino al giorno in cui una figura sottile, candida e dal sorriso
luminoso, era piombata nella sua vita e l’aveva rischiarata come un
lampo di luce.
Era bello Justin
Taylor; era bello in un modo tutto suo, come mai ne aveva visti
prima. Attirava le persone con quel suo disarmante sorriso che
mozzava il fiato e scaldava il cuore; incantava con una semplice
occhiata di quegli occhi blu chiaro, ma profondi come un abisso,
mentre quei fili dorati e luminosi dei suoi capelli formavano una
cornice perfetta a quella che sarebbe stata la descrizione esatta del
volto di un angelo.
L’aveva
semplicemente stregato e, da quel giorno, New York non gli era parsa
poi più così tanto invivibile. In un modo o nell’altro aveva
imparato ad apprezzarla al fianco di quel ragazzino e a godersi di
più ogni minuto vissuto in quel caos.
Sorrise,
ripensando a quanto la sua vita fosse cambiata dal momento in cui
aveva conosciuto Justin, e fece scorrere la rubrica del cellulare
fino a quel nome, per poi premere il tasto verde ed avviare la
chiamata.
Il classico suono
cadenzato echeggiò per circa un minuto, finché uno acuto arrivò
alle sue orecchie ed annunciò il collegamento alla segreteria
telefonica.
Stranito da quella
mancata risposta tentò una seconda volta, componendo però il numero
del loft, ma neanche in questa occasione ebbe successo. «E adesso
dove si è cacciato?» mormorò allora, aggrottando la fronte e
ripercorrendo la rubrica, stavolta alla ricerca di un altro numero:
quello di Jace.
Di nuovo quel
classico suono, ma in quel caso bastarono pochi squilli per far sì
che una voce lo raggiungesse sorprendendolo per il suo tono
decisamente agitato: «Proprio tu! Che cazzo vuoi?!»
Gary restò
interdetto per qualche secondo. Controllò di non aver sbagliato,
dando una veloce occhiata al display, e disse: «Jace?»
«Chi vuoi che
sia!»
«Ma che ti
prende?» domandò aggrottando la fronte e sforzandosi di mantenersi
calmo. «Stavo cercando Justin comunque. Sai dov’è?»
«Sì.» annunciò
l’altro duramente. «È in ospedale, a causa tua.»
«Che cazzo stai
dicendo?» mormorò, con il fiato reso corto da quella rivelazione.
«Hai capito
bene.» lo sentì sibilare, come se avesse pronunciato le parole a
denti stretti. «Lo sto raggiungendo adesso e ti consiglio caldamente
di stare alla larga. Se solo ti dovessi vedere, potrei non rispondere
di me.»
«Dov’è
ricoverato?» domandò però l’uomo, ignorandolo completamente.
«Hai sentito
quello che ti ho detto?»
«Sì, ma non
m’interessa. Sono il suo agente e...»
«Certo.» lo
interruppe Jace, con tono acido. «Ciao Gary.» lo salutò poi, quasi
con ironia, prima di riattaccargli in faccia senza dargli possibilità
di replica.
*'*'*
“Here nor
there” – Andy Stochansky
Per la prima volta
nella sua vita si sentiva davvero troppo patetico.
Aveva perso il
conto di tutte le volte in cui lo avevano definito “checca
isterica”, o quelle in cui il suo caro amico Brian lo aveva
apostrofato come ridicolo e patetico, appunto; ma per quante
volte sentisse arrivare quelle parole alle orecchie, non gli aveva
mai dato veramente peso.
Stavolta però era
diverso, perché non era una voce esterna ad urlarglielo, ma una
interna che martellava nella sua testa e che proprio non poteva
ignorare.
Non aveva mai
capito come funzionassero tutte quelle stronzate sulla coscienza o
sul subconscio, ma era decisamente certo che il suo doveva essersi
risvegliato da solo, tutto insieme, e lo stava assillando da giorni.
Una vocina
fastidiosa che rimbalzava nella sua mente ogni volta che si trovava a
fissare il cellulare con i suoi occhi azzurri accesi di speranza;
ogni qual volta che quello stesso stramaledetto telefono emetteva il
classico trillo acuto per avvertirlo di una chiamata, ma sul display
non compariva mai il nome che avrebbe voluto.
Patetico.
Emmett si sentiva un coglione patetico che continuava a sperare in
una chiamata da parte di Jace.
Aveva avanzato
mille ipotesi nella testa: sapeva bene che il designer si era preso
un periodo di vacanze per seguire Justin a Pittsburgh, ma si era
ritrovato anche a pensare che non avesse il tempo di chiamarlo perché
si era deciso a rientrare prima a lavoro ed era troppo impegnato. Si
era anche detto che probabilmente doveva sistemare alcune sue
faccende, e che la vita di New York era così caotica da non
lasciarlo respirare; ne aveva immaginate davvero tante, ma nessuna di
queste era stata abbastanza convincente da togliergli l’idea che,
semplicemente, Jace non lo chiamava perché non voleva farlo.
In fondo perché
avrebbe dovuto?
Avevano trascorso
solo una serata al Babylon insieme, perché si erano trovati per puro
caso e perché si erano recati lì da soli. Erano stati bene – o
almeno lui lo era stato davvero – ma non c’era un vero motivo per
cui poi avrebbero dovuto sentirsi ancora, anche se si erano scambiati
i numeri.
Probabilmente
l’invito di Jace a New York per una sessione di shopping era stato
solo un modo carino di dire, ma in realtà non ci pensava proprio a
trascorrere un pomeriggio in sua compagnia; forse quella sera gli era
bastata e anche avanzata.
A quel pensiero
Emmett emise un sospiro e controllò ancora una volta il suo caro
cellulare. Ovviamente, non c’era nessuna chiamata.
«Emmett
Honeycutt, stai diventando incredibilmente patetico.» si disse, con
tono di rimprovero. «Non ti chiama? Chi se ne frega!» fece per
riporlo, quando un’altra idea gli balenò in testa.
Magari Jace stava
pensando la stessa identica cosa.
Neanche lui
lo aveva mai chiamato in tutto quel tempo, quindi poteva credere che
fosse lui a non avere alcun interesse a risentirlo o vederlo.
Arricciò le
labbra indeciso e spostò le dita sui tasti fino a raggiungere quel
numero in rubrica. Un
altro sospiro e premette con decisione il tasto verde, inoltrando la
chiamata.
Uno, due,
tre...anche più di trenta squilli susseguirono, ma non ricevette
alcuna risposta.
Sbuffò
sconsolato tornando ad osservare il piccolo display con uno sguardo
triste, quando qualcuno lo fece sobbalzare pronunciando il suo nome.
«Emmett!» si sentì chiamare da una voce squillante alle sue spalle
e, nel momento in cui si decise a voltarsi con una mano sul petto,
certo di non essere morto d’infarto,
ebbe davvero paura che il suo piccolo cuore non potesse reggere alla
sorpresa.
Di tutte le
persone a cui la sua mente aveva pensato, quella lì davanti a lui,
non era stata neanche calcolata tra le ultime.
E invece era lì;
con i suoi capelli lunghi, di un biondo luminoso, gli occhi celesti e
così chiari come due acquamarine ed un sorriso appena accennato e
decisamente imbarazzato.
«Sierra?»
pronunciò Emmett un po’
turbato e lievemente a disagio. Dopo che Drew aveva fatto il suo
coming out
non l’aveva
più vista e non aveva saputo più niente di lei. In cuor suo si era
sempre sentito un po’
in colpa, soprattutto perché quella donna era stata una delle poche
persone davvero gentili con lui e che non l’aveva
giudicato o disprezzato per il suo essere – così “vistosamente”,
sempre a detta del suo caro amico Brian – gay. Si era sentito un
vero schifo quando gli aveva parlato del suo
Drew e di come fosse il suo eroe, ben sapendo che la stesse tradendo;
e si era sentito anche più in colpa, nonostante sapesse che fosse la
cosa più giusta per tutti, quando finalmente il famoso giocatore di
football si era deciso a rivelare la sua vera identità e a rompere
con lei, insieme a tutti i suoi sogni.
Proprio per questo
motivo, tirare fuori il coraggio per parlare, insieme alla voce,
davanti a quegli occhioni tanto limpidi, fu davvero difficile, ma in
qualche modo si sentiva in dovere di dirle qualcosa. «Come...»
balbettò. «...come stai?»
«Bene.» affermò
lei con convinzione, allargando il suo bel sorriso. «E tu?»
«Un
po’
impegnato ma bene.» le rispose, sollevando uno degli angoli della
bocca.
«Ho saputo che
come organizzatore di eventi hai fatto davvero tanta strada. Infatti
la scorsa settimana ero ad una festa organizzata proprio da te.»
«La festa degli
Smiths?»
«Esatto.»
confermò lei. «Julia è una mia cara amica e devo dire che è stata
molto entusiasta di quello che hai fatto...e pensare che è anche una
dai gusti piuttosto difficili!»
«Oh,
non dirglielo, ma l’ho
notato.» si portò una mano alla bocca come se stesse per rivelarle
un segreto di importanza mondiale e bisbigliò: «Avrà cambiato idea
sulle composizioni per almeno venti volte, per non parlare poi dei
colori tema che voleva usare. Roba passata di moda da anni!»
Sierra
scoppiò a ridere ed Emmett sentì il cuore alleggerirsi un po’.
«Hai ragione!» convenne la donna. «Julia è incontentabile e ogni
tanto ha delle idee discutibili! Le voglio davvero bene, ma credo che
abbia fatto proprio bene a rivolgersi a te per organizzare il suo
party! Pensavo di trovarti lì però, ma non c’eri.»
«Oh
no, avevo un rinfresco per un matrimonio di cui occuparmi.» rispose
di getto, ma se ne pentì quando rifletté sulle parole appena
pronunciate. Doveva occuparsi anche del matrimonio di Drew e Sierra,
ma non era mai avvenuto perché lui non se l’era
sentita di aiutarla e perché poco dopo la loro storia era finita.
«Ho lasciato una mia fidata collaboratrice a controllare che tutto
procedesse per il meglio.» si affrettò ad aggiungere, ma quando
finalmente trovò il coraggio di guardarla negli occhi, non trovò
traccia di rancore.
«Sta’
tranquillo, Emmett.» disse infatti, come se gli avesse appena letto
la mente. «È tutto ok. Non ce l’ho
con te...non sono arrabbiata nemmeno con Drew.»
«Sierra, ti giuro
che mi dispiace davvero tanto. Non avevo il diritto di rovinare...»
«Non hai rovinato
niente, piuttosto hai portato alla luce la verità. La vera rovina
sarebbe stata se io e lui ci fossimo davvero sposati. Sarebbe stata
una bugia.»
«Ma tu lo
amavi...» mormorò lui allora, con un filo di voce.
Sierra annuì.
«Sì, è vero...ma amavo qualcuno che non mi amava come credevo.
Drew mi voleva davvero bene, questo lo so...ma non poteva amarmi
davvero. Ero qualcosa come una cara sorella per lui, non la persona
da amare.»
«L’hai
più rivisto?»
«Non
nell’ultimo
periodo. Sai...lui non frequenta più le nostre vecchie amicizie e, a
dire il vero, molte di queste ho scoperto essere totalmente false e
di convenienza, nel momento in cui ci siamo lasciati.»
«Mi dispiace.»
ripeté mesto Emmett e lei gli sorrise.
«A me no, per
questo. Almeno ho capito da chi ero circondata. Credo di sapere di
chi mi posso fidare adesso.» gli posò una mano sul braccio e si
sporse appena per guardarlo dritto negli occhi. «Emmett, stai
tranquillo. Io sto bene, davvero.»
Lui
abbozzò un sorriso. «L’importante
è questo.»
«Tu
l’hai
rivisto?»
«A parte che
sulle riviste, in tv o sui cartelloni pubblicitari?» commentò con
tono ironico. «Togliendo quelli, no. Non ci siamo più sentiti né
rivisti.»
«Pensavo
foste rimasti in contatto visto che...» sollevò le sopracciglia ed
arricciò le labbra con una lieve punta di disagio. «...insomma,
l’ha
fatto anche per te. Credo che Drew ti amasse.»
«No,
non credo.» negò in risposta Emmett, con un sorriso amaro. «Lui
era nuovo nel nostro gaio
mondo. Penso mi
volesse bene, ma non credo mi amasse davvero. Era come un
diciassettenne...un bambino in un parco giochi. Drew non mi poteva
amare, doveva fare le sue...esperienze.»
«Capisco.» annuì
lei. «Ma non ti piacerebbe rivederlo?»
«Non lo so.»
rispose sinceramente, con una scrollata di spalle. «Penso di sì.»
Sierra
restò un po’
in silenzio; sembrava intenta a pensare qualcosa, poi gli disse:
«Senti Emmett, hai impegni per capodanno?»
«Ah...»
borbottò lui, colto di sorpresa. «Dovrei vedere l’agenda
ma...in che senso?»
«Un’altra
mia amica era alla ricerca di un organizzatore di eventi per la sua
festa. Julia ovviamente aveva pensato di darle il tuo numero, ma
quando ha chiamato ci hanno detto che eri pieno d’impegni
fino ai capelli.» gli sorrise apertamente e si lasciò andare ad una
breve risata. «So che approfittare della tua conoscenza per
scavalcare altri clienti non è carino ma, mi chiedevo se potessi
trovare un po’
di tempo per noi e se potessi anche presenziare alla festa.»
Emmett
osservò con attenzione quegli occhi chiari, così ricchi di speranza
proprio come li ricordava. Avevano la stessa luminosità di quando
gli aveva parlato del suo matrimonio e proprio per questo motivo una
lieve fitta lo colpì al petto. Era inutile dire quanto si sentisse
in debito e in colpa con lei. «Be’...»
iniziò allora e prese il proprio palmare dalla tracolla. «...posso
vedere di spostare qualcosa e...» premette con la pennina sullo
schermo e concluse: «Posso essere da te in questa settimana per
parlare dei primi accorgimenti. Che ne dici di...dopodomani?»
«Sarebbe
perfetto!» esclamò lei, prendendogli le mani nelle sue. «Ti
ringrazio, Em! Ci stai salvando la vita!»
«Ti
prometto che sarà il party più favoloso
che Pittsburgh abbia mai visto e, già che ci sei...perché non
estendi l’invito
a tutte quelle arpie che ti hanno voltato le spalle? Le faremo verdi
d’invidia!»
Sierra
scoppiò a ridere. «Ecco, non saprei. Tu credi che sarà la cosa
giusta visto che...be’,
ci sarà anche Drew.»
«Drew?!» chiese
Emmett, quasi strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Sì, è per
questo che ti ho chiesto di presenziare anche al party.»
«Perché lo fai?»
le chiese dopo qualche secondo trascorso ad osservarla. «Perché
stai facendo questo per me...dopo che io...»
«Non
lo so.» replicò lei e a lui parve una risposta sincera. «Io voglio
ancora bene a Drew, davvero...e ecco...tu sei sempre stato così
gentile con me. So che hai anche rifiutato la mia offerta perché non
volevi proseguire con quella farsa. Drew mi ha detto che hai chiuso
con lui dopo e io...sì insomma, l’ho
apprezzato. Soprattutto quando ho visto quante persone mi hanno
voltato le spalle. E allora ho pensato che...»
«Hai pensato che
avrei voluto rivederlo?»
«Qualcosa
del genere, sì.» ammise con un po’
d’imbarazzo.
Emmett prese un
respirò più profondo e le sorrise.
Non
sapeva se era davvero pronto a rivedere Drew, visto che dopo
quell’ultima
loro chiacchierata non l’aveva
più incontrato, se non su qualche immagine o su uno schermo. Non
sapeva se era il momento per farlo, visto il modo in cui già si
sentiva scombussolato per via di Jace, ma era certo che non poteva
rimangiarsi la parola data e rinunciare al lavoro. «Organizzerò il
party.» le disse quindi. «Ma non assicuro la mia presenza per la
festa. Ci penserò su.»
«Ok.»
convenne lei comprensiva e gli regalò l’ennesimo
sorriso. «Grazie comunque Emmett. Adesso devo proprio andare, ma mi
ha fatto davvero piacere incontrarti.»
«Anche a me.»
replicò sincero. «A dopodomani, allora.»
Sierra annuì
entusiasta e lo salutò con un cenno della mano, prima di andarsene.
Emmett la seguì
con lo sguardo, incapace di non pensare a quanta forza dovesse
nascondersi in quello scricciolo biondo che era stata capace di
incassare il colpo basso ricevuto con dignità e maturità, mentre le
sue aspettative venivano infrante sotto il peso di una grande bugia.
Si
ritrovò ad invidiarla un po’
per tutta quella energia e, gettando ancora un altro sguardo al
display sul cellulare, si decise a riporlo nella borsa e a smetterla
con le sue congetture mentali.
Per quanto facesse
male, i veri problemi erano altri e lui ne aveva affrontati tanti.
Una chiamata non
ricevuta non era la fine del mondo.
*'*'*
Terrorizzato.
Completamente terrorizzato.
Dal momento in cui
aveva concluso la telefonata con Maria, il terrore puro si era
impadronito di lui e a malapena era stato in grado di alzare la mano
per chiamare un taxi e indicargli la via da raggiungere.
Per tutto il
tragitto che lo separava dal palazzo in cui vivevano sia lui che
Justin, Jace aveva avuto il cuore incastrato a metà gola, e quasi si
era sentito morire nel momento in cui, una volta raggiunta la
destinazione, la stessa Maria gli aveva detto che il 911 era già
arrivato a soccorrere Justin e l’aveva trasportato fino
all’ospedale più vicino.
Gli sembrava di
rivivere un vecchio incubo che mai l’aveva abbandonato davvero. Si
sentiva catapultato anni addietro, quando al centro di ogni suo
pensiero, ad alimentare le sue paure, c’era la sorte del suo
fratellino.
Anche in
quell’occasione temeva che il cuore potesse scoppiargli da un
momento all’altro, ed anche allora non appena era riuscito a
raggiungere l’ospedale, si era gettato in una corsa folle
attraverso quei corridoi bianchi, come una trottola impazzita,
badando appena alle persone che lo circondavano e che rischiava di
travolgere, fino a che non era riuscito a trovare qualcuno in grado
di dargli un attimo di pace e qualche notizia.
Dal poco che era
riuscito a sentir trapelare dalle persone che lo avevano scortato
fino all’ospedale, Justin, qualunque cosa avesse avuto, non
sembrava essere in serio pericolo, eppure nonostante quello, proprio
non riusciva a calmarsi e a darsi pace.
Diede una fugace
occhiata all’entrata sotto di lui, attraverso le ampie vetrate, e
si rese conto di come i paparazzi e giornalisti avessero già
iniziato ad appostarsi lì davanti in attesa di qualche scoop. Era
più che certo che, nel giro di qualche ora, sarebbe diventata una
situazione invivibile.
Justin era una
stella in ascesa; aveva incuriosito migliaia di persone con la sua
arte ed aveva attirato anche di più l’attenzione su di sé proprio
per il suo essere così schivo ed impenetrabile.
Nessuno conosceva
Justin Taylor come persona. Nessun giornalista era stato in grado di
strappare informazioni personali a quel brillante genio che sembrava
essere apparso dal nulla tra i grattacieli della Grande Mela; come
per magia.
Sapevano che era
nativo di Pittsburgh e, ovviamente, non aveva mai nascosto la sua
omosessualità, proprio perché ne andava orgoglioso. Aveva
confessato di aver frequentato l’istituto delle belle arti della
sua città e qualche piccola informazione era saltata fuori circa un
– non meglio specificato – “incidente” avuto anni prima.
Ma erano tutte
informazioni di poco conto, o inutili frammenti che non portavano da
nessuna parte; una biografia totalmente scarna, come se tutto il suo
passato, Justin l’avesse abbondantemente avvolto e nascosto con
cura dietro un alone di spessa riservatezza.
C’era chi
addirittura considerava la sua identità fittizia, che neanche il suo
nome fosse reale. Tutti erano attratti da quel ragazzino bello come
un angelo, ma schivo ed inafferrabile come l’aria.
Justin parlava di
sé solo con i suoi quadri; si faceva conoscere solo con l’arte.
Era come se la sua
sola identità fosse solo quella d’artista e che non avesse fatto
altro per tutta la vita; come se non avesse un passato.
Tutto questo
mistero lo rendeva ancora più interessante e giornalisti e
paparazzi, invece di arrendersi davanti a quel muro bianco che
trovavano sempre sulla loro strada, non facevano altro che fomentarsi
maggiormente, spinti soprattutto dalla gente comune e dai critici
d’arte, il cui interesse sembrava allargarsi a macchia d’olio con
una velocità impressionante.
Ovunque andasse
era un successo, ma era sempre anche un buco nell’acqua per quanto
si trattava del saperne di più su di lui. Sembrava che la fama non
stesse scalfendo neanche un po’ la facciata dietro cui nascondeva
la sua persona; e Jace era più che certo che non ci sarebbero mai
riusciti, se solo questo incidente non si fosse verificato.
Si era aperta una
piccola falla su quel muro candido, ed era ovvio che nessuno si
sarebbe mai lasciato sfuggire lo scoop del momento.
Con uno sbuffo
preoccupato, Jace afferrò il cellulare. Fece per premere un tasto,
quando si accorse della chiamata persa che neanche aveva sentito.
Nel vedere il nome
di Emmett, l’agitazione scemò per un breve istante concedendo alle
sue labbra di distendersi in un breve sorriso, prima che la realtà
tornasse a colpirlo e a ricordargli che non poteva perdere tempo.
Raggiunse la
rubrica, ripromettendosi di richiamarlo più tardi, e scorse veloce
al numero di Jennifer. Pochissimi squilli e riuscì a sentire la sua
voce. «Pronto?»
«Jen.» la chiamò
senza salutarla, cercando di non farsi riprendere dall’agitazione.
«Dovresti venire subito a New York?»
«A New York?»
gli fece eco lei, confusa.
«Sì, il prima
possibile. Si tratta di Justin.»
*'*'*
Quel giorno in
ufficio sembrava proprio non voler passare.
Non mancava che
qualche minuto all’orario in cui tutti i suoi dipendenti se ne
sarebbero tornati a casa, ed il lavoro da sbrigare sembrava
accumularsi sempre di più.
Chissà, forse era
davvero giunto il momento di assumere altro personale, ma in quel
momento era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
La mente di Brian
già vagava all’attimo in cui avrebbe riaperto la porta del suo
loft e l’avrebbe trovato ancora una volta vuoto e freddo,
esattamente come l’aveva lasciato quella stessa mattina, dopo
essersi svegliato di soprassalto da un sogno con Justin, che l’aveva
reso intrattabile per il resto della giornata.
Prese a
giocherellare con il tagliacarta, battendone la punta sulla
scrivania, con un ritmo che neanche lui conosceva finché, stanco
anche di quello e senza alcuna voglia né intenzione di restarsene lì
ad ammuffire ancora, si alzò dalla sedia con un gesto secco e carico
di frustrazione ed afferrò il proprio costoso cappotto nero.
Si sistemò la
sciarpa al collo ed infilò le ultime cose nella ventiquattrore,
insieme a qualche fascicolo che si ripromise di controllare a casa
per impiegare il tempo, accompagnato da un bicchiere di Jim Beam,
quando la porta in vetro del proprio ufficio venne aperta senza alcun
avvertimento.
Solo Cynthia o Ted
si azzardavano ad entrare senza bussare – e non pensare che un
tempo lo aveva fatto anche Justin, fu impossibile quanto doloroso –
perciò non si voltò neanche, aspettando di sentire una delle loro
voci.
Quella che però
giunse alle sue orecchie, non apparteneva a nessuno di loro due:
«Ehi...disturbo?»
Brian si voltò
interdetto, certo di conoscere fin troppo bene quel tono, ma anche
incredulo dal saperlo lì. «Ciao Blake.» pronunciò in seguito,
quando le sue ipotesi si rivelarono esatte, per quanto assurde.
«Ciao Brian.»
replicò l’altro,
passandosi una mano sui corti capelli biondi, per poi accennare ad un
sorriso. «Cercavo Teddy.»
«Be’...Teddy
non c’è in questo
momento.» rispose lui con tono secco, chiudendo la propria
valigetta. Il fatto di essere così sorpreso da quella visita, non
era certo servito a cancellare il fastidio ed il senso di
frustrazione per il sogno su Justin, né per l’avere
davanti la presenza di Blake. In fondo non l’aveva
mai nascosto che quel tipo non gli era mai andato troppo a genio,
nonostante il fatto che, alla fine dei conti, si era sempre tenuto da
parte nel momento in cui Ted aveva deciso di tenerlo nella sua vita.
«Posso lasciargli un messaggio da parte tua, o magari mi fai il
grosso favore di andartene e non presentare più la tua faccia qui?»
Gli occhi azzurri
di Blake si accesero di vera sorpresa. «Cosa? Io...ecco, non credo
di aver capito.»
«Ti prego. Non
fare l’ingenuo con
me.» sbuffò Brian scocciato, dopo aver sollevato gli occhi verso il
soffitto. «Sai Blake, ti preferivo di più quando ti
drogavi...almeno non eri tanto ipocrita da mettere su quella faccia
da agnellino piccolo e innocente. O forse era il tuo cervello ad
essere talmente andato da non permetterti di farlo.»
«Continuo a non
capire.»
Il bel
pubblicitario piegò le labbra all’interno
della bocca e sollevò le sopracciglia, prima di rivolgergli uno dei
suoi sorrisi storti e ironici. «Ok, allora te lo spiegherò con
paroline molto semplici.» spinse la lingua verso la guancia ed
aggiunse: «Non mi sei mai piaciuto, né quando eri un povero
drogatello, né adesso che ti spacci per consulente contro le
dipendenze.»
«Io non mi
spaccio per...»
«Ma non è un mio
problema.» lo interruppe, tornando serio e scrollando le spalle.
«Alla fine non sono io che ti scopo, ma Ted...il che significa che
la scelta è la sua.»
Blake aggrottò la
fronte, sempre più confuso da quelle parole. «Infatti, quindi non
capisco dove sta il problema.»
«Il problema,
caro Blake...sta nel fatto che questa è già la quarta volta
che gli fai del male e non ti preoccupi minimamente di prenderlo a
bastonate.» snocciolò con noncuranza, allargando le braccia.
«Purtroppo per lui, Theodore è un coglione e ti ha perdonato
sempre...ed io l’ho
sempre lasciato fare. La vita è la sua, il cuore anche e se gli
piace vederlo sbriciolato non mi riguarda affatto.»
«Quindi?»
«Quindi, se sei
qui per implorare il suo perdono e ricominciare per l’ennesima
volta...prego, fa’
pure. Ted tornerà tra poco dalla banca.»
«Bene...»
«Non ho finito.»
lo interruppe ancora. «Fa’
pure, per l’ultima
volta.»
«Come?» domandò
l’altro, con
un’espressione
stranita.
«Hai capito
benissimo.» ribatté Brian. Non l’avrebbe
mai ammesso, ma da quando Ted aveva confessato loro di come erano
andate le cose con Blake, quell’ex
tossico gli era piaciuto sempre meno. «Questa è l’ultima
volta che farò finta di niente...se mai dovesse succedere ancora, se
non sarà lui stesso a farlo, sarò io a prenderti a calci in culo e
a spedirti il più lontano possibile da qui. Sono stato abbastanza
chiaro?» lo fissò negli occhi con durezza ed un cipiglio di puro
disprezzo andò a segnargli la fronte. «Per quanto sia idiota, è
un’idiota che non si
merita di soffrire, anche se spesso e molto volentieri avrei voglia
di prenderlo a schiaffi per quanto è imbranato o per quanto si rende
ridicolo.»
«È
il tuo modo di dirmi che gli vuoi bene e che non vuoi che nessuno lo
ferisca?» gli chiese l’altro,
ancora un po’ interdetto, ma con un sorriso che spingeva sulle sue
labbra per nascere.
Brian roteò gli
occhi. «È il mio modo
per dirti quello che penso di te, e che se mai ci dovesse essere
un’altra situazione
simile non perderò l’occasione
di rispedirti da dove sei venuto.»
«Io amo Teddy.»
«Lo vedo...»
commentò caustico il pubblicitario, sollevando le sopracciglia.
«È
stato solo un momento d’insicurezza
e paura...ma sono pentito. Non avrei mai voluto farlo soffrire ancora
e adesso sono certo di quello che voglio e di quale sarà la mia
risposta.»
Brian scosse la
testa e si lasciò sfuggire una breve risata ilare. «Purtroppo per
me, so già che il caro Theodore ti riaccoglierà a braccia aperte.»
si leccò le labbra e tornò a fissarlo. «Come ti ho detto, l’essere
un perfetto idiota è parte integrante di lui...quindi sei avvertito
Blake, questa è l’ultima
volta che ti lascio fare.»
«Ok.» annuì il
consulente debolmente, ma con uno strano senso di gratitudine che gli
dilagava dentro. Per quanto Brian Kinney fosse rinomato per essere un
terribile stronzo era ovvio che dovesse tenere davvero molto ai pochi
che avevano il privilegio di essere considerati suoi veri amici.
«Devi volergli proprio bene. Ted sarebbe felice di saperlo.»
«Theodore non
verrà mai a saperlo...anche perché non c’entra
proprio niente con quello che dici tu.» ribatté immediatamente,
come se fosse stato punto sul vivo. Oltre ad essere un terribile
stronzo, era anche rinomato per il suo orgoglio e l’ego
mastodontico. Era ovvio che non avrebbe ammesso una cosa del genere
neanche sotto tortura...considerando poi che, per confessare al suo
Justin di amarlo, c’era
voluta addirittura una bomba. «Nonostante tutte le sue infinite
stronzate è un ottimo contabile e il suo cervello mi serve integro e
funzionante. Non me ne faccio niente di una povera checca depressa
per amore.» portò ancora una volta le sue labbra a piegarsi dentro
la bocca e scrollò le spalle. «Tutto qui. Se rappresenti un
pericolo per la Kinnetik, devo provvedere a toglierti di mezzo.»
«Certo...per la
Kinnetik.» annuì Blake, senza credere ad una parola. Quella scusa
che aveva messo su su due piedi faceva acqua da tutte le parti. Ormai
anche lui aveva imparato a conoscerlo un po’.
«Vado ad aspettare Ted.» gli disse poi e, prima di uscire, si voltò
ancora verso di lui. «Ah Brian...grazie.»
«Non capisco per
cosa e neanche m’interessa,
ma prego.»
*'*'*
Se c’era un
motivo per cui Cynthia non aveva mai desiderato figli, contrariamente
alla maggior parte delle donne del mondo, era proprio perché non
aveva la più pallida idea di come gestirne uno, specie quando questi
si trasformavano in degli adolescenti esagitati che scorrazzavano a
destra e a manca come uragani in preda alla pazzia.
Non capiva quel
loro continuo urlare come squilibrati e non riusciva neanche a
spiegarsi perché una ragazzina di circa quindici anni, con i capelli
rossi come il fuoco ed un paio di occhi blu chiaro che le erano –
per qualche assurdo motivo – fin troppo familiari, se ne stava
davanti a lei a gesticolare come se fosse preda di qualche demonio e
le chiedeva di vedere Brian.
Brian Kinney,
il suo acidissimo ed intrattabile capo che in quel preciso momento
sembrava una donna nel bel mezzo del suo ciclo mestruale.
Si era mantenuta a
debita distanza dal suo ufficio per quasi tutto il giorno, se non per
casi speciali in cui era stata costretta a raggiungerlo, con il
terrore che la scaraventasse fuori da una delle finestre; e adesso
non aveva alcuna intenzione di rischiare ancora, soprattutto per dar
ascolto alle richieste di una ragazzina che era certa di non aver mai
visto prima, anche se la sensazione che somigliasse a qualcuno
d’importante la stava assillando.
«Devo vedere
Brian!» strillò ancora questa, lasciandola basita per la sua
energia. «È una cosa importantissima!»
«Tesoro.» tentò
nuovamente lei, cercando di salvarla dalla sorte terribile che le si
sarebbe sicuramente abbattuta addosso se solo avesse tentato di
varcare quella soglia. «Il signor Kinney è molto impegnato in
questo momento e non può essere proprio disturbato.»
«Ma io lo conosco
bene! Devo vederlo e devo parlargli!»
«Se lo conosci
tanto bene, perché non l’hai chiamato direttamente?» indagò, con
il suo solito fare da pettegola impicciona.
«L’avrei fatto,
se solo rispondesse al suo dannatissimo telefono! È stata mamma a
farmi venire qui!»
Nel sentire la
parola “mamma” Cynthia si autoconvinse che la ragazzina dovesse
essere una dei pargoli di qualche parente che Brian ovviamente
detestava, perciò s’impuntò maggiormente sulle sue ragioni,
sperando di evitare una Terza Guerra Mondiale. «Mi dispiace ma
non...» non fece però in tempo a terminare la frase, che l’arrivo
di Ted con la sua faccia sorpresa, le impedì di proseguire.
«Molly?!» la
chiamò e la ragazza dai capelli fulvi si voltò immediatamente verso
di lui. Se perfino Theodore la conosceva, allora non doveva
appartenere alla “prole di Satana”.
«Teddy! Meno male
che sei qui!» esclamò lei, andandogli incontro. «Devo parlare
subito con Brian. Si tratta di Justin!»
«Justin?» gli
fece eco Cynthia, con un’espressione in faccia come quella di chi
ha appena visto un fantasma.
«Cynthia...» la
chiamò Theodore con un sospiro esasperato, già consapevole di ciò
che aveva combinato la sua amata collega. Brian l’avrebbe sbranata
nel giro di un secondo. «Questa è Molly, la sorellina di Justin.»
«Oh cazzo.» fu
il commento di lei, soprattutto quando quella ragazzina le sorrise e
le mostrò un sorriso gemello di quello del fratello.
«Te l’avevo
detto che lo conoscevo bene!»
«Potevi dirmi
subito di essere la sorella di quell’angelo!» piagnucolò la
donna. «La mia fine è vicina!» aggiunse poi con fare
melodrammatico, nel momento in cui si ritrovò a pensare a quello che
le avrebbe fatto Brian se avesse scoperto che aveva impedito alla
sorella del suo grande amore di vederlo.
«Puoi giurarci.»
borbottò Ted e fece finta di non vedere l’occhiataccia che gli
lanciò la collega subito dopo, mentre accompagnavano Molly fino
all’ufficio di Brian.
Cynthia allungò
una mano per afferrare la maniglia, quando questa venne aperta
dall’altra parte, mostrando un Brian già impeccabilmente pronto
per uscire.
«Ma che cazzo...»
imprecò il pubblicitario nel trovarsi i tre davanti, finché i suoi
occhi elaborarono un’immagine precisa e il suo cervello riconobbe
Molly in quella bella cascata di capelli rossi. «E tu che diavolo ci
fai qui?!» esclamò aggrottando la fronte. «Non ho proprio il tempo
di giocare con te. Tornatene a casa, prima che alla tua cara mammina
venga un infarto!»
«Razza di
buzzurro! Hai idea della fatica che ho durato per venire fin qui?!»
strillò in risposta lei e Cynthia non poté fare a meno di
strabuzzare i suoi occhi azzurri nel sentir pronunciare la parola
“buzzurro”.
Buzzurro
a Brian.
La ragazzina aveva
un gran fegato e a quel punto non c’erano più dubbi: era una
caratteristica intrinseca nel gene dei Taylor.
Brian assottigliò
lo sguardo e restò a fissarla con quella sua classica aria che in
genere non prometteva niente di buono. Spinse la lingua all’interno
della guancia e sollevò le sopracciglia. «Bene.» commentò
asciutto. «E adesso prenditi l’energia che ti resta e va’ a
casa.»
«Sai una cosa? Ti
facevo più sveglio da quel che mi avevano detto di te!» ribatté
lei con sicurezza. «Forse la vecchiaia ti sta facendo perdere
colpi.»
«Attenta Molly.»
la ammonì Ted, tentando di tamponare i danni. «Stai rischiando
grosso...»
La ragazzina però
sembrò non prestargli il minimo ascolto e proseguì imperterrita
«Secondo te perché sarei qui?»
«Non so.»
scrollò le spalle Brian. «Forse per lo stesso motivo per cui mi hai
invaso casa nell’ultimo periodo? Perché sei una zecca molto
fastidiosa?»
«No!» strillò
Molly, isterica. «È per Justin, deficiente!»
L’uomo restò in
silenzio per qualche secondo a scrutarla con attenzione. A dire il
vero, era comunque sempre Justin il motivo per cui se l’era
ritrovata più volte a girovagare nel loft – o meglio, per la
mancanza che la piccola Taylor aveva di lui – quindi non capiva
cosa ci fosse di diverso in quell’occasione; eppure, nonostante
l’ormai familiare espressione da schiaffi che quella ragazzina
insolente metteva su durante una delle loro discussioni, in quegli
occhi blu – fin troppo simili a quelli di quello che era stato un
altro ragazzino insolente nella sua vita – si nascondeva
qualcosa. «Che cazzo significa?» domandò allora e lei sembrò
calmarsi, prima che quegli stessi occhi si inumidissero di lacrime.
«Ha chiamato Jace
da New York.» mormorò con un groppo alla gola. «Justin si è
sentito male. L’hanno ricoverato. Io...io non so cos’è successo.
Non ho capito.» si soffermò ancora e riuscì a leggere chiaramente
in quegli occhi color verde petrolio il terrore vero. «Sapevo solo
di dover avvertire te.» concluse poi e, senza pensarci su, si
aggrappò con una mano ad i lembi del costoso cappotto, alla ricerca
di un appiglio e di conforto.
Intanto Brian non
aveva mosso un solo muscolo e sembrava aver smesso anche di
respirare. Continuava a fissare Molly con gli occhi sbarrati e le
labbra schiuse. Lo sguardo era duro, ma anche carico di paura e, dal
momento in cui aveva udito quelle parole, il suo corpo si era
rifiutato di rispondere ai suoi comandi.
Justin si è
sentito male. L’hanno
ricoverato.
Nella
sua testa non c’era
altro che il pensiero di Justin, più doloroso, martellante e forte
di sempre. Aggressivo, quasi soffocante, e lo avvolgeva in una morsa
alla gola.
Justin
– il suo Justin –
stava male e lui non era lì.
«Molly.» la
chiamò Ted, cercando di capire di più. «Cos’è che ha detto
Jace? Cosa ha detto precisamente?»
«Io non lo so.»
piagnucolò lei, lasciandosi riprendere nuovamente dal panico. «Ha
parlato con mamma e le ha detto di andare a New York. Io sono corsa
qui!» lanciò un’occhiata a Brian ed aggiunse: «Dovevo dirtelo!
Anche la mamma ha pensato...»
«Cynthia.»
mormorò il pubblicitario interrompendo la ragazzina, riscossosi
dallo stato catatonico in cui era caduto. Fece per dire altro, ma non
ne ebbe il bisogno.
«Prenoto
immediatamente un jet privato.» lo anticipò la donna, digitando
qualcosa sul suo palmare.
Brian annuì.
«Theodore.» chiamò poi, e il contabile accennò ad un sorriso.
«Ci pensiamo noi
qui. Se c’è qualcosa ti chiamerò immediatamente. Tu vai.»
L’altro annuì
ancora una volta ed attardò lo sguardo sull’amico, come per
volergli rivolgere un muto ma sincero ringraziamento. «Chiama tua
madre.» comunicò poi con fare telegrafico a Molly. «Dille che tra
meno di venti minuti siamo sotto casa a prenderla.»
Lei fece un cenno
di affermazione e compose il numero di Jennifer per avvertirla,
mentre Cynthia, contrariamente, ripose il palmare nella tasca del bel
tailleur e si riavvicinò al proprio capo. «Ti sta già aspettando
un’auto qui fuori per portarti fino all’aeroporto. Il jet sarà
pronto per quando sarete lì.»
«Ottimo.»
replicò lui, per poi afferrare Molly per un braccio e trascinarla
all’uscita. Poco prima di varcare la soglia però, si fermò e si
voltò appena verso i propri fidati collaboratori. «Grazie.»
annunciò, sorprendendoli per poi spostare l’attenzione su Ted.
«Ah, Theodore. Nel tuo ufficio c’è Blake che ti aspetta. Non fare
cazzate.»
Il contabile restò
ad osservarlo sbalordito per quell’ennesima frase, mentre usciva
con passo deciso dalla Kinnetik; un po’ per il nome che aveva
sentito, ma anche – o meglio, soprattutto – per quell’ultima
parte.
Non fare
cazzate; gli aveva detto.
E Ted sapeva
benissimo che quello era un altro dei discutibili e strani modi di
Brian Kinney per incoraggiarlo e fargli capire che, comunque, sarebbe
stato dalla sua parte.
*'*'*
Blake girovagava
da minuti nell’ufficio di Ted, muovendo gli occhi per quelle mura e
avvicinandosi a ciò che lo attirava per osservarlo meglio.
Era la prima volta
che vi entrava da solo e nelle altre occasioni in cui era passato a
trovarlo, non aveva mai prestato davvero attenzione ai suoi oggetti.
Eppure si
compiacque di vedere quanto anche nelle piccole cose e nel suo ordine
il contabile sapesse parlare di sé e del suo modo di essere. Gli
piaceva vedere una copia della loro adorata Traviata presente anche
lì, sull’elegante scrivania di legno scuro, perfettamente pulita;
tre semplici cornici posizionate a formare un piccolo ed astratto
triangolo su un lato, dove erano immortalati la sua famiglia, i suoi
più cari amici e lui stesso...l’uomo che Ted amava e che avrebbe
desiderato sposare, se solo non fosse stato tanto sciocco e codardo.
Sospirò
sommessamente e sfiorò con le dita la morbida poltrona scura su cui
Ted trascorreva chino intere giornate, brillando nel proprio lavoro e
compiacendosene, pur lamentandosi puntualmente di quel capo tanto
competente quanto arrogante e fascinoso.
Sorrise appena,
ripensando ai tanti piccoli momenti in cui avevano riso insieme delle
varie disavventure a cui doveva sottoporsi da quando lavorava per la
famosa e prestigiosa Kinnetik, ed una piccola fitta di nostalgia andò
a colpirgli il cuore.
Era stato uno
stupido. Aveva una vita perfetta, una relazione felice...e invece di
provare a renderla più salda e accrescerla facendo un passo avanti,
si era tirato indietro e l’aveva rovinata, ferendo anche l’uomo
di cui era innamorato da anni.
Si maledisse
ancora e ancora, e quasi si spaventò per la sorpresa di sentir
aprire la porta, troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersi che
Ted era già arrivato. Lo fissò in silenzio per qualche secondo ed
abbozzò un sorriso. «Ciao.» lo salutò.
«Ciao.» rispose
l’altro, senza troppo entusiasmo, richiudendosi alle spalle la
porta in vetro. «Brian mi ha detto che mi cercavi.»
«Sì, infatti.»
confermò, ripensando alla precedente conversazione con il padrone
della Kinnetik. «Sai, non è poi così male anche sul lavoro...forse
un po’ più brusco del solito, ma...»
«Blake, io avrei
del lavoro da sbrigare. Brian è dovuto partire per New York adesso e
non possiamo permetterci di dormire.» affermò, cercando di non
assumere un tono troppo duro e di non sembrare troppo scortese.
Eppure nascondere il disagio provato dal momento in cui l’aveva
rivisto, non era affatto facile; così come non lo era evitare di
pensare alla ferita che ancora gli bruciava dentro per quel rifiuto.
«Quando il boss è presente è un vero inferno, ma quando non
c’è è anche peggio. Mandare avanti la baracca senza di lui non è
facile, quindi se devi dirmi qualcosa, fallo.»
Blake abbassò lo
sguardo dispiaciuto. «Sì, certo...scusami...hai ragione.»
«Scusami tu, io
non volevo sembrare scortese...» si affrettò ad aggiungere Ted.
«... è solo che quando si saprà che Brian non c’è si scatenerà
il putiferio. Alcuni dei nostri clienti non vogliono neanche provare
a trattare se non c’è lui. Temono tutti di non essere serviti nel
migliore dei modi.»
«Be’...capisco.
Brian è sempre stato una garanzia per loro.»
«Appunto.»
«Non voglio farti
perdere altro tempo, quindi sarò breve.» iniziò Blake, sollevando
finalmente gli occhi azzurri ad incontrare quelli scuri dell’altro.
«Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto Teddy per come ho
reagito...mi sono comportato da idiota. Sono scappato proprio quando
non avrei dovuto, ma mi sono spaventato.»
«Questo l’ho
capito Blake.»
«Davvero?»
chiese speranzoso l’uomo.
«Sì, ma mi ha
aiutato anche a pensare. Forse non avrei dovuto metterti fretta...»
sollevò le spalle e sospirò. «... forse non era davvero il momento
giusto, però...»
«Ci ho pensato
anch’io Teddy.» lo interruppe Blake, non riuscendo a trattenere un
sorriso di sollievo. «Ci ho pensato davvero in tutto questo tempo e
ho capito che ho sbagliato e che in realtà dovremmo farlo. Io ti amo
e tu ami me, perché non dovremmo?» si avvicinò a lui e gli prese
le mani tra le sue. «Scusami, scusami.»
Ted però non
riuscì a sorridergli e sciolse quel loro legame, allontanandosi di
un passo. «Blake, ascoltami.» disse. «Per una parte di me è un
vero sollievo sentirtelo dire, ma...quando ho pensato al perché mi
hai risposto così, be’...sono giunto alla conclusione che forse
non è davvero la cosa giusta da fare.»
«In che senso?»
«Forse non siamo
sulla stessa lunghezza d’onda. Se lo fossimo stati, sempre forse,
tu avresti risposto immediatamente ‘sì’, senza ombra di
dubbio...» sospirò ancora e stavolta fu lui ad abbassare lo
sguardo. «... il fatto è che ci sono troppi ‘forse’ in mezzo e
sono confuso.»
Blake scosse la
testa ed aggrottò la fronte. «Teddy, io davvero non ti capisco...»
«Non mi capisco
nemmeno io.» ammise il contabile e finalmente trovo la forza di
risollevare lo sguardo. Dopo tutte quelle difficoltà che avevano
affrontato insieme, glielo doveva; gli doveva il coraggio di
guardarlo negli occhi, mentre pronunciava quelle parole.
«Credo di essere io, adesso, ad aver bisogno di tempo per pensare.»
*'*'*
New York.
Fin dal momento in
cui aveva sentito quel nome pronunciato da un altoparlante dopo il
loro atterraggio, aveva iniziato a provare una sorta di repulsione
per quella città.
Per anni ed anni
era stata il suo obbiettivo; per giorni aveva desiderato dare il suo
addio alla gloriosa Pittsburgh per raggiungere la Grande Mela e
costruirsi lì la sua nuova vita, eppure anche quando era stato ad un
misero passo dal raggiungere quell’obbiettivo, la sua città natale
lo aveva preteso per sé ed incatenato ancora.
Con il passare del
tempo poi, New York non era diventata altro che l’ombra di un
vecchio desiderio ormai svanito e, per quanto provasse a ricordare a
tutti che alla prima occasione se ne sarebbe andato, nessuno ormai
gli credeva più; perfino lui, non ci credeva più.
Ed il motivo –
inutile negarlo – era che da quando quel ragazzino testardo come un
muro era entrato di prepotenza nella sua vita, aveva smesso di
provare quel desiderio di scappare; una voglia che lo aveva
accompagnato per anni ed anni, ma che – ancora neanche era riuscito
a capire come – si era dissolta come neve al sole; come neve
riscaldata dal suo raggio di sole.
Si sarebbe fatto
tagliare le palle piuttosto che ammetterlo ma, alla fine dei conti,
aveva iniziato ad essere davvero felice.
Era felice di
svegliarsi al mattino e di trovare quel corpo sottile e niveo
addossato contro la sua schiena, con le lenzuola scure attorcigliate
alle gambe ed un respiro leggero e regolare che lo cullava,
soffiandogli delicatamente sulla pelle; era felice di respirare quel
profumo buono e familiare, e lo era anche di più nel momento in cui,
sollevando le palpebre rese pesanti dal sonno, scorgeva quella
figura angelica beatamente addormentata.
Non l’avrebbe
davvero ammesso – non poteva ammetterlo, perché in fondo, era
sempre lui: Brian Kinney – ma lo rendeva felice anche solo saperlo
vicino, lì per lui; baciarlo e stringerlo a sé o sentire la sua
voce e la sua risata.
Semplicemente
Brian era felice di avere Justin al suo fianco; una felicità che gli
era stata portata via, proprio dal richiamo di quella città che
aveva dimenticato.
New York si era
presa Justin; e stavolta non solo per lo stupido capriccio di un
ragazzino immaturo che cercava in tutti i modi di attirare la sua
attenzione.
Justin si era
costruito una vita e una vera fama tra quei grattacieli enormi. Aveva
iniziato a brillare anche in mezzo a quel caos e si era
inevitabilmente allontanato da lui.
«Andrà tutto
bene.» la mano di Jennifer si posò delicata sulla sua e il tono
dolce e premuroso con cui aveva pronunciato quelle parole, lo
distolse per un po’ dai suoi frustranti pensieri. «È sempre mio
figlio.»
«Lo so.» replicò
lui semplicemente, continuando a fissare la strada dal finestrino, in
attesa di poter finalmente scorgere l’ospedale. Restare immobile ed
impotente nell’attesa, lo stava facendo impazzire.
«Non dovrebbe
mancare molto.» riprese la donna, come se – esattamente come il
figlio – avesse imparato a leggergli nel pensiero.
Brian spostò lo
sguardo su di lei, trovando sulle sue labbra un sorriso tirato e
negli occhi una luce di forte speranza.
Una parte di sé
aveva sempre ammirato quella donna risoluta, con forza e grinta da
vendere; una vera madre – quella che lui non aveva mai avuto
– che sa amare il proprio figlio a prescindere da quello che è.
Si sforzò di
abbozzare un sorriso, ma non fu proprio certo che non assomigliasse
più ad una smorfia che altro, mentre di quanto i suoi nervi fossero
tesi, se ne rese davvero conto nel momento in cui il cellulare di Jen
prese a squillare, facendolo sobbalzare.
Il nome di Jace
comparve sul display e la donna rispose subito, inserendo poi il
vivavoce, così che anche Brian e Molly potessero sentire. «Pronto?»
«Jennifer,
ascoltami. Davanti all’entrata dell’ospedale c’è un macello.»
l’avvertì con un tono piuttosto infastidito. «Ci sono giornalisti
e fotografi ovunque!»
«Quindi? Che
facciamo?»
«Fatevi portare
sul retro. Vi faranno entrare da un’altra porta.»
«Ok.» confermò
lei, con voce più ansiosa. «Ma Justin? Sai qualcosa?»
«No. Non mi
dicono niente. Stiamo aspettando tutti te.»
Brian diede una
fugace occhiata all’esterno e, tra la confusione delle persone che
vagavano ovunque, spesso con una macchina fotografica in mano, riuscì
a vedere la sagoma dell’enorme ospedale. «Ci siamo, Jace.»
comunicò allora, per poi dare indicazioni all’autista.
«Brian?» il
ragazzo sembro sorpreso, poi aggiunse quello che parve essere un vero
sospiro di sollievo. «Grazie a Dio, ci sei anche tu! Vi aspetto
all’entrata.»
«Ok.» riconfermò
Jennifer, chiudendo la chiamata, per poi osservare la quantità
esorbitante di giornalisti appostati fuori dall’ospedale.
«Cazzo. Ma quanti
sono?»
«Molly!» la
riprese immediatamente la madre e Brian non riuscì a trattenere un
sorrisetto.
«Scusa mamma.»
pronunciò mesta. «Ma hai visto quanti sono?!»
«E non promette
niente di buono.» mormorò il pubblicitario, aggrottando la fronte.
«Questi stronzi non ci lasceranno respiro!»
«Brian!»
«Scusa mamma
Taylor.» si affrettò ad aggiungere, con un altro breve sorriso.
Nel frattempo
l’auto riuscì a compiere una gimcana tra le persone e a
raggiungere il retro dell’ospedale. Brian s’impose per pagare e,
tra i vari borbottii, scesero tutti e tre guardandosi freneticamente
intorno per individuare Jace.
«Eccolo!»
esclamò poi Molly, indicando una figura che si stava sbracciando
sulla porta come un forsennato.
Con una breve
corsa lo raggiunsero e lui si dimostrò essere nuovamente sollevato
nel constatare con certezza anche della presenza di Brian, come se
quello avesse appena cambiato tutte le carte in tavola; come se la
stessa salute di Justin fosse legata a lui. «Eccovi! Andiamo,
dobbiamo raggiungere un altro padiglione.»
«Insomma vuoi
spiegarci che cazzo è successo?» chiese Brian, mentre si avviavano
verso il reparto in cui era ricoverato il biondo artista.
«Non lo so
neanch’io con certezza. Avevamo litigato e sono uscito di casa. Mi
ha chiamato Maria, la nostra colf, per avvertirmi che Justin stava
male.»
«Litigato?»
indagò Jennifer.
«Ma tu e Justin
non l’avete mai fatto. Che è successo?» rincarò Molly.
Jace grugnì
rabbioso, ripensando ai motivi della loro diatriba. «È successo che
il tuo caro fratello è un coglione che lavorava a ritmi impossibili.
Abbiamo litigato per questo e per colpa di...» si soffermò per un
attimo e chiamò proprio quel nome nel momento in cui riuscì a
scorgerlo davanti all’entrata del reparto. «Gary!»
«Siete arrivati.»
replicò il manager, mostrandosi piuttosto nervoso.
«Allora? Saputo
qualcosa?»
«Secondo te?»
rispose frustrato. «Non dicono niente e, da una parte è una
fortuna, visto il casino che si è creato qua sotto, però è davvero
snervante.»
Brian si guardò
intorno, finché non vide un gruppo di infermiere. Gli si fece più
vicino, ignorando le occhiate ammirate che queste avevano iniziato a
lanciargli e chiese: «Scusate. La madre di Justin Taylor è
arrivata. Possiamo parlare con un il medico?»
«Oh sì, certo!»
si affrettò a rispondere una, afferrando la cornetta per comunicare
con l’interno del reparto. «Sarà subito da voi.»
«Grazie.» si
limitò a rispondere, tornando poi sui suoi passi.
«Ok, forse sei
davvero geniale come dicono.» mormorò Molly. «Io non c’avrei mai
pensato ad una soluzione tanto semplice.»
«Perché sei una
donna e ti lasci prendere dalle crisi di panico.»
«È per caso un
commento puramente maschilista quello che hai fatto?»
«Puoi giurarci,
mocciosa.»
Jennifer sospirò
esasperata. «Piantatela voi due. Siete peggio dei bambini. Quasi mi
sembra di avere tre figli, invece di due.» lanciò
un’occhiataccia a Brian, e non riuscì a trattenere un lieve ma
dolce sorriso per quello che aveva appena detto.
Lui ricambiò quel
sorriso, sforzandosi d’ignorare l’ansia per quella dannata attesa
che era ritornata per torturarlo. Spostò poi lo sguardo sulla grande
porta bianca e finalmente la vide aprirsi, mostrando loro un uomo
avvolto nel proprio camice.
«Mi scusi, sono
la madre di Justin Taylor.» intervenne immediatamente Jennifer.
«Come sta? Posso vederlo?»
«Salve.» rispose
questo, con un sorriso cortese. «Justin sta bene, ma ci sono delle
cose di cui vorrei parlarle. Mi segua pure.» fece per voltarsi e
rientrare nel reparto, ma quando vide che anche gli altri lo stavano
seguendo, fu costretto a fermarsi, seppur a malincuore, per
rispettare il protocollo. «Aspettate, voi siete?»
«Questa è mia
figlia.» rispose Jennifer, passando un braccio sulle spalle di Molly
ed il medico annuì, spostando poi la propria attenzione verso i tre
uomini.
«Io sono il suo
agente.» si presentò Gary.
«Sono un suo
amico.» rispose in seguito Jace ma, nel momento in cui si accorse
dell’espressione mortificata sul volto dell’uomo, comprese che
non gli era ancora concessa l’entrata. «Immagino che questo non mi
permetta di entrare, giusto?»
«Non ancora.
Almeno fino a quando non verrà portato in reparto, mi spiace.» gli
disse, sinceramente dispiaciuto, per poi rivolgersi a Brian. «Lei
chi è?»
Lui schiuse le
labbra, indeciso sulla sua risposta, ma la voce di Gary lo anticipò
sorprendendo i presenti a conoscenza del reale ruolo di Brian nella
vita di Justin. «Un amico.»
«Ma che cazzo...»
commentò Jace stizzito, e fu subito afferrato per un braccio dal
manager.
«Ci può scusare
un minuto?» chiese poi, rivolgendosi al medico e allontanandosi di
qualche passo per parlare con tutti gli altri.
«Che
cazzo ti prende adesso? Cos’è
questa storia?» lo aggredì
immediatamente il designer, visibilmente arrabbiato per quella sua
infelice uscita. «Cazzo, ma
non l’hai
ancora riconosciuto?!»
«So benissimo chi
è.» gli confermò l’altro in tono pacato. «Ma penso tu abbia
visto la quantità di giornalisti appostati là fuori.»
«E con questo?!
Brian è...» tentò di protestare, ma Gary lo interruppe.
«Quelli sono qui
perché cercano il loro dannatissimo scoop, e è probabile pensino
che Justin sia stato ricoverato per aver abusato di qualche droga o
schifezze del genere, ma pagherebbero oro per avere una qualsiasi
altra notizia riguardante la sua vita.» aggrottò la fronte e si
passò una mano tra i capelli scuri. «Credi davvero che i presenti
qua dentro se ne starebbero zitti e buoni se venissero a sapere chi è
Brian? Non so in che mondo vivi, ma qui siamo a New York, nel caso tu
non te ne fossi ancora accorto e la gente non si fa i fatti suoi,
specie se si tratta di qualcuno di famoso!»
Jace lo fissò con
astio. «E allora? Se sapessero di Brian saprebbero solo la verità!
Justin ha bisogno di lui.»
«Justin non ha
mai voluto parlare della sua vita privata ed io intendo
rispettare questa sua volontà.»
«Non mi pare che
sia un segreto che mio figlio sia gay, signor Hudson. Quindi non vedo
dove sia il problema.» intervenne Jennifer, già nervosa per la
piega che stava prendendo la conversazione.
Gary spostò lo
sguardo prima su di lei, per poi farlo saettare ad incontrare quello
degli occhi verde scuro del bel pubblicitario.
Non riusciva a
capire cosa stesse pensando; sembrava quasi impassibile, ma da quel
poco che Justin gli aveva raccontato di lui, era pronto a giurare che
stesse macchinando qualcosa.
Prese
un lungo respiro e tornò a spiegare la situazione: «Non è questo,
ma il fatto che lui non abbia mai accennato alla sua passata
relazione con Brian.» tornò a fissare il diretto interessato per
sondare la sua reazione e, per un breve attimo, ebbe la
chiara impressione che, se
non avesse dosato con attenzione le proprie parole, quell’uomo
bellissimo l’avrebbe
sicuramente ucciso con le proprie mani. «Se
non l’ha
fatto...» esitò per un istante e aggiunse: «...avrà avuto i suoi
motivi ed intendo rispettarlo.»
«Che
diavolo stai cercando di insinuare?» l’aggredì
di nuovo Jace. «L’unico
motivo per cui Justin non ha mai voluto parlare di Brian, è perché
era preoccupato che questo potesse provocargli grane con il lavoro!»
indicò una delle grandi vetrate che dava sull’entrata
principale e disse: «Temeva
che quegli squali là fuori arrivassero fino a Pittsburgh per scavare
nel suo passato e stravolgessero sia la vita di Brian che quella
delle persone che ama! Temeva che scoprissero troppo sull’aggressione
e che magari andassero a scavare nella sua relazione con Brian e la
descrivessero per quello che non è e non è mai stata! Che
fraintendessero tutto! Era terrorizzato dal fatto che tutto questo
potesse portare guai alla Kinnetik!»
riprese fiato per un attimo e gli puntò il dito contro a monito.
«Justin non ha mai
voluto nascondere Brian,
cercava solo di proteggerlo!
Perciò, non ti azzardare mai più a...»
«Jace, lascia
stare. Ha ragione.»
La voce profonda
di Brian arrivò alle orecchie del designer come una stilettata.
Sconvolto da quelle parole si voltò verso di lui e tentò di
protestare, non riuscendo a comprenderne il perché: «Ma...»
Il
pubblicitario scosse la testa e si passò il pollice sulla fronte.
«Se questo è quello che vuole Justin, allora non c’è
neanche bisogno di discutere.»
spostò lo sguardo su Gary e si accigliò, trattenendosi a stento dal
piantare un pugno in mezzo a quella faccia. Justin era sempre stato
un ingenuo in queste cose, ma Jace c’aveva
visto giusto: il “caro” manager non desiderava un rapporto
puramente lavorativo con l’artista.
«Lo vedrò più tardi, quando tutto sarà più tranquillo.
L’importante
è che stia bene e...»
«Ma che stai
dicendo?» gli domandò Jennifer, guardandolo stupita ed oltraggiata,
come se quelle parole l’avessero personalmente ferita. «Puoi
scordarti che io finga che tu sia solo un amico di mio figlio! Non
posso proprio farlo, non dopo quello che hai fatto per noi.»
incrociò le braccia al petto e l’osservò irremovibile. «Non
posso farlo, sapendo quello che rappresenti per Justin e soprattutto
quanto lui ha bisogno di te! Per quel che mi riguarda quei
giornalisti possono tutti andare a farsi fottere!»
«Mamma!» esclamò
la figlia, stralunata dalla reazione di Jennifer.
«Scusa tesoro, ma
Brian e tuo fratello hanno l’incredibile capacità di esaurire la
mia pazienza con le loro decisioni.» gli lanciò l’ennesima
occhiata ammonitrice, probabilmente riferendosi alla loro travagliata
storia ed al matrimonio mancato, e si voltò verso il medico.
«Dottore, lui può entrare.»
«Signora,
aspetti...» provò a fermarla Gary, senza alcun risultato. Justin in
fondo, da qualcuno doveva aver pur preso la propria determinazione,
simile a quella di un treno in corsa.
«È il compagno
di mio figlio.» annunciò infatti lei, traboccante d’orgoglio e
senza prestare la minima attenzione al resto dei presenti.
«Ah...» mugugnò
il medico, stranito dalla vicenda che gli si era appena presentata
davanti agli occhi, per poi fare un cenno. «Sì, certo. Seguitemi.»
Brian scosse la
testa ed affiancò Jennifer. Osservò la sua espressione determinata
e si lasciò sfuggire un sorriso nel riconoscere in quei lineamenti
quelli di Justin, e quel suo buffo modo d’imbronciarsi quando gli
riserbava una delle sue classiche e famose sparate. «Grazie mamma
Taylor.» sussurrò poi, con un tono canzonatorio.
Jennifer gli
rivolse un’occhiataccia. «Un giorno poi mi spiegherete perché con
voi due deve essere sempre tutto così difficile.»
Il pubblicitario
si lasciò andare ad un sorriso più sincero, mentre quella dannata
tensione andava ad allentarsi, nonostante il pessimo rapporto che
continuava a mantenere con i corridoi bianchi e spogli degli
ospedali.
«Ok.» disse il
dottore, fermandosi poco prima della porta di una camera con tutti
gli avvolgibili abbassati. «Justin è qui e sta ancora dormendo.»
«Adesso può
dirci che è successo?» chiese Molly, impaziente.
«Si è trattato
di un esaurimento. Justin ha davvero esagerato con il lavoro. Dalle
analisi risultano valori sballati e mi chiedo quanto tempo fa abbia
fatto un pasto come si deve. È dimagrito e stressato.»
«Ma si rimetterà
presto no? Non ci sono conseguenze...»
«Certo, si
rimetterà, sempre che riprenda a mangiare regolarmente e si dia
anche dei limiti con il lavoro.» rispose l’uomo, facendo tirare
finalmente a tutti e tre un vero sospiro di sollievo. «L’unica
cosa di cui volevo parlarle e che...ho guardato la cartella clinica
di suo figlio e ho visto dell’operazione...»
«Preferirei che
dell’aggressione non trapelasse nulla.» lo ammonì Jennifer.
«No, certo che
no. Non è certo quello il problema.» rispose lui. «Il fatto è che
Justin ha sbattuto la testa cadendo.»
Brian sentì il
sangue gelarsi nelle vene ed un vecchio incubo mai realmente sopito
riaffiorare nella sua mente. Di nuovo il rumore secco della mazza che
lo colpiva tornò a rimbombargli nelle orecchie e dovette respirare
più a fondo per calmarsi. «C’è stato qualcosa, dovuto alla
caduta?» chiese poi pronunciando quelle parole a fatica.
«Pare di no,
almeno dalla T.A.C.» rispose il dottore con professionalità,
nonostante avesse scorto perfettamente il terrore che aveva solcato
quegli occhi verde scuro. «Ha riportato solo una piccola ferita poco
sopra il sopracciglio, ma consiglio di tenerlo comunque d’occhio,
soprattutto quando dorme. Dovreste svegliarlo ogni ora almeno per i
primi giorni.»
«Teme che non si
risvegli?» si azzardò a chiedere Jennifer.
«No, no. Sembra
stare bene, ma è solo una procedura di sicurezza. Non voglio fare
dell’allarmismo, è solo una precauzione.»
«Ok, non c’è
problema.» rispose Brian. «Possiamo vederlo adesso?»
«Sì,
certamente.»
«Vai tu intanto.»
gli disse Jennifer, decisa a lasciagli un po’ di tempo da solo con
il figlio. Ormai aveva imparato a conoscere Brian ed era certa che ne
avesse davvero bisogno. «Io devo parlare ancora un attimo con il
dottore per la dimissione.»
Lui le rivolse
prima uno sguardo sorpreso, poi comprese il motivo del suo gesto e la
guardò con sincera gratitudine, prima di stringere la mano sulla
maniglia della porta.
Per qualche
secondo la sua mente viaggiò ancora indietro, ricordando in un flash
un vecchio passato in cui era rimasto a vegliare su quel raggio di
sole ogni notte, senza avere mai neanche tentato di varcare la soglia
che li separava, fermato dal suo orgoglio e dalla sciocca convinzione
di non aver bisogno di nessuno.
All’epoca, anche
se sentiva chiaramente la presenza di quello squarcio doloroso al
centro del petto, mai avrebbe ammesso quanto ci fosse di Justin in
quella ferita.
Le cose però
erano cambiate, senza che lui potesse davvero controllarle. Gli erano
sfuggite di mano, e da uno stizzito “Che cazzo ci fai qui” era
passato ad un “Dove cazzo sei”; dallo scacciarlo via e dirgli che
lui non credeva nell’amore, era arrivato a sussurrargli di amarlo e
di volerlo sposare, fino a sacrificare tutto per lui, pur di vederlo
felice e senza alcun personale rimpianto.
Dalla prima volta
in cui aveva sostato dall’altra parte di un vetro d’ospedale
erano cambiate così tante cose da non riuscire neanche a tenerne il
conto, e solo una costante era rimasta immutata: Justin.
Adesso però a
fermarlo non c’erano più le sue sciocche questioni d’orgoglio,
né i suoi dogmi. Non aveva paura di ammettere di tenere a qualcuno;
non aveva paura di ammettere che Justin contava più di qualsiasi
altra cosa...
Spinse su quella
maniglia con decisione e mosse il primo passo oltre la soglia.
Il cuore prese a
battergli furioso all’altezza della gola, prima di esser
inghiottito da questa, nel preciso momento in cui i suoi occhi si
posarono sulla figura minuta che giaceva sul letto, avvolta dal
bianco candido delle lenzuola.
I lunghi capelli
biondi, spanti casualmente ed arruffati sul cuscino, risaltavano come
tanti piccoli raggi; una corona dorata e luminosa sotto cui la pelle
di Justin sembrava esser fatta di pura porcellana. Le morbide
palpebre che Brian amava baciare, ancora chiuse, terminavano nelle
lunghe ciglia chiare che ombreggiavano la piccola porzione di pelle
sotto gli occhi, già resa lievemente più scura dai segni della
stanchezza, mentre le labbra dischiuse e rilassate, svettavano nel
loro roseo colorito.
Justin dormiva
beato, muovendosi appena nel petto per il ritmico e lento respiro, e
per un attimo ancora a Brian tornò in mente quel ragazzino appena
diciottenne che già era stato costretto a fare i conti con la morte
ed a scamparne per un puro miracolo.
Della
determinazione e della forza che scaturiva da quegli occhi blu chiaro
non c’era alcuna traccia; si mostrava solo un ragazzo indifeso,
bello come un angelo, e mai come allora Brian sentì dentro di sé il
desiderio di proteggerlo.
Certo, l’aveva
fatto innumerevoli volte – alcune anche senza rendersene conto –
e gli aveva insegnato tanto per affrontare la vita, ma a volte
tendeva a dimenticare che quello davanti a lui non era che un ragazzo
di ventitré anni e non un uomo. Dimenticava la sua età per la
maturità che aveva sempre dimostrato; si scordava quanto in realtà
potesse aver bisogno di un aiuto, solo perché continuava a voler
risolvere tutto da solo e a non chiedere mai niente a nessuno...
E anche in
quell’occasione, l’unica vera motivazione per cui si era ridotto
così, era proprio perché, come al solito, aveva voluto strafare.
Justin era sempre
stato più maturo della sua età sì, ma anche lui aveva i suoi
stupidi colpi di testa; anche lui prendeva decisioni sciocche, mosse
dall’istinto e, anche lui aveva bisogno di qualcuno che sapesse
tenergli testa e a cui potesse anche appoggiarsi e sostenersi.
Justin sapeva
camminare da solo, aveva una strada da percorrere ed era anche
perfettamente indipendente, proprio come lo era sempre stato lui, e
questo lo rendeva più orgoglioso che mai...ma come tutti, aveva
bisogno di qualcuno con cui poter gioire dei propri successi;
qualcuno di cui gli importasse davvero, una persona per cui rientrare
a casa con il sorriso...
Justin,
semplicemente, aveva bisogno di Brian al suo fianco, non come persona
a cui riferirsi o da idolatrare, ma come complemento della sua vita.
Due pezzi che riescono anche a stare in piedi da soli, terribilmente
diversi, ma allo stesso tempo componenti perfetti di un’unica
entità.
E questa
consapevolezza fu come una scarica al cervello per Brian.
L’aver
finalmente capito che la sua presenza non avrebbe davvero interferito
con la vita di Justin, ma ne sarebbe stato solo il pezzo mancante;
esattamente come lo stesso Justin lo sarebbe stato per lui.
Con un sospiro si
avvicinò a letto, maledicendosi per come quelle guance morbide e
chiare si erano scavate per via della stanchezza o per quel cerotto
bianco posto sul sopracciglio a nasconderne la ferita; e non riuscì
a trattenere la propria mano quando questa si mosse per sfiorare
l’artista in una carezza.
Le punte delle sue
dita sfiorarono l’epidermide lattea, tracciando il contorno della
guancia, risalendo per la tempia fino a raggiungere una di quelle
ciocche dorate che lasciò scivolare distrattamente tra l’indice ed
il pollice.
Fece per ripetere
il gesto, quando vide il petto di Justin sollevarsi in un respiro un
po’ più profondo dei precedenti, come se i suoi polmoni avessero
percepito la sua presenza e cercassero di riempirsi del suo profumo.
Le palpebre
tremarono per qualche secondo, prima di sollevarsi e mostrare le due
perle blu che fino ad allora avevano nascosto. Brian sorrise nel
momento in cui queste s’incontrarono con il suo sguardo ed anche un
altro lieve sorriso andò ad increspare le labbra morbide
dell’artista.
«Ehi...» mormorò
il pubblicitario, passando una mano tra i capelli di Justin.
«Sto sognando?»
gli rispose il ragazzo, spostando appena la testa per godere di più
del tocco dell’uomo.
«No.» lo
rassicurò Brian. «Sei sveglio e sei un perfetto coglione.»
Gli occhi blu
chiaro, ancora appannati dal sonno, si spostarono lentamente per
tutta la stanza. «Dove...dove sono?» domandò poi, inarcando le
ciglia chiare.
«In ospedale. Hai
avuto un esaurimento.»
«Ah...» si
limitò a commentare, ancora confuso. «Non ricordo niente. Solo
che...che stavo dipingendo, credo.»
«Forse avresti
fatto meglio a mangiare qualcosa, invece che giocare con i pennelli,
non credi?» disse in tono retorico ed ironico Brian; e a Justin non
sfuggì che si trattava di un rimprovero.
«Mi dispiace.»
«Resti comunque
un perfetto idiota.»
«Lo so.»
Brian avvicinò
una delle sedie al letto e si tolse il cappotto. Si sedette il più
vicino possibile e prese a giocherellare distrattamente con una delle
mani di Justin; così piccole al confronto con le sue, ma le cui
sottili dita sembravano esser state fatte apposta per potersi
infilare tra le sue. «Come ti senti?» domandò poi, cercando di
nascondere almeno un po’ l’apprensione dietro un tono disinvolto.
«Indolenzito e
sfinito.» rispose Justin, dopo averci riflettuto un attimo.
Brian sorrise
sornione e sollevò le sopracciglia. «Allora non c’è da
preoccuparsi, dovresti esserci ormai abituato da anni.»
Le labbra
dell’artista si piegarono in un sorriso, divertite dal riferimento
dell’uomo alle loro ormai famose e sfiancanti performance tra le
lenzuola; poi socchiuse le palpebre e voltò la testa verso il
pubblicitario. «Sai? Quando ti ho visto ho creduto davvero fosse
solo un sogno.» si leccò le labbra e sorrise ancora. «‘Ci
vediamo nei tuoi sogni’...ricordi?»
«Qualcosa di
vago.» borbottò Brian, pur ridacchiando di quel vecchio aneddoto;
se solo all’epoca avesse potuto immaginare quanto si fosse
sbagliato...
«Sicuro che non
sto sognando?»
«Raggio di
sole, non è che l’ospedale ti trasforma in una lesbica
paranoica?»
Justin rise. «Ok,
non è un sogno.»
«No, altrimenti
non saremmo certo in una stanza che puzza di disinfettante, ma a
scopare su qualche spiaggia caraibica.»
«Sempre così
romantico.» commentò l’artista in tono canzonatorio, continuando
a tenere gli occhi chiusi e quel lieve sorriso sulle labbra.
«Faccio del mio
meglio.»
Continuarono a
guardarsi – occhi verde scuro incantati da quelli blu – in un
silenzio perfetto che non aveva minimamente il sapore d’imbarazzo,
ma quello di un’intimità rassicurante, come se avessero
improvvisamente creato una bolla tra loro ed il resto del mondo; come
se si fossero rifugiati in un mondo fatto apposta per loro, dove
nessuno avrebbe potuto raggiungerli.
Si sorrisero
vicendevolmente, entrambi consapevoli di quella realtà, e fu proprio
per quella bellissima sensazione ritrovata che Brian si decise a
parlare: «Ti voglio a casa con me.»
Sei semplici
parole, pronunciate piano, ma che parvero rimbombare nella stanza
come un eco infinito; una frase che alle orecchie di Justin sembrò
una melodia netta, breve, ma bellissima, tanto da togliergli il fiato
e lasciarlo incredulo per un breve istante.
Credette perfino
di non aver sentito bene; che quello fosse davvero solo un
sogno, ma nell’intensità con cui quegli occhi verde petrolio lo
osservavano, capì di non essersi sbagliato.
Non era solo
un’illusione. Brian aveva finalmente pronunciato quelle parole che
per mesi e mesi aveva sperato di sentirgli dire, così tanto da non
contarci più.
Avevano finito per
trasformarsi in un desiderio vecchio e sbiadito, troppo lontano dalla
realtà e troppo doloroso per essere ricordato; un po’ come quel
loro mancato matrimonio.
Qualcosa però si
era smosso nell’ostinato Brian Kinney; qualcosa che gli aveva
improvvisamente ricordato che si vive una volta sola e che di
rimpianti è meglio averne pochi o non averne affatto, soprattutto se
a causa di convinzioni che non hanno né capo né coda.
Qualcosa gli aveva
ricordato che qualche volta si deve reclamare per sé quel che si
vuole; che può esserci la necessità di un minuscolo gesto
egoistico, pur di esser felici; e Justin sapeva che quel
qualcosa era la vecchia paura di perderlo, che era tornata a fargli
visita e a dargli finalmente una scrollata. «Devi sempre aspettare
che succeda qualcosa per dirmi che mi vuoi con te?» gli domandò
allora con un sorriso.
Prima
l’aggressione, poi l’arrivo di Ethan, il cancro, perfino una
bomba ed infine il suo esaurimento con conseguente ricovero.
Brian era sempre
stato un perfetto, inguaribile incapace con i sentimenti e questo non
sarebbe mai cambiato neanche tra miliardi di anni o mille vite. C’era
sempre voluto molto più di una bella scossa per smuoverlo.
«‘Certe cose
non cambiano mai’.» lo citò infatti il pubblicitario con un
sorrisetto. «L’hai detto anche tu, no?»
«Già, ma perfino
i gatti hanno solo sette vite...e io sono già un bel po’ avanti
con i jolly consumati.» emise un falso sospiro sconsolato e sollevò
gli occhi. «Finirò per crepare bello e giovane come
ogni artista che si rispetti.»
Brian gli tirò
una lieve pacca sulla fronte. «Ma sta’ zitto, James Dean dei
poveri.»
«Sei solo
invidioso perché tu ormai non puoi più morire giovane.»
«Dì la verità,
stronzetto, vuoi per caso consumare tutti insieme i jolly
rimasti?»
Justin gli
sorrise, mostrandogliene finalmente uno di quelli luminosi che gli
era valso il soprannome affibbiatogli anni prima da Debbie. «Sono
troppo stanco per discutere con te.»
«Allora
riposati.» rispose Brian, accarezzandogli ancora una volta la fronte
chiara. «Mi servi rigenerato per quando torneremo a casa. Ho
intenzione di scoparti come si deve.»
Justin restò ad
osservarlo ancora per un po’. Le palpebre si stavano facendo sempre più
pesanti, ma non voleva chiuderle e addormentarsi. Brian gli aveva
detto di volerlo con sé, ma era ancora troppo spaventato.
Una minuscola
parte di sé continuava a temere che, se si fosse assopito anche solo
per qualche secondo, tutto quello che si erano detti sarebbe svanito.
«Non ho sonno. Non voglio dormire.» pronunciò allora, dandosi
mentalmente dell’idiota per come la sua voce era apparsa
incredibilmente infantile.
Brian però gli
sorrise ed accostò appena le proprie labbra a quelle di Justin, in
un dolce bacio, prima di sfiorare la punta del naso contro la sua.
«Dormi.» gli ordinò poi. «Non vado da nessuna parte.» e a quel
punto il piccolo artista, chiudendo gli occhi lentamente e
increspando le labbra piene in un sorriso beato, comprese che l’uomo
di cui era innamorato l’aveva capito ancora una volta, senza il
bisogno di parole.
«Torniamo a
casa.» fece poi in tempo a sussurrare, prima che il sonno arrivasse
ad avvolgerlo nel suo abbraccio.
"...Lights will guide you home,
and ignite your bones,
and i will try to fix you."
***
Note finali:
No,
come vedete non sono morta...almeno non per ora! XD Tra un po' non so
se sarà lo stesso, visto che ho degli esami da dare, ma
sorvoliamo!
Mi dispiace aver tardato tanto, ma sono stata davvero tanto incasinata in questo periodo! Perdonatemi! :(
Purtroppo sono ancora di fretta, quindi dovrò salutarvi
frettolosamente...non so se questo capitolo vi è piaciuto ma,
è un po' come se fosse la "fine" della prima parte di questa
ipotetica sesta stagione.
Come vedete Justin torna a casa, questo però, come insegnano i
cari CowLip non è sempre sinonimo di tranquillità...e poi
c'è ancora la situazione di Ted e Blake da risolvere, Emmett con
Jace, ma anche un ipotetico ritorno di Drew ad "aleggiare" così
come quello di "Auerbach" per Mel e Linz, che a loro volta sono ancora
a Toronto con Gus e JR a cui badare; Gary non è ancora sparito e
con lui neanche Brandon, per non parlare di Hunter o delle sue "ziette"
- come le chiamerebbe Brian - Michael e Ben.
Insomma, ne ho anche fin troppe da risolvere, quindi altrettante da scrivere!
Intanto però spero vi siate godute questo capitolo, e spero di poter far arrivare il prossimo tra Natale e Capodanno, visto che parte del prossimo parlerà anche del 25 Dicembre!
Farfugliamenti a parte credo sia l'ora di passare alla parte più importante di tutte:
RINGRAZIAMENTI!
Un gigantesco grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere, a chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto grazie a: mindyxx, SusyJM, electra23, Thiliol, Clara_88, giacale, silvergirl, EmmaAlica79, Katie88, Gojyina e Erikioba per aver recensito! :) Grazie davvero!
Detto questo devo proprio salutarvi e scappare!
Spero davvero vi sia piaciuto anche questo capitolo! :)
Un bacione e a presto.
Veronica.