Non alla polvere, non al rancore né al fato

di Lightlyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La collina ***
Capitolo 2: *** Un futurista ***
Capitolo 3: *** Un principe ***
Capitolo 4: *** Un chirurgo ***
Capitolo 5: *** Una strega ***
Capitolo 6: *** Un disperso ***
Capitolo 7: *** Un sognatore ***
Capitolo 8: *** Un soldato ***



Capitolo 1
*** La collina ***


Non alla polvere, non al rancore né al fato



I Campi di Battaglia


Dove sono i figli della guerra 
Partiti per un ideale 
Per una truffa
Per un amore finito male
Hanno rimandato a casa 
Le loro spoglie nelle bandiere 
Legate strette perché sembrassero intere.

Dormono, dormono sulla collina 




I


Un singolo refolo d’aria smosse la sabbia rossastra, sollevandola in un mulinello che andò a stagliarsi come un ventaglio granuloso contro il cielo ambrato.

Il corvo sbatté ancora le ali, scuotendo di nuovo il velo sottile di polvere frammista a cenere e rocce sbriciolate, e atterrò con un ticchettio d’artigli sulle cromature rosso-oro semisepolte tra le dune. Gracchiò piano, quasi sottovoce, inclinò la testa e picchiettò il metallo col becco: una volta, due, per poi attendere qualche secondo, e di nuovo una, due, tre, senza ottenere reazione.

Rimase ancora in attesa, con gli occhi d’onice che guizzavano ora sulle placche metalliche e scempiate, ora sul brillio azzurrino incastonato al centro di esse, finché un richiamo simile al suo non risuonò sopra di lui, spezzando il silenzio desolato. Sollevò la testa affilata, distinguendo la sagoma d’ombra di suo fratello volteggiare contro il cielo smorto e itterico di Titano. Mosse il capo piccolo e nero con uno scatto, come se cercasse conferma di qualcosa.

Arruffò le penne, beccò un’ultima volta la mano inerte e ustionata dell’uomo di ferro riverso nella sabbia e spiccò il volo con un altro sbuffo di terra e cenere. Affiancò il fratello, compì con lui un lento, ampio giro sopra quella tomba a cielo aperto e poi puntò con lui verso il cielo, con battiti d’ali sempre più rapidi, fino a svanire con un ultimo baluginio che si confuse con quello delle stelle.


II


Nel buio siderale, un bagliore metallico catturò l’attenzione rapace del corvo: i resti di un’armatura regale, spoglie di un principe o di un mancato re. La corazza di pelle e d’oro scintillò nel buio, gli occhi verdi, spalancati, fissi nello stupore della morte, rifletterono l’immagine del volatile. L’animale gracchiò, come se volesse risvegliare il guerriero caduto o lamentarsi della sua fine. Il suo verso stridulo riempì l’aria rarefatta e, dopo un volo d’ispezione, atterrò sullo spallaccio sbeccato del dio caduto, incrostato di polvere, con sopra i segni di una deriva che l’aveva condotto fin là, sulla terra grigia. Il relitto dell’astronave si era arenato su un asteroide o forse su un pianeta, trascinando con sé lo sguardo vuoto e attonito del dio degli inganni che non aveva potuto mettere in atto l’ultima delle sue trovate, forse.

Una goccia cristallizzata si era fermata a metà strada tra una pupilla e le ciglia, segno di una punizione breve, ma crudele. Gli altri, l’animale li trovò sul collo spezzato del principe reietto di Asgard che non c’era più. Chiazze livide marchiavano la pelle: era l’impronta della mano crudele del Titano, che aveva voluto infierire sul suo servo infedele, bugiardo fino all’ultimo, tranne che per quell’ultimo sguardo lanciato al fratello sopravvissuto chissà dove, chissà come.

Il corvo lo sapeva. Lo lesse negli occhi vitrei del principe degli Asi sconfitto, così come venne a conoscenza di molte, troppe cose. Forse.


III


Le ali cupe dei due fratelli planavano sulla scia dei venti caldi sfiorando la steppa e agitandola in onde serpeggianti che increspavano quel mare arido. Un sottile pulviscolo grigiastro permeava l’aria, creando fantasmi di cenere visibili solo quando i raggi del sole calante ne accendevano i granelli in fugaci riflessi dorati.

I corvi si lasciarono alle spalle il campo di battaglia, tagliato da solchi profondi come trincee, col suolo butterato da impatti violenti ed esplosioni, marchiato a fuoco da reticoli nerastri e contorti che, visti dall’alto, componevano una sorta di decorazione funebre attorno ai cadaveri alieni che ancora costellavano la pianura.

Avvinghiarono gli artigli lucidi e neri sul ramo contorto di un’acacia solitaria al limitare della giungla, e indirizzarono i loro sguardi verso il folto della selva. Là, la luce fioca che riusciva a superare la coltre di foglie si rifletteva, accecante, sulla sagoma di un guanto bronzeo abbandonato sul suolo molle e umido. Le gemme incastonate nelle nocche e sul dorso mandarono un lieve lucore, come di braci morenti.

Uno dei corvi allungò il collo verso l’oggetto, l’altro si guardò attorno in uno scatto allarmato. Incrociarono gli sguardi d’onice, in una domanda muta, per poi tornare a fissare quella reliquia, in attesa.


IV


Una brezza vivace scompigliava le fronde verdi degli alberi che punteggiavano Central Park, già screziate dalle prime tracce ambrate dell’autunno.

Nessuna cosa pareva mutata, eppure in ogni strada, sentiero, anfratto dominava l’eco di un unico, singolo gesto: lo schiocco letale.






Note delle Autrici:

Cari Lettori,

Questa long, scritta a quattro mani dalle sottoscritte
_Lightning_ e shilyss, trae ispirazione da un disco di Fabrizio De André che entrambe amiamo molto: stiamo parlando di Non al denaro, non all’amore né al cielo, un concept album ispirato, a sua volta, all’Antologia di Spoon River di E. Lee Masters. Le varie canzoni dell’album ci hanno spinte a riflettere sulla fine dei nostri eroi così come l’abbiamo vista nel tragico Avengers: Infinity War.
Vedrete nei prossimi capitoli come e quanto abbiamo usato e rielaborato i testi del bellissimo disco di Faber.
Per ora, vi lasciamo a qualche breve considerazione: i corvi descritti in questo primo capitolo introduttivo sono Huginn e Muninn, i servitori di Odino che abbiamo immaginato adesso servano Thor. A questo proposito, nel prologo e nel corso dei capitoli abbiamo inserito/inseriremo alcuni elementi appartenenti ai nostri headcanon. Vi lasceremo ogni riferimento in merito nelle NdA. 


Questa intro, nelle sue varie sezioni, è stata scritta interamente e fisicamente a quattro mani. Ci siamo "spartite" gli altri capitoli, e verrà sempre specificato chi delle due li ha scritti, fermo restando che in tutti è presente comunque una commistione di idee da parte di entrambe, con correzioni, aggiunte e suggerimenti reciproci.

Gli aggiornamenti saranno ogni mercoledì, e assicuriamo la puntualità dei prossimi due, in quanto già scritti.
Grazie per aver letto, speriamo abbiate gradito questo primo capitolo :)

Lightlyss

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Capitolo 2
*** Un futurista ***


Un futurista


Seguite con me questi occhi sognare
Fuggire dall’orbita e non voler ritornare.
Son morto in un esperimento sbagliato,
proprio come gli idioti che muoion d’amore
Ma le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano erba fiorita




Io non l’ho mai neanche voluta, una tomba.

Ho manie di grandezza, dicono, ma non mi è mai fregato nulla del modo in cui sarei stato sepolto. Non voglio statue o cripte o mausolei, non voglio una lapide che dica “qui giace Tony Stark”, perché quel “qui” mi incatena, mi blocca l’orizzonte, mi fissa nello spazio definito di una fossa due metri per tre quando non mi basterebbe l’universo. Ho manie di grandezza, dicono.

La verità è che per quanto mi riguarda preferirei che spargessero le mie ceneri in mare e tanti saluti – Pepper lo sa e l’avrebbe fatto, ma sono contento di evitarglielo. Non ha bisogno delle mie spoglie: le ho lasciato la mia voce e quelle che credevo sarebbero state le mie ultime parole per lei. Alla fine, lo sono state davvero. Le ho lasciato la mia promessa, il mio “sì” che non ho potuto pronunciare davanti a lei, e che tra spero molto tempo potrò sentire ricambiato.

In fin dei conti, non mi dispiace essere morto a qualche anno luce dalla Terra. Sono sicuro che qualcuno piazzerà comunque una lapide a Santa Monica accanto ai miei, perché se a me un “qui” va stretto, per gli altri vuol dire il mondo.

Ma la mia tomba ufficiale sarebbe altrove, sulla sabbia rossa di Titano e soprattutto a cielo aperto, perché non posso immaginarmi con due metri di terra sugli occhi a precludermi la vista del luogo che amo di più.

Sto guardando il lato positivo. Sono sempre stato ottimista, anche quando non volevo davvero esserlo. Solo un ottimista avrebbe potuto ostinarsi a fare ciò che facevo sperando che sarebbe cambiato qualcosa… e Rhodey direbbe che solo un inguaribile ottimista potrebbe davvero trovare dei lati positivi all’esser morto.

Sapevo che sarebbe successo con l’armatura addosso. L’ho sempre saputo, sin dal momento in cui Yinsen ha dato l’ultima stretta di bullone alla Mark I; si può dire che ho sempre cercato di fare in modo che la morte mi cogliesse nel mio abito migliore. Nel mio abito più utile, quello che ho sempre indossato per rimediare alle valanghe di errori che mi lascio sempre dietro. Il monumento alla mia memoria avrà sempre quegli errori come fondamenta, né vorrei mai che venissero nascosti. Serve un metro di paragone, per puntare in alto e migliorarsi, e per molti versi sono un ottimo esempio da non imitare. Gli eroi diventano obsoleti, arrugginiscono, vengono superati. Lo capirà anche Peter, prima o poi.

Io l’ho capito molto, troppo in ritardo. Inseguivo mio padre come si insegue un’ombra per terra, magari calpestandola di tanto in tanto quasi per sbaglio, illudendomi di averla raggiunta, ma rimanendo sempre oscurato da ali troppo lontane sopra di me. Non mi ero reso conto che mi aveva lasciato tutto ciò che mi serviva per costruire le mie. Aveva sempre rivolto gli occhi al futuro, ma non avevo mai capito che quel futuro includeva anche me. Mi aveva semplicemente aperto la strada lasciandomi una traccia, ed è quello che ho provato a fare anch’io, con o senza armatura. So di aver fatto il possibile, anche se non saprò mai se sarà stato abbastanza, come non lo saprà mai mio padre.

La vita è fatta per guadagnare tempo che altri sfrutteranno a nostra insaputa, e in un certo senso quel tempo ti appartiene, anche se tanto per cominciare non è mai stato davvero tuo: l’hai solo preso in prestito da chi l’ha guadagnato prima per te. Tempo ricevuto, tempo restituito, tempo dato.

È solo per effetto di questa semplice equazione che sono uscito da quella grotta, e che mi sono buttato in un portale con una bomba sulle spalle. È per questo che sono riverso sulla sabbia sanguigna di Titano, con un guanto annerito e contorto a fasciarmi la mano ustionata e il corpo spezzato come la mia armatura.

Sono morto col cielo stellato impresso negli occhi un attimo prima di chiudere le palpebre, fissando quegli astri brillanti che non mi fanno più paura e rivolgendo un ultimo pensiero guizzante ad altri occhi cerulei. Non saprei dire perché ho sorriso col mio ultimo respiro. Forse per ricordare all’universo che sono pur sempre Iron Man, anche in faccia alla morte; forse perché voglio sperare che chi mi ha amato o ammirato sappia dove guardare quando mi cerca; forse perché, in fondo al cuore, ho sentito di aver fatto finalmente quell’unica cosa giusta che ho rincorso per una vita intera.

Spero che stavolta sarà abbastanza.





Note Dell'Autrice (Light):

Cari Lettori,
scrivere questo capitolo è stato un po' un colpo al cuore per motivi credo intuibili, e spero che lo sia stato anche per voi intrepidi che siete arrivati sin qui <3
L'idea di ispirarci all'album di De André implicava un fattore fondamentale, ovvero che le sue canzoni, e il libro da cui sono ispirate, sono epitaffi. Quelli che pubblicheremo saranno proprio questo: epitaffi sui generis, per così dire.
Il contesto del capitolo si rifà a uno dei miei (troppi) headcanon riguardanti Tony, in cui è lui ad utilizzare il Guanto dell'Infinito per ristabilire l'ordine (ciò avviene nei fumetti, nei quali è il primo essere umano a impugnare il Guanto e usarlo per questo scopo).

Come avrete notato, la canzone iniziale è una sintesi di varie canzoni dell'album, e così sarà anche per le altre della raccolta: volevamo rimanere fedeli all'album, ma ci siamo rese conto che far corrispondere un personaggio ad una canzone singola era troppo limitante, oltre che spesso OOC, e abbiamo preferito optare per questa soluzione, assegnando poi ad ogni "remix" il titolo adeguato.
Per Tony, il "Futurista" per eccellenza, ho scelto dei versi da Un ottico, Un chimico e Un matto.

Ringraziamo serica, FireAngel, Miryel, T612 e _Atlas_ per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite. Ci rendete donne felici <3

Il prossimo aggiornamento sarà di nuovo mercoledì, e stavolta sarete nelle grinfie della mia collega :P

-Light-

 

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Capitolo 3
*** Un principe ***


 

Un principe

 

 

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore

[che] mai più mi chinai e nemmeno su un fiore

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo

Lo costrinse a ignorare che al mondo c’è il bene e c'è il male

E non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato

Ci costringe a sognare in un giardino incantato

[Fabrizio De André, Un Giudice/Un blasfemo]

 

 

Non c’è nessun rumore attorno a me, solo il silenzio irreale di un universo offeso, dimezzato, spezzato. Come il mio collo. Ha rotto l’osso, l’ho sentito.

C’è chi sostiene che il mio ultimo inganno è stato eccezionale. Fingere di morire per salvare la vita al protettore dei Nove Regni, al mio fratello degno e perfetto, andarmene come l’eroe che avrei potuto essere, che, forse, sono stato, per poi tornare ammantato di tutti i miei gloriosi propositi. Sì, alla notizia della mia sfortunata dipartita, in molti si sono chiesti quanto sarebbe durata stavolta la farsa, da dove nascesse la mia ostinazione nel voler replicare sempre lo stesso trucco.

Ve lo chiederete per sempre, se sono morto veramente? Tratterrete il fiato in attesa di veder comparire il mancato re, il dio degli scherzi e degli inganni? Beh, lasciate che ve lo dica. Lì sta il mio potere. Nel battito accelerato del vostro cuore nel petto, nella scintilla di dubbio che v’illuminerà lo sguardo ogni volta che un’ombra vi farà sussultare, la notte.  

Che Loki sia tornato? Questo, vi domanderete.

Thor continuerà ad aspettarmi. S’interrogherà finché Hela non chiuderà i suoi occhi sull’alba gloriosa che gli ho promesso. Si lascerà incantare dall’illusione della mia ultima, necessaria, bugia.

Lei no, mi raggiungerà presto perché ha parlato con le Norne e, così, ha saputo com’è stato spezzato il mio filo[1].

Sono nato per essere re. Nelle mie vene scorre il sangue potente dei Giganti di Ghiaccio, la mia astuzia è figlia diretta di quella del dio delle forche che barattò un occhio in cambio della conoscenza[2]. Il mio aspetto è inganno, è il trucco indispensabile per sopravvivere che ho sperimentato per non crepare su un picco di ghiaccio. Sono il dio del caos: i miei piani sono mutevoli, come la mia natura. Io t’incanterò con le mie parole, ti trascinerò assieme a me in un vortice fatto di caos e meraviglia e tu, che sarai la mia preda, non potrai fare altro che lasciarti trascinare dal suono della mia voce. In molti raccontano ancora come sia sempre stata suadente e implacabile; un’arma affilata che ho imparato usare fin troppo bene.

 

Thanos mi ha spezzato l’osso del collo e mi ha gettato via come una cosa vecchia e rotta, ma sapete cos’è che ha dimenticato di considerare, lui che non sarà mai un dio e verrà chiamato folle?

Che l’avevo previsto o, forse, me lo aveva sussurrato Skuld, la Norna con l’aspetto d’una bambina, colei che fila il futuro. Il Titano mi ha sollevato da terra e ha stretto fino a quando non m’ha tolto il respiro. È stato il prezzo necessario da pagare affinché Thor avesse la possibilità di fermarlo, ma brucia ancora, su questa cosa che alcuni chiamano anima, la stretta crudele delle sue dita.

Era l’unico modo, mi dico, ma lo schiocco fatale ha riempito comunque i cancelli di Hel d’un numero infinito di anime provenienti dagli angoli più remoti dell’universo e allora tutto questo appare vano, come il colpo andato a vuoto del fratello che ho inseguito per una vita, che mi ha cercato finché la morte di un padre severo e con troppe colpe sul capo non ci ha riuniti.

Odino, sono il dio dell’inganno grazie a te.

Asgard non esiste più e io ho scommesso la mia vita sulla disperazione d’un manipolo di saltimbanchi appoggiati da mio fratello. Un piano ardito persino per me, forse, ma guardateli adesso, guardateli ora[3], seguite il mio dito, ascoltate la mia voce: si rialzeranno e allora avrò anch’io la mia vendetta.

 

Il Titano mi ha spezzato il collo e ha provato un certo gusto, nel farlo, perché col mio fallimento su Midgard ho ritardato il suo folle piano. Ho sempre saputo che mi avrebbe ucciso. Siamo nati per essere re: vendicare gli asgardiani era ciò per cui ci hanno educato e addestrato. Nessuno è bravo come me – o dovrei dire era, a questo punto – a valutare possibilità, a ordire piani. Eppure, qualcosa scava e gratta in fondo al mio petto.

I re combattono.

C’è amarezza, nella mia voce? Nella voce di uno spettro perduto in mezzo all’universo sconfitto? Thor continuerà a sperare, a combattere, a lottare, e io rimarrò qui, ombra tra le ombre, sulla soglia dei confini del Valhalla, a osservare, forse.

Il nostro è soltanto un discorso sospeso, Thanos[4].

Come la morte.

Tornerà a splendere il sole su Asgard.

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice:

 

Cari Lettori,

Ecco a voi Loki.

Frequento raramente questo fandom come autrice, ma eccomi qui. La carissima e bravissima collega _Lightning_ vi terrà compagnia la prossima settimana, quindi sì, ecco a voi shilyss. Chi mi conosce già, sa quanto ami scrivere di questo personaggio controverso e affascinante. Infinity War mi ha spezzato il cuore, semplicemente. Stavolta, sono state usate due canzoni di De André, per rendere al meglio la mia visione del nostro bugiardo preferito. Nel testo sono presenti i riferimenti ad altre mie storie che fanno parte del mio canone, Sapevano di vino le tue labbra e Solo una promessa, fratello.

 

Il Loki che vediamo tra Ragnarok e Infinity War non è lo stesso di Avengers; il momento chiarificatore con Odino e il veder soffrire Thor hanno riaggiustato una serie di torti, così come appare con evidenza proprio dal sacrificio (è mia convinzione che sia stata una mossa deliberata) che Loki fa in IW.

Nel testo sono presenti moltissime citazioni prese dalle battute di Loki stesso nel MCU e alcuni riferimenti alla mitologia norrena a me carissima, spiegata sempre nelle note.

 

Il Loki di questa storia è uno spettro, diviso tra desiderio di vendetta, fierezza e… molto altro.

Colgo l’occasione per ringraziare di cuore quanti hanno messo la storia nelle liste di Efp e i coraggiosi recensori che hanno lasciato un loro parere. Grazie di cuore ♥ e alla prossima settimana.

 

Vostra,

 

Shilyss



[1] Mi riferisco al personaggio, non presente nel MCU, della sposa del dio degli inganni: Sigyn, la dea della fedeltà. Nel mito, è colei che resterà accanto a Loki durante il lungo supplizio cui verrà condannato il marito dalla morte di Balder al Ragnarok, la fine del mondo norrena. Se volete approfondire di più questa figura, sbirciate nel mio account. Le Norne sono le Parche norrene e svolgono la medesima funzione di tessitrici del destino di uomini e dèi.

[2] Così nell’Edda è narrata la perdita di un occhio da parte di Odino, appellato come dio delle forche.

[3] Ricorda Il testamento di Tito, De André.

[4] Ricorda La ballata degli impiccati, De André.

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Capitolo 4
*** Un chirurgo ***


Un chirurgo

   

Inutile al mondo ed alle mie dita,
un giorno [avevo] ebbi il potere
di sposare gli elementi e farli reagire.
Vedo gli amici ancora sulla strada,
loro non hanno fretta,
rubano ancora al sonno l’allegria.
Qui sulla collina dormo malvolentieri,
eppure, c’è luce ormai nei miei pensieri.

 

 

Quattromilaottocentosettantacinque.

Il Titano si accorge di noi, solleva la sua mano guantata e precipita la luna su questo pianeta vermiglio. Il piano si sfalda prima di cominciare, il filo della vittoria mi sfugge dalle dita e ne vedo cadere le due estremità recise nel vuoto astrale. Siamo tutti abbattuti nel nostro stesso sangue.

Perdiamo.
Io muoio.

 

Cinquantaseimiladuecentosettantatré.

Riusciamo a sorprenderlo, a incatenarlo al suolo, a strappargli il Guanto, quasi. Trattengo Quill, Peter gli sottrae il Guanto, Stark e gli altri inchiodano a terra il Titano vinto e sembra la fine. Il filo continua però nel futuro, si snoda sinuoso in un sentiero di luce inghiottito dal buio, quando si tronca di netto con uno schiocco lontano.

Perdiamo.
Io muoio.

 

Novecentosettantottomilanovecentoventisette.

Lo vinciamo, senza perdite. Il filo sembra farsi più saldo, una cima di sicurezza che trattiene tutti noi nel mondo, ma ancorato all’orizzonte.

Oltre, il nero, e il grido di anime perdute che riverbera nell’aria tesa. Non c’è nulla, qui, solo il tempo che scorre a passi lenti e pesanti, seguendo una muta processione funebre avviata nel gorgo. Il filo della vittoria è perduto, dissolto tra le mie dita tremanti; s’ingarbuglia e diventa confuso, impigliandosi alla mia vita che continua.

Io vivo.
Perdiamo.

 

Tre milioni e ottocentoseimilaseicentoventidue.

L’ennesima sequenza scorre davanti ai miei occhi chiusi, sempre uguale, eppure diversa, mutando un gesto, una parola o un pensiero di una delle pedine disposte su questa scacchiera di morte, unite per sconfiggere un Re troppo potente.

Io muoio.
Il Re cade.
Una vittoria.

 
Ma continuo a guardare, ancora, a filare un filo sottile e forse fragile, come quando esaminavo le cartelle di pazienti ritenuti insalvabili alla ricerca del dettagli sfuggito a tutti gli altri occhi. Cerco l’anomalia, la zebra tra i cavalli1, la combinazione scartata perché troppo difficile.

 

Quattordici milioni e seicentosei.2

Nero. Una lastra di granito impenetrabile su cui si schianta la mia coscienza.

Rimango sospeso tra i piani astrali, il cuore che mi pulsa nelle orecchie e che sembra comprimermi il corpo ad ogni battito mentre galleggio nella materia oscura.

  


Una. C’è una sola possibilità.

Nella medicina si ragiona in percentuali: successo e fallimento barcollano, danzano a braccetto, subiscono le spinte del caso e dell’uomo, di mani abili o impacciate, di un fisico fragile o temprato. È una scienza precisa, ma mai definitiva.

L’uno non esiste, in medicina. Non vi è mai sentenza definitiva, e quando c’è, semplicemente non si è cercato abbastanza.

Esistono però le costanti e le statistiche e la logica. Qui c’è un’unica costante, che vedo sì coi miei occhi di Stregone, ma prima con quelli di medico: in entrambe le vesti ho giurato di proteggere vite, mai di spezzarle.3 Mai di lasciarne spezzare la metà.

L’universo dipende da quei giuramenti infranti, adesso. E la mia è una costante d’assenza da portare avanti, così che protegga chi rimarrà, permettendogli di colmare il vuoto e di seguire quel filo teso verso l’orizzonte.

 

 

L’Universo si spegne.
Io muoio.
Ma è l’inizio della vittoria.

Oltre, non riesco a vedere.




 

Note al testo:

1Riferimento a "se senti rumore di zoccoli, pensa a un cavallo, non a una zebra", frase coniata dal dottor Theodore Woodrow e usata in campo medico, resa celebre dalla serie tv Dr. House.
2Strange vede precisamente quattordici milioni e seicentocinque futuri possibili. Ho immaginato che quello fosse il numero massimo di eventi possibili, e che quindi non riuscisse a vederne altri.
3Mi riferisco ovviamente al Giuramento di Ippocrate, e in particolare alla sua versione anglosassone, a parer mio più incisiva di quella italiana: "​If it is given me to save a life, all thanks. But it may also be within my power to take a life [...]. Above all, I must not play at God". Mi sembrava particolarmente adatta al contesto.


Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
Dopo esserci lasciate alle spalle Tony e Loki, arriviamo a Strange che, non ve lo nascondo, si è rivelato uno scoglio abbastanza ostico. È un personaggio che ho sempre amato molto, ma con una personalità affilata e calcolatrice che non avevo ancora avuto occasione di rendere da così vicino. Spero che il risultato sia gradevole, e soprattutto IC.

Ho volutamente evitato di concentrarmi sul futuro vincente e i suoi dettagli, lasciando il centro del palcoscenico all'uomo, medico e guardiano posto di fronte a una scelta immensa, ma che (speriamo) darà i propri frutti.
Le canzoni scelte per l'introduzione sono Un medico, Un chimico, Un ottico e Un matto (come dicevo, è un personaggio difficile da collocare nel contesto della raccolta e mi ha costretta al taglia-e-cuci).

Ringraziamo di cuore tutti coloro che hanno recensito e inserito la storia tra le preferite, ricordate e/o preferite <3
Grazie per spronarci a scrivere e dare il meglio con le vostre belle parole <3

Alla settimana prossima, come sempre mercoledì :)

-Light-

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Capitolo 5
*** Una strega ***


Una strega

 

Mi cercarono l’anima a forza di botte…
Vedo i fiumi dentro le mie vene
cercano il loro mare
rompono gli argini
trovano cieli da fotografare.
Che strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di uomo da dover ricordare.

[Fabrizio De André: Un blasfemo; Un ottico; Un chimico]

 

 

 

Alla fine, lui, Thanos è arrivato: era già nella mia testa, in qualche modo. Prima che la sua ombra coprisse questa terra l’ho visto – anche attraverso altri occhi, l’ho sentito. Come? Grazie a lui.

Scorre nelle mie vene, il potere. È un legame più forte del sangue che arriva al cervello, scava fin dentro l’anima.

Scorre nelle mie vene, il dolore. È il potere della strega scarlatta che ha barattato la normalità in nome di una giustizia personale, saziando la sete di altri: qualcuno l’ha chiamata vendetta, ma non mi è importato.

Ricordo lo scettro e quella pietra dal colore intenso che brillava, rendendo me e Pietro diversi eppure uguali. Così nacque la strega, dal fiume di potere che ci investì risvegliando cose. Eravamo uno, allora, animati dallo stesso senso di giustizia, dalla medesima sete di vendetta. Insieme, eravamo invincibili. Merito del legame che ci univa da una vita, dello sguardo d’intesa rapido che ci scambiavamo di comune accordo, perché per certe cose non servono parole.

Una parte di me è scivolata via quando quel flusso si è interrotto e la nostra connessione fatta di magia, sangue e dolore si è spezzata. Ho pianto sul corpo di Pietro; ho sentito il mio potere sfaldarsi in mille rigagnoli deboli e tremolanti incapaci di rianimarlo, di far da affluenti al suo flusso vitale ormai in secca.

Poi ho visto la mia casa distruggersi, divenire nulla, ho visto le viuzze strette su cui correvano i miei piedi di bambina venir sradicate dal suolo, ho visto il campanile della chiesa svettare più in alto che mai, monito di una fine incombente e annunciata.

A che serve tanto potere, se non ho potuto salvarvi? Che senso ha scorgere il futuro, manipolare le menti, distruggere e creare, se, nel momento più importante, quello in cui dovevo proteggerti, fratello mio, fratelli miei, non ci sono riuscita? A che è servito lottare, se poi sono dovuta rimanere da sola tra le macerie, a combattere altre guerre, a piangere altri morti?

A piangere lui.

Lui che non è mai stato davvero umano, né davvero macchina, eppure ha un’aura che sembra essere nata per intersecarsi a quella nelle mie vene, figlia della stessa, primordiale energia. Lui, che ha placato le rapide lattee e torbide del mio dolore prima che divenissero cascata, incanalandole in un fluire placido, di nuovo in grado di rispecchiare il cielo, memore della propria sorgente ma più senza fretta di arrivare alla foce. Adesso sento quel suo flusso vitale ridursi a un rivo strozzato che gorgoglia, stillando le ultime gocce per mano mia. Una diga sembra volermi impedire di farlo, di distruggere ciò per cui avevo giurato di combattere, e cerca di sbarrare i flutti scarlatti che mi priveranno di un’altra metà di me.

Sento il cuore sobbalzare, come in Sokovia, quasi una mano me lo stesse scardinando dalla cassa toracica.

Vedo i suoi occhi appannarsi col velo di una morte troppo umana per un androide, e le sue labbra sembrano accarezzare quelle parole finora espresse in silenzio, tra tocchi eterei e mescolanze di pensieri ed emozioni possibili solo per noi.

Adesso il mio tocco diventa distruzione anche per te, moja golubka, e invece di proteggerti ti annullo, tronco i flutti di ciò che ci ha unito e li faccio evaporare mentre le lacrime rigano di nuovo le mie guance.

Mi sento scuotere l’anima assieme alla tua, ormai quasi alla foce oltre la quale neanch’io potrò più vederti.

Ti dissolvi in quell’oceano ignoto, confuso tra onde per me invalicabili e solcate dalla flebile scia di mio fratello, navigando la rotta sicura di chi sa sempre dov’è il proprio Nord.

Ti perdo, perché è così che doveva andare, e una sola vita non può fare la differenza se non così.

Ti perdo, e la vittoria sa nuovamente di lacrime amare.





Light&Shilyss  


Note delle Autrici:
 
Cari Lettori,
Come sempre i nostri più sentiti ringraziamenti a quanti di voi ci hanno seguito e ci stanno seguendo e ci seguiranno. Questo progetto ormai è a metà e, come avete visto anche dai recenti poster, è un inno, un epitaffio. Wanda è stata scritta di comune accordo, insieme. Le varie parti si sono confuse perfettamente, almeno per noi. Speriamo vi piaccia: non la approcciamo spesso e c’è voluta una buona dose di brain storming per poter descrivere la Strega Scarlatta in maniera soddisfacente. Una piccola nota: all’inizio, Wanda si riferisce alla visione di Thanos che “ha già visto:” il riferimento, ovviamente, è alla visione di Tony instillata da Wanda stessa in Avengers: Age of Ultron.
La frase “moja golubka” è in russo, una lingua appartenente allo stesso ceppo di quella che si parlerebbe in Sokovia se esistesse: significa “mio tesoro”. In fondo, alla persona che amiamo parliamo con la lingua che abbiamo appresa per prima, no?
Grazie per essere arrivati fino a qui.

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Capitolo 6
*** Un disperso ***


Un disperso

 

Dove sono i generali 
che si fregiarono nelle battaglie 
con cimiteri di croci sul petto

dove i figli della guerra 
partiti per un ideale 
per una truffa, per un amore finito male

hanno rimandato a casa 
le loro spoglie nelle barriere 
legate strette perché sembrassero intere. […]

 (Dormono sulla collina, Fabrizio De André)

 

Il lupo bianco mi guarda. Si muove nella tundra gelata con passo felpato, di predatore. Poi, a un tratto, si volta e solleva il muso verso il cielo e ulula. È un sogno. L’ennesimo incubo. È il richiamo necessario affinché gli altri membri del branco accorrano al suo cospetto, forse. Anch’io sono un lupo. Così mi chiamano i fieri guerrieri dagli occhi di brace con cui ho vissuto questi pochi anni sereni, trascorsi a espiare colpe di cui non ricordo nulla, in attesa perenne dell’ululato che mi farà accorrere nuovamente nel branco perverso che mi ha reso ciò che sono – o non sono. Una macchina senza volontà pronta a scattare grazie alla frase giusta.

Il lupo bianco non giudica con quei suoi occhi penetranti, indagatori. Mi osserva dal limitare della foresta. Il suo ululato si confonde, alle volte, con il treno che sferraglia prima di farsi inghiottire da una galleria persa tra le Alpi e allora la mia mente perde ancora pezzi e si frantuma, ricordando i brevi, terribili istanti di quella caduta, la mano protesa di Steve nel vano tentativo di trattenermi. Mi spettava una sorte capitata a molti: quella di morire senza poter essere sepolto, sopravvivere nella fotografia sbiadita, in bianco e nero, conservata in un vecchio album.

Sembra che andarmene di fronte ai suoi occhi sia scritto nel mio destino. Attonito, mi ha visto sparire e diventare cenere, come allora mi vide inghiottito da un crepaccio. Steve è sempre stato la parte migliore di me: non si è arruolato per la gloria, ma per un ideale che, alla fine, ha tradito entrambi. Siamo stati burattini nelle mani dei potenti, pedine usate per vincere una guerra e saziare una sete di potere che ci è sempre sembrata estranea, esperimenti malriusciti – o riusciti in maniera troppo perfetta – che hanno permesso a generali e comandanti di manipolare ogni nostro filo. Bambole mute legate con una bandiera, fatte saltare e correre da una parte all’altra del mondo, che quando si rompono possono essere aggiustate con un braccio di metallo.

Così è nato il Soldato d’Inverno, fratello dell’Uomo senza Tempo per elezione e per destino. Viviamo in un mondo che non ci appartiene più, figli delle ombre come siamo, ma il nostro percorso scorre parallelo, perdendosi tra i ghiacci, per arrivare fino a qui, nella savana del Wakanda, dove io divento polvere, lui mi guarda.

Me ne vado tendendogli una mano, all’amico di sempre che ho protetto quand’era esile, ma già gonfio di coraggio, al commilitone eccezionale che ho affiancato a testa alta, con la spavalda fiducia di chi crede di essere nel giusto. Vedo svanire le mie dita, muovo un passo in avanti, ma anche un gesto così semplice si fa drammatico, complicato, impossibile.

Il lupo bianco non è poi un animale così solitario. Nei ghiacci della Siberia ho perso qualcosa – due occhi verdi di donna che non mi riconoscono più come facevano un tempo[1] – ma in questo tempo che non mi appartiene, che ho rubato, ho ritrovato il fratello che non ho mai avuto. Steve mi ha difeso dai crimini che non ricordo d’aver commesso, ha creduto in me quando il mio nome era solo quello d’un soldato morto – disperso – ed era solo un insieme di sillabe senza senso, per me.

Polvere siamo e polvere torneremo e, in fondo, l’unica magra consolazione è che i fili delle nostre esistenze si siano intrecciati ancora, che il più coraggioso e puro tra noi sia rimasto a fissarmi svanire, d’accordo, ma solo per poter combattere ancora e ancora. Me ne vado con l’unico rimpianto di non poter essere alla tua destra, Steve, ma so che ci vendicherai tutti, in un modo o nell’altro. Il mio corpo spezzato, reso macchina, svanisce come d’incanto, ma la mia eredità e la mia forza sono con te, mio capitano, mio amico, fratello.

 

 

 

Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo

Andrea gettava riccioli neri nel cerchio del pozzo

Il secchio gli disse "Signore il pozzo è profondo

più profondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto"

lui disse "Mi basta, mi basta che sia più profondo di me"

lui disse "Mi basta, mi basta che sia più profondo di me"

(Andrea, Fabrizio De André)

 

 

Shilyss

 

 

Note Autore:

Cari Lettori,

 

Grazie come sempre per l’attenzione e per il sostegno che avete voluto dedicare a questa storia, grazie davvero. Io e la mia collega esimia _Lightning_ ve ne siamo davvero grate. Stavolta è toccato al fascinoso Bucky Barnes l’onere e l’onore di essere caduto nelle nostre grinfie. Qui si naviga in acque colme di bromance, che posso dire… spero di aver reso al meglio il personaggio – è la prima volta che ne scrivo in assoluto – e di avervi regalato una lettura piacevole. Il branco perverso è l’HYDRA, il riferimento alla relazione con Vedova è un richiamo ai comics, mentre “lupo bianco” è il modo in cui i wakandiani chiamano Barnes.

Ci rivediamo prossima settimana su questi lidi e a stretto giro sui nostri account personali. Buona serata! 😉



[1] Il riferimento è  alla relazione, espletata nei comics, tra Vedova e il Soldato d’Inverno.

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Capitolo 7
*** Un sognatore ***


Un sognatore
 

Un sogno, fu un sogno, ma non durò poco
Per questo giurai che avrei fatto [l’eroe],
e non per un Dio e nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore.
Gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro;
e l’anima, d’improvviso, prese il volo
ma non mi sento di sognare con loro
no, non mi riesce di sognare con loro.

 

 

 

Quello che non mi aspettavo, se mai mi sono aspettato qualcosa dalla morte, è tutto questo silenzio.

E anche prima non c’è stata nessuna esplosione, nessuno sparo, nessun grido, se non quello del mio senso di ragno che impazziva e mi terrorizzava con l’annuncio di ciò che stava per accadere, un granello alla volta.

Poi, il silenzio. Sembra quasi una punizione studiata apposta per me, e mi chiedo se anche per gli altri – non voglio pensare a chi, a May, a Ned, a MJ, o mi scoppierebbe il cuore – sia così, se anche loro adesso si trovano di fronte alla cosa che più detestano.

 

Odio il silenzio. Lo riempio sempre come posso, parlando a raffica o con gli auricolari perennemente nelle orecchie, perché mi fa sanguinare i timpani e mi trascina in basso anche quando sono appeso a una ragnatela. Adoro i miei poteri che amplificano il mio udito e anche a notte fonda mi fanno sentire un taxi che passa sul Queens Boulevard, o zia May che dorme due stanze più in là, o un insetto che zampetta in corridoio, e così la notte è più corta. Non c’è più silenzio, se non lo voglio, e non lo voglio perché il silenzio è zio Ben e non è zio Ben – lui era l’opposto – ma è ciò che si è lasciato dietro. Una voce in meno, una battuta mancata, una risata persa. Per questo lo odio, e adesso odio il fatto di esservi immerso, di non aver potuto chiamare May, di non aver sentito la voce del signor Stark e di aver riempito quel silenzio doloroso con le parole sbagliate che non avrebbe mai voluto sentire.

Non pensavo di morire, così come non ho pensato di morire quando ho alzato il palmo contro un drone gigante, o quando mi sono gettato dal Washington Memorial. Ci ho pensato sotto le macerie, la prima prova per dimostrare di essere davvero Spider-Man; ma una parte di me era sicura che, se fossi morto, mi sarei svegliato. Regola numero uno dei sogni, insomma: non puoi morire. E forse è per questo che la prima volta che mi sono lanciato da un grattacielo non ho avuto paura, anche se non ero certo che i miei poteri fossero reali. Ma lo erano. E poi non mi sono più fatto domande, perché quando passi una vita intera a sognare, e poi ti ritrovi davvero dentro al sogno dopo l’incubo, non ti chiedi più nulla e ti limiti a respirare l’aria fredda di New York mentre volteggi a cento metri d’altezza credendo di volare.

 

È stato un volo troppo lungo, o forse troppo breve. Troppo lungo per sentire di meritarmelo davvero, troppo breve per cambiare qualcosa; e adesso è troppo tardi e il mio potere non serve a nulla, non può ricomporre la cenere che non sento neanche più, non può riempire questo vuoto silenzioso in cui galleggio. Non doveva accadere così, non su un pianeta deserto, non lontano da May e Ned e MJ, non tra le braccia spaventate del signor Stark, non senza lasciarmi niente dietro. Non a diciassette anni: che razza di età è, per morire?

Diciassette è un numero spigoloso, uno di quelli che non vuol dire nulla e che sembra servire soltanto da raccordo per quelli che lo seguono. Un numero inutile, una tappa obbligatoria che ti fa vivere nell’aspettativa e nell’inadeguatezza; perché, anche se sei quasi adulto, non lo sei; e anche se sei Spider-Man, non lo sei. Sono il nerd sfigato cha ama Star Wars e passa i venerdì sera a giocare ai cabinati con un altro nerd sfigato e una ragazza stramba. Sono il secchione che cerca di non esserlo in modo troppo evidente, quello che si crede chissà chi perché ha vinto la borsa di studio alle Stark Industries e conosce Spider-Man. Quanto di più lontano da un eroe.

Poi mi metto il costume e sento che tutto mi scivola addosso: non sono un eroe, solo un amichevole ragno di quartiere, ma sono libero, in volo, in missione per scelta e per mantenere una promessa. Anche se ho diciassette anni. Anche se sono Peter Parker. E anche se magari è solo un sogno, è un bel sogno.

Non sono mai riuscito a rimanere nella zona grigia di cui parlava il signor Stark. Non ci riesco, è inutile: vedo qualcosa che non va e reagisco prima di potermi fermare. È un istinto inciso nel mio DNA da ben prima del ragno; dopo è solo diventato più forte. Più rapido, più efficace, in grado di agire e di non costringermi semplicemente a guardare impotente.

E non potevo rimanere a guardare l’astronave, non potevo lasciare che gli stessi nemici che hanno quasi distrutto la mia città – la mia casa, il mio sottofondo costante che riempie il silenzio – scappassero con una persona a me cara mettendo in pericolo le altre. Non potevo rimanere a guardare: so come va a finire. Se puoi impedire qualcosa di brutto e non lo fai, è colpa tua. Non volevo fosse di nuovo colpa mia, non volevo infrangere il sogno, rovinarlo e trasformarlo in incubo.

 

Poi è successo.

Il sogno si è distorto comunque, sfaldandosi nella cenere, in parole mancate e in questo silenzio insopportabile che vorrei spezzare, sollevare e gettare da parte come ho fatto con le macerie. Ma quello non si muove e ricomincia a premermi addosso con l’eco di ogni mia parola persa. Mi chiedo se questo sia davvero l’aldilà, o se sono semplicemente rimasto intrappolato a metà strada, incapace di sentire la voce delle persone che amo da entrambi i lati, incapace di raggiungerle. Se questa è un’altra prova, se magari devo dimostrare di essere qualcuno, un eroe, anche se adesso non sono né Spider-Man né Peter Parker.

 

Chiudo gli occhi nel vuoto, nel silenzio, nel sogno che continua.

Forse devo solo aspettare di svegliarmi.






Light
 

Note Dell'Autrice:

Carissimi Lettori,
ammetto che sono molto, molto emozionata nel pubblicare questo capitolo. Spider-Man è stato il super-eroe che mi ha introdotto al mondo della Marvel e per forza di cose vi sono affezionatissima, quindi potete immaginare quanto ci tenessi alla sua resa. Qui forse appare più serio e meno ingenuo di quanto non sia nel MCU, ma vedo la sua scomparsa (e ci tengo a non chiamarla morte) su Titano come un punto di svolta cruciale per il suo personaggio, in grado di portare alla luce i suoi lati più cupi. Rimane comunque colmo di speranza, insicuro di sé, chiacchierone (e infatti il suo capitolo è il più lungo), eroico nel senso più puro del termine anche se non penserà mai di esserlo. Spero di avergli reso giustizia, e che voi lo abbiate apprezzato in questa mia versione <3

Le canzoni di De André scelte sono Un medico e Un malato di cuore. Nella prima ho sostituito la parola "dottore" con "[eroe]" per riferirla in modo più immediato a Peter.

Ringraziamo tutti coloro che hanno commentato finora e che hanno aggiunto la storia alle seguite/ricordate preferite, o che leggono semplicemente. Ogni vostra parola è importante per noi <3

Per questa settimana è tutto, e la prossima toccherà alla mia collega intrattenervi... ci avviciniamo alla conclusione, di pari passo con Endgame ;)
Un caro saluto e a mercoledì,

-Light-

P.S. Il leitmotiv del silenzio associato a Peter è riconducibile alla mia long "Di ritorni, vittorie ed effetti collaterali", e le sezioni in cui se ne parla in questo capitolo sono da considerarsi una blanda genesi per gli eventi descritti nella suddetta.



 

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Capitolo 8
*** Un soldato ***


Un soldato

 

 

 

In un vortice di polvere 
Gli altri vedevan siccità 
A me ricordava 
La gonna di Peggy 
In un ballo di tanti anni fa

[…] Libertà l'ho vista dormire 
Nei campi coltivati 
A cielo e denaro
A cielo ed amore 
Protetta da un filo spinato […]

Finii con i campi alle ortiche 
Finii con un flauto spezzato 
E un ridere rauco 
E ricordi tanti 
E nemmeno un rimpianto

(Il suonatore Jones, Fabrizio De André)

 

 

 

Il mio tempo non è questo o, almeno, non lo è più. Con la mano stringo il guanto: è incredibile quanto potere sia racchiuso in quest’oggetto che stiamo usando insieme per salvare l’universo in cui viviamo e, forse, condannarne un altro. Il mio braccio non è sempre stato solido e robusto come ora. Il ricordo indelebile mi assale e si confonde con il resto – con Tony laggiù, su Titano, con la profezia oscura di Strange che parla dell’unica condizione possibile affinché lo schiocco venga cancellato. Una volta ho detto che sacrificare un singolo, anche se per il bene di molti, non era qualcosa che ero in grado di accettare[1], ma se riguarda me, allora sì, sono disposto a tollerarne il peso. Il mio è un morire qui per vivere altrove, per stringermi al petto la ragazza a cui ho promesso un ballo a guerra finita, per ritrovare i volti amici di coloro che ho fissato con la grafite sulla carta di un blocco acquistato in un negozio di New York, che non esiste più da sessant’anni.

Il mio tempo non è questo. Sono intrappolato in un mondo che non mi è mai appartenuto davvero – il mio è rinchiuso in un passato smarrito – così come, da ragazzo, ero costretto in un corpo gracile che non conteneva il mio spirito. Mi sono svegliato in una solitudine fatta di volti sconosciuti, che sapeva di ghiaccio, come la mia bocca. Mi hanno chiamato eroe, ma io ero solo un soldato, un ragazzo di Brooklyn che si è arruolato col suo migliore amico per far la guerra contro i tedeschi e riportare la bandiera sventolante della libertà sul mondo intero.

Ho aperto gli occhi in una realtà diversa e mentre schiocco le dita ci penso, alla fine che ha fatto quel soldato. La retorica della guerra è svanita, il capitano senza macchia è morto e ha impresse sul petto macchie di sangue altrui, come quelle vecchie figurine che appartenevano al bambino ormai cresciuto che voleva sopra ogni cosa incontrarmi, ucciso da un alieno spietato che credeva d’essere un dio[2]. È morto anche lui, dicono, perché alla fine tutti abbiamo fatto la nostra parte in questa guerra.

Ecco lo schiocco. È tempo di tornare a casa. Di camminare per Central Park e abbassare la visiera del cappello per salutare una signora. Di baciare le labbra rosse di Peggy e ritrovarne il sorriso. D’invecchiare con lei perché così è stato.

 

Sono passati i mesi, gli anni, i decenni.

Sono tornato nel mio tempo senza sapere com’è andata a finire, se Stark, dall’altra parte dell’Universo, è riuscito a tornare. Ho vissuto e lavorato e amato e cambiato la carta da parati della nostra casa almeno due volte. E Peggy è sempre più bella. La mia battaglia non è mai finita, però. L’uniforme giace dentro un baule, coperta di naftalina, ma è come se la indossassi sempre – la indosserò per sempre. Sono svanito in questo tempo per vivere la vita che avrei dovuto nel tempo che mi spettava, ma combatto tutti i giorni, non per i governi che, in passato, hanno tentato di usare il mio nome e far leva sul mio onore, ma per gli amici di ieri e per coloro che ancora non ci sono, ma verranno. Il mio dovere, il solo e unico, è sempre stato questo: proteggere Brooklyn e New York e gli Stati Uniti e l’America e il mondo intero.

E così è stato. Stamattina, nell’ovale dello specchio, dopo essermi rasato, ho schioccato le dita per risentire quel potere assoluto che cambiò il destino di molti, tra cui il mio. Resto sempre l’uomo senza tempo, sarà così in eterno, ma almeno sono riuscito a tornare qui, nel posto che avrei dovuto occupare fin dall’inizio. Strange aveva ragione, lo S.H.I.E.L.D. lavora come è giusto che sia. E io, io faccio il mio dovere: tra qualche anno consiglierò a Stark e alla moglie di rimanere a casa, per Natale, e troverò il modo di riprendere mio fratello.

Sarò pronto, ma intanto oggi è sabato e ho suggerito ad Howard di non rimanere in ufficio anche nel weekend, ma di andare a vedere il saggio di pianoforte di suo figlio. Tony è ancora solo un bambino, ma fa il sostenuto e dice troppe cose in troppo poco tempo, come sempre. Avrà avuto ragione alla fine?

 

 

Shilyss

 

Nota Autore

Cari Lettori,

vi ringraziamo infinitamente per essere giunti fino a qui. La teoria che abbiamo espresso verrà illustrata più approfonditamente nel prossimo capitolo perché sì, anche se l’album “Non al denaro…” si chiude proprio con l’iconica “Il suonatore Jones”, noi abbiamo scelto di scrivere un capitolo finale di epilogo. Che arriverà la settimana prossima, quindi questa (non) è la fine dei giochi. Come forse avrete capito, abbiamo ipotizzato l’esistenza di due guanti (quello di Thanos indossato da Steve e quello di Tony creato per l’occasione) che, schioccati insieme, annullino il potere di quello di Thanos. Io e _Lightning_ ringraziamo infinitamente quanto hanno commentato, seguito, ricordato e preferito questa storia, ma anche chi l’ha semplicemente letta o la leggerà ♥.



[1] Come viene detto in Infinity War.

[2] Riferimento a Loki ♥ e a Coulson.

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