Non alla polvere, non al rancore né al fato di Lightlyss (/viewuser.php?uid=1099094)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La collina ***
Capitolo 2: *** Un futurista ***
Capitolo 3: *** Un principe ***
Capitolo 4: *** Un chirurgo ***
Capitolo 5: *** Una strega ***
Capitolo 6: *** Un disperso ***
Capitolo 7: *** Un sognatore ***
Capitolo 8: *** Un soldato ***
Capitolo 1 *** La collina ***
Non
alla polvere, non al rancore né al fato
I
Campi di Battaglia
Dove
sono i figli della guerra
Partiti per un ideale
Per
una truffa
Per
un amore finito male
Hanno
rimandato a casa
Le loro spoglie nelle bandiere
Legate
strette perché sembrassero intere.
Dormono,
dormono sulla collina
I
Un
singolo refolo d’aria smosse la sabbia rossastra,
sollevandola in
un mulinello che andò a stagliarsi come un ventaglio
granuloso
contro il cielo ambrato.
Il
corvo sbatté ancora le ali, scuotendo di nuovo il velo
sottile di
polvere frammista a cenere e rocce sbriciolate, e atterrò
con un
ticchettio d’artigli sulle cromature rosso-oro semisepolte
tra le
dune. Gracchiò piano, quasi sottovoce, inclinò la
testa e
picchiettò il metallo col becco: una volta, due, per poi
attendere
qualche secondo, e di nuovo una, due, tre, senza ottenere reazione.
Rimase
ancora in attesa, con gli occhi d’onice che guizzavano ora
sulle
placche metalliche e scempiate, ora sul brillio azzurrino incastonato
al centro di esse, finché un richiamo simile al suo non
risuonò
sopra di lui, spezzando il silenzio desolato. Sollevò la
testa
affilata, distinguendo la sagoma d’ombra di suo fratello
volteggiare contro il cielo smorto e itterico di Titano. Mosse il
capo piccolo e nero con uno scatto, come se cercasse conferma di qualcosa.
Arruffò
le penne, beccò un’ultima volta la mano inerte e
ustionata
dell’uomo di ferro riverso nella sabbia e spiccò
il volo con un
altro sbuffo di terra e cenere. Affiancò il fratello,
compì con lui
un lento, ampio giro sopra quella tomba a cielo aperto e poi
puntò
con lui verso il cielo, con battiti d’ali sempre
più rapidi, fino
a svanire con un ultimo baluginio che si confuse con quello delle
stelle.
II
Nel
buio siderale, un bagliore metallico catturò
l’attenzione rapace
del corvo: i resti di un’armatura regale, spoglie di un
principe o
di un mancato re. La corazza di pelle e d’oro
scintillò nel buio,
gli occhi verdi, spalancati, fissi nello stupore della morte,
rifletterono l’immagine del volatile. L’animale
gracchiò, come
se volesse risvegliare il guerriero caduto o lamentarsi della sua
fine. Il suo verso stridulo riempì l’aria
rarefatta e, dopo un
volo d’ispezione, atterrò sullo spallaccio
sbeccato del dio
caduto, incrostato di polvere, con sopra i segni di una deriva che
l’aveva condotto fin là, sulla terra grigia. Il
relitto
dell’astronave si era arenato su un asteroide o forse su un
pianeta, trascinando con sé lo sguardo vuoto e attonito del
dio
degli inganni che non aveva potuto mettere in atto l’ultima
delle
sue trovate, forse.
Una
goccia cristallizzata si era fermata a metà strada tra una
pupilla e
le ciglia, segno di una punizione breve, ma crudele. Gli altri,
l’animale li trovò sul collo spezzato del principe
reietto di
Asgard che non c’era più. Chiazze livide
marchiavano la pelle:
era l’impronta della mano crudele del Titano, che aveva
voluto
infierire sul suo servo infedele, bugiardo fino all’ultimo,
tranne
che per quell’ultimo sguardo lanciato al fratello
sopravvissuto
chissà dove, chissà come.
Il
corvo lo sapeva. Lo lesse negli occhi vitrei del principe degli Asi
sconfitto, così come venne a conoscenza di molte, troppe
cose.
Forse.
III
Le
ali cupe dei due fratelli planavano sulla scia dei venti caldi
sfiorando la steppa e agitandola in onde serpeggianti che
increspavano quel mare arido. Un sottile pulviscolo grigiastro
permeava l’aria, creando fantasmi di cenere visibili solo
quando i
raggi del sole calante ne accendevano i granelli in fugaci riflessi
dorati.
I
corvi si lasciarono alle spalle il campo di battaglia, tagliato da
solchi profondi come trincee, col suolo butterato da impatti violenti
ed esplosioni, marchiato a fuoco da reticoli nerastri e contorti che,
visti dall’alto, componevano una sorta di decorazione funebre
attorno ai cadaveri alieni che ancora costellavano la pianura.
Avvinghiarono
gli artigli lucidi e neri sul ramo contorto di un’acacia
solitaria
al limitare della giungla, e indirizzarono i loro sguardi verso il
folto della selva. Là, la luce fioca che riusciva a superare
la
coltre di foglie si rifletteva, accecante, sulla sagoma di un guanto
bronzeo abbandonato sul suolo molle e umido. Le gemme incastonate
nelle nocche e sul dorso mandarono un lieve lucore, come di braci
morenti.
Uno
dei corvi allungò il collo verso l’oggetto,
l’altro si guardò
attorno in uno scatto allarmato. Incrociarono gli sguardi
d’onice,
in una domanda muta, per poi tornare a fissare quella reliquia, in
attesa.
IV
Una
brezza vivace scompigliava le fronde verdi degli alberi che
punteggiavano Central Park, già screziate dalle prime tracce
ambrate
dell’autunno.
Nessuna
cosa pareva mutata, eppure in ogni strada, sentiero, anfratto
dominava l’eco di un unico, singolo gesto: lo schiocco letale.
Note delle Autrici:
Cari Lettori,
Questa long, scritta a quattro mani dalle sottoscritte _Lightning_ e shilyss, trae ispirazione da un disco di Fabrizio De André che entrambe amiamo molto: stiamo parlando di Non al denaro, non all’amore né al cielo, un concept album ispirato, a sua volta, all’Antologia di Spoon River di E. Lee Masters. Le varie canzoni dell’album ci hanno spinte a riflettere sulla fine dei nostri eroi così come l’abbiamo vista nel tragico Avengers: Infinity War.
Vedrete nei prossimi capitoli come e quanto abbiamo usato e rielaborato i testi del bellissimo disco di Faber.
Per ora, vi lasciamo a qualche breve considerazione: i corvi descritti in questo primo capitolo introduttivo sono Huginn e Muninn, i servitori di Odino che abbiamo immaginato adesso servano Thor. A questo proposito, nel prologo e nel corso dei capitoli abbiamo inserito/inseriremo alcuni elementi appartenenti ai nostri headcanon. Vi lasceremo ogni riferimento in merito nelle NdA.
Questa intro, nelle sue varie sezioni, è stata scritta interamente e fisicamente a quattro mani. Ci siamo "spartite" gli altri capitoli, e verrà sempre specificato chi delle due li ha scritti, fermo restando che in tutti è presente comunque una commistione di idee da parte di entrambe, con correzioni, aggiunte e suggerimenti reciproci.
Gli aggiornamenti saranno ogni mercoledì, e assicuriamo la puntualità dei prossimi due, in quanto già scritti.
Grazie per aver letto, speriamo abbiate gradito questo primo capitolo :)
Lightlyss |
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Capitolo 2 *** Un futurista ***
Un
futurista
Seguite
con me questi occhi sognare
Fuggire
dall’orbita e non voler ritornare.
Son
morto in un esperimento sbagliato,
proprio
come gli idioti che muoion d’amore
Ma
le mie ossa regalano ancora alla vita:
le
regalano erba fiorita
Io
non l’ho mai neanche voluta, una tomba.
Ho
manie di grandezza, dicono, ma non mi è mai fregato nulla
del modo
in cui sarei stato sepolto. Non voglio statue o cripte o mausolei,
non voglio una lapide che dica “qui
giace Tony Stark”, perché quel
“qui” mi incatena, mi blocca
l’orizzonte, mi fissa nello spazio definito di una fossa due
metri
per tre quando non mi basterebbe l’universo. Ho manie di
grandezza,
dicono.
La
verità è che per quanto mi riguarda preferirei
che spargessero le
mie ceneri in mare e tanti saluti – Pepper lo sa e
l’avrebbe
fatto, ma sono contento di evitarglielo. Non ha bisogno delle mie
spoglie: le ho lasciato la mia voce e quelle che credevo sarebbero state le mie
ultime parole per lei. Alla fine, lo sono state davvero. Le ho
lasciato la
mia promessa, il mio “sì”
che non ho potuto pronunciare davanti a lei, e che tra spero molto
tempo potrò sentire ricambiato.
In
fin dei conti, non mi dispiace essere morto a qualche anno luce dalla
Terra. Sono sicuro che qualcuno piazzerà comunque una lapide
a Santa
Monica accanto ai miei, perché se a me un
“qui” va stretto, per
gli altri vuol dire il mondo.
Ma
la mia tomba ufficiale sarebbe altrove, sulla sabbia rossa di Titano
e soprattutto a cielo aperto, perché non posso immaginarmi
con due
metri di terra sugli occhi a precludermi la vista del luogo che amo
di più.
Sto
guardando il lato positivo. Sono sempre stato ottimista, anche quando
non volevo davvero esserlo. Solo un ottimista avrebbe potuto
ostinarsi a fare ciò che facevo sperando che sarebbe
cambiato
qualcosa… e Rhodey direbbe che solo un inguaribile ottimista
potrebbe davvero trovare dei lati positivi all’esser morto.
Sapevo
che sarebbe successo con l’armatura addosso. L’ho
sempre saputo,
sin dal momento in cui Yinsen ha dato l’ultima stretta di
bullone
alla Mark I; si può dire che ho sempre cercato di fare in
modo che
la morte mi cogliesse nel mio abito migliore. Nel mio abito
più
utile, quello che ho sempre indossato per rimediare alle valanghe di
errori che mi lascio sempre dietro. Il monumento alla mia memoria
avrà sempre quegli errori come fondamenta, né
vorrei mai che
venissero nascosti. Serve un metro di paragone, per puntare in alto e
migliorarsi, e per molti versi sono un ottimo esempio da non imitare.
Gli eroi diventano obsoleti, arrugginiscono, vengono superati. Lo
capirà anche Peter, prima o poi.
Io
l’ho capito molto, troppo in ritardo. Inseguivo mio padre
come si
insegue un’ombra per terra, magari calpestandola di tanto in
tanto
quasi per sbaglio, illudendomi di averla raggiunta, ma rimanendo
sempre oscurato da ali troppo lontane sopra di me. Non mi ero reso
conto che mi aveva lasciato tutto ciò che mi serviva per
costruire
le mie. Aveva sempre rivolto gli occhi al futuro, ma non avevo mai
capito che quel futuro includeva anche me. Mi aveva semplicemente
aperto la strada lasciandomi una traccia, ed è quello che ho
provato
a fare anch’io, con o senza armatura. So di aver fatto il
possibile, anche se non saprò mai se sarà stato abbastanza,
come non
lo saprà mai mio padre.
La
vita è fatta per guadagnare tempo che altri sfrutteranno a
nostra
insaputa, e in un certo senso quel tempo ti appartiene, anche se
tanto per cominciare non è mai stato davvero tuo:
l’hai solo preso
in prestito da chi l’ha guadagnato prima per te. Tempo
ricevuto,
tempo restituito, tempo dato.
È
solo per effetto di questa semplice equazione che sono uscito da quella
grotta, e che mi sono buttato in un portale con una bomba sulle
spalle. È per questo che sono riverso sulla sabbia sanguigna
di
Titano, con un guanto annerito e contorto a fasciarmi la mano
ustionata e il corpo spezzato come la mia armatura.
Sono
morto col cielo stellato impresso negli occhi un attimo prima di
chiudere le palpebre, fissando quegli astri brillanti che non mi fanno più paura e rivolgendo un ultimo pensiero guizzante ad
altri occhi cerulei. Non saprei dire perché ho sorriso col
mio
ultimo respiro. Forse per ricordare all’universo che sono pur
sempre Iron Man, anche in faccia alla morte; forse perché
voglio
sperare che chi mi ha amato o ammirato sappia dove guardare quando mi
cerca; forse perché, in fondo al cuore, ho sentito di aver
fatto
finalmente quell’unica cosa giusta che ho rincorso per una
vita
intera.
Spero
che stavolta sarà abbastanza.
Note Dell'Autrice (Light):
Cari Lettori,
scrivere questo capitolo è stato un po' un colpo al cuore per motivi credo intuibili, e spero che lo sia stato anche per voi intrepidi che siete arrivati sin qui <3
L'idea di ispirarci all'album di De André implicava un fattore fondamentale, ovvero che le sue canzoni, e il libro da cui sono ispirate, sono epitaffi. Quelli che pubblicheremo saranno proprio questo: epitaffi sui generis, per così dire.
Il contesto del capitolo si rifà a uno dei miei (troppi) headcanon riguardanti Tony, in cui è lui ad utilizzare il Guanto dell'Infinito per ristabilire l'ordine (ciò avviene nei fumetti, nei quali è il primo essere umano a impugnare il Guanto e usarlo per questo scopo).
Come avrete notato, la canzone iniziale è una sintesi di varie canzoni dell'album, e così sarà anche per le altre della raccolta: volevamo rimanere fedeli all'album, ma ci siamo rese conto che far corrispondere un personaggio ad una canzone singola era troppo limitante, oltre che spesso OOC, e abbiamo preferito optare per questa soluzione, assegnando poi ad ogni "remix" il titolo adeguato.
Per Tony, il "Futurista" per eccellenza, ho scelto dei versi da Un ottico, Un chimico e Un matto.
Ringraziamo serica, FireAngel, Miryel, T612 e _Atlas_ per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite. Ci rendete donne felici <3
Il prossimo aggiornamento sarà di nuovo mercoledì, e stavolta sarete nelle grinfie della mia collega :P
-Light-
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Capitolo 3 *** Un principe ***
Un principe
Fu nelle
notti insonni vegliate al lume del rancore
[che] mai
più mi chinai e nemmeno su
un fiore
Perché
dissi che Dio imbrogliò il
primo uomo
Lo costrinse a
ignorare che al mondo
c’è il bene e c'è il male
E non Dio, ma
qualcuno che per noi
l'ha inventato
Ci costringe a
sognare in un giardino
incantato
[Fabrizio De
André, Un Giudice/Un blasfemo]
Non
c’è nessun rumore attorno a me, solo il silenzio
irreale di un universo offeso,
dimezzato, spezzato. Come il mio collo. Ha rotto l’osso,
l’ho sentito.
C’è
chi sostiene che il mio ultimo inganno è stato eccezionale.
Fingere di morire
per salvare la vita al protettore dei Nove Regni, al mio fratello degno
e
perfetto, andarmene come l’eroe che avrei potuto essere, che,
forse, sono stato, per poi tornare
ammantato di tutti i miei gloriosi propositi. Sì, alla
notizia della mia
sfortunata dipartita, in molti si sono chiesti quanto
sarebbe durata stavolta la farsa, da dove nascesse la mia
ostinazione nel voler replicare sempre lo stesso trucco.
Ve lo
chiederete per sempre, se sono
morto veramente?
Tratterrete il fiato in attesa di veder comparire il mancato re, il dio
degli
scherzi e degli inganni? Beh, lasciate che ve lo dica. Lì
sta il mio potere.
Nel battito accelerato del vostro cuore nel petto, nella scintilla di
dubbio
che v’illuminerà lo sguardo ogni volta che
un’ombra vi farà sussultare, la
notte.
Che
Loki sia tornato? Questo, vi
domanderete.
Thor
continuerà
ad aspettarmi. S’interrogherà finché
Hela non chiuderà i suoi occhi sull’alba
gloriosa che gli ho promesso. Si lascerà incantare
dall’illusione della mia
ultima, necessaria, bugia.
Lei no, mi
raggiungerà presto perché ha parlato con le
Norne e, così, ha saputo com’è stato
spezzato il mio filo.
Sono
nato per essere re. Nelle mie vene scorre il sangue potente dei Giganti
di
Ghiaccio, la mia astuzia è figlia diretta di quella del dio
delle forche che
barattò un occhio in cambio della conoscenza.
Il mio aspetto è inganno, è il trucco
indispensabile per sopravvivere che ho
sperimentato per non crepare su un picco di ghiaccio. Sono il dio del
caos: i
miei piani sono mutevoli, come la mia natura. Io
t’incanterò con le mie parole,
ti trascinerò assieme a me in un vortice fatto di caos e
meraviglia e tu, che sarai
la mia preda, non potrai fare altro che lasciarti trascinare dal suono
della
mia voce. In molti raccontano ancora come sia sempre stata suadente e
implacabile; un’arma affilata che ho imparato usare fin
troppo bene.
Thanos
mi ha spezzato l’osso del collo e mi ha gettato via come una
cosa vecchia e
rotta, ma sapete cos’è che ha dimenticato di
considerare, lui che non sarà mai
un dio e verrà chiamato folle?
Che
l’avevo previsto o, forse, me lo aveva sussurrato Skuld, la
Norna con l’aspetto
d’una bambina, colei che fila il futuro. Il Titano mi ha
sollevato da terra e
ha stretto fino a quando non m’ha tolto il respiro.
È stato il prezzo
necessario da pagare affinché Thor avesse la
possibilità di fermarlo, ma brucia
ancora, su questa cosa che alcuni chiamano anima, la stretta crudele
delle sue
dita.
Era
l’unico modo, mi dico, ma lo schiocco fatale ha riempito comunque i cancelli di Hel d’un
numero infinito di anime
provenienti dagli angoli più remoti dell’universo
e allora tutto questo appare
vano, come il colpo andato a vuoto del fratello che ho inseguito per
una vita,
che mi ha cercato finché la morte di un padre severo e con
troppe colpe sul
capo non ci ha riuniti.
Odino,
sono il dio dell’inganno
grazie a te.
Asgard
non esiste più e io ho scommesso la mia vita sulla
disperazione d’un manipolo
di saltimbanchi appoggiati da mio fratello. Un piano ardito persino per
me,
forse, ma guardateli adesso, guardateli ora,
seguite il mio dito, ascoltate la mia voce: si rialzeranno e allora
avrò
anch’io la mia vendetta.
Il
Titano mi ha spezzato il collo e ha provato un certo gusto, nel farlo,
perché
col mio fallimento su Midgard ho ritardato il suo folle piano. Ho
sempre saputo
che mi avrebbe ucciso. Siamo nati per essere re: vendicare gli
asgardiani era
ciò per cui ci hanno educato e addestrato. Nessuno
è bravo come me – o dovrei
dire era, a questo punto – a valutare possibilità,
a ordire piani. Eppure, qualcosa
scava e gratta in fondo al mio petto.
I re
combattono.
C’è
amarezza, nella mia voce? Nella voce di uno spettro perduto in mezzo
all’universo sconfitto? Thor continuerà a sperare,
a combattere, a lottare, e
io rimarrò qui, ombra tra le ombre, sulla soglia dei confini
del Valhalla, a
osservare, forse.
Il nostro
è soltanto un discorso sospeso, Thanos.
Come la
morte.
Tornerà
a splendere il sole su Asgard.
Note
dell’Autrice:
Cari Lettori,
Ecco a voi Loki.
Frequento
raramente
questo fandom come autrice, ma eccomi qui. La carissima e bravissima
collega _Lightning_
vi terrà
compagnia la prossima settimana, quindi sì, ecco a voi shilyss.
Chi mi conosce
già, sa quanto ami scrivere di questo personaggio
controverso e affascinante.
Infinity War mi ha spezzato il cuore, semplicemente. Stavolta, sono
state usate
due canzoni di De André, per rendere al meglio la mia
visione del nostro
bugiardo preferito. Nel testo sono presenti i riferimenti ad altre mie
storie
che fanno parte del mio canone, Sapevano
di vino
le tue labbra e Solo
una
promessa, fratello.
Il Loki che
vediamo tra
Ragnarok e Infinity War non è lo stesso di Avengers; il
momento chiarificatore
con Odino e il veder soffrire Thor hanno riaggiustato una serie di
torti, così
come appare con evidenza proprio dal sacrificio (è mia
convinzione che sia
stata una mossa deliberata) che Loki fa in IW.
Nel testo sono
presenti moltissime citazioni prese dalle battute di Loki stesso nel
MCU e
alcuni riferimenti alla mitologia
norrena a me carissima, spiegata sempre nelle note.
Il Loki di
questa
storia è uno spettro, diviso tra desiderio di vendetta,
fierezza e… molto
altro.
Colgo
l’occasione per
ringraziare di cuore quanti hanno messo la storia nelle liste di Efp e
i
coraggiosi recensori che hanno lasciato un loro parere. Grazie di cuore
♥ e
alla prossima settimana.
Vostra,
Shilyss
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Capitolo 4 *** Un chirurgo ***
Un
chirurgo
Inutile
al mondo ed alle mie dita,
un
giorno [avevo] ebbi il potere
di
sposare gli elementi e farli reagire.
Vedo
gli amici ancora sulla strada,
loro
non hanno fretta,
rubano
ancora al sonno l’allegria.
Qui
sulla collina dormo malvolentieri,
eppure,
c’è luce ormai nei miei pensieri.
Quattromilaottocentosettantacinque.
Il
Titano si accorge di noi, solleva la sua mano guantata e precipita la
luna su
questo pianeta vermiglio. Il piano si sfalda prima di cominciare, il
filo della
vittoria mi sfugge dalle dita e ne vedo cadere le due
estremità recise nel vuoto
astrale. Siamo tutti abbattuti nel nostro stesso sangue.
Perdiamo.
Io
muoio.
Cinquantaseimiladuecentosettantatré.
Riusciamo
a sorprenderlo, a incatenarlo al suolo, a strappargli il Guanto, quasi.
Trattengo
Quill, Peter gli sottrae il Guanto, Stark e gli altri inchiodano a
terra il
Titano vinto e sembra la fine. Il filo continua però nel
futuro, si snoda
sinuoso in un sentiero di luce inghiottito dal buio, quando si tronca
di netto
con uno schiocco lontano.
Perdiamo.
Io
muoio.
Novecentosettantottomilanovecentoventisette.
Lo
vinciamo, senza perdite. Il filo sembra farsi più saldo, una
cima di sicurezza che
trattiene tutti noi nel mondo, ma ancorato all’orizzonte.
Oltre,
il nero, e il grido di anime perdute che riverbera nell’aria
tesa. Non c’è
nulla, qui, solo il tempo che scorre a passi lenti e pesanti, seguendo
una muta
processione funebre avviata nel gorgo. Il filo della vittoria
è perduto,
dissolto tra le mie dita tremanti; s’ingarbuglia e diventa
confuso,
impigliandosi alla mia vita che continua.
Io
vivo.
Perdiamo.
Tre
milioni e
ottocentoseimilaseicentoventidue.
L’ennesima
sequenza scorre davanti ai miei occhi chiusi, sempre uguale, eppure
diversa, mutando
un gesto, una parola o un pensiero di una delle pedine disposte su
questa
scacchiera di morte, unite per sconfiggere un Re troppo potente.
Io
muoio.
Il
Re cade.
Una
vittoria.
Ma
continuo a guardare, ancora, a filare un filo sottile e forse fragile,
come
quando esaminavo le cartelle di pazienti ritenuti insalvabili alla
ricerca del
dettagli sfuggito a tutti gli altri occhi. Cerco l’anomalia,
la zebra tra i
cavalli1, la combinazione scartata
perché troppo difficile.
Quattordici
milioni e
seicentosei.2
Nero.
Una lastra di granito impenetrabile su cui si
schianta la mia coscienza.
Rimango
sospeso tra i piani astrali, il cuore che
mi pulsa nelle orecchie e che sembra comprimermi il corpo ad ogni
battito
mentre galleggio nella materia oscura.
Una.
C’è una sola possibilità.
Nella
medicina si ragiona in percentuali: successo
e fallimento barcollano, danzano a braccetto, subiscono le spinte del
caso e
dell’uomo, di mani abili o impacciate, di un fisico fragile o
temprato. È una
scienza precisa, ma mai definitiva.
L’uno
non esiste, in medicina. Non vi è mai
sentenza definitiva, e quando c’è, semplicemente
non si è cercato abbastanza.
Esistono
però le costanti e le statistiche e la
logica. Qui c’è un’unica
costante, che vedo sì coi miei occhi di
Stregone, ma prima con quelli di medico: in entrambe le vesti ho
giurato di
proteggere vite, mai di spezzarle.3 Mai di
lasciarne spezzare la metà.
L’universo
dipende da quei giuramenti infranti,
adesso. E la mia è una costante d’assenza da
portare avanti, così che protegga chi
rimarrà, permettendogli di colmare il vuoto e di seguire
quel filo teso verso l’orizzonte.
L’Universo
si spegne.
Io muoio.
Ma è l’inizio della vittoria.
Oltre,
non riesco a vedere.
Note al testo:
1Riferimento a "se senti rumore di zoccoli, pensa a un cavallo, non a una zebra", frase coniata dal dottor Theodore Woodrow e usata in campo medico, resa celebre dalla serie tv Dr. House.
2Strange vede precisamente quattordici milioni e seicentocinque futuri possibili. Ho immaginato che quello fosse il numero massimo di eventi possibili, e che quindi non riuscisse a vederne altri.
3Mi riferisco ovviamente al Giuramento di Ippocrate, e in particolare alla sua versione anglosassone, a parer mio più incisiva di quella italiana: "If it is given me to save a life, all thanks. But it may also be within my power to take a life [...]. Above all, I must not play at God". Mi sembrava particolarmente adatta al contesto.
Note Dell'Autrice:
Cari Lettori,
Dopo esserci lasciate alle spalle Tony e Loki, arriviamo a Strange che, non ve lo nascondo, si è rivelato uno scoglio abbastanza ostico. È un personaggio che ho sempre amato molto, ma con una personalità affilata e calcolatrice che non avevo ancora avuto occasione di rendere da così vicino. Spero che il risultato sia gradevole, e soprattutto IC.
Ho volutamente evitato di concentrarmi sul futuro vincente e i suoi dettagli, lasciando il centro del palcoscenico all'uomo, medico e guardiano posto di fronte a una scelta immensa, ma che (speriamo) darà i propri frutti.
Le canzoni scelte per l'introduzione sono Un medico, Un chimico, Un ottico e Un matto (come dicevo, è un personaggio difficile da collocare nel contesto della raccolta e mi ha costretta al taglia-e-cuci).
Ringraziamo di cuore tutti coloro che hanno recensito e inserito la storia tra le preferite, ricordate e/o preferite <3
Grazie per spronarci a scrivere e dare il meglio con le vostre belle parole <3
Alla settimana prossima, come sempre mercoledì :)
-Light- |
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Capitolo 5 *** Una strega ***
Una
strega
Mi
cercarono l’anima a forza di botte…
Vedo i fiumi dentro le mie vene
cercano il loro mare
rompono gli argini
trovano cieli da fotografare.
Che strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di uomo da dover ricordare.
[Fabrizio
De André: Un blasfemo; Un ottico; Un chimico]
Alla
fine, lui,
Thanos è arrivato: era già nella mia testa, in
qualche modo. Prima che la sua
ombra coprisse questa terra l’ho visto – anche
attraverso altri occhi,
l’ho sentito. Come? Grazie a lui.
Scorre
nelle mie vene,
il potere. È un legame più forte del sangue che
arriva al cervello, scava fin
dentro l’anima.
Scorre
nelle mie vene,
il dolore. È il potere della strega scarlatta che ha
barattato la normalità in
nome di una giustizia personale, saziando la sete di altri: qualcuno
l’ha
chiamata vendetta, ma non mi è importato.
Ricordo
lo scettro e
quella pietra dal colore intenso che brillava, rendendo me e Pietro
diversi
eppure uguali. Così nacque la strega, dal fiume di potere
che ci investì
risvegliando cose. Eravamo uno, allora,
animati dallo stesso senso
di giustizia, dalla medesima sete di vendetta. Insieme, eravamo
invincibili.
Merito del legame che ci univa da una vita, dello sguardo
d’intesa rapido che
ci scambiavamo di comune accordo, perché per certe cose non
servono parole.
Una
parte di me è
scivolata via quando quel flusso si è interrotto e la nostra
connessione fatta
di magia, sangue e dolore si è spezzata. Ho pianto sul corpo
di Pietro; ho sentito
il mio potere sfaldarsi in mille rigagnoli deboli e tremolanti incapaci
di
rianimarlo, di far da affluenti al suo flusso vitale ormai in secca.
Poi
ho visto la mia casa
distruggersi, divenire nulla, ho visto le viuzze strette su cui
correvano i
miei piedi di bambina venir sradicate dal suolo, ho visto il campanile
della
chiesa svettare più in alto che mai, monito di una fine
incombente e
annunciata.
A
che serve tanto
potere, se non ho potuto salvarvi? Che senso ha scorgere il futuro,
manipolare
le menti, distruggere e creare, se, nel momento più
importante, quello in cui
dovevo proteggerti, fratello mio, fratelli miei, non ci sono riuscita?
A che è
servito lottare, se poi sono dovuta rimanere da sola tra le macerie, a
combattere altre guerre, a piangere altri morti?
A
piangere lui.
Lui
che non è mai stato
davvero umano, né davvero macchina, eppure ha
un’aura che sembra essere nata
per intersecarsi a quella nelle mie vene, figlia della stessa,
primordiale
energia. Lui, che ha placato le rapide lattee e torbide del mio dolore
prima
che divenissero cascata, incanalandole in un fluire placido, di nuovo
in grado
di rispecchiare il cielo, memore della propria sorgente ma
più senza fretta di
arrivare alla foce. Adesso sento quel suo flusso vitale ridursi a un
rivo
strozzato che gorgoglia, stillando le ultime gocce per mano mia. Una
diga
sembra volermi impedire di farlo, di distruggere ciò per cui
avevo giurato di
combattere, e cerca di sbarrare i flutti scarlatti che mi priveranno di
un’altra metà di me.
Sento
il cuore
sobbalzare, come in Sokovia, quasi una mano me lo stesse scardinando
dalla
cassa toracica.
Vedo
i suoi occhi
appannarsi col velo di una morte troppo umana per un androide, e le sue
labbra
sembrano accarezzare quelle parole finora espresse in silenzio, tra
tocchi
eterei e mescolanze di pensieri ed emozioni possibili solo per noi.
Adesso
il mio tocco
diventa distruzione anche per te, moja golubka,
e invece di
proteggerti ti annullo, tronco i flutti di ciò che ci ha
unito e li faccio
evaporare mentre le lacrime rigano di nuovo le mie guance.
Mi
sento scuotere
l’anima assieme alla tua, ormai quasi alla foce oltre la
quale neanch’io potrò
più vederti.
Ti
dissolvi in
quell’oceano ignoto, confuso tra onde per me invalicabili e
solcate dalla
flebile scia di mio fratello, navigando la rotta sicura di chi sa
sempre dov’è
il proprio Nord.
Ti
perdo, perché è così
che doveva andare, e una sola vita non può fare la
differenza se non così.
Ti
perdo,
e la vittoria sa
nuovamente di lacrime amare.
Light&Shilyss
Note delle Autrici:
Cari Lettori,
Come sempre i nostri più sentiti ringraziamenti a quanti di voi ci hanno seguito e ci stanno seguendo e ci seguiranno. Questo progetto ormai è a metà e, come avete visto anche dai recenti poster, è un inno, un epitaffio. Wanda è stata scritta di comune accordo, insieme. Le varie parti si sono confuse perfettamente, almeno per noi. Speriamo vi piaccia: non la approcciamo spesso e c’è voluta una buona dose di brain storming per poter descrivere la Strega Scarlatta in maniera soddisfacente. Una piccola nota: all’inizio, Wanda si riferisce alla visione di Thanos che “ha già visto:” il riferimento, ovviamente, è alla visione di Tony instillata da Wanda stessa in Avengers: Age of Ultron.
La frase “moja golubka” è in russo, una lingua appartenente allo stesso ceppo di quella che si parlerebbe in Sokovia se esistesse: significa “mio tesoro”. In fondo, alla persona che amiamo parliamo con la lingua che abbiamo appresa per prima, no?
Grazie per essere arrivati fino a qui. |
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Capitolo 6 *** Un disperso ***
Un
disperso
Dove sono i
generali
che si fregiarono nelle battaglie
con cimiteri di croci sul petto
dove i figli della
guerra
partiti per un ideale
per una truffa, per un amore finito male
hanno rimandato a
casa
le loro spoglie nelle barriere
legate strette perché sembrassero intere. […]
(Dormono
sulla collina, Fabrizio De André)
Il
lupo bianco mi guarda. Si muove nella tundra gelata con passo felpato,
di
predatore. Poi, a un tratto, si volta e solleva il muso verso il cielo
e ulula.
È un sogno. L’ennesimo incubo. È il
richiamo necessario affinché gli altri
membri del branco accorrano al suo cospetto, forse. Anch’io
sono un lupo. Così
mi chiamano i fieri guerrieri dagli occhi di brace con cui ho vissuto
questi
pochi anni sereni, trascorsi a espiare colpe di cui non ricordo nulla,
in
attesa perenne dell’ululato che mi farà accorrere
nuovamente nel branco perverso
che mi ha reso ciò che sono – o non
sono. Una macchina senza volontà pronta a scattare grazie
alla frase giusta.
Il
lupo bianco non giudica con quei suoi occhi penetranti, indagatori. Mi
osserva
dal limitare della foresta. Il suo ululato si confonde, alle volte, con
il
treno che sferraglia prima di farsi inghiottire da una galleria persa
tra le
Alpi e allora la mia mente perde ancora pezzi e si frantuma, ricordando
i
brevi, terribili istanti di quella caduta, la mano protesa di Steve nel
vano
tentativo di trattenermi. Mi spettava una sorte capitata a molti:
quella di morire
senza poter essere sepolto, sopravvivere nella fotografia sbiadita, in
bianco e
nero, conservata in un vecchio album.
Sembra
che andarmene di fronte ai suoi occhi sia scritto nel mio destino.
Attonito, mi
ha visto sparire e diventare cenere, come allora mi vide inghiottito da
un
crepaccio. Steve è sempre stato la parte migliore di me: non
si è arruolato per
la gloria, ma per un ideale che, alla fine, ha tradito entrambi. Siamo
stati
burattini nelle mani dei potenti, pedine usate per vincere una guerra e
saziare
una sete di potere che ci è sempre sembrata estranea,
esperimenti malriusciti –
o riusciti in maniera troppo perfetta – che hanno permesso a
generali e
comandanti di manipolare ogni nostro filo. Bambole mute legate con una
bandiera, fatte saltare e correre da una parte all’altra del
mondo, che quando
si rompono possono essere aggiustate con un braccio di metallo.
Così
è nato il Soldato d’Inverno, fratello
dell’Uomo senza Tempo per elezione e per
destino. Viviamo in un mondo che non ci appartiene più,
figli delle ombre come
siamo, ma il nostro percorso scorre parallelo, perdendosi tra i
ghiacci, per
arrivare fino a qui, nella savana del Wakanda, dove io divento polvere,
lui mi
guarda.
Me
ne vado tendendogli una mano, all’amico di sempre che ho
protetto quand’era
esile, ma già gonfio di coraggio, al commilitone eccezionale
che ho affiancato
a testa alta, con la spavalda fiducia di chi crede di essere nel
giusto. Vedo
svanire le mie dita, muovo un passo in avanti, ma anche un gesto
così semplice si
fa drammatico, complicato, impossibile.
Il
lupo bianco non è poi un animale così solitario.
Nei ghiacci della Siberia ho
perso qualcosa – due occhi verdi di donna che non mi
riconoscono più come facevano
un tempo
– ma in questo tempo che non mi appartiene, che ho rubato, ho
ritrovato il
fratello che non ho mai avuto. Steve mi ha difeso dai crimini che non
ricordo
d’aver commesso, ha creduto in me quando il mio nome era solo
quello d’un
soldato morto – disperso
– ed era
solo un insieme di sillabe senza senso, per me.
Polvere
siamo e polvere torneremo e, in fondo, l’unica magra
consolazione è che i fili
delle nostre esistenze si siano intrecciati ancora, che il
più coraggioso e
puro tra noi sia rimasto a fissarmi svanire, d’accordo, ma
solo per poter
combattere ancora e ancora. Me ne vado con l’unico rimpianto
di non poter
essere alla tua destra, Steve, ma so che ci vendicherai tutti, in un
modo o
nell’altro. Il mio corpo spezzato, reso macchina, svanisce
come d’incanto, ma
la mia eredità e la mia forza sono con te, mio capitano, mio
amico, fratello.
Andrea raccoglieva violette
ai bordi del
pozzo
Andrea gettava riccioli neri
nel cerchio
del pozzo
Il secchio gli disse
"Signore il
pozzo è profondo
più profondo del
fondo degli occhi della
Notte del Pianto"
lui disse "Mi basta, mi
basta che
sia più profondo di me"
lui disse "Mi basta, mi
basta che
sia più profondo di me"
(Andrea, Fabrizio De
André)
Shilyss
Note
Autore:
Cari
Lettori,
Grazie
come sempre per l’attenzione e per il sostegno che avete
voluto
dedicare a questa storia, grazie davvero. Io e la mia collega
esimia _Lightning_
ve ne siamo davvero grate. Stavolta è toccato al fascinoso
Bucky Barnes l’onere
e l’onore di essere caduto nelle nostre grinfie. Qui si
naviga in acque colme
di bromance, che posso dire… spero di aver reso al meglio il
personaggio – è la
prima volta che ne scrivo in assoluto – e di avervi regalato
una lettura
piacevole. Il branco perverso è l’HYDRA, il
riferimento alla relazione con
Vedova è un richiamo ai comics, mentre “lupo
bianco” è il modo in cui i
wakandiani chiamano Barnes.
Ci
rivediamo prossima settimana su questi lidi e a stretto giro sui nostri
account personali. Buona serata! 😉
|
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Capitolo 7 *** Un sognatore ***
Un sognatore
Un
sogno, fu un sogno, ma non durò poco
Per
questo giurai che avrei fatto [l’eroe],
e
non per un Dio e nemmeno per gioco:
perché
i ciliegi tornassero in fiore.
Gli
altri sognan se stessi e tu sogni di loro;
e
l’anima, d’improvviso, prese il volo
ma
non mi sento di sognare con loro
no,
non mi riesce di sognare con loro.
Quello
che non mi
aspettavo, se mai mi sono aspettato qualcosa dalla morte, è
tutto questo
silenzio.
E
anche prima non c’è
stata nessuna esplosione, nessuno sparo, nessun grido, se non quello
del mio senso
di ragno che impazziva e mi terrorizzava con l’annuncio di
ciò che stava per
accadere, un granello alla volta.
Poi,
il silenzio.
Sembra quasi una punizione studiata apposta per me, e mi chiedo se
anche per
gli altri – non voglio pensare a chi, a May, a Ned, a MJ, o
mi scoppierebbe il
cuore – sia così, se anche loro adesso si trovano
di fronte alla cosa che più detestano.
Odio
il silenzio. Lo
riempio sempre come posso, parlando a raffica o con gli auricolari
perennemente
nelle orecchie, perché mi fa sanguinare i timpani e mi
trascina in basso anche
quando sono appeso a una ragnatela. Adoro i miei poteri che amplificano
il mio
udito e anche a notte fonda mi fanno sentire un taxi che passa sul
Queens
Boulevard, o zia May che dorme due stanze più in
là, o un insetto che zampetta
in corridoio, e così la notte è più
corta. Non c’è più silenzio, se non lo
voglio, e non lo voglio perché il silenzio è zio
Ben e non è zio Ben
– lui era l’opposto – ma è
ciò che si è lasciato
dietro. Una voce in meno, una battuta mancata, una risata persa. Per
questo lo odio,
e adesso odio il fatto di esservi immerso, di non aver potuto chiamare
May, di
non aver sentito la voce del signor Stark e di aver riempito quel
silenzio doloroso
con le parole sbagliate che non avrebbe mai voluto sentire.
Non
pensavo di
morire, così come non ho pensato di morire quando ho alzato
il palmo contro un
drone gigante, o quando mi sono gettato dal Washington Memorial. Ci ho
pensato
sotto le macerie, la prima prova per dimostrare di essere davvero
Spider-Man;
ma una parte di me era sicura che, se fossi morto, mi sarei svegliato.
Regola
numero uno dei sogni, insomma: non puoi morire. E forse è
per questo che la
prima volta che mi sono lanciato da un grattacielo non ho avuto paura,
anche se
non ero certo che i miei poteri fossero reali. Ma lo erano. E poi non
mi sono
più fatto domande, perché quando passi una vita
intera a sognare, e poi ti
ritrovi davvero dentro al sogno
dopo
l’incubo, non ti chiedi più nulla e ti limiti a
respirare l’aria fredda di New
York mentre volteggi a cento metri d’altezza credendo di
volare.
È
stato un volo troppo
lungo, o forse troppo breve. Troppo lungo per sentire di meritarmelo
davvero,
troppo breve per cambiare qualcosa; e adesso è troppo tardi
e il mio potere non
serve a nulla, non può ricomporre la cenere che non sento
neanche più, non può
riempire questo vuoto silenzioso in cui galleggio. Non doveva accadere
così,
non su un pianeta deserto, non lontano da May e Ned e MJ, non tra le
braccia spaventate
del signor Stark, non senza lasciarmi niente dietro. Non a diciassette
anni:
che razza di età è, per morire?
Diciassette
è un
numero spigoloso, uno di quelli che non vuol dire nulla e che sembra
servire
soltanto da raccordo per quelli che lo seguono. Un numero inutile, una
tappa
obbligatoria che ti fa vivere nell’aspettativa e
nell’inadeguatezza; perché,
anche se sei quasi adulto, non lo sei; e anche se sei Spider-Man, non
lo sei. Sono
il nerd sfigato cha ama Star Wars e
passa
i venerdì sera a giocare ai cabinati con un altro nerd
sfigato e una ragazza
stramba. Sono il secchione che cerca di non esserlo in modo troppo
evidente,
quello che si crede chissà chi perché ha vinto la
borsa di studio alle Stark
Industries e conosce Spider-Man. Quanto di più lontano da un
eroe.
Poi
mi metto il
costume e sento che tutto mi scivola addosso: non sono un eroe, solo un
amichevole ragno di quartiere, ma sono libero, in volo, in missione per
scelta
e per mantenere una promessa. Anche se ho diciassette anni. Anche se
sono Peter
Parker. E anche se magari è solo un sogno, è un bel sogno.
Non
sono mai riuscito
a rimanere nella zona grigia di cui parlava il signor Stark. Non ci
riesco, è
inutile: vedo qualcosa che non va e reagisco prima di potermi fermare.
È un
istinto inciso nel mio DNA da ben prima del ragno; dopo è
solo diventato più forte.
Più rapido, più efficace, in grado di agire e di
non costringermi semplicemente
a guardare impotente.
E
non potevo rimanere
a guardare l’astronave, non potevo lasciare che gli stessi
nemici che hanno
quasi distrutto la mia città – la mia casa, il mio
sottofondo costante che
riempie il silenzio – scappassero con una persona a me cara
mettendo in
pericolo le altre. Non potevo rimanere a guardare: so come va a finire.
Se puoi
impedire qualcosa di brutto e non lo fai, è colpa tua. Non
volevo fosse di nuovo colpa mia,
non volevo
infrangere il sogno, rovinarlo e trasformarlo in incubo.
Poi
è successo.
Il
sogno si è distorto
comunque, sfaldandosi nella cenere, in parole mancate e in questo
silenzio insopportabile
che vorrei spezzare, sollevare e gettare da parte come ho fatto con le
macerie.
Ma quello non si muove e ricomincia a premermi addosso con
l’eco di ogni mia
parola persa. Mi chiedo se questo sia davvero
l’aldilà, o se sono semplicemente
rimasto intrappolato a metà strada, incapace di sentire la
voce delle persone
che amo da entrambi i lati, incapace di raggiungerle. Se questa
è un’altra
prova, se magari devo dimostrare di essere qualcuno, un
eroe, anche se adesso non sono né Spider-Man
né Peter Parker.
Chiudo
gli occhi nel
vuoto, nel silenzio, nel sogno che continua.
Forse devo solo
aspettare
di svegliarmi.
Light
Note Dell'Autrice:
Carissimi Lettori,
ammetto che sono molto, molto emozionata nel pubblicare questo capitolo. Spider-Man è stato il super-eroe che mi ha introdotto al mondo della Marvel e per forza di cose vi sono affezionatissima, quindi potete immaginare quanto ci tenessi alla sua resa. Qui forse appare più serio e meno ingenuo di quanto non sia nel MCU, ma vedo la sua scomparsa (e ci tengo a non chiamarla morte) su Titano come un punto di svolta cruciale per il suo personaggio, in grado di portare alla luce i suoi lati più cupi. Rimane comunque colmo di speranza, insicuro di sé, chiacchierone (e infatti il suo capitolo è il più lungo), eroico nel senso più puro del termine anche se non penserà mai di esserlo. Spero di avergli reso giustizia, e che voi lo abbiate apprezzato in questa mia versione <3
Le canzoni di De André scelte sono Un medico e Un malato di cuore. Nella prima ho sostituito la parola "dottore" con "[eroe]" per riferirla in modo più immediato a Peter.
Ringraziamo tutti coloro che hanno commentato finora e che hanno aggiunto la storia alle seguite/ricordate preferite, o che leggono semplicemente. Ogni vostra parola è importante per noi <3
Per questa settimana è tutto, e la prossima toccherà alla mia collega intrattenervi... ci avviciniamo alla conclusione, di pari passo con Endgame ;)
Un caro saluto e a mercoledì,
-Light-
P.S. Il leitmotiv del silenzio associato a Peter è riconducibile alla mia long "Di ritorni, vittorie ed effetti collaterali", e le sezioni in cui se ne parla in questo capitolo sono da considerarsi una blanda genesi per gli eventi descritti nella suddetta.
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Capitolo 8 *** Un soldato ***
Un soldato
In un
vortice
di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Peggy
In un ballo di tanti anni fa
[…]
Libertà
l'ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato […]
Finii con i
campi alle ortiche
Finii con un flauto spezzato
E un ridere rauco
E ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto
(Il
suonatore
Jones, Fabrizio De André)
Il
mio tempo non è questo o,
almeno, non lo è più. Con la mano stringo il
guanto: è incredibile quanto
potere sia racchiuso in quest’oggetto che stiamo usando
insieme per salvare l’universo
in cui viviamo e, forse, condannarne un altro. Il mio braccio non
è sempre
stato solido e robusto come ora. Il ricordo indelebile mi assale e si
confonde
con il resto – con Tony laggiù, su Titano, con la
profezia oscura di Strange
che parla dell’unica
condizione possibile
affinché lo schiocco venga cancellato. Una volta ho detto
che sacrificare un
singolo, anche se per il bene di molti, non era qualcosa che ero in
grado di
accettare,
ma se riguarda me, allora sì, sono disposto a tollerarne il
peso. Il mio è un
morire qui per vivere altrove, per
stringermi al petto la ragazza a cui ho promesso un ballo a guerra
finita, per
ritrovare i volti amici di coloro che ho fissato con la grafite sulla
carta di
un blocco acquistato in un negozio di New York, che non esiste
più da sessant’anni.
Il
mio tempo non è questo. Sono
intrappolato in un mondo che non mi è mai appartenuto
davvero – il mio è
rinchiuso in un passato smarrito – così come, da
ragazzo, ero costretto in un
corpo gracile che non conteneva il mio spirito. Mi sono svegliato in
una
solitudine fatta di volti sconosciuti, che sapeva di ghiaccio, come la
mia
bocca. Mi hanno chiamato eroe, ma io ero solo un soldato, un ragazzo di
Brooklyn
che si è arruolato col suo migliore amico per far la guerra
contro i tedeschi e
riportare la bandiera sventolante della libertà sul mondo
intero.
Ho
aperto gli occhi in una realtà
diversa e mentre schiocco le dita ci penso, alla fine che ha fatto quel
soldato. La retorica della guerra è svanita, il capitano
senza macchia è morto e
ha impresse sul petto macchie di sangue altrui, come quelle vecchie
figurine
che appartenevano al bambino ormai cresciuto che voleva sopra ogni cosa
incontrarmi, ucciso da un alieno spietato che credeva
d’essere un dio.
È morto anche lui, dicono, perché alla fine tutti
abbiamo fatto la nostra parte
in questa guerra.
♦
Ecco
lo schiocco. È tempo di
tornare a casa. Di camminare per Central Park e abbassare la visiera
del
cappello per salutare una signora. Di baciare le labbra rosse di Peggy
e
ritrovarne il sorriso. D’invecchiare con lei
perché così è stato.
Sono
passati i mesi, gli anni, i decenni.
Sono
tornato nel mio tempo senza
sapere com’è andata a finire, se Stark,
dall’altra parte dell’Universo, è
riuscito a tornare. Ho vissuto e lavorato e amato e cambiato la carta
da parati
della nostra casa almeno due volte.
E Peggy è sempre più
bella. La mia
battaglia non è mai finita, però.
L’uniforme giace dentro un baule, coperta di
naftalina, ma è come se la indossassi sempre – la
indosserò per sempre. Sono svanito
in questo tempo per vivere la vita che avrei dovuto nel tempo che mi
spettava,
ma combatto tutti i giorni, non per i governi che, in passato, hanno
tentato di
usare il mio nome e far leva sul mio onore, ma per gli amici di ieri e
per
coloro che ancora non ci sono, ma verranno. Il mio dovere, il solo e
unico, è
sempre stato questo: proteggere Brooklyn e New York e gli Stati Uniti e
l’America
e il mondo intero.
E
così è stato. Stamattina, nell’ovale
dello specchio, dopo essermi rasato, ho schioccato le dita per
risentire quel
potere assoluto che cambiò il destino di molti, tra cui il
mio. Resto sempre l’uomo senza tempo,
sarà così in eterno,
ma almeno sono riuscito a tornare qui, nel posto che avrei dovuto
occupare fin
dall’inizio. Strange aveva ragione, lo S.H.I.E.L.D. lavora
come è giusto che sia.
E io, io faccio il mio dovere: tra qualche anno consiglierò
a Stark e alla
moglie di rimanere a casa, per Natale, e troverò il modo di
riprendere mio fratello.
Sarò
pronto, ma intanto oggi è sabato
e ho suggerito ad Howard di non rimanere in ufficio anche nel weekend,
ma di andare
a vedere il saggio di pianoforte di suo figlio. Tony è
ancora solo un bambino,
ma fa il sostenuto e dice troppe cose in troppo poco tempo, come sempre. Avrà avuto
ragione alla
fine?
Shilyss
Nota Autore
Cari
Lettori,
vi
ringraziamo infinitamente per
essere giunti fino a qui. La teoria che abbiamo espresso
verrà illustrata più
approfonditamente nel prossimo capitolo perché
sì, anche se l’album “Non
al denaro…” si chiude proprio con
l’iconica
“Il suonatore Jones”,
noi abbiamo
scelto di scrivere un capitolo finale di epilogo. Che
arriverà la settimana
prossima, quindi questa (non) è la fine dei giochi. Come
forse avrete capito,
abbiamo ipotizzato l’esistenza di due guanti (quello di
Thanos indossato da
Steve e quello di Tony creato per l’occasione) che,
schioccati insieme, annullino
il potere di quello di Thanos. Io e _Lightning_
ringraziamo infinitamente quanto hanno
commentato,
seguito, ricordato e preferito questa storia, ma anche chi
l’ha semplicemente
letta o la leggerà ♥.
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