Nemici molto singolari

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1318 DR: L'amore coniugale ***
Capitolo 2: *** 1318-1319 DR: ...e il suo contrario ***
Capitolo 3: *** 1319 DR: Tempo indeterminato e full-time ***
Capitolo 4: *** 1319-1320 DR: Il mondo in bianco e nero ***
Capitolo 5: *** 1320 DR: L’attaccamento ***
Capitolo 6: *** 1320 DR: La copia falsa del vero, la copia vera del falso ***
Capitolo 7: *** 1320 DR: Onore e cocciutaggine ***



Capitolo 1
*** 1318 DR: L'amore coniugale ***


Nota: Questa storia è a tutti gli effetti uno spin-off di Jolly Adventures, racconta le avventure del grande mago Linomer alle prese con le perle di Ka'Narlist. Questa storia può anche essere letta senza conoscere i pregressi, ma si capisce molto meglio avete letto prima le Jolly Adventures.


1318 DR: L’amore coniugale


Il grande mago Linomer si sporse dalla finestra della sua torre, pericolosamente in bilico sul vuoto. Non aveva paura di cadere, ma una ventata d'aria le scompigliò i capelli biondi, accarezzando le sensibili orecchie da elfo. Quella tiepida corrente ascensionale riuscì a smuoverle un ansito di nostalgia: da quanto tempo non spiccava il volo? Quand'è che si era abituata a muoversi solo a piedi, come gli umanoidi terricoli? Guardó verso il basso: in quel momento, gli abitanti di Derlusk sciamavano per le vie della città, intorno alla sua torre. Da lassù sembravano formichine operose.
Mi piacerebbe farmi un volo. Sulle pianure sconfinate dello Shaar, dove non sarà necessario rendermi invisibile. Mi piacerebbe… oppure potrei seguire Johlariel e Holly per un po’, per assicurarmi che il loro viaggio proceda bene. Sono partiti solo da qualche giorno, potrei ritrovarli. Dopo tutti quei mesi sottoterra, merito una bella vacanza.
Si ritrasse dalla finestra, allontanando quei pensieri con un sorriso triste. Il grande mago Linomer aveva il compito di proteggere la regione dalla minaccia della città sepolta di Atorrnash, e adesso quella minaccia non esisteva più. Poteva anche raccontarsi di volere una vacanza, ma tutto quello che voleva era rimandare l'inevitabile: il momento in cui si sarebbe chiesta se la sua presenza fosse ancora necessaria.
Aveva passato gli ultimi trecento anni a svolgere quel compito con pazienza e diligenza. Ora non aveva più nulla da fare.
Tranne…
Il mago dalle fattezze elfiche spostò lo sguardo sui tre graziosi bauletti che campeggiavano su un mobiletto, quelli in cui aveva riposto le perle trovate nel dungeon.
Quelle perle nere un tempo erano appartenute al terribile arcimago degli elfi scuri, il famigerato Ka’Narlist. Si diceva che fossero il ricettacolo delle anime dei suoi nemici. Linomer, con l'aiuto della creatura celestiale Karasel, aveva accuratamente diviso quelle perle in tre mucchi. Nello scrigno di ferro freddo e onice nera avevano riposto quelle che emanavano un'aura malvagia, che sarebbero rimaste sotto chiave per sempre. Un cofanetto più piccolo, d'argento e ametista, conteneva le perle che non emanavano alcuna aura. Un terzo scrigno ormai vuoto, fatto di lastre di madreperla tenute insieme da giunture di rame, aveva ospitato le perle che emanavano un'aura di bontà.
Naturalmente quelle erano state le prime ad essere spezzate per liberare le anime che contenevano, ed erano tutte creature dei Piani Esterni, che erano state felici di tornare a casa. La nuova piccola amica di Karasel, una coure di nome Twilight, era uscita proprio da una di quelle perle.
Le perle che non emanavano alcuna aura invece avevano dovuto attendere. Una creatura che non è né buona né malvagia può sempre tradirti, dopo tutto, e né Linomer né Karasel se la sentivano di affrontare questo dubbio con il dungeon ancora in fase di purificazione. Avevano troppi altri pensieri per la testa. Invece, qualcuno talmente candido da emanare un'aura buona doveva per forza essere affidabile.
Ora però il dungeon era stato ripulito, l'ingresso come sempre non era molto manifesto, e in mancanza di persone che facevano avanti e indietro fra la città ed il dungeon, non c'era più nulla che attirasse l'attenzione dei curiosi in quella direzione. Era il momento di affrontare anche quella sfida, occuparsi dei prigionieri imprevedibili. Linomer ne aveva liberato uno, come primo esperimento, solo qualche giorno prima. Tanto era bastato perché decidesse di gestirli uno alla volta.


“Mi piace questa città.” Esordì una voce alle sue spalle. Linomer non sussultò; piuttosto, alzò gli occhi al cielo. L’ex-prigioniero della perla era come uno spirito infausto: sembrava che bastasse pensare a lui, per evocarlo.
“Ilimalaaros.” Il saluto del mago fu a dir poco freddino. “Non ti avevo detto che questa torre non è un albergo?”
Il nuovo arrivato, un umano prestante che indossava l’armatura di una guardia cittadina, le rivolse un sorriso disarmante. “Ma mia cara…”
Non sono la tua cara.”
“Ti ho portato un dono.” Annunciò, mostrando una mano che fino a quel momento aveva nascosto dietro la schiena. Impugnava un vasetto di gerani.
“Hm. Molto carino.” Fu il commento poco accorato di Linomer.
Il giovanotto non sembrò lasciarsi scoraggiare.
“Alle femmine piacciono i fiori, così ha detto quel buffo umano della bottega. Ma uccidere una creatura vivente è una cosa moralmente sbagliata, anche se è un vegetale, quindi ti ho portato un fiore in vaso.”
“Ti prego, dimmi che non lo hai chiamato buffo umano in faccia.” Scandì lei, lentamente.
“Non… non avrei dovuto?” Il sorriso di lui finalmente iniziò a vacillare.
“Oh, no, figurati, è perfettamente normale che un umano chiami umano un suo simile.” Rispose, grondando sarcasmo.
“Oh, meno male!” Commentò l’altro, con aria svampita. “Mia diletta, vuoi essere la mia compagna per la vita?”
Cosa?
Ilimalaaros si inginocchiò e sporse il vasetto di fiori come se fosse stato un anello di fidanzamento. “Il mio cuore ti appartiene dal momento in cui ti ho vista, dolce Aklamarayah. Divieni la mia compagna, potremmo avere tanti bei cuccioli.”
Linomer rabbrividì, e non certo per il freddo.
“Ilimalaaros, tu sei un… un drago dabbene… sei molto coraggioso e… uhm… potente… e ti stimo per tutto quello che hai dovuto passare.” Sebbene la tua mente non ne sia emersa intatta. Aggiunse fra sé e sé. “Ma anche se sono lusingata per la tua proposta, io non voglio un compagno. Non voglio dei cuccioli.”
“Ero prigioniero in una torre e tu mi hai liberato.” Continuò lui, come se non l’avesse nemmeno udita. “Secondo l’antico codice cavalleresco, hai diritto alla mia mano.”
Linomer si massaggiò le tempie con le dita, riconsiderando quell’idea della vacanza.
“L’antico codice cavalleresco parla di uccidere il drago e salvare la principessa dalla torre. Non di uccidere la regina e salvare il drago dalla torre. Capisci la differenza?”
Ilimalaaros la guardò con occhi vacui, ma con un sorriso invaghito.
“La differenza di razza non è un problema, per me. L’amore supera anche questo.” Promise, mettendosi una mano sul cuore. “Non mi interessa se hai quegli strani riflessi azzurri.”
“Non…” Linomer arrossì, per l’imbarazzo e per la furia, e boccheggiò un paio di volte prima di riuscire a riprendere la parola. “Non vedo come siamo arrivati a parlare di questo, è sconveniente, è indecente, è… tu… non credere che io non capisca perché lo fai! Vuoi solo che io me ne vada perché questo era il tuo territorio, ventimila anni fa.” Lo accusò, puntandogli un dito contro.
“Ma mia adorata…” Ilimalaaros si rialzò, sfoggiando un’espressione ferita. “Non è assolutamente per questo! Sì, era il mio territorio, ma è passato tanto tempo. Sarei lietissimo di condividerlo con te, sei la mia salvatrice e ne hai ogni diritto. Inoltre sono più anziano di te e potrei insegnarti tante cose… sarà tutto più facile se diventeremo compagni, vedrai. La convivenza è più semplice se c’è intesa sessuale.”
Linomer rimase del tutto senza parole, per una manciata di lunghissimi secondi. In quel frangente diventò rossa come un pomodoro, poi livida dalla rabbia.
“Vattene subito dalla mia torre, Ilimalaaros!” Minacciò, alzando la voce in modo molto poco elfico. “E non tornare mai più, perché è solo per rispetto alla tua età, e al tuo vissuto, se adesso non ti scaccio con la forza!”
Ilimalaaros era figlio di un’altra epoca, un’epoca semplice, in cui i maschi erano maschi e le femine erano femmine. Un’epoca in cui era perfettamente accettabile dire quello che disse poco dopo, con un sorriso ammaliatore:
“Mi piacciono le femmine con questo caratterino.”
Poco dopo, un uomo vestito da guardia cittadina venne visto volare giù dalla finestra della torre di Linomer, con gli abiti in fiamme. L’uomo non toccò mai terra, perché a metà caduta si trasformò in un enorme drago di bronzo e recuperò faticosamente quota, il fuoco immediatamente estinto perché non aveva presa sulle scaglie.
Quel giorno Ilimalaaros l’Errante perse ogni pretesa sul suo antico territorio, perse la speranza di catturare il cuore di Aklamarayah, e perse anche le sue convinzioni sul fatto che il potere di un drago dipenda esclusivamente dalla sua età.
Il raziocinio, purtroppo, l’aveva già perso durante i lunghi secoli di prigionia.

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Capitolo 2
*** 1318-1319 DR: ...e il suo contrario ***


1318-1319 DR: ...e il suo contrario


Linomer amava considerarsi una creatura dalla mente aperta e sempre pronta a rialzarsi dopo una caduta. Fino a questo momento, però, forse non era mai stata davvero messa alla prova.
Non le piaceva soffermarsi su quel pensiero, ma la storia di Ilimalaaros l’aveva molto turbata e rattristata. Un tempo doveva essere stato un drago fiero e nobile, come tutti gli esemplari della sua razza. Anche prima di essere rinchiuso nella perla dell’arcimago, aveva già visto sorgere e tramontare almeno sei secoli. Chissà di quali grandi azioni era stato capace, all'epoca. Si era opposto alla tirannia e alle brame di conquista degli elfi scuri, con il coraggio tipico dei draghi di bronzo? Era per questo che Ka’Narlist lo aveva bollato come nemico? Ed era già pazzo quando l’arcimago l’aveva rinchiuso? Gli aveva strappato il senno con qualche tremendo maleficio? Oppure era stata la lunga prigionia a sconvolgere la sua mente?
Sospirò e cercò di allontanare da sé quei pensieri, e di riflesso allontanò anche il bicchiere di brandy che aveva davanti. L’alcol non avrebbe risolto nulla, eppure negli ultimi giorni quel forte liquido ambrato aveva preso il posto del placido tè del pomeriggio. La cosa, inutile negarlo, stava avendo effetti sgradevoli anche sulla sua resa nello studio dell’Arte.
“Ho cambiato idea, Beith. Porta via questo bicchiere e scalda l'acqua per un tè.” Ordinò in lingua elfica, agitando distrattamente una mano. Ci pensò un attimo, poi aggiunse: “Ricordi come si fa?”
Una fanciulla dall'aspetto elfico si avvicinò timidamente e prese in mano il bicchiere di vetro. “Sì, padrone.”
Linomer colse con la coda dell'occhio un accenno della sua pelle rosea e sana. La ragazza stava recuperando la salute, e questo era già qualcosa. Purtroppo, soltanto quella fisica.
Nessuno ha mai un bell'aspetto quando riemerge da una prigionia di ventimila anni. Il corpo si riforma spontaneamente intorno all'anima, perché l'incantesimo percepisce che quella creatura ha ancora un po’ di tempo da vivere. Però all'inizio il corpo è smunto, fragile, come se l'anima non riconoscesse quell'involucro artificiale.
La cosa tendeva a risolversi da sola nel giro di un paio di giorni. Beith non faceva eccezione.
“Sono lieto di vedere che stai recuperando la salute, mia cara.” Esordì, mantenendo lo sguardo cocciutamente incollato sul tavolino da salotto. “Ma quando ho detto che volevo tenere d'occhio i tuoi progressi, non intendevo suggerire questo. Non c'era nessun bisogno che tu rinnegassi l'uso dei vestiti.” Abbozzò, cercando di non far trapelare il suo imbarazzo.
“Sì, padrone.”
Linomer scosse la testa, sconsolata. Non sembrava esserci modo di strappare alla ragazza una qualche parola che non fosse “sì, padrone”, anche se aveva rivelato almeno il suo nome all'elfo della luna.
Nonostante la facciata di servilismo, sembrava che Beith vivesse nel terrore. Era decisamente qualcosa su cui avrebbero dovuto lavorare.
“Beith, lascia perdere il tè. Vai nella tua stanza e indossa il vestito che ti ho messo sul comò.” Decise di darle un comando esplicito. La creatura non reagiva mai ai semplici suggerimenti.
Questa volta, nonostante l'ordine diretto, lei esitò comunque.
“Beith?” Sollecitò Linomer, non udendo risposta.
La ragazza si avvicinò a lei e senza preavviso si gettò ai suoi piedi.
“Per favore, padrone.” Piagnucoló in tono spaventato. “Per favore. So stare al mio posto, lo giuro. Il mio precedente padrone me l'ha insegnato. Vi prego, non ho bisogno di lezioni. Non fatemi del male, padrone, per favore…”
Linomer rimase spiazzata per quell’uscita. Non si aspettava una reazione simile da parte della creatura. Dopotutto le aveva solo detto di vestirsi.
“Non ho intenzione di farti del male, lo giuro. Sul mio onore.”
La ragazza non si mosse. Non sembrava per nulla rassicurata.
“Beith, per favore. Le usanze civili sono cambiate moltissimo nel tempo in cui tu sei stata prigioniera. Sono passati almeno diciannove millenni. Io non comprendo il tuo comportamento.” Ancora nessuna reazione. “In che modo ti ho fatta sentire minacciata? Non capisco nemmeno che creatura sei, forse per la tua razza è doloroso coprire la propria pelle? Spiegami, per favore… anzi, spiegami, te lo ordino.” Pretese, ma in tono gentile nonostante le parole che aveva scelto.
La ragazza si inginocchió in modo un po’ più composto, mantenendo gli occhi bassi in segno di sottomissione. I lunghi capelli ramati coprivano i piccoli seni come un drappo, e Linomer giudicò che fosse abbastanza sicuro guardarla.
Era molto bella. Aveva le forme aggraziate di un'elfa, le sue orecchie erano sottili e appuntite. Il colorito nuovamente sano ricordava quello degli umani della regione, una leggera abbronzatura. Certi dettagli però smentivano subito le sue fattezze elfiche: i suoi occhi azzurri, chiari come il ghiaccio, erano troppo grandi. Così grandi da ispirare tenerezza, ma anche un po’ di inquietudine.
E poi c'erano i denti. Quelli facevano paura. Lunghi e sottili come aghi, come i denti di certi pesci assassini. Ogni volta che Beith apriva la bocca, Linomer si augurava di non diventare mai sua nemica.
“Io sono una jaebrin, padrone. La mia è una razza fatata, sebbene mortale.” Mormorò, riuscendo a darsi un maggiore contegno.
Linomer rifletté velocemente, cercando di riportare alla mente ciò che sapeva sui vari popoli fatati. Non erano mai stati il suo principale argomento di studio.
“Non ho mai sentito parlare dei jaebrin.” Ammise infine. “Nel vestito che ti ho dato c'erano forse spille o intarsi in metallo? Qualcosa che potesse farti male?”
La fanciulla scosse la testa, raggomitolandosi come se stesse cercando di farsi più piccola.
“No, padrone. È un abito molto bello. Troppo bello per una schiava.”
A Linomer venne naturale sporgere una mano per offrirle un contatto rassicurante, ma si fermò appena in tempo: Beith non era un animaletto e non aveva il diritto di toccarla. Inoltre, il contatto fisico probabilmente l'avrebbe solo spaventata di più.
“Beith, che cos'è che ti ha insegnato il tuo precedente padrone?” Mormorò a bassa voce.
“Tutto.” Si affrettò a rispondere. “So stare al mio posto. Non dico più cose inappropriate. Non c'è bisogno di chiudermi le labbra con la magia. Non pretendo di essere trattata come gli altri, di indossare bei vestiti e guardare in faccia le persone libere.” I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma continuò come se non se ne fosse accorta. “Il vecchio padrone mi ordinava di indossare abiti di seta e oro, e poi mi puniva per averlo fatto. Se non obbedivo, mi puniva lo stesso. Per favore, padrone, non c'è bisogno di questo… ho già imparato la lezione.”
Linomer sospirò e si appoggiò allo schienale della poltroncina, massaggiandosi le palpebre con un tocco leggero delle dita. Aveva immaginato qualcosa del genere, e non aveva la minima intenzione di approfondire il discorso. Non voleva conoscere i dettagli delle punizioni di un elfo scuro perverso, già l'idea di chiudere le labbra a qualcuno con la magia era rivoltante.
“Oh, déi del cielo... come ti dicevo le usanze sono cambiate molto da allora. In questa città è perfino proibito avere schiavi.” Spiegò, esagerando un poco. C'era davvero una legge che lo proibiva, ma nelle città-stato vicine non era così, e la cultura calishita dei Regni di Confine era dura a morire. La schiavitù esisteva ancora, sotto nomi più gentili come asservimento volontario o lavoro retribuito in natura.
“Certamente l'arcimago della città è al di sopra delle leggi.” Osservó la donna, in tono ossequioso.
Questa supposizione colpì profondamente la coscienza di Linomer. Non aveva mai pensato a sé stessa come a un'autorità cittadina, eppure Beith lo stava dando per scontato. Era stato un errore non pensarci, e lasciarglielo credere.
“Non sono un arcimago.” La corresse. “Sono solo un mago ricercatore. Mi dedico allo studio dell’Arte, e non mi impiccio di politica. Non sono io a governare questa città.”
“Siete un mago molto potente.” Beith si prostrò fino ad avere quasi la fronte sul pavimento. “E anche se non governate, sono certa che possiate fare ciò che volete.”
“Ah, può essere. Certo, anche se avessi una schiava, chi si azzarderebbe a dirmi qualcosa?” L'incantatrice si arrese davanti a quella logica molto realista. “Però non ho rinunciato al mio ruolo morale, sento di dover dare il buon esempio alla cittadinanza. Non sei mia schiava, Beith.”
La ragazza rincominciò a tremare peggio di prima. “No, per favore, padrone. Non questo gioco. È così crudele. Vi giuro che so stare al mio posto.”
Linomer la guardò in silenzio per un lungo momento, senza sapere cosa dire. La fanciulla era troppo traumatizzata. Non sarebbe guarita solo con qualche bella promessa. Ci sarebbe voluto del tempo, e Linomer non era sicura di poter sopportare il suo sguardo spaventato ogni santo giorno.
Quella mattina, addirittura, Beith si era fatta trovare ai piedi del suo letto. Ovviamente nuda. Sembrava che si aspettasse qualcosa, e si era stupita quando Linomer le aveva solo ordinato di preparare la vasca per il bagno. Ka'Narlist probabilmente la… usava… in altro modo.
Continuerà a vedermi come una minaccia. Realizzó infine. Non importa quanto sarò gentile con lei e con quanta costanza, lei avrà sempre paura di me perché mi vede come un arcimago e come un maschio. Ed io non la voglio in giro per casa, a farmi sentire in colpa per cose che non ho fatto, per le sue paure su cui non ho controllo.
“Beith, per favore, preparami quel tè. Non ti obbligheró a vestirti se non vuoi, ma fuori da questa torre dovrai farlo perché la comune decenza lo impone. Ti troverò dei vestiti umili e modesti. Puoi accettarlo?”
La ragazza si alzò, tenendo sempre lo sguardo basso. “Se il padrone lo comanda.” Rispose in tono neutro.
Poi, sempre studiando il mago con la coda dell'occhio, si spostò nella zona cucina e cominciò a far scaldare l'acqua sulla stufa. Dentro di sé, si chiese cosa avesse inteso il suo padrone dicendo fuori da questa torre.

Linomer attendeva il tramonto con una certa trepidazione. Aveva avuto un'idea, e siccome era una sua idea, era di sicuro una buona idea. Avrebbe allontanato Beith dalla torre e dal suo “padrone elfo”, senza però che uscisse dalla sua sfera di controllo. Dopo cena avrebbe mandato a dormire la fata, e avrebbe chiamato alla torre un altro genere di servitrice.

Beith non era una buona cuoca. Difficile che Ka’Narlist la impiegasse per quel compito triviale. Linomer però era perfettamente capace di cucinare da sola. Aveva notato che nei giorni precedenti Beith aveva mangiato verdure e focaccia senza battere ciglio, ma non aveva toccato il pesce o la carne. Forse era vegetariana, come molti folletti. O forse l'unica carne che mangiava era quella umanoide. Linomer non aveva particolare voglia di chiederglielo. La sua non era esattamente una dentatura da creatura erbivora.
“Beith, voglio che tu vada a dormire presto questa sera. Domattina ti alzerai di buon'ora e ti recherai nella tua nuova casa.” Le comunicó, al termine della cena.
“Il padrone si trasferisce?”
“No, mia cara. Soltanto tu. La tua bellezza e la tua operosità meritano di essere messe a frutto, non ha senso che tu resti qui insieme a me. Io sono abituato a vivere solo.”
Sentendo parlare di bellezza e operosità, Beith cominciò a sudare freddo.
“Ma di certo il padrone mi vuole per sé, e non desidera… condividermi con altri.” La fata cercò di tirare fuori il meglio dalle sue arti di seduzione, ma il risultato fu una posa un po’ troppo forzata.
Linomer s’irrigidí, a disagio. Ripassó a mente il discorso che le aveva appena fatto: era così equivocabile?
Uhm, sì, probabilmente lo era.
“No, non è quello che avevo in mente. C'è una donna che vive in città, il suo nome è Marian. È stata mia apprendista e rimane tutt'ora una mia amica. Marian gestisce un piccolo negozio di bigiotteria e ninnoli magici. Le ho chiesto se è disposta a prenderti come commessa, e lei ha accettato.” O quantomeno lo farà, aggiunse fra sé, non è che un mio Simulacro possa rifiutarsi di obbedire.
“Il padrone è scontento di me?” Domandò lei con un piccolo adorabile broncio. Linomer però ebbe la netta sensazione che nonostante quella posa lei fosse segretamente sollevata.
“No, però amo la solitudine. Non so quali abitudini o esigenze avesse il tuo precedente padrone, ma io non ho alcun uso per la tua compagnia. Perdonami, non voglio offendere il tuo amor proprio, ma io sono così.” Spiegò bruscamente, in tono definitivo.
Beith si rilassó visibilmente. “In questo caso vi ringrazio per avermi trovato un'occupazione più idonea. Obbediró alla signora Marian come farei con voi.”

La signora Marian si presentò alla torre quella sera stessa. Aveva portato con sé un fagotto di vestiti, su richiesta di Linomer. Erano tutti abiti semplici, molto simili a quelli portati dai cittadini meno abbienti di Derlusk. Linomer gratificó il suo arrivo con un sorriso.
Marian era solo un Simulacro, ma l'incantesimo l'aveva resa del tutto indistinguibile da una persona vera: aveva anche la capacità di pensare per conto suo.
“Marian, carissima.” L’accolse Linomer. “Per favore, lascia quei vestiti sulla credenza e siediti vicino a me. Dobbiamo parlare.”
Il Simulacro ubbidí. Non aveva scelta. Comunque, dalla sua espressione sembrava che Marian fosse contenta di vederla.
“Necessiti che io vada in missione, come l'ultimo Simulacro?” Domandò, sedendosi accanto alla sua creatrice.
Linomer sentì un'altra fitta di senso di colpa, ripensando alla morte del suo ultimo clone quasi-reale. Quelle creature artificiali non avevano una vera anima, e nemmeno una vera vita, ma la simulavano così bene. Erano una parte di lei, create a sua immagine e somiglianza. Più di una volta, Linomer si era chiesta cosa fosse la morte, per queste creature. Di sicuro erano consapevoli di non essere vive, erano consapevoli che la loro esistenza valeva esattamente quanto era costato costruirle, non di più. Ma questo come le faceva sentire?
“No, non ho intenzione di perdere anche te.” Rispose sinceramente. “Come va la tua attività commerciale?”
Marian, il Simulacro, era pronta per questa domanda: frugò nella scarsella e tirò fuori un'agenda foderata di cuoio.
“Bene. Non è facile lavorare, quando ogni mattina dimentico quello che ho appreso il giorno prima. Però mi segno tutte le commesse su questo libretto, e ho un contabile che mi segue.”
“Sì, immagino che la copertura che stai mantenendo sia particolarmente ostica per un Simulacro. Per questo voglio che facciamo a cambio. Tu diventerai il grande mago Linomer, tanto non accade mai che qualcuno venga a disturbarlo per richiedere grandi incantesimi. Le tue capacità limitate potranno bastare. Invece io prenderò il tuo aspetto ed il tuo posto alla bottega. Tu dovrai soltanto recitare una parte e assolutamente non toccare gli scrigni che tengo nell'armadio.”
Se Marian fosse stata una qualunque altra persona, Linomer avrebbe dovuto insistere e spiegare le sue argomentazioni. Ma lei era una sua creatura, non avrebbe mai messo in discussione i suoi ordini.

La mattina dopo, quando Beith si svegliò dal suo sonno leggero, trovò ad attenderla il suo padrone insieme ad una donna umana.
La sconosciuta, che doveva essere la signora Marian, era una giovane piacente. Non certo memorabile, il suo aspetto era piuttosto banale, ma era ben fatta e aveva un viso dai tratti simmetrici. Beith non aveva grande esperienza in fatto di umani, ma giudicò che potesse avere raggiunto da poco l'età della ragione. I suoi occhi castani però erano sereni e mostravano una maturità che andava oltre la sua età apparente.
Forse è più anziana di quanto non sembri. I maghi possono estendere la durata della loro vita. Ka'Narlist lo aveva fatto, era già vecchio di millenni quando Beith era diventata uno dei suoi giocattoli. Se è così potente, mi conviene tenermela buona…

Beith indossó i vestiti modesti che la donna le aveva portato, senza muovere obiezioni. Non era abituata a quel tipo di abbigliamento, dietro ordine di Ka’Narlist aveva indossato solo abiti eleganti oppure nulla. Come se non bastasse, la signora Marian l’ammantó di un incantesimo che nascondeva i tratti della sua eredità fatata, rendendola uguale a una comune elfa dei boschi. Era una sensazione molto strana, essere uguale a tutti gli altri. Beith non sapeva decidere se le piacesse oppure no, ma in realtà era troppo condizionata all'obbedienza per poterselo chiedere.

Marian prese per mano la sua nuova serva e la portò con sé per le strade semi-vuote della città. Si fermarono in una taverna a mangiare biscotti, yogurt e frutta per colazione. Per Beith quello stile di vita era del tutto nuovo, e assurdo. Se ne stavano sedute tranquillamente ad un tavolo, circondate dal popolo dell'alba: chiassosi e rudi marinai, alcuni mercenari particolarmente sobri, accompagnatrici che andavano a dormire in quella. La fata era sempre stata un giocattolo esclusivo dell'arcimago, non riusciva quasi a ricordare la sua vita prima della schiavitù. Era stato normale anche per lei, un tempo, camminare in mezzo agli sconosciuti? Era stato normale non dover avere paura di chiunque?
“Stamattina ti mostrerò la mia bottega e ti spiegherò in cosa consiste il tuo lavoro. Non è nulla di complicato. Spero che ti troverai bene con me.”
“Sì, padrona.”
“Oh, ti prego, chiamami Marian. O signora, se proprio non riesci ad entrare in confidenza.”
“Sì, signora. Grazie.” Mormorò la fata, portandosi alla bocca un altro cucchiaio di yogurt e noci. Era molto più facile mangiare questo cibo, ora che aveva dei denti normali.
Speriamo che impari in fretta. Marian stava già facendo piani per il futuro. Con il suo aiuto potrò dedicarmi meno alla bottega e più alle pratiche burocratiche per fondare l'orfanotrofio. L'ho promesso a Holly e intendo mantenere la parola.
Certo, ho ancora tutte quelle persone da liberare, ma sono rimaste nelle perle per migliaia di anni. Qualche mese in più non farà differenza.


Beith era una ragazza intelligente e imparò in fretta a fare la commessa. All'inizio mostrava a Marian la stessa soggezione e obbedienza che aveva riservato al mago Linomer, ma in seguito la minor paura che provava nei confronti di una donna l’aiutó ad aprirsi sempre di più. Lentamente la fata stava recuperando la sua personalità, o forse la stava creando, dal momento che non aveva molti ricordi della sua vita in libertà.
Di certo quel tipo di lavoro sembrava fatto per lei; il suo fascino naturale attirava la clientela e la sua civetteria trascinava le signore verso il declivio della vanità. Come moltissime fate sapeva apprezzare le cose belle. Saper consigliare a qualcuno un acquisto che migliorasse la sua figura d'insieme, era qualcosa che in breve cominciò a renderla fiera di sé stessa.
Passarono molti mesi, l'inverno arrivò e si ritirò, prima che Beith cominciasse a sentirsi davvero libera. Non libera di fare ciò che voleva, ma almeno libera di avere pensieri e opinioni.
Dopo quasi un anno dal suo arrivo alla bottega sembrava un'altra persona.

Fu più o meno in quel periodo che la sua natura tornò a farsi sentire. I jaebrin non sono creature malvagie, ma per natura sono egoiste e non tollerano molto le costrizioni.
All'inizio si trattava di piccole cose. Un commento sarcastico. Una parola irriverente. Beith non riusciva a spiegarsi i sentimenti che provava. Era grata alla maga per ciò che le aveva restituito. Ma adesso stava cominciando a sentirsi arrabbiata con il mondo per ciò che le era stato tolto.
Nonostante la gratitudine, quella vita cominciò ad andarle stretta. Beith non voleva male alla signora Marian, anzi dentro al suo cuore augurava ogni bene alla sua datrice di lavoro. Però stava davvero cominciando a concentrarsi sempre di più sulla propria vita, sulle proprie necessità ed i propri desideri. Più il tempo passava e più questo diventava un chiodo fisso. Più il tempo passava e più lavorare nella bottega di bigiotteria le sembrava un'altra forma di schiavitù.

Un pomeriggio Marian lasciò il negozio alla sua assistente, a cuor leggero. Doveva andare a chiedere i permessi al Consiglio cittadino per iniziare a costruire l'orfanotrofio.
Al suo ritorno, gli scaffali erano completamente vuoti e nella cassaforte non restava nemmeno una moneta di rame.
C'era una lettera sul bancone, solo poche parole vergate in fretta e furia:

Ti ringrazio per tutto, signora, ma ora devo vivere la mia vita. Ti prego, non volermi male. Ho preso i tuoi gioielli solo perché sono bellissimi.
Ti amo e ti amerò sempre, ma sono uno spirito libero.
Beith

Marian lesse quelle frasi un paio di volte, stupefatta. Non c'era mai stata passione e nemmeno grandi manifestazioni d'affetto fra lei e la fata, ma pensava di conoscere l'amore di cui Beith parlava. Marian era stata la prima persona a trattarla decentemente da tantissimo tempo. Non avevano un rapporto paritario e quindi non potevano definirsi amiche, ma si rese conto che anche lei ricambiava quell'affetto profondo e privo di legami.
La maga si sedette sulla poltroncina dietro al bancone, confusa dalla quantità di emozioni contrastanti che stava provando. Si nascose il viso tra le mani e, senza averlo previsto, cominciò a ridere. Era una risata senza controllo, spontanea come un temporale estivo.
Era stata lei a scoperchiare la vera personalità di Beith. Era solo sua, la colpa.
La donna scrolló le spalle, pensando che c'era di peggio al mondo che un’affascinante e simpatica ladruncola.
Uscì in strada, come se pensasse di poter cogliere la fata nell'atto di scappare. Ovviamente Beith era ormai lontana, ma nemmeno questo era importante.
Marian conosceva una magia che avrebbe recapitato alla jaebrin un suo breve messaggio, ovunque lei fosse.
Tornò nelle bottega, girò il cartellino su “Siamo chiusi” e recuperò dalle sue tasche il necessario per lanciare l'incantesimo.

Sono felice che la tua anima sia guarita. Meglio saperti libera con i miei averi, piuttosto che averti come un oggetto.
Ti amo. Buona fortuna.


La fata non rispose. Marian comunque non si aspettava una risposta. Adesso Beith aveva bisogno di allontanarsi da Derlusk, da quella regione in cui aveva vissuto in schiavitù. Forse sarebbe persino tornata nel reame delle fate, ovunque fosse.
A Marian non importava. Era pronta per voltare pagina.

           

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Capitolo 3
*** 1319 DR: Tempo indeterminato e full-time ***


1319 DR: Tempo indeterminato e full-time


Dopo la partenza improvvisa di Beith, Linomer aveva preso una decisione: era tempo di lasciare nuovamente la gestione del negozio al suo Simulacro e tornare alla torre.
Per un Simulacro non era facile gestire una bottega, ma aveva creato Marian apposta per sostenere quel ruolo. Lei adesso aveva altro da fare. In realtà se i Simulacri non fossero stati così costosi da creare, Linomer probabilmente ne avrebbe piazzati una decina in giro per la città a ricoprire diverse mansioni. La mancanza di memoria a lungo termine però era un problema, che li rendeva degli informatori e delle spie davvero pessimi. Non che al momento le servisse, ma… in una città di umani non si può mai sapere.
Comunque, alla fine era tornata a casa. Il richiamo del dovere era più forte del desiderio di una vita tranquilla. Aveva ancora molte anime prigioniere da liberare.

Linomer cominciava ad essere stanca di brutte sorprese da parte delle perle nere. I due precedenti “ospiti” erano stati una bella prova da superare. Una prova per la sua pazienza e anche per la sua serenità mentale. Decise di prendere tutte le perle prive di aura malvagia e sottoporle ad ulteriori test, prima di romperle liberando i prigionieri.
Linomer non conosceva incantesimi adatti a distinguere certi dettagli delle auree delle creature, ma possedeva un oggetto in grado di farlo, nel suo laboratorio magico.
In realtà possedeva molti oggetti curiosi, che aveva costruito lei stessa nel corso dei decenni. Questo in particolare l'aveva creato in collaborazione con un prete di Oghma, il dio della conoscenza. Si trattava di una bilancia a stadera di ferro, abbastanza grande da poter ospitare un essere umano sul proprio piatto. Era appesa con una catena al soffitto, e sul braccio più lungo scorreva un piccolo peso di giada, detto romano. All'apparenza sembrava una normalissima bilancia da mercante. La differenza era che questo strumento non misurava il peso, ma il potere e la pericolosità di una persona o di un oggetto. Sul braccio più lungo della stadera era incisa una scala graduata. Anziché su una progressione di numeri, il romano scorreva su disegni stilizzati, come dei geroglifici di cui solo i suoi creatori ricordavano il significato. Solo Linomer, quindi, perché il prete era morto da molti anni.
Mettere una singola perla sul piatto della bilancia era strano, quell'oggetto grande come una biglia sembrava sparire nel grosso piatto concavo della stadera. Eppure la bilancia s’inclinó sul suo perno, e Linomer cominciò a spostare leggermente all'indietro il romano, per cercare il punto di equilibrio. La prima perla che aveva passato al vaglio venne etichettata e riposta in un sacchetto di seta. Le altre avrebbero seguito lo stesso destino.
Impiegò quasi tre ore per esaminare in quel modo una quarantina di perle. Quando finalmente arrivò a tastare il fondo vuoto dello scrigno, Linomer tirò un gran sospiro di sollievo.
È abbastanza, per una giornata di lavoro. Ora passiamo a qualche occupazione leggera e rilassante.
Spostò nuovamente le perle, ora separate in appositi sacchettini, dentro al loro bauletto. Poi lo richiuse con un sonoro scatto e si stiracchiò come un felino, occhieggiando con desiderio la biblioteca. Passò il resto della giornata immersa in un tomo di numerologia sperimentale, godendosi la silenziosa beatitudine della sua torre solitaria. Il pomeriggio scivolò nella sera, in un baleno.
Linomer non sapeva che sarebbe stata la sua ultima giornata tranquilla per molto, molto tempo.

Il mattino dopo, di buon’ora, l’elfo della luna fece colazione con calma e poi si decise finalmente ad affrontare il suo compito. Nuova perla, nuovo problema.
Ne scelse di proposito una che non aveva rivelato al suo interno alcuna fonte di potere.
La sua teoria era che alcune di quelle perle fossero vuote. Aveva senso che Ka’Narlist tenesse alcune perle vuote a disposizione per rinchiudervi nuovi nemici.
Linomer quel mattino si approcció al lavoro con animo da sperimentatrice, convinta di stare per dimostrare la propria ipotesi ragionevole.
Ma...
È curioso come vanno queste cose.
Linomer non aveva torto: alcune perle erano vuote. Ma non quella. Tuttavia, quel fallimento della sua teoria la terrorizzó e la convinse che la realtà fosse peggio di com’era davvero.
Quando l'improbabile, piccola, indifesa creatura uscì dalla perla, Linomer capì che in quel momento aveva davanti qualcosa di immensamente pericoloso e potenzialmente incontrollabile. Soprattutto, ora temeva che tutte le perle che sembravano vuote in realtà nascondessero un simile fardello.

Il bambino guardò il mago, da sotto in su. I suoi enormi occhi verdi tradivano stupore e paura, emozioni che filtravano attraverso il suo sguardo senza essere imbrigliate dalle sovrastrutture mentali degli adulti.
L'ultima cosa che ricordava di aver visto era il mago dalla pelle scura che evocava una bellissima luce colorata, e poi… poi era come se avesse dormito, per tantissimo tempo.
Ora si trovava davanti un altro adulto, un altro elfo, ma più pallido, che lo fissava come se fosse stato un estraneo.
Kavrin si guardò freneticamente intorno. La sua mamma e il suo papà non si vedevano da nessuna parte. Nemmeno quel mago così gentile che gli sorrideva sempre, quello che gli avevano insegnato a chiamare Nonno.
Dopo un momento di silenzio sbalordito, fece l'unica cosa sensata per un bambino di tre anni: corse a nascondersi sotto a un tavolo.

“Oh, per gli Dei. Per gli Dei!” Linomer passeggiava avanti e indietro per il suo studio, persa, come sotto shock. Di solito era brava a reagire alle situazioni inaspettate, ma stavolta non sapeva fare altro che muoversi a caso e balbettare cose senza senso. “Oh, Dei. Un bambino. Un elfo scuro bambino. Oh. Oh. Dei. Perché a me?” agitò le mani come se stesse cercando di scacciare un pensiero fastidioso e opprimente. “Perché era nella perla? Come faccio a rimettercelo dentro? Oh, Dei. Non posso. Non posso. È un bambino innocente… e la perla si è rotta. Oh, merda. E se avesse la maledizione? Se non fosse nemmeno un bambino?”
Senza accorgersene, era passata a parlare in draconico, borbottando a bassa voce fra sé e sé.
Il bambino era andato ad appallottolarsi sotto il tavolo della colazione, che aveva una lunga tovaglia bianca che sfiorava il pavimento. Il suo visino scuro faceva capolino da sotto quella tenda improvvisata, come se non volesse perderla di vista, ma ogni tanto si copriva la faccia con le manine. Di certo il suo comportamento sembrava genuinamente infantile.
“Oh, per gli artigli di Tiamat. Che cosa diamine ci faccio con un cucciolo di elfo? Sono cosette fragili. Come si fa a farli sopravvivere?” Linomer prese un respiro profondo, cercando di sopprimere il panico. Non aveva mai voluto figli suoi, non credeva che sarebbe stata capace di occuparsene, e poi non voleva che le rubassero tempo. Aveva avuto qualche giovane apprendista, al massimo. Ora si ritrovava a dover gestire un… uno di quei cosi… e per giunta uno di una razza che le era aliena. Non aveva mai visto un piccolo degli elfi. Men che meno degli elfi scuri.
“Va bene, va bene… pensiamo razionalmente. A chi lo scarico?”
Linomer stava iniziando a vagliare le sue poche opzioni, quando si rese conto di un rumore soffocato e incostante che proveniva da sotto il tavolo. Il suo udito era fine quanto quello di un vero elfo… singhiozzi. Il bambino si era messo a piangere.
Linomer non sopportava i piagnistei dei mocciosi, quindi si preparò mentalmente a fare fronte a un'ondata di fastidio. Non aveva bisogno di farsi distrarre anche da questo.
Ma il fastidio non arrivò. Al suo posto, giunsero la maturità e il buonsenso.
Che diavolo sto facendo? C'è un bambino terrorizzato che si è trovato in un luogo sconosciuto insieme a un elfo sconosciuto. Che non assomiglia nemmeno alle persone che conosceva. E io sto qui a lamentarmi?
Quel poverino ha bisogno di aiuto… ha bisogno… be’, non di
me, ma di un adulto. E qui ci sono solo io.
Non posso scaricare a qualcun altro un bambino di una razza scomparsa che viene da… dall'era della Prima Fioritura, se non addirittura dall'Età dell’Alba.
Linomer si avvicinò al tavolo che nascondeva il bambino, pensando rapidamente. Gli elfi erano immuni al sonno magico, perché di solito non dormivano. Avevano una particolare forma di meditazione che sostituiva il sonno. Però, volendo, potevano dormire… e di sicuro un bambino così piccolo non aveva ancora allenato la sua mente alla meditazione. Era possibile che fosse ancora suscettibile agli incantesimi di sonno.
L'elfo della luna decise che l'occasione meritava un tentativo. Sussurrò un breve e innocuo incantesimo, testando la sua idea. Venne ricompensata dal graduale affievolirsi dei singhiozzi, fino a quando il pianto spezzato e affannoso lasciò il posto ad un respiro lento e regolare.

Con mosse lente e caute, alzò la tovaglia, scoprendo la forma addormentata del suo piccolo ospite. Era un bambino di forse due o tre anni, difficile a dirsi. La conformazione fisica era quella tipica degli elfi, minuta e fragile. I suoi capelli avevano il colore dell'argento tirato a lucido. La pelle non era nera come l'ebano, come le illustrazioni che aveva visto sugli elfi drow. Era piuttosto di un color marrone scuro, più vicino al colore del carbone che a quello della carnagione degli elfi selvaggi.
Linomer lo prese in braccio con molta cura, per non svegliarlo. Era difficile notarlo sulla pelle così scura, ma le lacrime avevano lasciato una scia sulle guance paffute.
Povero piccolo. Risvegliarsi in un mondo nuovo…
Linomer sentì una vampata di vergogna per la sua reazione iniziale. Era stata indegna di lei.
E in un corpo nuovo! Ma certo, l'incantesimo ha ricomposto il suo corpo intorno alla sua anima, questo è per forza il suo vero aspetto. Certo che è un bambino. Che altro dovrebbe essere?
Il piccolo si agitò debolmente, e Linomer si rese conto che l'aveva stretto con troppa forza. Stava cominciando a sentirsi… protettiva. Non che fosse affezionata alla creaturina, questo era impossibile, ma stava cominciando a pensare che era pronta ad assumersi quella responsabilità. Forse non avrebbe mai provato nulla per quel piccolo degli elfi, ma avrebbe cercato di prendersene cura e di dargli una bella vita.
Dopotutto, non si fidava a lasciarlo a qualcun altro. Non agli elfi, lo avrebbero ucciso. E che le stelle fossero testimoni, di sicuro non ai drow. Lo avrebbero usato, rendendolo uno strumento di morte.

Linomer aveva una stanza per gli ospiti, con un grande letto comodo e sontuoso. Il bambino era così piccolo che sembrava sparire, in centro a quel materasso. Forse sarebbe stato meglio un lettino con delle sponde, ma l'elfo della luna non aveva esperienza in fatto di bambini.
Lo lasciò lì, pensando a tutte le cose che doveva procurarsi per prendersi cura di un cucciolo.
Di certo doveva andare dal fornaio, e commissionare molti pasticcini e torte. Era convinta che fossero il cibo principale dei bambini: i figli degli umani frignavano in continuazione per avere dolcetti. Poi avrebbe accumulato una montagnola di oggettini dorati e gemme di poco conto, perché il piccolo potesse abituarsi a proteggere il suo tesoro. Ai cuccioli piacevano sempre le cose luccicanti.

Kavrin si agitó nel sonno, in preda a sogni strani e ansiogeni. Continuò a rigirarsi senza pace, finché alla fine raggiunse il bordo del letto e cadde per terra, avvolto nelle coperte come una farfalla nel bozzolo. Un soffice tappeto intessuto nei colori arditi del Lapaliya attutí la caduta, e per fortuna il piccolo continuò a dormire senza accorgersi di nulla.

           

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Capitolo 4
*** 1319-1320 DR: Il mondo in bianco e nero ***


1319-1320 DR: Il mondo in bianco e nero


Linomer non li aveva mai capiti, i bambini.
I misteri delle pieghe della Trama? Nessun problema. Le insondabili profondità del Reame Remoto? Abbordabili. Ma i bambini
La sua vita, un tempo ordinata e dedita allo studio delle più nobili Arti, era diventata una intollerabile sequela di prepara la pappa, pulisci secrezioni organiche, ripara oggetti che vengono buttati a terra, con un occasionale extra di applica bende e incantesimi curativi sulla creaturina che sbatte contro mobili e oggetti magici preziosi.
Era come avere un famiglio gatto, ma peggio. Una volta Linomer aveva provato ad avere un famiglio gatto. L’aveva congedato dopo due giorni e aveva riposto l’esperienza nel cassetto mentale del Mai Più.
Dopo qualche giorno di permanenza nella torre, sembrava che il bambino si fosse adeguato alla sua nuova situazione. Aveva iniziato a chiamare Linomer zio, o la parola equivalente in elfico antico. Linomer sapeva che il nome del piccolo era Kavrin, ma dentro di sé lo chiamava La Cosa.
La Cosa era fuori controllo.
Linomer non aveva idea di come educare i bambini, quindi La Cosa toccava tutto quello che aveva voglia di toccare, chiacchierava tutto il tempo nel suo elfico stentato, e soprattutto piagnucolava. Per ogni minimo bisogno, piagnucolava. Ad esempio, aveva fame due o tre volte al giorno, cosa a cui Linomer non era preparata. Quando aveva sonno, anziché andarsene a dormire come qualsiasi creatura sensata, si attaccava alla gamba di Linomer e faceva i capricci. Linomer non capiva davvero che cosa volesse, quindi di solito a quel punto un bell’incantesimo di Sonno risolveva il problema.
Linomer all’inizio sperava che la situazione si aggiustasse da sola: quanto poteva metterci un bambino elfo a crescere? Qualche anno al massimo. Era convinta di poter aspettare qualche anno, senza problemi. Ma dopo pochi mesi e alcuni entusiastici tentativi di suicidio da parte della Cosa, stava cominciando a cambiare idea.
“No, Kavrin, non si fa. Non si toccano le bacchette dello zio.” Sospirò, prendendo in braccio il piccolo per allontanarlo dal suo arsenale di oggetti magici offensivi. “Soprattutto non si mettono in bocca!”
“Ma è la mia pipa” protestò La Cosa. “La voio, la voiooo!”
“Sei troppo piccolo per fumare.” Linomer chiuse il discorso, sfiorata dall’immagine mentale di un corpicino carbonizzato dall’attivazione involontaria di una Palla di Fuoco.
“Non poccio mi dai la pipa?”
“Niente pipa.” Confermò Linomer, portando il bamboccio verso la camera degli ospiti che era diventata la sua stanza. “Stai qui, su. Cerca di intrattenerti da solo. Hai un grande tesoro, lo devi difendere dai ladri.” Gli raccomandò, indicando il mucchietto di monete d’argento e di pietruzze in un angolo della camera.
Cercò di posare a terra Kavrin, ma lui si era aggrappato saldamente alle sue spalle e non voleva essere lasciato giù. Ogni tanto faceva questa cosa, si attaccava e non si staccava più, Linomer non riusciva a capirne la ragione.
“Kavrin, su, lascia andare lo zio. Fai il bravo bambino.”
Ma lui non voleva saperne di obbedire, come al solito.
“Quando torna la mia mamma?”
“La tua mamma ti ha lasciato con me. Smetti di chiedere quando torna.” Rispose, forse in tono un po’ troppo brusco.
La Cosa l'abbracciò ancora più forte, tremando leggermente.
“Ma poi…” il piccolo singhiozzò, e Linomer comprese che stava per mettersi a piangere. “Ma poi tu muori e io ciono da ciolo.”
E impara a pronunciare le esse, mannaggia ai sandali di… Linomer interruppe quei corso di pensieri quando si rese conto di cosa aveva detto Kavrin.
“Cosa? Io muoio? E perché mai dovrei morire?” Domandò, incrociando per la prima volta lo sguardo del bambino. I grandi occhi verdi dell'elfo scuro erano lucidi di lacrime.
“Pecché ciei ammalato.” Spiegò. “Ciei bianco!”

Linomer si sentì invadere da una sensazione stranissima e nuova, che non sapeva identificare. Poi comprese: era il bisogno di ridere. Scoppiò in una risata improvvisa, prima di potersi controllare.
“Cosa? No, Kavrin! Io non sono ammalato!” Cercò di poggiare il bambino sul letto. Lui posò i piedini sulla coperta ma ancora non lasciò andare le sue spalle. “Davvero, lo giuro, io sono bianco perché esistono elfi scuri ed elfi chiari, e io sono un elfo chiaro.”
Kavrin adesso si lasciò staccare dalle sue spalle, ma mantenne la presa sulla sua veste fluttuante da mago. Si allontanò di un passo per poter guardare in faccia lo “zio”, e Linomer nei suoi occhi colse lo sguardo più scettico che avesse mai visto.
Questo bambino diventerà intelligente, da grande. Comprese con una punta di soddisfazione personale. Ma starò stimolando a dovere la sua intelligenza?
“Davvero, Kavrin, te lo giuro, esistono diverse razze di elfi. Tu non avevi mai visto un elfo chiaro prima di me?”
Il bambino scosse lentamente la testa.
“Non ce n'erano nella tua città? Oppure tu non li hai visti?”
“No.” Rispose soltanto. Linomer prese nota di non fare più domande troppo lunghe e complicate ai bambini.
“Vuoi che ti racconti la storia delle razze elfiche?” Propose, pensando che poteva tenerlo buono e insegnargli qualcosa al tempo stesso.
“Cocia é una ch’toria?”
Linomer rimase un momento senza parole. Come faceva a spiegare cosa fosse una storia? I bambini avrebbero dovuto saperlo e basta, per istinto, no? Nessuno aveva mai raccontato storie a Kavrin?
“È… uhm… è quando un adulto racconta delle cose.”
“Voio!” Kavrin annuì con entusiasmo, anche se probabilmente non aveva capito nulla.
In realtà aveva capito che lo “zio” avrebbe passato un po’ di tempo con lui, e questo era ciò che voleva. Avere un adulto intorno era rassicurante.
“Allora…” Linomer si sedette sul letto e il piccolo elfo scuro si sedette al suo fianco, aggrappandosi ad un suo braccio per evitare che se ne scappasse via. “Tantissimo tempo fa, i popoli degli elfi vivevano in un luogo molto lontano, insieme alle fate…”
Linomer non passò più di mezz'ora con il bambino, ma fu una mezz'ora impegnativa. A volte non sapeva come spiegare un concetto, quindi cominciò a fare uso di piccoli incantesimi di illusione per mostrare le scene e le creature che descriveva.
Quel nuovo passatempo entusiasmò tantissimo La Cosa, e Linomer temeva di essersi data la zappa sui piedi: era probabile che ora il bambino avrebbe preteso molte più attenzioni di prima. Per fortuna, quando iniziava a diventare invadente e stancante, poteva sempre metterlo a dormire con un banale trucco magico. Però una parte di lei era anche orgogliosa della curiosità che Kavrin mostrava. L'idea di insegnargli cose nuove era edificante.

Il problema era che Kavrin era comunque un elfo scuro. Se Linomer voleva raccontargli la verità sulla storia dei popoli elfici, non poteva mentire sul ruolo degli elfi scuri nella storia e nemmeno su che cosa fosse accaduto loro. Kavrin avrebbe capito che la sua città era scomparsa da diciannovemila anni; forse ora era troppo piccolo per collegare i concetti, ma prima o poi ci sarebbe arrivato.
Una cosa che però non aveva previsto che potesse capire, e che invece Kavrin comprese molto bene, era che il suo stesso popolo era nemico degli elfi chiari. C'erano storie favolose sui grandi eroi elfici che cavalcavano draghi, ma erano tutti elfi del sole o della luna, come lo zio Linomer. Le uniche storie sugli elfi scuri riguardavano la tetra reputazione dell’arcimago di Atorrnash e le sue campagne per conquistare e schiavizzare. Per un po’ di tempo Kavrin giocò ad immedesimarsi con i grandi eroi del passato, ma dopo alcuni mesi, grazie al naturale sviluppo delle sue capacità mentali, cominciò a fare due più due.
Kavrin aveva sempre saputo, più o meno, che Linomer non era davvero suo zio. Certamente l'aveva capito quando l'elfo della luna gli aveva parlato delle diverse razze elfiche. Però, dopo quasi un anno nella torre senza vedere mai nessun altro, senza essere mai uscito nella città che vedeva dalla finestra, cominciò a sospettare che la sua posizione non fosse così sicura. Lui era un elfo scuro, e gli elfi scuri erano cattivi. Quindi lo zio Linomer lo teneva nella torre perché i cattivi non devono andare in giro in mezzo alla gente.
Kavrin non padroneggiava concetti complessi come “prigionia” e “ostaggio”, ma sapeva cosa voleva dire essere messo in castigo. I suoi genitori lo chiudevano in uno stanzino buio e spaventoso. Lo zio Linomer invece l'aveva chiuso in una torre bellissima dove aveva una stanza comoda e tanti giocattoli, ma lo zio Linomer era un elfo chiaro, quindi era buono. Kavrin era comunque in castigo. O almeno così credeva.
Il giorno in cui realizzò questo pensiero per la prima volta, si chiuse in camera e si nascose sotto il letto. Nella sicurezza di quello spazio protetto, scoppiò a piangere e non riuscì a smettere per tutto il pomeriggio.
Linomer non indagò. Stava cercando di abituare La Cosa a non fare i capricci, quindi aveva deciso di ignorarlo quando piangeva. Dopo un po’, quando quei piagnistei cominciarono a darle sui nervi, lo fece addormentare e lo tirò fuori da sotto il letto. Era completamente impolverato, ma niente che qualche incantesimo basilare non potesse risolvere.

Da quel giorno, comunque, Kavrin smise di chiedere a Linomer di raccontargli storie. In realtà smise quasi di rivolgerle la parola, o di interagire con lei in qualsiasi modo. Mangiava quando gli veniva detto, andava a dormire quando gli veniva detto. Cercava di intrattenersi da solo con i suoi giocattoli, e Linomer ogni tanto glie ne comperava di nuovi. Aveva tanti bambolotti di legno che rappresentavano elfi tozzi con le orecchie tonde - umani, Linomer ne aveva parlato in una delle sue storie - e anche molti pupazzi di orchi, draghi e mostri strani. Kavrin li faceva sedere insieme a prendere il tè, e nelle sue storie tutti andavano d'accordo. Un giorno, Linomer passò davanti alla porta della sua camera mentre giocava in questo modo.
“Sei diventato incredibilmente tranquillo, Kavrin. Che bravo bambino. È tantissimo tempo che non corri in giro per la torre distruggendo cose.”
“Sì, zio. Sto giochiando con i miei mimichetti.”
Linomer tradusse automaticamente quella frase in sto giocando con i miei amichetti, mentre il bambino le indicava i bambolotti e i pupazzi. Per la prima volta, le venne in mente che Kavrin era condannato ad una vita molto solitaria, senza amici veri. Negli ultimi mesi il piccolo era stato molto tranquillo, e questo le aveva dato la possibilità di rimettersi a studiare e a fare ricerche. Ma era una cosa normale?
“Ti diverti?” Gli domandò, esitante.
“Ho fatto i biccotti per tutti.” Annunció, mostrando delle monete d'argento che aveva servito ai suoi amici fingendo che fossero dolcetti. “I miei mimichetti dicono che sono bravo.”
Sì, sei molto bravo. Pensò in un momentaneo afflato di comprensione. Ma non è quello che ti ho chiesto.
“Kavrin, c'è qualcosa che non va? Sei triste per qualcosa?”
Il bambino le rivolse uno sguardo che sì, sembrava triste, ma fece cenno di no con la testa. Linomer si accorse in quel momento che la stanza era piuttosto buia, le tende erano tirate a coprire la finestra.
Kavrin aveva un passato particolare, con quella finestra. Era stata il teatro di uno dei suoi tentativi di suicidio inconsapevole, quando molti mesi prima si era arrampicato su una sedia e si era sporto dal davanzale. Giusto un pochino troppo.
Una volta Kavrin amava guardare dalle finestre della torre, vedere la città sottostante ed il mare. Da quanto tempo non lo faceva?
Linomer entrò nella stanza ed oltrepassò il piccolo circolo del tè (un soldatino, un drago di peluche e un’aquila di legno), dritta verso la finestra. Che forse La Cosa avesse rotto il vetro e stesse cercando di coprire il misfatto?
Spalancò le tende con un gesto deciso, inondando la stanza di luce solare. No, la finestra era intatta.
Kavrin la guardava senza capire. Linomer colse quell’occhiata interrogativa e ricordò che, solo fino a poco tempo prima, il bambino la subissava continuamente di domande, su qualsiasi argomento. Ora sembrava che volesse chiederle qualcosa, perché non lo faceva?
“Kavrin, sei sicuro che vada tutto bene?” Tornò da lui e si chinò per prenderlo in braccio. “Non mi sembri in te, ultimamente.”
Lui la guardò come se non avesse capito la domanda. In effetti, era un po’ troppo per un bambino di quattro anni.
“Sei malato?” Tentò di nuovo.
Lui scosse la testa.
“Allora perché sei così tranquillo? Guarda, è giorno di festa, in città. Apriamo le finestre per sentire la musica?”
Kavrin si adombró e mise su una specie di broncio.
“No. Tanto non posso ussire.”
Linomer sussultò, sorpresa da quella rivendicazione. Ma questo è… un pensiero coerente. Non è uno dei soliti capricci. Da quando ha iniziato a ragionare in questo modo? Collegare la noia del non poter uscire, al fastidio di sentire la gente che si diverte? È incredibile come sta crescendo. È incredibile che io non l'abbia capito, dove avevo la testa?
“È questo che vuoi? Vuoi uscire?” Gli domandò, sollevandogli il mento con due dita perché la guardasse negli occhi.
“Sì ma non posso.”
“Oh?” L'elfo della luna inarcò le sopracciglia in un gesto di genuina sorpresa. “E perché non puoi?”
“Sono in castigo.” Kavrin la abbracciò e nascose il piccolo volto nell'incavo della sua spalla, come se si vergognasse di guardarla in faccia.
“Eh? Chi ti ha messo in castigo?”
“Lo zio.” Rispose sottovoce.
Stavolta Linomer lo costrinse a staccarsi dall'abbraccio e guardarla negli occhi. “Cosa? Ma no piccolo, non sei in castigo, non hai fatto nulla di male.”
“Non andiamo mai fuori...”
“Be’...” Linomer fece mente locale. Erano mesi che non usciva dalla sua torre, in effetti. “È vero, ma solo perché io non esco mai, sto sempre qui a studiare. Se tu vuoi uscire, devi solo chiederlo.”
“Ma… non pensi che sono cattivo?”
Linomer si perse nella sua espressione timida e infantile, pensando a quanto fosse adorabile La Cosa quando non le distruggeva il laboratorio.
“No, non sei cattivo, a volte sei un terremoto, ma solo perché sei un bambino. Sei uguale a tutti gli altri bambini.”
“Non è vero.” Kavrin le gettò di nuovo le braccia al collo, stringendo più forte di prima. “Non sono uguale. Sono uno delli elfi cattivi…”
Improvvisamente, Linomer capì cosa stava dicendo il bambino. Ricambió il suo abbraccio, stringendolo come non l'aveva mai stretto prima.
“Oh, mio povero piccolo. Cosa vai a pensare? Non sei cattivo. Sei un elfo scuro, ma sei un bambino. Tutti i bambini sono buoni.” Mentí, decidendo che dire la verità ai cuccioli si era rivelata una pessima idea. “Se crescerai in mezzo a persone buone, non diventerai mai cattivo. Il fatto che tu sia scuro non vuol dire niente.”
Kavrin si rilassó nel suo abbraccio, godendosi quel contatto fisico così prolungato. Lo zio Linomer non lo stringeva mai in quel modo, tranne quando doveva prenderlo in braccio per spostarlo altrove.
“Davvero?”
“Ma certo, davvero. Tu sei il mio piccolo tesoro, e io ti voglio bene. Sono sicuro che diventerai un bravo elfo anche da grande. Però gli altri elfi chiari non si fideranno di te, avranno paura che da grande diventi cattivo, e potrebbero cercare di farti male anche se sei un bambino. Per questo… io non ti ho mai portato fuori. Posso farti assomigliare a un elfo chiaro, usando la magia. Però se tu mi scappassi tra la folla… tu vai sempre in giro dove vuoi, se ti perdessi di vista… ho paura che ti trovino le persone sbagliate.”
Kavrin non aveva capito tutto il discorso, però il concetto generale sì.
“Quando mi porti fuori devo fare il bravo.” Riassunse. “E non devo girolallare.”
“Sì. Non devi gironzolare. Me lo prometti?”
Kavrin ci pensò a lungo. Per quasi cinque secondi.
“Sì, lo prometto.”

Il problema con i bambini, è che non percepiscono che il loro modo di muoversi sia “gironzolare”. Per loro è normale camminare in mezzo alle gambe degli adulti e muoversi a zig-zag.
Prima di sera Linomer dovette andare dalle guardie cittadine e denunciare la scomparsa di Kavrin. O meglio, come riportato negli archivi della caserma, di un bambino elfo della luna, quattro anni, capelli biondi, occhi verdi, faccia da schiaffi, bugiardo e stupido come un turacciolo.
Si scoprì che si era imboscato in un giardino pubblico e aveva raccolto un bel mazzo di fiori colorati per lo zio Linomer. Che dovette anche pagare una multa per atti di vandalismo sul verde pubblico.

“Kavrin sei davvero una disgrazia.” Lo rimproverò quella sera, mentre lo trascinava di nuovo alla torre tenendolo su una spalla come un sacco.
“Ma io non volevo girolallare! Ero camminato dritto e poi non ti vedevo più!”
“No, non hai camminato dritto, sei arrivato dall'altra parte della città, razza di monello!”
Linomer si azzardò a lasciarlo andare solo quando furono di nuovo al sicuro fra le mura della torre.
“Sono stato cattivo?” Domandò il piccolo, guardando per terra con aria mortificata.
“Be’... No. Ma sei stato poco attento, e non mi hai obbedito. Niente dolci per una settimana, e la prossima volta che usciamo ti metto un guinzaglio come ai cani.”
Kavrin sembrava ancora piuttosto dispiaciuto, ma abbracciò Linomer con grande slancio prima di andare a dormire.
Linomer trovò un vaso vuoto e ci mise dentro i famigerati fiori, con un po’ d'acqua e un incantesimo che li preservasse. Dopotutto li aveva anche pagati.
A distanza di più di cinquant'anni, se qualcuno andasse a trovare il mago Linomer, vedrebbe che quel vaso di fiori è ancora lì, in quell'angolo del salotto vicino alla finestra.

           

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Capitolo 5
*** 1320 DR: L’attaccamento ***


1320 DR: L’attaccamento


Era una calda giornata d'estate e Kavrin se ne stava sdraiato per terra, spiaggiato in quella palude di afa e puzzo di zolfo. Il vento spirava da nord, portando con sé le miasmatiche esalazioni del Mare dei Vapori.
Il pavimento di pietra gli dava un po’ di refrigerio, ma ogni tanto doveva girarsi e spostarsi per trovare una zona più fresca.
Si voltò a pancia in su, per guardare il soffitto. Amava il soffitto del laboratorio di zio Linomer, era così colorato, con stelle e altri disegni.
Di solito non entrava nel laboratorio. Solo quando si sentiva solo e annoiato, e allora veniva a cercare la compagnia dello zio. Però il mago non era mai molto contento, quando Kavrin lo raggiungeva lì. Gli diceva sempre “Kavrin, preferisco che tu non stia qui dentro.”
Il piccolo elfo scuro non era in grado di estrapolare da quelle parole un divieto di carattere generale: credeva semplicemente che allo zio desse fastidio averlo intorno mentre lavorava. Da cui il suo ragionamento: visto che adesso Linomer non c'era, poteva entrare liberamente nel suo laboratorio.
Niente di più sbagliato, non c'è bisogno di dirlo, però logico a modo suo.

Kavrin si era svegliato per colpa del caldo. L'ultima cosa che ricordava era che aveva appena finito di pranzare e si era messo a cantare una bella canzone su una città fatta di torri. Poi il vuoto; doveva essersi addormentato all'improvviso. Era una cosa che gli capitava spesso.
Adesso era pomeriggio, il bambino non poteva saperlo ma il mezzogiorno era passato da circa tre ore. La sua stanza era esposta a sud ed era la più calda fra tutte, quindi si era svegliato ed era fuggito in salotto. Lo zio Linomer non c'era. Non c'era in nessuna parte della torre.
A Kavrin era preso il panico, non era mai stato solo prima d'ora. Poi però aveva visto che una scopa magica stava spazzando il pavimento, e poteva essere stato solo Linomer ad ordinarglielo.
Kavrin aveva provato a parlare con la scopa, per chiederle dove fosse lo zio, ma non c'era stato niente da fare. Però di certo sarebbe tornato… non avrebbe lasciato la sua torre con delle cose magiche dentro, prima o poi avrebbe dovuto spegnere la scopa oppure quella avrebbe spazzato tutta la città.
Kavrin si era sdraiato a terra in salotto, ma i tappeti gli facevano caldo, e inoltre la stupida scopa aveva provato a spazzargli la faccia. Quindi si era spostato nel laboratorio. Quel dannato oggetto di sicuro non aveva il permesso di entrare lì, e anche se l'avesse fatto, c'erano tanti oggetti magici che Kavrin avrebbe potuto usare per difendersi. Inoltre c'era un angolo del laboratorio dove non c'era il tappeto, ma un bellissimo pavimento di pietra bianca e lucida.
A dire il vero era un cerchio di evocazione. Non era attivo in quel momento, ma era comunque un luogo in cui era stato stabilito un collegamento con gli altri Piani numerose volte, quindi era come una specie di cassa di risonanza, una porta chiusa su di un corridoio che si estendeva verso tante porte sigillate. Nessuna creatura sarebbe potuta arrivare senza essere evocata, ma era possibile che la voce si estendesse in un eco distorto attraverso i Piani, per chi aveva un orecchio allenato.

Kavrin rimase lì a cincischiare per un po’. Il tempo sembrava non passare mai e lui si stava annoiando. Avrebbe voluto prendere i suoi giocattoli, ma fuori dal laboratorio c'era la scopa magica e Kavrin era convinto che ce l'avesse con lui.
Però anche lo zio Linomer aveva dei giocattoli. Anziché soldatini, re, principesse e peluches di mostri, aveva statuine di maghi. Kavrin non aveva nemmeno un mago fra i suoi giocattoli. Solo un fornaio con un lungo grembiule che lui aveva deciso essere la veste di uno stregone.
Il bambino si alzò dal pavimento e andò al tavolino dove lo zio teneva i suoi giocattoli. Non ci giocava mai, li lasciava solo lì a fare niente. Kavrin conosceva i loro nomi. C'era Mister, il mago più forte del mondo, e poi c’erano Keben e Maicor dalla faccia simpatica, la bella Simun, e altri di cui non ricordava il nome. E poi c'era la più bella di tutti, con abiti così eleganti che sembrava una regina dei maghi. Mistra.
Kavrin non aveva il permesso di prendere quei giocattoli. Ma nessuno li spostava mai dal loro tavolino, e quindi loro avevano proprio voglia di farsi un giretto e prendere un tè. Kavrin lo sapeva. Era ovvio.
Tornò nel suo angolino di pavimento, portandosi dietro una bracciata di statuine.
Presto il tè del pomeriggio divenne un ballo in maschera (era sufficiente cambiare il nome alle statuine fingendo che si fossero trasformati l'uno nell'altro), e infine il ballo divenne una gara di magie.
Alla fine Kavrin si stancó anche di quel gioco e andò a rimettere a posto le statuine. C'erano tantissime altre cose belle nello studio dello zio…
Come le mappe. C'erano tantissime mappe, o così le chiamava Linomer. Ma non sembravano mappe vere, c'erano solo punti uniti da linee. Vicino a ogni punto c'era una scritta ma Kavrin non sapeva leggere. Stava guardando una di quelle pergamene quando sentì un rumore frusciante e ripetitivo. Il piccolo fece quasi un salto sul posto per la sorpresa: la maledetta scopa! Stava per invadere anche il suo ultimo luogo sicuro!
Corse a nascondersi sotto la scrivania mentre quella cosa entrava nel laboratorio, spazzando per terra. Si guardò intorno in modo frenetico, cercando qualcosa da usare come arma… alla fine la vide. Una mazza ferrata, come quelle dei suoi soldatini! Kavrin la prese senza esitare. Era troppo leggera per essere un'arma, ma lui non si aspettava che fosse pesante.

Lasciare una Verga della Cancellazione incustodita in un portaombrelli era stato il secondo più grande errore di Linomer.
Il primo era stato lasciare Kavrin da solo.

La scopa animata non sapeva di avere un nemico. Lo scoprí a sue spese quando il piccolo ospite del suo padrone le saltó addosso e la colpì con quell'arma improvvisata. La collisione fece scaturire un breve lampo di luce magica, poi la scopa non più animata perse il suo punto d’equilibrio e si rovesciò all'indietro. Cadde sbattendo contro uno scaffale, facendo schizzare per terra una pioggia di piccoli oggetti e barattoli. Uno di essi era un bauletto in miniatura. Sembrava un giocattolo.
Kavrin si avvicinò cautamente. Era bellissimo. Era come un tesoro dei pirati del suo libro di disegni, quello con cui lo zio stava cercando di insegnargli le lettere e le parole scritte. Kavrin lo raccolse da terra: lo scrigno era così minuto che anche un bambino poteva reggerlo con una mano sola.
Affascinato, il piccolo elfo scuro non tentò di aprirlo. Lo prese soltanto, e andò a nasconderlo in salotto fra i cuscini del divano. Poi prese una delle pergamene di Linomer e, incurante dei puntini e delle linee, cominciò a disegnarci sopra con i suoi gessetti colorati. Avrebbe fatto una vera mappa dei pirati, per lo zio. Sarebbe stato contento di trovare un tesoro.

Linomer tornò alla torre una decina di minuti più tardi, e quello che si trovò davanti sembrava il teatro di una battaglia.
Kavrin era sdraiato per terra in salotto e stava pasticciando coi gessetti una delle sue rare e antiche mappe del cielo. Quegli stessi gessetti stavano perdendo polvere multicolore su un prezioso tappeto halruaan. Ma questo era niente, paragonato allo stato del suo laboratorio.
C'erano oggetti sparsi ovunque, caduti da uno scaffale. La sua scopa animata ci era caduta sopra, evidentemente era stata resa nuovamente non-magica, a causa di… una Verga della Cancellazione.
Una. Verga. Della. Cancellazione.
Un oggetto che costava undicimila monete d'oro, il prezzo di una casa di mattoni nella parte bella della città.
Un oggetto di vetro indurito magicamente, che dopo essere stato usato una volta, perdeva i suoi poteri e diventava un semplice soprammobile, una curiosità.
Una vena pulsó pericolosamente sulla tempia di Linomer.

“KAVRIN!” Ruggì, invadendo il salotto con la foga di una tempesta. “Per tutti gli inferi, che cosa hai combinato?!”
Il bimbo sobbalzò per la sorpresa e lo spavento, girandosi a guardare lo zio con aria interdetta.
“Cosa?” Squittí, troppo spaventato anche per muoversi. Linomer non aveva mai gridato contro di lui, mai, nemmeno quando si era perso in città.
“Non devi mai entrare nel mio laboratorio. Mai più. Ce l'hai un'idea di quello che hai fatto?”
Ora l'elfo chiaro incombeva su di lui e Kavrin nascose il viso tra le braccia, temendo che lo zio stesse per picchiarlo. I suoi genitori lo facevano, anche quando erano meno arrabbiati di così.
Linomer però non aveva l'abitudine di picchiare i bambini, nonostante il suo carattere un po’ sanguigno. Nemmeno quando distruggevano i suoi oggetti di valore.
“Nuova regola, ragazzino. Quella porta, la vedi quella porta? È proibito oltrepassarla. Vietato. Lì finisce il tuo mondo, ci siamo capiti?
Lo spavento di Kavrin si trasformò in un magone inarrestabile.
“Ma… ma…” pigoló, cercando di giustificarsi “c'era una scopa cattiva… iosonoandatonellattanzadellamagia…” cominciò a pronunciare le frasi tutte d'un fiato, come se avesse paura che se si fosse fermato, Linomer non l'avrebbe ascoltato. Dopo una frase così lunga però doveva prendere fiato, e i suoi respiri sapevano di singhiozzi. “Epoiquellaccopamiseguiva…” altro respiro “ealloraladovevobattere”.
“E hai pensato di combatterla con una verga magica?”
“Una mazza… come i soldatini che guerrano”.
“Kavrin, maledizione, una scopa è solo una scopa. Non è pericolosa. Non la devi combattere. Per colpa tua oggi ho perso molti oggetti che per me erano preziosi, lo sai?”
Kavrin esitò, non capendo la domanda.
“No! No che non lo sai! Cosa potresti saperne tu?” Linomer scattò verso la stanza degli ospiti con uno sguardo famelico. “Ma adesso lo vedrai!”
Entrò nella camera del piccolo, sbattendo la porta. C'era un giocattolo che stazionava sempre sulla testata del letto, una statuetta di legno a forma di gnomo. Era intagliato in modo da poter stare solo seduto, quindi Kavrin l'aveva messo lì, pensando che tenesse lontani gli incubi. Linomer sapeva che era il giocattolo a cui il piccolo elfo scuro teneva di più.
“Bene. Ecco. Questo è un oggetto prezioso.” Gli spiegò, mettendoglielo sotto il naso.
“Mattin!” Kavrin si lanciò in avanti cercando di afferrare il suo amichetto, ma Linomer alzò il braccio in modo da tenerlo fuori portata.
“Esatto, Martin. Io so che tu ci tieni. Gli vuoi bene. E se adesso Martin si rompesse?”
Il piccolo la guardò con occhi sgranati e poi cercò di arrampicarsi su di lei, gridando la sua disperazione. Linomer lo ignorò e si portò fino alla finestra, sporgendo fuori la mano che teneva il giocattolo.
Per un momento fu come se il tempo si fosse congelato. Kavrin la fissava con un misto di orrore e incredulità, come se avesse paura a muoversi. Poi Linomer lasciò andare la statuetta.

La mano spietata della gravità afferrò quell'oggetto e lo reclamò verso il suolo, mentre nella torre risuonava il grido disperato di un bambino. Qualche passante, giù in strada, si fermò allarmato udendo quel suono lontano, come un ululato di disperazione… e un fischio. Il fischio dell'aria intorno a qualcosa che cadeva a gran velocità. Una coppia di anziani alzò lo sguardo, solo per vedere una palla marroncina saettare dal cielo verso di loro. Non era chiaro che cosa fosse, ma non ebbero nemmeno il tempo di realizzare il pericolo: l'oggetto si fermò a mezz'aria, circa due metri sopra le loro teste.
Era una statuetta di legno. Ritraeva uno gnomo accucciato, con il volto deformato da un sorriso assurdo. I due anziani erano proprio gnomi, e giudicarono quella rappresentazione stereotipata e offensiva. Uno dei due alzò il bastone da passeggio per colpire quella cosa che si prendeva gioco di loro, ma non ci arrivò. La statuetta tondeggiante rimase lì sospesa per aria ancora un momento, poi schizzò nuovamente verso l'alto.
“Dannato mago cicisbeo!” Imprecò il vecchietto. “Prendere in giro due onesti cittadini. Ah, ma mi sentirà! Dannato orecchie a punta…”

La statuetta volò di nuovo nella mano di Linomer, richiamata da un incantesimo. Kavrin stava ancora cercando di arrampicarsi fino al davanzale della finestra, e non si accorse che il suo giocattolo era tornato in mano al mago. Linomer lo nascose nella manica con un abile trucco di prestigio.
“Bene, ora sai cosa vuol dire perdere una cosa che si ama.” Si aspettava che Kavrin fosse arrabbiato, che facesse i capricci. Invece si sedette per terra e scoppiò in un pianto disperato.
Linomer non capiva. Conosceva l’attaccamento agli oggetti materiali, anche se lei ne era meno schiava di molti altri della sua specie. Però il bambino stava andando oltre, si struggeva come se avesse perso una persona cara, non un oggetto.
Kavrin non ha amici. Ricordò d’un tratto. Non ha nessuno intorno tranne me, quindi si è affezionato ai giocattoli. Forse ho esagerato. Dopotutto non avrei dovuto lasciarlo solo, senza supervisione. Non avevo previsto che si svegliasse così presto.
Linomer si accucciò accanto al bambino.
“Ehi, terremoto. Non ho distrutto il tuo amichetto, guarda…” tirò fuori lo gnomo dalla manica.
Kavrin spalancò gli occhi e afferrò il giocattolo, prima che il mago cambiasse idea.
“Mattin…” lo strinse come se fosse stato davvero un oggetto prezioso.
“Ora però tu mi devi ascoltare, e devi capire. Alcune delle cose che hai rotto oggi erano preziose come Martin. Non lo devi fare mai più. Hai capito perché?”
Il bambino la guardava in silenzio, con una vaga scintilla di comprensione nei suoi occhi così giovani. Alla fine annuì, mettendosi di nuovo a piangere.
Linomer non sapeva se stesse piangendo perché era dispiaciuto, spaventato, o per le troppe emozioni in un giorno solo. Lo prese in braccio e si sedette con lui sul divano, lasciando che piangesse finché ne aveva voglia. Alla fine si addormentò, esausto.

Linomer andò a mettere il bambino sul suo lettone, stando attenta a non svegliarlo. Poi andò nel suo laboratorio a cercare di porre rimedio a quel disastro.
Non sono in grado di occuparmi di un bambino, ci ho provato, ma è troppo difficile. Non lo capisco. Per me è un alieno. Pensò, mentre raccoglieva da terra i barattoli e le pergamene.
Rimettendo tutto in ordine, si accorse che qualcosa mancava: qualcosa di molto, molto importante.
Lo scrigno con le perle nere! Per la lingua biforcuta di Shar, dove diavolo è finito?
Cominciò a cercarlo in giro per il laboratorio, pensando che fosse semplicemente caduto a terra e rotolato da qualche parte. Lo aveva rimpicciolito in modo da poterlo nascondere in mezzo agli altri soprammobili e scatolette… perché non attirasse l’attenzione. Non lo scrigno con le anime malvagie, ovviamente: quello era stato riposto sotto chiave. No, quello da cui Kavrin era uscito. Non si trovava più da nessuna parte.
Kavrin! Forse l’ha preso lui. Ma non può averlo aperto, era sigillato con la magia. Magari se l’è portato in camera.
Frugò la stanza del bambino, sempre cercando di essere silenziosa. Ancora niente. E purtroppo non poteva nemmeno cercarlo con la magia, aveva fatto l’impossibile per renderlo irrintracciabile.
Niente, glie lo dovrò chiedere quando si sveglia. Lo scrigno non può avere lasciato la torre, ho preso precauzioni perché non accadesse.
Sospirò, stanca e sconsolata. Quel giorno aveva dovuto presenziare all’inaugurazione dell’orfanotrofio, e aveva una gran voglia di spedirci anche Kavrin. Be’, no, non davvero. Non poteva mandare un elfo scuro, con potenziali poteri devastanti, a vivere sotto le cure di alcune povere istitutrici umane. Tornò in salotto, notando che c’erano ancora i gessetti sparsi a terra. La pergamena non mostrava più un cielo stellato, ma il disegno di un mare giallastro con una balena bianca in mezzo.
Non avrei dovuto prendergli quel libro illustrato sulle meraviglie del mare. Si disse, raccogliendo la sua povera pergamena. La balena aveva una forma un po’ squadrata. Nella sua bocca c’era un piccolo semicerchio grigio a puntini viola. Linomer lo fissò in silenzio, per un lungo momento, come se stesse vedendo qualcosa che era appena al di là della sua comprensione. Poi ci arrivò, perché a modo suo era molto intelligente. Lo scrigno. Kavrin l’ha visto… ma non può averlo buttato in mare. Lo avrà nascosto sotto un tappeto blu… anzi giallastro, come il Mare dei Vapori? Ma no, avrei visto il bozzo… no, la chiave di tutto è la balena. La maledetta balena bianca…
L’elfo della luna impiegò altri dieci minuti a identificare la balena bianca, cioè il divano del salotto. Il cofanetto era nascosto fra i cuscini.
Ritrovarlo fu un momento di immenso sollievo. Nessuno si era fatto male, e l’oggetto non si era aperto neanche per sbaglio. Certo, l’aveva previsto, ma con La Cosa non si poteva mai sapere.
Dovrei ricominciare a occuparmi di queste perle. Lo so da tempo, non è giusto lasciare tutte quelle anime lì dentro. Ma come faccio con Kavrin…? Dannazione. Ma non poteva uscire qualcos’altro dalla perla, chessò, una lince idrofoba? Sarebbe stato meglio.
Linomer tese le orecchie, ascoltando il respiro regolare del bambino che dormiva. In qualche modo doveva pur fare. Forse creando un altro Simulacro. Ma avrebbe dovuto occuparsi delle perle, o di Kavrin?
Nessuna delle due prospettive era molto edificante.

           

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Capitolo 6
*** 1320 DR: La copia falsa del vero, la copia vera del falso ***


1320 DR: La copia falsa del vero, la copia vera del falso


Le stanze nella torre di Linomer stavano cominciando a diventare troppo strette; erano pensate per ospitare soltanto una persona e uno o due ospiti occasionali, mentre ora ci vivevano in tre.
Kavrin era al settimo cielo perché aveva un nuovo amico: un giovane drago delle dimensioni di un lupo, una creatura dal corpo sinuoso e affusolato, coperto di scaglie blu argentate. Kavril lo adorava. Passava intere giornate a giocarci e a rincorrerlo per le varie stanze. Sapeva che lo zio Linomer l’aveva creato con il fango e la magia e non era un vero drago, ma per lui lo era: completamente vero.
Sapeva che il drago era intelligente e non era un animale, né un giocattolo, ma il bambino era… un bambino, appunto… e nessun pudore e nessun rimprovero potevano trattenerlo dal tirare la coda al drago ogni volta che desiderava invitarlo a giocare.
Per di più era un drago magico. Poteva trasformarsi in una persona, e Kavrin lo aveva scoperto nel modo peggiore. Un giorno aveva probabilmente esagerato con i approcci entusiastici, il drago era scappato a rifugiarsi in un armadio e quando ne era uscito si era trasformato in una ragazza umana. Kavrin aveva già visto gli umani, quando era andato alla fiera, ma non aveva molta familiarità con loro. Quel giorno aveva scoperto che gli umani, anche le femmine, sono abbastanza forti da sollevare un bambino e buttarselo sulla spalla. Kavrin era stato trasportato come un sacco, a testa in giù, in giro per le stanze della torre. Il drago-donna saltellava e faceva piroette, in un modo che gli aveva fatto venire il mal di mare. Alla fine il bimbo era stato scaricato sul grande divano bianco dello zio, proprio come se fosse stato un sacco di patate. L’umana gli aveva puntato contro un dito e l’aveva minacciato con livore: “Questo è quello che succederà se proverai di nuovo a cavalcarmi. Non sono il tuo pony! Sono stata chiara?”
Kavrin non aveva idea di cosa fosse un pony, ma da allora non aveva più provato a salire sulla schiena del drago.
Il giorno dopo erano di nuovo amici come prima.
Naturalmente un Simulacro non poteva ricordare l’incidente, non poteva serbare rancore: ogni volta che dormiva i suoi ricordi si azzeravano, tornava a sapere solo quello che sapeva al momento della sua creazione. Che Kavrin era prezioso e che era suo compito tenerlo d’occhio... e, soprattutto, tenerlo occupato. In modo che Linomer potesse continuare il suo lavoro sulle perle.

Linomer aveva deciso che era tempo di grandi cambiamenti: il suo laboratorio di magia non le sembrava più il luogo adeguato per fare certi esperimenti, non con Kavrin e il suo Simulacro che giocavano a rincorrersi proprio fuori dalla porta. Il rumore la deconcentrava, e inoltre aveva sempre paura che La Cosa facesse irruzione nel suo studio senza preavviso. Avrebbe potuto semplicemente bloccare la porta, ma non le piaceva farlo. Quando pasticci con la magia, non puoi mai essere certa che non dovrai scappare all'improvviso da un esperimento riuscito male. O da un mostro.
L’elfo della luna, o meglio l’apparente elfo della luna, era alle prese con una decisione difficile: continuare con le perle che emanavano poco o nessun potere? E se avessero contenuto altri bambini? No, decisamente meglio di no. Avrebbe spostato la priorità sulle perle che racchiudevano creature un po’ più potenti. Non molto di più… ma nemmeno inermi.
Però nel frattempo avrebbe dovuto portarsi avanti anche su un altro fronte: approfondire gli studi sulla magia del sangue. Forse, se c’erano altri bambini intrappolati nelle perle, erano parenti di Kavrin. Forse c’era un motivo se Ka’Narlist lo aveva scelto. Se fosse riuscita ad utilizzare il sangue di Kavrin per isolare le perle che contenevano altri elfi scuri, sarebbe stato un enorme passo avanti. Il problema era che quelle perle non contenevano corpi, ma solo anime. Non c’era sangue lì dentro. Sarebbe stato come chiedere ad un cane di cercare la traccia olfattiva di una persona facendogli annusare un ritratto di quella persona. Un errore logico.
Linomer sospirò e chiuse il quaderno che conteneva i suoi appunti sulla magia del sangue. Stava cercando di riassumere le poche informazioni che aveva trovato su cinque diversi tomi antichi, alcune delle quali si contraddicevano.
Mi servono altri libri. Ne so ancora troppo poco.
Si appoggiò stancamente allo schienale della poltrona, gettò indietro la testa e fissò lo sguardo sul soffitto. Era completamente affrescato, ritraeva il cielo stellato e fra le stelle erano disegnate le costellazioni con pochi tratti semplici ma precisi. Linomer mosse una mano e mormorò una parola di comando, e le stelle cominciarono a brillare, come se non fossero solo dipinte. Il cielo cominciò a ruotare intorno al disegno della stella del nord, come accadeva al firmamento ogni notte. Linomer tenne gli occhi sul soffitto dipinto con grande attenzione, perché non poteva permettersi errori: quella lenta rotazione era l’ingranaggio di una sorta di magica cassaforte. Quando le stelle raggiunsero una certa posizione, quella della mezzanotte del solstizio d’estate, il mago fece un brusco cenno con la mano e il movimento degli astri si fermò. Non bastava sapere quale fosse la chiave di quel mistero, e nemmeno conoscere le parole e i gesti di attivazione; era necessaria una perfetta conoscenza dei movimenti delle stelle per indovinare l’esatta combinazione visiva che avrebbe rivelato la botola segreta.
Anzi, non l’avrebbe semplicemente rivelata: l’avrebbe a tutti gli effetti portata su questo Piano dell’esistenza, perché non era una semplice porta segreta, era una porta che si affacciava su una tasca extraplanare. La botola sul soffitto non esisteva nemmeno sul Piano Materiale, finché la giusta posizione delle stelle non riattivava un incantesimo dormiente di Reggia Meravigliosa che Linomer aveva reso permanente.
La botola si aprì al suo comando e Linomer levitò verso il soffitto, entrando dalla botola che era abbastanza larga da lasciar passare una creatura molto più corpulenta di lei. Spesso Linomer doveva attraversare quella soglia trasportando libri o altri oggetti, quindi era una precauzione necessaria.
Il mago ne sapeva qualcosa, di precauzioni necessarie; ad esempio, non poteva chiudersi la botola alle spalle, altrimenti le protezioni avrebbero fatto in modo che scomparisse di nuovo dal suo laboratorio sul Piano Materiale, di fatto intrappolandola in quel luogo extraplanare. Chiudere la botola era una misura estrema nel caso in cui fosse stata sotto attacco. Se fosse rimasta chiusa dentro avrebbe comunque potuto uscire, ma solo al prezzo di disfare alcune delle protezioni magiche del suo spazio segreto, e non voleva farlo. Il suo sancta sanctorum era protetto contro il teletrasporto ed i viaggi planari, solo un mago epico sarebbe riuscito a infrangere le sue barriere, e non senza sforzo.
Non senza sforzo. Una magra consolazione.
Linomer era troppo intelligente per dormire sugli allori, sapeva che quel luogo non era completamente sicuro, nessun luogo lo è davvero. Per questo usava la Reggia Meravigliosa come biblioteca, come magazzino per oggetti di valore, lasciando intendere di crederlo il luogo più sicuro del mondo (giusto nel caso in cui qualcuno fosse riuscito ad entrare)... ma non teneva lì le cose davvero importanti. Quelle erano nella sua torre, in mezzo alle normali cianfrusaglie, coperte da illusioni che le facevano apparire oggetti dal potere blando.

Linomer si diresse con sicurezza al suo piano di lavoro. Uno dei tanti, quello meno ingombro di roba.
Spostò con cura un fascio di pergamene, un pesante tomo pieno di oggettini casuali che aveva usato come segnalibri di fortuna (chissà quanto tempo prima?) e un grosso barattolo che conteneva tre diamanti immersi nel sangue.
Oh, è vero, questo progetto. Scosse la testa con un'espressione quasi dispiaciuta e fu molto cauta nel sollevare il barattolo e nel posarlo su uno scaffale. La faccenda di Atorrnash me l’ha fatto passare di mente. Non importa, Jacquelemenia può anche aspettare. Adesso ho faccende più urgenti a cui pensare.
Allontanò con decisione il pensiero della sua ultima apprendista, perché provava un accenno di affetto per lei. Non sapeva cosa sarebbe uscito da quelle perle nere; se fosse stata una creatura che leggeva nel pensiero, Linomer non voleva darle alcuna arma da sfruttare a suo vantaggio. Non poteva permettere che qualcuno facesse del male alle persone che amava, quindi si concesse un minuto per regolare il respiro e svuotare la mente: non poteva permettersi di pensare alla sua apprendista, né a Beith, ai suoi Simulacri o ai suoi amici che l’avevano aiutata nel dungeon… e soprattutto non doveva pensare a Kavrin. In quel momento Kavrin era la persona per cui provava più affetto e verso cui si sentiva più protettiva. Lasciò che le immagini mentali di queste persone sbiadissero e si allontanassero in un angolo della sua mente, protette da un velo pesante come nebbia. Per una mente allenata, un semplice esercizio di meditazione poteva scindere il pensiero razionale da quello emotivo.
Estrasse dalla tasca il cofanetto miniaturizzato che conteneva le perle, lo poggiò sul tavolo da lavoro e con una formula magica lo riportò alle sue dimensioni originali. All'interno aveva diviso le perle in diversi sacchetti, raggruppando quelle che avevano un livello di potere analogo.
Non troppo debole, non troppo forte… ricordò a se stessa, scegliendo una perla da un sacchetto grigio. Adesso, che la fortuna mi assista.

Rompere la perla era sufficiente per liberare l’anima al suo interno. Linomer incollò la perla al ripiano del tavolo con due gocce di colla alchemica e poi prese in mano un martello.
Chissà cosa accadrebbe se, anziché rompere la perla, la sciogliessi nell'aceto? Si domandò con curiosità. L'anima sarebbe comunque libera? Io penso di sì… chissà cosa accadrebbe se mangiassi una perla e il processo di digestione la sciogliesse. Il corpo della creatura si formerebbe nel mio stomaco?
Linomer scosse la testa, dicendosi che talvolta la sua curiosità andava troppo oltre. Tuttavia non riuscì ad impedirsi di continuare su quel filone di pensieri.
Chissà cosa succederebbe se una creatura delle dimensioni di un elfo inghiottisse la perla che contiene un gigante.
Per gli dèi, che cosa ho che non va nella testa?

Fece oscillare il martello prima che le venissero in mente altre idee creative. La perla si ruppe con un sonoro crac!, e qualche istante dopo una nebbiolina grigia cominciò ad aleggiare sopra il tavolo. Cominciò a delinearsi la forma di una creatura grande quanto un uomo, dalla pelle di un insipido color grigio chiaro, lucida come se fosse coperta di cera. Man mano che la figura prendeva consistenza, Linomer riconobbe la creatura da quei suoi tratti così tipici: gli arti lunghi e sgraziati, la corporatura magra e ingannevolmente fragile, un viso privo di lineamenti con una sorta di becco al posto della bocca…
Pochissime creature avrebbero riconosciuto un doppelganger nella sua forma naturale, perché solo pochi fortunati possono dire di averne visto uno. Di solito quelle creature ingannatrici vivono ammantandosi dell’aspetto di qualcun altro, e molte persone non sanno che il loro vicino di casa, o addirittura un membro della loro famiglia, è segretamente stato sostituito da un doppelganger.
Linomer però riusciva sempre a vedere il vero aspetto delle creature, anche quando loro non volevano. Questo non era certo il primo doppelganger che incontrava.

Tornare alla vita dopo millenni di quiescenza non era una passeggiata; le sue precedenti esperienze con altri prigionieri delle perle l’avevano chiaramente dimostrato. Durante le prime ore, le creature liberate potevano sperimentare malessere, sbalzi d’umore, confusione, e soprattutto una ridotta capacità motoria. Beith era stata incapace di camminare senza inciampare per tutto il primo giorno. Di solito, dormire aiutava il cervello a ristabilire i giusti collegamenti con il nuovo corpo, o almeno questa era la teoria di Linomer.
Il doppleganger si era appena reso conto di essere libero, in un luogo sconosciuto, davanti ad uno sconosciuto. Un istante dopo si rese conto di essere anche nudo, ovvero nella sua forma originale. Il suo primo istinto fu di trasformarsi, ma non era ancora pronto per un simile sforzo; la sua pelle si tinse di un colore più pallido, gli arti si accorciarono e Linomer vide che stava cercando di prendere l’aspetto di un elfo… ma la trasformazione si bloccò a metà, producendo un ibrido che non aveva nulla di naturale. Un'immagine che avrebbe davvero preferito non vedere. In aggiunta a questo, poteva distinguere il vero aspetto del doppelganger in sovrapposizione alla nuova forma che aveva assunto, come se la forma fasulla fosse un’illusione semi-trasparente.
“Prego, non c’è bisogno che vi diate tanta pena.” Linomer parlò in elfico, sperando che la creatura comprendesse la lingua. “Non siete il primo doppelganger che mi capita di incontrare.”
Il suo nuovo ospite la guardò con aria confusa, ma sembrò afferrare le sue parole. La sua figura tornò ad avere i tratti naturali della sua razza.
“Dove mi trovo?” domandò, parlando in un elfico dai tratti molto più arcaici. Studiò l’aspetto di Linomer per un momento. “Siete un elfo d’argento. Mi trovo nel regno di Shantel Othreier? Come sono arrivato qui?”
Linomer sussultò, sentendo quel nome. Dovette rimandare a mente le sue conoscenze sulla storia antica del Faerûn per ricollegare quella domanda ad un contesto che avesse senso.
“No, mi dispiace.” Rispose, passando con naturalezza alla lingua elfica antica. Non l’aveva mai parlata prima, ma comprendere il linguaggio delle altre creature e rispondere nello stesso modo faceva parte dei suoi poteri innati. “Il regno di Shantel Othreier non esiste più da circa dodicimila anni.”
La creatura non cambiò espressione, ma dovette appoggiarsi al bordo del tavolo perché sembrava che le sue gambe stessero per cedere.
“Dodicimila…”
Linomer usò un pizzico di magia telecinetica per trasportare una sedia vicino al doppelganger. Lo strano ospite colse l’invito e non se lo fece ripetere.
“Dodicimila anni…” mormorò di nuovo, lasciandosi cadere sulla poltroncina. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi si riscosse e tornò ad essere la creatura lucida e pragmatica che tutti i doppelganger sono. “Allora dove mi trovo? Voi chi siete? Perché sono qui?”
“Vi trovate in una città umana di nome Derlusk. Si trova in una regione che un tempo era parte regno di Ilythiir, molto vicino alla capitale Atorrnash. Questi nomi vi sono familiari?”
“Certo!” Esclamò la creatura con un pizzico di impazienza. “Mi trovavo ad Atorrnash proprio… un minuto fa, anche se ho la sensazione che un minuto fa sia moltissimo tempo fa.”
Linomer aprì le braccia in un gesto come di scuse. “La vostra anima era prigioniera in una perla incantata, per opera del malvagio arcimago Ka’Narlist. Capisco la vostra confusione. Sono passati circa diciannovemila anni dalla distruzione di Atorrnash e dalla… morte di Ka’Narlist.” Mentì, perché non vedeva il motivo di condividere informazioni importanti, come il fatto che l’anima dell'arcimago fosse a sua volta prigioniera di una perla. “Temo che tutte le persone che conoscevate non siano più fra noi.”
“Ka’Narlist…” mormorò il doppelganger. “Certo, mi ricordo di lui. Mi ricordo del suo popolo corrotto. Io ero stato inviato dal regno di Aryvandaar per… esiste ancora?” interruppe il suo discorso e alzò gli occhi su Linomer, in modo quasi speranzoso.
“Temo di no.” Fu la desolante ma prevedibile risposta.
Il doppelganger gemette.
“Ero stato inviato dal regno di Aryvandaar per spiare gli elfi scuri, ma alla fine sono stato scoperto. Ora tutte le mie informazioni sono inutili, e nessuno mi pagherà per questo.” Produsse uno strano schiocco con il becco, e Linomer capì che anche se non gli vedeva la bocca, probabilmente doveva avere una sottile apertura che usava per parlare.
“A me interessano le vostre informazioni.” Lo corresse lei. “Mi occupo di ricerche storiche e vi pagherò per le vostre informazioni, ma dovete capire che non si tratta più di questioni di vita o di morte, solo di curiosità accademica.”
Il doppelganger rimase in silenzio per un lungo momento, a riflettere.
“Sì. Si può fare. Ma badate, per un mago le mie informazioni sono più che curiosità. Non ho intenzione di svendere il mio lavoro.”
“Sono certo che possiamo accordarci.” Promise Linomer. “Possiamo spostarci nel mio studio? Dovrò prendere appunti.” Invitò, indicando la botola che li avrebbe riportati sul Piano Materiale.

Linomer passò il resto della giornata a prendere appunti sullo stile di vita degli antichi Ilythiiri, sulle loro difese militari (una cosa di scarso interesse), sulle loro tradizioni magiche (molto più interessante) e sulla genealogia di alcune famiglie nobili, tutte riconducibili alla discendenza di Ka’Narlist. Arrivò a supporre che il doppelganger avesse visitato la città più o meno duemila anni prima del Sundering, cioè quando ormai il regno di Ka’Narlist era ben consolidato, e probabilmente millenni dopo la nascita di Kavrin. Si era fatto l’idea che Kavrin dovesse appartenere alle prime generazioni di creature di sangue semi-divino, perché il bambino emanava una debole aura magica in modo del tutto inconsapevole.
Verso sera suonò una campanella d’oro, per comunicare al suo simulacro che doveva presentarsi e che doveva farlo in forma umana. Pochi istanti dopo infatti una donna bussò alla porta e aprì, restando sulla soglia.
“Il padrone ha bisogno di qualcosa?” domandò, attendendo ordini.
Linomer stava per ordinarle di cucinare qualcosa per il suo ospite, anche se non sapeva se i doppelganger avessero bisogno di mangiare (ma perché non avrebbero dovuto?). Purtroppo qualcun altro la batté sul tempo: un bambino che non vedeva il suo caro zio da tutto il giorno.
La Cosa scattò accanto alle gambe dell’umana, scivolando nello studio privato del mago.
“Zio, guadda che bella bacchetta!” esclamò entusiasta, mostrando un mestolo di legno con l’estremità larga colorata di giallo e rosso con i pastelli a cera. “Faccio acchio le magie!”
Poi Kavrin vide il doppelganger, il doppelganger vide Kavrin, e scoppiò il finimondo.

La Cosa gridò “Un mooottro!” e scappò urlando fuori dalla stanza, in cui, pensò Linomer, non aveva nemmeno il permesso di entrare. Il Simulacro si lanciò all’inseguimento del bambino. Linomer si nascose il viso in una mano, sospirando, ma il peggio doveva ancora venire.
Il doppelganger infatti schizzò in piedi come se la sedia fosse in fiamme.
“Un elfo scuro! Dicevate che non ne esistono più, che si erano estinti o trasformati in creature diverse.” Lanciò a Linomer un’occhiata che, nonostante i doppelganger siano poco espressivi, lasciava intendere un carico di sospetto e di giudizio.
“Non vi ho mentito, lui è un caso a parte. Si trovava in una perla, come voi. Anche il bambino è una vittima di Ka’Narlist.”
Il doppelganger fece nuovamente schioccare quella specie di becco che aveva al posto della bocca. “Vittima? Gli elfi scuri non sono mai vittime. Forse l’arcimago l’ha messo lì perché la sua discendenza potesse ri-colonizzare il mondo se le cose fossero andate male.”
“Con un solo individuo? Non siate ridicolo.” Linomer dissipò quei suoi dubbi con un gesto della mano.
“Voi chiaramente non capite” scandì lentamente quella creatura amorfa, come se pensasse di avere davanti un idiota “Ka’Narlist stava cercando di diventare un dio. Ma chissà quando ci sarebbe riuscito? Se io volessi diventare un dio, cercherei di assicurarmi che i miei discendenti, gli individui di razza più pura, possano sopravvivere anche se il mio popolo venisse distrutto. In modo da poter diffondere la parola.”
Diffondere la parola… considerò Linomer, con un brivido gelido lungo la schiena, O qualcosa di più? Quanto sa, costui, della Maledizione? È possibile che Ka’Narlist abbia salvato alcuni individui delle prime generazioni perché avevano un maggiore potere? Se fosse diventato un dio, avrebbe potuto avere il suo culto personale di super-sacerdoti. Pensò, non avendo una definizione migliore.
“Sì, ma l’arcimago è morto, e qualunque piano avesse su questa creatura è fallito.” Obiettò Linomer, ostentando una tranquillità che non aveva. “Ora è soltanto un bambino che non sa niente del mondo e che crescerà ben lontano dalla perversione del suo popolo.”
“La perversione del suo popolo fa parte di lui.” Decretò il doppelganger. “Lo tenete con voi a vostro rischio e pericolo.”
Lo sa. Decise Linomer. Sa della Maledizione, per forza. Ha spiato gli elfi scuri, conosce perfino le loro abitudini igieniche e sessuali, figuriamoci se non si è accorto che le sacerdotesse venivano regolarmente possedute. Ma ha scelto di tacere… e ora finge di non saperlo.
Se lo lascio andare via, rivelerà l’esistenza di Kavrin al miglior offerente.

“Mi assumerò questo rischio.” Disse solamente, cercando di non far trasparire nulla dalla sua espressione.
Il doppelganger però era una spia consumata, sapeva cogliere il minimo accenno di emozione dalle espressioni del volto, e capì che Linomer sapeva. Capì che non l’avrebbe lasciato andare vivo, o magari, se era fortunato, non l’avrebbe lasciato andare con i suoi ricordi ancora intatti.
Approfittò della sua posizione, visto che era ancora in piedi mentre Linomer era seduta, e senza preavviso scattò di corsa verso la porta.

Appena fuori dalla porta, il doppelganger si trovò in un ampio salone, illuminato da due larghe finestre. Non aveva familiarità con gli appartamenti di Linomer, ma gli bastò uno sguardo alla parete per capire che si trovava in una torre circolare. Solo che non vide scale da nessuna parte. Si trovò presto il cammino sbarrato dalla donna di prima, la serva del mago, che però non ebbe la prontezza di riflessi di reagire subito. Il doppelganger si chinò, afferrò Kavrin e corse verso la porta in fondo al salone. Il bambino cominciò quasi subito a scalciare, ma la presa del doppelganger era troppo salda.
La creatura ebbe una brutta sorpresa quando scoprì che la porta non conduceva alle scale, ma ad una cucina. Ora si trovava in una stanza senza via d’uscita, ad eccezione della finestra. Sentì dei passi in avvicinamento: il mago stava arrivando, e anche la serva. Si costrinse a pensare in fretta; l’unica arma che aveva era il suo corpo, e la vita dell’elfo scuro in ostaggio.

Quando Linomer e il Simulacro attraversarono di corsa la porta della cucina, si trovarono davanti uno spettacolo che sulle prime sembrava un incubo: due Kavrin.
“Zio, il mottro!” Gridò uno dei due, indicando l’altro.
“Ho paura!” Piagnucolò l’altro bambino, guardando Linomer con i suoi occhioni verdi colmi di lacrime.
Se Linomer fosse stata una persona normale, avrebbe esitato. Se fosse stata solo una maga, avrebbe lanciato un incantesimo di divinazione, dando tempo al doppelganger di inventarsi qualcos’altro. Ma Linomer era una creatura magica, e per lei vedere la vera forma delle cose era una capacità costante ed automatica.
Il secondo bambino era il doppelganger, e stava cercando di far leva sui suoi sentimenti. La cosa di per sé era ridicola, non era mai stata molto emotiva, ma… adesso lo era.
Linomer non era abituata a provare tutti quei sentimenti.
Tutta quella rabbia.
Un ringhio animalesco le uscì dalla gola. Un incantesimo di Telecinesi le salì alla mente come per sua propria volontà, e Linomer pronunciò la breve formula in modo quasi incomprensibile, tanto si sentiva la gola serrata per la furia.
Funzionò. Il bambino-doppelganger venne sollevato in aria improvvisamente e strattonato verso la finestra, che andò in frantumi con un rumore di vetri rotti. Il suo visetto infantile venne attraversato da un’espressione di stupore, poi di odio, poi scomparve oltre la finestra e Linomer non lo vide più.
Sentì delle grida da fuori, e pochi istanti dopo uno schianto raccapricciante. Il Simulacro corse alla finestra, mentre Linomer si chinava a terra per guardare in faccia Kavrin. Il bambino sembrava spaventato… da lei. Era stranissimo vedere la paura nei suoi occhi e Linomer si sentì stringere il cuore.
“Ehi, terremoto, lo so che sei tu quello vero.” Gli disse, in quello che sperava fosse un tono rassicurante.
Kavrin corse a cercare conforto fra le sue braccia, scoppiando in lacrime.
“Be’, si è schiantato proprio bene.” Li informò il Simulacro in tono neutro. Neanche lei aveva apprezzato le vili azioni del doppelganger. “Sembra che abbia cercato di trasformarsi in una creatura con le ali, ma non ha fatto in tempo.”
“Non aveva ancora il pieno controllo sul suo corpo.” Ipotizzò Linomer, prendendo in braccio Kavrin e dandogli qualche pacca sulla schiena. “Ma non ha altri da incolpare che sé stesso. Provare a portarmi via…” si fermò, stupita dalle sue stesse parole.
Che cosa sto facendo? Kavrin non è mio. Non posso… non posso tenerlo per sempre. Non so come crescere un elfo, e cosa farei se la Maledizione si manifestasse?
Kavrin strinse più forte le braccia intorno al suo collo.
“Lo zio lancia i mottri dalla finettra.” Sussurrò, in tono quasi ammirato. “Posso lanciare acchio qualcosa giù?”
Linomer lo afferrò da sotto le ascelle e lo allontanò per poterlo guardare in faccia.
“Ma certo che no! Come ti viene in mente?”
Kavrin aprì e richiuse la bocca, ma rimase in silenzio.
Forse un’educazione di base riuscirò a dargliela, dopotutto.
“Vado a recuperare il cadavere.” Annunciò il Simulacro in tono leggero, come se fosse normale.
Sì… Forse.

           

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Capitolo 7
*** 1320 DR: Onore e cocciutaggine ***


1320 DR: Onore e cocciutaggine


L’estate aveva ormai lasciato il posto all’autunno e Linomer non aveva ancora finito di liberare gli sfortunati ospiti delle perle. Solo nella settimana precedente aveva liberato un umano che si era identificato come uno shyft, qualunque cosa volesse dire, e come una ex-spia che lavorava per Ka’Narlist. Aveva fatto un passo falso e l’arcimago aveva intrappolato la sua anima, nel timore che ucciderlo avrebbe permesso ai suoi nemici di evocare il suo spirito e farsi rivelare i suoi molti segreti. Prima che Linomer potesse fargli altre domande, lo Shyft l’aveva ringraziata per il tè ed era scomparso alla vista, solo per riapparire un istante dopo sul Piano Etereo.
Chiaramente ignorava che Linomer, con Visione del Vero, poteva seguire i suoi movimenti anche lì, ma lei decise di lasciarlo andare a cercare fortuna. Quell’essere le era sembrato abbastanza arguto e intraprendente da potersi ambientare anche in un mondo che ormai gli era alieno.
Poi era stato il turno di uno slaad grigio, che Linomer aveva polverizzato nell’istante stesso in cui aveva preso forma. Linomer non tollerava gli slaad. Sebbene non intrinsecamente malvagi, erano predatori naturali che uccidevano e trasformavano gli umanoidi del Piano Materiale in altri slaad. Linomer era una draghessa, quindi non rientrava fra le loro prede, ma aveva pochissima tolleranza per quel genere di parassiti.
Spero di averlo ucciso in modo indolore, per lo meno. Si disse, fissando il mucchietto di polvere fumante con un minuscolo accenno di senso di colpa. Ma comunque chissenefrega.
Il giorno dopo, da una perla era uscita una ginosfinge, una creatura antica e nobile. Quella era stata una vera sorpresa per Linomer, perché quale rapporto poteva avere un mago gretto e pragmatico come Ka’Narlist con una simile creatura leggendaria? Le sfingi di solito erano famose per la loro saggezza e per il fatto di mettere alla prova i sapienti con i loro indovinelli, per giudicare la loro intelligenza.
Quella sfinge, invece, era stranamente silenziosa. Linomer se ne risentì un pochino. Perfino un osservatore casuale si sarebbe accorto che la sua forma elfica era quella di un mago. Sperava di suscitare almeno un pochino di interesse nella sfinge, sperava di ricevere uno dei fantomatici indovinelli.
La ginosfinge invece aveva nicchiato con aria sorniona e aveva chiesto se era libera di andare.
Linomer l’aveva guardata volare via, grattandosi la testa con perplessità, mentre Kavrin la salutava con un “Ciao ciao, drago peloso!”. Tutte le bestie magiche alate, secondo lui, erano draghi.

La draghessa camuffata da mago cominciava a pensare di aver bisogno di una vacanza.
Avrò tutto il tempo del mondo, e non è che per i prigionieri cambierà tanto, dopo più di ventimila anni, aspettare qualche giorno o qualche mese in più….
Ma sapeva di essersela già presa fin troppo comoda, negli ultimi due anni. L’arrivo di Kavrin aveva ulteriormente rallentato il suo lavoro, e Linomer aveva una mente che richiedeva, se non proprio ordine, quantomeno che i progetti importanti venissero portati a compimento.
Sospirò, stanca e abbacchiata, e decise di limitare le sue vacanze a un paio di giorni. Avrebbe portato Kavrin a fare un giro in barca, magari; di recente aveva messo a punto un buon incantesimo per proteggere l’olfatto dagli sgradevoli olezzi sulfurei del Mare dei Vapori. Ormai il clima non era più torrido come nei mesi caldi, e il mare piaceva tanto ad entrambi.

Due giorni dopo Linomer si rimise al lavoro con rinnovato spirito di abnegazione. Kavrin si era tuffato giù dalla barca, e ripescarlo prima che lo facessero i mostri marini era stata una rocambolesca avventura.
Vacanze, ah! Sbuffò, deridendo la sua stupida idea. Il lavoro è la vera vacanza, con quel terremoto per casa…

Avendo deciso di lasciare il bambino alle cure più o meno adeguate del suo Simulacro, l'elfo riprese in mano il registro su cui appuntava le personalità emerse dalle perle. Cercava di capire se ci fosse un filo conduttore. A volte si trattava di nemici che Ka'Narlist aveva intenzione di interrogare oppure di studiare, come il doppelganger e… forse il drago?
In almeno un caso si era trattato di una punizione per una schiava, mentre Kavrin (e possibilmente altri bambini come lui) secondo Linomer erano stati tenuti come "riserva" di seguaci dal sangue potente, per quando il malvagio arcimago fosse riuscito a diventare un dio. Non c'era mai riuscito, ma era evidente che quella fosse la sua intenzione.
Fino a quel momento Linomer non aveva ancora osato spezzare le perle che emanavano un grande potere. Forse la prigione di Ilimalaaros era stata una di quelle, ma all’epoca lei non aveva controllato questo dettaglio.
Prima o poi dovrò farlo comunque, disse a sé stessa, ma non adesso.
Prese una delle perle che secondo le sue analisi magiche ospitavano un ospite né troppo potente, né così irrilevante da poter essere un altro bambino.

Nella privacy del suo laboratorio extraplanare, Linomer spezzò la perla, pronta a far fronte a qualunque cosa ne fosse uscita.
Come al solito una sottile nebbia si levò dai resti spezzati della prigione magica, solidificandosi subito in una forma umanoide. Be’, questa volta, più o meno umanoide.
La creatura era alta quanto un orco, almeno sei piedi. Prima ancora che la sua forma fosse del tutto solidificata, Linomer si accorse che sulla sua testa spiccavano due grandi corna da stambecco.
Un demone? Ma no, che sciocchezza, se fosse stato malvagio l’avrei percepito. Un satiro? Il pensiero attraversò la sua mente, fulmineo, poi subito giunse il dubbio. Però un satiro così alto non l’ho mai visto…
Le domande dell’incantatrice trovarono risposta prima che lei potesse fare altre congetture. La creatura sembrava un animale, ma stava in posizione eretta; aveva la testa da caprone e zoccoli al posto dei piedi. A differenza di un satiro, che ha le zampe da capra ma il viso e la parte alta del corpo da umano, questo individuo aveva tutto il corpo coperto di pelliccia marrone e la testa non aveva nulla di umano. Sarebbe potuto sembrare un caprone capace di reggersi sulle zampe posteriori, ma il suo torace aveva una conformazione umana, e al posto delle zampe anteriori aveva due braccia possenti, da guerriero. Fra le mani, umane anch’esse, reggeva una grossa ascia da battaglia.
Linomer non aveva grande familiarità con l’incantesimo Intrappolare l’Anima, prima di cominciare a lavorare sulle perle. Un tempo aveva creduto che l’incantesimo imprigionasse solo l’anima, lasciandosi dietro il corpo, come un incantesimo Giara Magica. Non era così. Quel maleficio reclamava anche il corpo, solo che per magia lo scomponeva temporaneamente. Quando il corpo delle creature imprigionate si riformava, indossava ancora i vestiti che aveva al momento del maleficio e possedeva ancora gli stessi oggetti.
Come quell’ascia, che il caprinide alzò al soffitto urlando un belato di battaglia. Una parte della mente di Linomer suggerì che avrebbe dovuto trovare buffo quel verso, ma non c’è molto da ridere quando un barbaro villoso di duecentottanta libbre ti si lancia contro mulinando un’arma da guerra.

Linomer non era mai stata molto agile. Di certo non lo era in forma di drago. La sua forma elfica però poteva concederle almeno un po’ di quella innata grazia razziale che hanno tutti i Tel’Quessir, e l’istinto di conservazione fece il resto. Si tuffò di lato, schivando di stretta misura l’attacco furioso dell’ingrato guerriero. Per fortuna un corpo appena riformatosi per magia non ha mai il pieno controllo delle proprie movenze.
Privato del suo bersaglio, il barbaro non riuscì a frenare lo slancio e sbattè l’ascia contro un tavolo da lavoro, staccandone una grossa scheggia anche se il tavolo era di pietra. Per un istante perse l’equilibrio, ma subito rafforzò la presa sul manico dell’ascia e si girò per cercare la sua sfuggente preda. Purtroppo per lui, Linomer non era una di quei maghi che sanno solo spulciare libri. Si ritrovò prigioniero in una gabbia di sbarre invisibili prima ancora di avere la possibilità di riprovarci.

Quella creatura non assomigliava a nulla che l’elfo della luna avesse mai visto. Venne fuori che la cosa era reciproca. Dopo aver passato una mezz’ora buona a ululare insulti in una lingua antica e sconosciuta (che purtroppo Linomer riusciva a comprendere, ma ne avrebbe volentieri fatto a meno), quell’essere bestiale finalmente si calmò un poco. Dalle sue accuse e dai suoi insulti era chiaro che l’uomo-capra aveva scambiato Linomer per un elfo scuro con una mutazione accidentale, non conoscendo la differenza fra le due razze. Linomer cercò di spiegargli che non era un elfo scuro, e che non aveva niente a che fare con quel popolo malvagio.
Il caprinide la guardò con sospetto e diffidenza, passando una mano sul manico dell’ascia come per trarne conforto. Quell’arma non poteva nulla contro le sbarre magiche, l’aveva già imparato a sue spese. Per il momento non aveva altra scelta che ascoltare le parole dell’elfo chiaro, ma non era disposto a credere facilmente a quella storia.
Diverse razze di elfi? Assurdo, ai suoi occhi quegli omuncoli fragili e senza onore erano tutti uguali. Il mago nero l’aveva chiuso in una perla, il mago bianco l’aveva chiuso in una gabbia, per il fiero guerriero non c’era differenza.
“Se non sei un verme nero lingua di serpente, togli questa gabbia!” La sfidò l’umanoide, abbassando la testa e mettendo bene in mostra le corna. “Baawer non sarà schiavo di un debole. Baawer rispetta solo un guerriero più forte. Questa è la via degli ibixian.”
Linomer chinò la testa di lato, curiosa.
“Fossi matto” rispose, sinceramente “mi apriresti in due con quell’ascia. Eppure io ti ho liberato dalla perla.”
“Ora sono in un’altra prigione” gli fece notare l’uomo-capra, risentito.
“Solo perché mi sei corso addosso con una fottuta ascia!” Sbottò l’elfo chiaro, a corto di pazienza. “Non è un buon presupposto per darti fiducia.”
“Fiducia?” l’ibixian, come si era definito, sollevò un sopracciglio, ed era un sopracciglio molto grosso, come per sottolineare il concetto. “Avrai una battaglia leale, questo è più di quello che si merita un mingherlino imbroglione come tutti voi elfi.”
“Cosa me ne faccio di combattere contro di te?” Obiettò Linomer.
“Se vinci, sarai il mio capo e ti dovrò servire.”
Calò un silenzio carico di tensione.
“Ma io non voglio i tuoi servigi” disse alla fine il mago, cautamente, come se avesse paura di offendere il suo burbero ospite.
Il caprinide la guardò con occhi vuoti, incapace di comprendere.
“Ma mi hai messo in una gabbia!”
“Perché tu mi hai attaccato!” Tornò a ripetere Linomer.
Si guardarono ancora per un lungo momento, come se fossero destinati a non capirsi.
“Senti, davvero, io non voglio tenerti qui.” Assicurò l’elfo pallido. “Che ne dici se ti lasciassi andare, lontano da qui? Non servirebbe combattere, giusto? Non servirebbe che uno di noi due prendesse il sopravvento.”
Ecco, finalmente quello era un discorso accettabile.
Baawer aveva un solo modo di reagire a uno sconosciuto: decidere chi fosse il più forte, e quindi chi dovesse comandare. Ma questo era valido solo se lui e lo sfidante stavano lottando per lo stesso territorio. Se il mago l’avesse lasciato andare per la sua strada, allora il discorso sarebbe stato diverso.
"Baawer torna dalla sua tribù, e gli elfi abbandonano il territorio che hanno rubato agli ibixian. Così Baawer non è costretto a spaccare la tua piccola testa fragile." Minacciò, gonfiando i muscoli delle braccia.
Sentendo parlare di tribù e di territorio, Linomer ricordò che non avevano ancora affrontato lo spinoso argomento 'sono passati più di ventimila anni e la tua gente potrebbe non esistere più'. Forse era il momento di parlarne adesso, finché quel bruto irascibile era ancora nella gabbia.

Alcune ore dopo l'elfo della luna e il villoso caprinide uscirono dalla porta dello studio del mago. Nessuno dei due sembrava di buon umore, ma avevano raggiunto un accordo.
Kavrin e il Simulacro in forma umana rimasero a guardare a bocca aperta mentre quella creatura di un'altra epoca, chiaramente più adatta agli ambienti selvaggi, si faceva strada con cautela fra mobili e soprammobili di quegli appartamenti fin troppo stipati.
"Un mezzotauro!" Esclamò il bambino, correndo a nascondersi dietro la gonna del Simulacro. "Zio, mandalo via! Fanno magie brutte e mangiano i bambini! E poi ti mettono in un librinto e ti danno la caccia finché muori di paura..."
Linomer rimase molto sorpresa davanti a quello sfogo improvviso, era raro che Kavrin mostrasse di avere paura di qualcosa. Per di più, i minotauri non erano famosi per le loro arti magiche, anzi di solito erano considerati poco più che bestie. Non che avesse diretta esperienza di simili creature, ma sapeva che gli elfi drow spesso impiegavano i minotauri come schiavi. Non si aspettava che gli antichi elfi scuri avessero un simile rispetto per quella razza di ibridi.
"Il nostro ospite non è un minotauro, Kavrin. Ha detto di essere un ibixian, e chiaramente assomiglia ad un mezzo-caprone, non a un mezzo-toro", rispose in elfico moderno. Il bambino ormai parlava l'elfico moderno come se fosse la sua lingua madre, ma alcuni termini non li conosceva, come la parola minotauro. "Su, vieni fuori da lì, non è questo il modo di presentarsi."
"Ma forse anche lui fa le magie cattive…" biascicò il ragazzino, ma si lasciò convincere ad uscire da dietro alle sottane dell'umana.
Per fortuna Baawer non parlava l'elfico moderno, perché non gli sarebbe piaciuto essere definito mezzo-caprone.
"Hai detto che gli elfi scuri non esistono più" protestò il caprinide, lanciando una lunga occhiata disgustata al bambino. "Era una menzogna. Ogni cosa che hai detto era una menzogna." Ipotizzò, rendendo palese la sua visione del mondo in bianco e nero. Linomer gli aveva mentito su una cosa, quindi gli aveva mentito su tutto.
"Non ti ho detto bugie. La razza degli elfi scuri non esiste più." Evitò accuratamente di dirgli che non esisteva più perché si era trasformata nella razza drow. "Kavrin era prigioniero di una perla magica, proprio come te."
"Il capo-mago degli ilythiiri metteva i nemici nelle perle perché era un codardo. Ha avuto paura di affrontare Baawer con un'ascia in mano! Ma nemmeno quel serpente vigliacco poteva avere paura di questa mezza tacca!" protestò, indicando il piccolo Kavrin che tremava e teneva stretta la mano del Simulacro, per farsi un po' di coraggio.
"Ka'Narlist non imprigionava soltanto i nemici di cui aveva paura" spiegò l'elfo chiaro, "ma anche le persone che voleva tormentare oppure che voleva usare in futuro. Forse voleva usare questo bambino per i suoi esperimenti magici. Gli elfi scuri non avevano né amore né pietà per i loro piccoli."
Il caprinide sembrò molto colpito da queste parole. Linomer non aveva idea di quali fossero gli usi e i costumi della sua gente, ma in quasi tutte le razze non malvagie esisteva il concetto di prendersi cura dei piccoli. Le azioni degli elfi scuri avrebbero suscitato ribrezzo in chiunque.
L'enorme umanoide si piegò su un ginocchio, per essere alla stessa altezza del bambino. Non ci riuscì; anche così lo sorpassava di tutta la testa (e minacciosa impalcatura di corna). Sganciò l'ascia da battaglia dalla sua cintura, con movimenti lenti e deliberati. Appoggiò l'arma a terra, tenendola in verticale con il manico verso l'alto. L'ascia era alta quanto il ragazzino.
"Sei un piccoletto" borbottò il barbaro, in tono un po' deluso. Linomer capí che aveva parlato nell'antica lingua degli elfi scuri, e Kavrin sussultò perché era ancora perfettamente in grado di capire quell'idioma. "Aspetterò che cresci. Aspetterò che diventi abbastanza forte da sollevare la mia ascia. A quel punto ti sfiderò e ti ucciderò, ultimo degli elfi ladri." Promise, non in modo minaccioso ma con una certa solennità.
Il bambino spalancò gli occhi e si allontanò di scatto dalla lama dell'ascia.
"Non farai niente del genere!" Gridò Linomer, colta di sorpresa. "Ritira subito le tue minacce oppure ti polverizzo su due piedi!"
La draghessa stava davvero facendo del suo meglio per non richiamare all'istante un incantesimo distruttivo. Il fatto che il bambino fosse potenzialmente sulla linea di tiro era un buon deterrente, inoltre si rendeva conto che Baawer, a modo suo, si stava comportando in modo onorevole. Non avrebbe fatto del male a Kavrin finché l'avesse visto come un bambino. Il problema era che le parole del caprinide avevano pungolato un'altra delle grandi preoccupazioni costanti di Linomer: prima o poi il piccolo elfo scuro sarebbe cresciuto. Prima o poi il mago avrebbe dovuto fare i conti con quello, con la necessità di trovare un posto nel mondo a quel superstite di una razza antica, e come se non bastasse, più i giorni passavano e più diventava probabile che Kavrin sviluppasse poteri incontrollabili senza preavviso. Esisteva anche il rischio sempre presente che Lolth, la malvagia Regina Ragno che era anche una sua antenata diretta, si accorgesse che un suo discendente dai poteri quasi immacolati era tornato nel mondo. Linomer conosceva la triste storia di Nenshalee, l'antica elfa ilythiiri che aveva subito quasi completamente il controllo mentale della sua dea. E come se non bastasse, ella era venuta al mondo poco prima della fine del regno di Ka'Narlist, millenni dopo la nascita di Kavrin. Se era vero che il potere diventava più blando con il passare delle generazioni, e con esso anche il controllo mentale da parte della divinità, la triste storia di quell'elfa scura lasciava ben poche speranze per il futuro di Kavrin. Dopotutto uno dei motivi per cui Linomer cercava di farlo uscire il meno possibile era limitare qualunque contatto con un tempio o con il concetto stesso di fede. Sarebbe stato ancora meglio se Kavrin fosse rimasto all'oscuro dell'esistenza degli Dei. E, con un po' di fortuna, anche loro sarebbero rimasti all'oscuro della sua.

Il caprinide si rialzò in piedi e riagganciò con tutta calma la sua arma alla cintura.
"Baawer non uccide i piccoli. Il popolo ibixian conosce l'onore. Adesso tu rispetti la parola data, elfo pallido. Adesso tu aiuti questo capotribù a ritrovare la sua tribù."
Il mago si passò una mano sul volto, imponendosi di ritrovare la calma.
"E sia. Sarò più tranquillo quando ti saprò lontano da qui, Baawer."
Linomer spiegò con pazienza al Simulacro e a Kavrin che sarebbe partito per una missione nelle pianure dello Shaar. Si prese anche il tempo di scrivere tutto in una lunga nota, che poi appese alla porta del suo laboratorio, perché sapeva che il suo Simulacro avrebbe dimenticato tutto dopo una notte di sonno. La donna sapeva solo di doversi occupare del bambino, ma non poteva ricordare le informazioni acquisite dopo la sua creazione. Quello era il più grande limite della creatura.
Non si sentiva esattamente tranquilla a lasciare quei due da soli per molti giorni, ma era una sua responsabilità occuparsi dei prigionieri delle perle di Ka'Narlist. Non poteva lasciare che una creatura antica, forse ormai l'ultima della sua specie, finisse a girovagare in eterno senza speranza in un mondo che non conosceva più. Avrebbe aiutato Baawer a scoprire cosa ne era stato del suo popolo.

           

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