The Sign of the Southern Cross 

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***



Capitolo 1
*** I. ***


 

Questa raccolta, nella sua interezza, partecipa al “Writober” di fanwriter.it

 

DISCLAIMER: I personaggi che compaiono nel canon e tutto ciò che è relativo alla saga di Harry Potter appartiene a J.K.Rowling, ma tutto il resto fa parte del mio personale headcanon. Grazie dell’attenzione e buona lettura ☾

 


 

The Sign of the Southern Cross.

I.

 

[ giorno 7 — piccolo ] 

 

Quand’ero piccolo, non c’era spazio per Alphard. C’era spazio solo per Alphard Black. Walburga era la maggiore, lei avrebbe ereditato tutto, ma io e Cygnus dovevamo comunque mantenere quell’algida compostezza, quell’ordinato rigore e quell’esemplare dignità che ci si aspettava da noi, e che i nostri genitori ci avevano insegnato. Eravamo dei Black, e dovevamo comportarci come tali, sempre, in ogni ambito della nostra vita. Non potevamo permetterci passi falsi. Nostra madre, Irma, ci teneva il fiato sul collo come se fosse stata un segugio, e nostro padre appariva giusto per sgridarci in modo più fermo e autoritario, o appiopparci punizioni varie, con diversi gradi di severità. 

Walburga passò dall’essere mia complice ad essere invece una complice silenziosa e quasi infida di nostra madre. Ricordo come fosse ieri, i giochi che facevamo a Grimmauld Place, le storie che mi inventavo per divertirci - e per farla divertire, ché il suo sorriso era sempre il mio primario obiettivo. Mi piaceva vedere mia sorella felice, era ancora più bella quando sorrideva. Poi a un tratto ha semplicemente smesso di sorridere, abbiamo smesso di giocare insieme ai pirati e agli avventurieri scapestrati, e ho smesso di andare nella sua stanza a leggerle qualcosa, la sera prima di dormire. Non siamo diventati due estranei, almeno non già allora, ma qualcosa era inevitabilmente mutato, tra noi, e mutò definitivamente quando Walburga prese i suoi M.A.G.O. Durante gli anni che trascorse in Giappone penso di aver ricevuto da lei solo due o tre lettere. E ho imparato che ciò che avevamo condiviso, ciò che avevamo vissuto tra le mura della casa dei nostri genitori, ecco, tutto era svanito. L’età adulta ci aveva catapultati nella realtà, e aveva rotto qualsiasi legame. 

Ho imparato a convivere con quella perdita. Con Cygnus non siamo mai riusciti a costruire un rapporto che fosse solo nostro, era come se quel fratello minore fosse troppo distante, anche più distante di Walburga mentre era in Giappone. Era freddo, Cygnus, freddo come il marmo, e la sua freddezza contaminava chiunque e qualsiasi cosa gli gravitasse intorno. Era diverso da Walburga, che nonostante l’apparente, algida maschera che indossava, celava dentro di sé una fiamma ardente pronta a divorare il mondo. Ho sempre provato pena per la povera Druella, costretta in un matrimonio con mio fratello che era chiaro non volesse. Nei suoi occhi si leggeva soltanto pena. 

Il me stesso bambino è qualcosa che mi sono portato dietro sempre, negli anni a venire, era come una coperta che mi teneva al caldo durante i lunghi giorni e le lunghe notti passate da solo, anche dopo, nel mio piccolo appartamento di Paddington, con il suono delle ambulanze a infrangere la notte. Ho fatto della solitudine un’abitudine, e un conforto. I ricordi mi facevano sorridere, e ogni tanto tornavano a prendere vita nei sogni. Non sentivo mai freddo, quando ricordavo. Grimmauld Place non era la casa spettrale che divenne poi, col tempo, man mano che siamo cresciuti e ce ne siamo andati. Grimmauld Place era la casa dei giochi infiniti, delle risate soffocate dietro qualche tendone, delle fughe da Kreacher, delle eterne partite a carte o Gobbiglie, del fuoco che ardeva nel caminetto e la torta alla zucca, delle scale che erano la nostra nave da governare in un mare in tempesta, e la soffitta la terra straniera e selvaggia da esplorare alla ricerca di tesori nascosti. 

Durante quei giochi, Alphard Black lasciava il posto ad Alphard, solo Alphard, il piccolo Alphard con gli occhiali e la vestaglia di velluto, sempre con un libro sotto il braccio e un paio di pantofole ai piedi e troppi sogni nella testa. Ricorderò sempre quand’anche il mio mondo era piccolo, e si riduceva a quelle quattro mura sghembe, e al sorriso e alla risata di mia sorella, e alla nostra immaginazione che correva veloce. 

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE

Arrivo di corsissima con questo primo capitolo. Specifico solo che la raccolta non seguirà un ordine cronologico preciso, ma piuttosto quello della mia ispirazione, come sempre. Morivo dalla voglia di scrivere qualcosa su Alphard - e non potevo non rispondere all'appello del writober. Fatemi sapere cosa ne pensate.

ps se volete leggere qualcos'altro sul mio Alphard, vi lascio qui alcuni link dalla raccolta che ho scritto sui Black per il writober dell'anno scorso:
capitolo II. / capitolo X / capitolo XII

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Capitolo 2
*** II. ***


 

The Sign of the Southern Cross. 

 

II.

 

[ giorno 8 — pallore ] 

 

“Sei pallido, zio Alphard.”

“Sono solo stanco, Sirius. È meglio se riposo un po’.”

“Ci vediamo domani, allora.”

“A domani, Sirius.”

 

 

“Sei pallido, Alphard, stai bene?”

“Non toccarmi, Frederick1.”

“Pensavo—”

“Non devi pensare. Lasciami solo.”

“Alphard…”

“Non voglio sentire che cos’hai da dirmi. Non più, ormai.”

 

 

“Sei pallido come un fantasma. Te l’hanno mai detto?”

“Senti chi parla. Con te facciamo due fantasmi.”

“Ritira tutto, Alphard Black, o lo dico a mia madre.”

Tu ritira tutto, Marcus Greengrass2, o lo dico alla mia.”

 

 

“È pallido. È troppo pallido. È normale, secondo lei?”

“È caduto dalla scopa da un’altezza considerevole, Marcus, ma sta bene, fidati. Sta solo riposando.”

“È sicura che si riprenderà?”

“Sicura come sono sicura che il sole si leverà domani. Ora va’ a dormire, non voglio essere costretta a riportare al preside che sei fuori dal tuo dormitorio a quest’ora.”

“Tornerò domani mattina.”

“Va bene, testone.”

 

 

“Sei pallido, fratello.”

“Sei venuta fin qui solo per dire cose ovvie, sorella?”

“Ho saputo che stai morendo.”

“Di nuovo, un’altra cosa ovvia.”

“Allora è vero.”

“Non è una domanda.”

“No. Non è una domanda.”

“Se me lo chiedi, sì, è vero.”

“Che cos’hai?”

“Non lo so. Non me l’hanno saputo dire. Sembra mi stia consumando a poco a poco. Potrebbe essere un qualche male che scorre nel sangue di famiglia, anche qualche nostro avo è morto allo stesso modo.”

“Cosa vorresti insinuare?”

“Niente. Però sta’ attenta, sorella. Non si sa mai quando sei qui e quando non ci sei più.”

“Sapevo che non dovevo venire.”

“Allora perché sei qui?”

“Cercavo assoluzione, Alphard.”

“Dove? In me? Pensavi che vedermi quasi morto ti avrebbe fatto sentire in colpa per avermi rifiutato anni fa? E cacciato dalla famiglia e da quel tuo arazzo della malora?”

“Sì.”

“Sì, cosa?”

“Cercavo assoluzione in te. Qui. In questa camera. Ai piedi del tuo letto.”

“E l’hai trovata?”

“Speravo fossi tu a darmela.”

“Ti ho perdonata anni fa, sorella. Non porto rancore, non ne sono capace. Quindi puoi andare, puoi tornare a casa e dormire sonni tranquilli. E quando ti arriverà la notizia che sono morto, puoi consolarti sapendo che sono morto senza odiarti.” 

“Neanche io ti odio.”

“Ma nemmeno mi ami. Lo so. Lo capisco.”

“Il nome dei Black—”

“Viene prima di tutto. So anche questo.”

“Non morire da solo, Alphard. Per favore.”

“Tutti moriamo soli, Walburga, non lo sai?” 

“Alphard…”

“Okay. Non sono solo. Non più.”

“Addio, allora.”

“Addio.”

 

 

“E così te ne andrai.”

“Sei il primo che entra qui dentro e non mi dice che sono pallido. Un record.”

“Scemo fino alla fine, vedo.”

“Posso dirti una cosa, Frederick?”

“Certo. Quello che vuoi.”

“Mi mancava la tua risata. Non ridiamo così da quanto tempo…?”

"Credo da anni. Sembrano secoli.”

“Mi fai una promessa?”

“Di nuovo: tutto quello che vuoi.”

“Vivi. Vivi una vita lunga anche per me. E ricordami, se puoi. Se vuoi.”

“Certo che voglio. E ti ricorderò sempre, Alphard. Non ti ho mai dimenticato, d’altronde.”

“Sono parole pericolose, possono far riaprire vecchie ferite.”

“E tu sei già abbastanza ferito, lo capisco.”

“Scusa. Non posso. Non ora.”

“Non scusarti. Ne è passato di tempo. E ormai è tardi.”

“Ti ho amato tanto, Frederick. Credimi.”

“Ti credo. Ti ho amato tanto anche io, Alphard.”

 

 

“Vuoi che chiami il Medimago?”

“No, Lin3, va bene così.”

“Alphard…”

“Sapevi che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. Ci siamo.”

“Lo sapevo, eppure speravo non arrivasse mai.”

“Non me ne andrò. Non dal tuo cuore, almeno. So che mi conserverai lì dentro per lungo tempo.”

“Finché vivrò. E anche dopo.”

“Ti porterò ovunque andrò, Lin. Ti amo.”

“Ti amo.”

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Frederick Nott: ho solo dato un nome di battesimo al Nott introdotto dalla Rowling

2. Marcus Greengrass: nonno di Astoria e Daphne; personaggio di mia invenzione

3. Lin: la conoscerete meglio; personaggio di mia invenzione

 

Oggi arrivo con qualcosa di diverso dal solito: una serie di piccoli estratti formati solo da dialoghi. Spero vi sia piaciuto questo esperimento ♡ alla prossima!

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Capitolo 3
*** III. ***


 

The Sign of the Southern Cross 

 

III.

 

[ giorno 10 — undici ] 

 

Sono nato l’11 novembre 1928, alle ore 11:11 della sera. Mi chiamo Alphard Crux1 Black. La zia Cassiopeia disse subito a mia madre che portavano male, tutti quegli undici. Disse che “qualcosa di terribile sarebbe senz’altro accaduto”, se non a me direttamente, sicuro a coloro che mi circondavano. Andò avanti per anni, a profetizzare strani accadimenti e a vaticinare disgrazie, finché mio padre Pollux, suo fratello, non si alzò in piedi durante un pranzo di Natale a Grimmauld Place per dirle chiaro e tondo che se avesse continuato a predire tragedie l’avrebbe cacciata senza più riammetterla tra noi. La prospettiva di perdere l’accesso alla “casa dei suoi padri” era troppo spaventosa, e così la zia Cassiopeia tacque per sempre - almeno finché non venni radiato dall’albero genealogico, e allora se ne uscì con un “ve l’avevo detto” (almeno così mi è stato riportato). Forse la zia Cassiopeia aveva ragione, in fondo: forse sono stato davvero una disgrazia, per i Black. D’altronde, mia madre diceva bonariamente che ero “la sua croce, di nome e di fatto”, per poi arrivare ad affermarlo seriamente quando la notizia che avevo lasciato, seppur con anticipo, la mia eredità a mio nipote li ebbe raggiunti. “Portano male, tutti questi undici”, diceva la zia. “L’undici ha un significato mistico, ma troppi undici… No, sono sicura che c’è qualcosa sotto.” 

 

Se ci rifletto, l’undici ha sempre e solo significato cose belle, per me. A undici anni ho conosciuto Frederick e Marcus. Per essere esatti, Frederick mi ha rivolto la parola per la prima volta l’undici settembre del mio primo anno a Hogwarts, quand’ero solo un ragazzetto mingherlino e spaventato. Lo conoscevo perché ci conoscevamo tutti, noi figli di Purosangue, ma Frederick, di tre anni più avanti di me a Hogwarts, mi incuteva troppo timore e rispetto reverenziale per anche solo pensare di parlargli per primo. Ci ha pensato lui. E da lì è iniziato tutto. Però ho anche rivolto per la prima volta la parola a Lin, un giorno di novembre, mentre sedevo al ristorante di sua madre a mangiare dell’hongshao rou2. Lei aveva sempre evitato di servirmi, o anche solo di transitare nei paraggi del mio tavolo, e non me lo sapevo spiegare, così un giorno, mentre stavo andando via, l’ho intercettata, le ho chiesto come si chiamava, e le ho sorriso. Lei ha ricambiato il sorriso. E da lì è iniziato tutto. 
 

 

NOTE

1. Crux è il latino di croce, ed è anche il nome della costellazione della Croce del Sud; da qui il titolo della raccolta.

2. L’hongshao rou è un classico piatto di maiale della Cina continentale, a base di pancetta di maiale e una combinazione di zenzero, aglio, spezie aromatiche, peperoncini rossi, zucchero, anice stellato, salsa di soia chiara e scura e vino di riso (source: wikipedia).


Eccomi qui, finalmente, con il terzo capitolo e il prompt di oggi. Si tratta di una cosina molto breve, ma spero vi sia piaciuta. Ci vediamo domani con il prompt “aurora”
e del sano angst 👀

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Capitolo 4
*** IV. ***


Avviso: ho aumentato il rating da giallo ad arancione, ma più per precauzione che per altro. Grazie per l’attenzione.
 


 

The Sign of the Southern Cross 

 

IV.

 

[ giorno 11 — aurora ] 

 

Ti aspettavo per delle ore. Ti aspettavo per tutta la notte. Seduto su una sedia scomoda, la schiena dritta, tesa. Gli occhi spalancati nel buio, solo le luci della strada fuori a penetrare per un po’ in quel nero fondo. Le mani rannicchiate sulle ginocchia composte, le dita strette in una morsa dalla quale non sapevo se sarei mai riemerso. 

 

Ti aspettavo per delle ore perché promettevi sempre che saresti venuto presto, che quella spedizione (l’ennesima) sarebbe stata una passeggiata. E invece attendevo, il cuore in gola, senza bere né mangiare né riposare. Era come se se mi trovassi in una bolla senza peso, in un tempo fuori dal tempo. Sarebbe sempre stata così, la mia vita? Un continuo, incessante attendere? Una spasmodica veglia? Un’affannosa preghiera alla morte affinché ti risparmiasse? Ancora una volta, sempre?

 

L’aurora era appena sorta quando arrivavi, sporco di polvere, il viso torvo e stanco. Aprivo la porta e ti lasciavi cadere tra le mie braccia e io ti prendevo come se non avessi peso - come se non fossi carico di tutte le illusioni che ti portavi appresso. Affondavi il naso nel mio collo, le dita aggrappate alla mia schiena. Sussurravi parole che non ho afferrato mai, e io chiudevo solo la porta - sul mondo, e su ciò che eri appena stato a fare là fuori. 

 

L’aurora rischiarava la stanza, e il tuo volto. Ti baciavo lentamente ma tu mi spogliavi senza pazienza, affondando le dita nella mia carne come se volessi accertarti che fossi davvero lì, con te, in quel piccolo appartamento di Paddington senza tende alle finestre, troppo stretto per due uomini adulti. Ti lasciavo fare ché sapevo - sentivo - che era ciò di cui avevi bisogno. E anche io ne avevo bisogno. 

 

L’aurora era come al solito nostra testimone, mentre ti lasciavi andare, mentre mi permettevi di affondare dentro di te, “ancora”, e più a fondo, fino a raggiungere la tua anima. E io ti permettevo di gridare il mio nome per poi soffocarlo dentro un respiro comune, unanime, un’altra unione che da noi veniva consumata in mezzo alle mie lenzuola, le tue dita tra i miei capelli. 

 

Ci sono state tante aurore. Ci sono state tante notti, e tante attese, ma un giorno, non ti ho atteso più; un giorno, non sei venuto più. Hai continuato a stare là fuori, ma forse tornavi ad un’altra casa, e ad altre braccia, e da quelle stesse braccia ti facevi stringere, e in quelle stesse braccia ti lasciavi cadere. Chissà. 

 

L’aurora non ha più avuto lo stesso significato, dopo di te. Dopo di te, ho appeso delle tende alle finestre. Dopo di te, l’aurora non l’ho vista più per molto tempo. Finché un giorno, non ricordo nemmeno bene quando, o in quale istante della mia vita, sono tornato a guardare l’aurora, e allora ho capito che stavo bene. Stavo di nuovo bene. Mi sono domandato come stessi tu. Tante di quelle volte... Non te l’ho mai chiesto, però. Scusami. Scusami davvero.

 

L’aurora ha sempre avuto i tuoi occhi, Frederick.

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE: arrivo velocissima con uno dei prompt della lista pumpNIGHT, quindi da pubblicare dopo le 19; scusate per l'angst, prometto che il prossimo capitolo sarà più soft e dolce ♡

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Capitolo 5
*** V. ***


The Sign of the Southern Cross 

 

V.

 

[ giorno 13 — glicine ] 

 

Ho rivolto per la prima volta la parola a Lin un giorno di novembre. Ma è stato nel giugno successivo che il suo cuore si è schiuso per me. 

 

Da quando le ho parlato, mi ha sempre servito lei, durante i miei pranzi e le mie cene al ristorante di sua madre. La cosa che più mi ha colpito di lei è stata la gentilezza, quel suo modo di sorridere col cuore anche senza dire niente, di irradiare calore senza toccarmi, di scaldarmi l’anima con una parola sussurrata, mai urlata, con quella voce musicale a spruzzare il suo inglese tranquillo, privo di accento. 

 

Un giorno semplicemente le ho chiesto di chiamarmi Alphard e di smetterla con quel “signor Black” che mi faceva sentire vecchio come mio padre, e lei ha riso così tanto che sono rimasto semplicemente a guardarla, incantato, le bacchette a mezz’aria. C’erano pochi clienti, quel giorno a pranzo, e nessuno ha badato a noi. “Io sono Lin”, ha detto quindi, dopo che l’ultimo scampolo della sua risata si è esaurito nell’aria che profumava di spezie. “Lo so,” le ho risposto solo. 

 

È stato un giorno di giugno che mi ha mostrato il giardino sul retro. Lei e la sua famiglia abitavano nell’appartamento sopra il ristorante, e nel retro avevano coltivato un vero e proprio giardino all’orientale, forse per sentirsi meno soli in quel mare di grigio e umidità che era l’Inghilterra. Dopo aver finito di pranzare, Lin mi ha chiesto se volevo vedere una cosa, e come avrei potuto rifiutare? 

 

Così, dopo che anche l’ultimo avventore se n’è andato, Lin mi ha preso per mano, mi ha fatto alzare dal divanetto sul quale sedevo, e mi ha accompagnato fuori. Siamo transitati lungo un corridoio sul quale si aprivano varie porte, tra le quali quella della cucina. Un omone grande e grosso era sbucato proprio da lì, tutto vestito di bianco, i capelli tagliati cortissimi, e le mani appuntate sui fianchi. Lin gli ha detto qualcosa in cinese che ovviamente non ho capito, e lui se n’è rimasto lì a guardarci, silenzioso, mentre procedevamo lungo il corridoio e poi fuori, nel sole. 

 

Il giardino era tutto viola. Mi sono coperto gli occhi con la mano per un attimo, accecato dal riverbero del sole sui fiori che popolavano il giardino.

 

“Wisteria sinensis,” ha mormorato Lin. “Glicine cinese.”

 

Io sono rimasto senza parole. Continuavo a guardarmi intorno, incapace di proferire verbo di fronte a cotanta bellezza. Sembrava quasi una magia, eccetto per il fatto che non c’era magia, nel mondo di Lin. Almeno non la magia come la intendevo io. 

 

“Lin,” ho iniziato. “È bellissimo.”

“Lo abbiamo portato dalla Cina. È fiorito circa un mesetto fa, come tutti gli anni.”

 

Mi sono voltato a guardarla, ancora inebetito. E lei era altrettanto bella, i capelli scuri e liscissimi tenuti indietro con un fermaglio, e il grembiule che usava per servire ai tavoli ancora addosso. Gli occhi erano nerissimi ma pieni di luce - pieni di stelle. Sembrava una visione, lì in mezzo, qualcosa di non reale, quasi un prodotto dei miei stessi sogni. 

 

“Perché me l’hai mostrato?” 

Perché a me? Perché proprio io?, avrei voluto chiederle. 

“In oriente, il glicine simboleggia amicizia e disponibilità. Siamo amici, tu e io.”

Ammetto che quella parola, “amici”, un po’ mi ha fatto male. Ho capito che non volevo essere solo amico di Lin. Certo, non sapevo nemmeno cosa avrei voluto essere, per lei, ma questo l'avrei capito col tempo. 

“Amici,” ho ripetuto.

Lei ha annuito, quel suo bel sorriso di nuovo a scaldarmi dentro. 

 

⭐︎

 

Ci siamo baciati la prima volta quando Lin mi ha regalato il glicine. Dopo quel giorno in giardino, siamo davvero diventati amici. Ma quando Lin mi ha regalato il glicine, ho capito che avevamo smesso di esserlo, per essere qualcos’altro. È venuta a suonarmi a casa, io ero pronto per mettermi in tavola, avevo cucinato una cosa al volo. Eravamo di nuovo in giugno, circa tre anni dopo quell’altro giorno di giugno. 

 

Lin teneva tra le braccia un glicine bonsai, i cui fiorellini viola erano già spuntati come tante gemme purpuree. L’ho fatta entrare facendomi da parte, e lei ha continuato a tenere stretto il bonsai come se fosse una cosa preziosa. 

 

“Non aspettavo una tua visita.” Lin non era mai venuta a casa mia, prima di quella sera. “Scusa, ho tutto in disordine.” Ho cominciato a guardarmi intorno, cercando di capire da dove iniziare per sistemare quel caos, ma lei ha fatto un passo avanti, impedendomi di pensare. Il suo buon profumo saturava l’aria e la mia testa era piena di lei, solo di lei. “Al, va tutto bene. Non fa niente.”

 

Ho annuito. Lei mi ha teso la pianta. “Questo è per te.”

“Per me?”

Lin non ha aggiunto altro, le braccia tese, in attesa che prendessi il bonsai.

“Non posso accettarlo, Lin, è troppo…”

“Secondo la tradizione, il glicine viene considerato un potente talismano contro le avversità. E si regala a chi ci sta più a cuore.”

 

Ho alzato gli occhi dalla pianta per puntarli su di lei. Non mi sono nemmeno accorto che stavo trattenendo il respiro finché non l’ho lasciato scorrere fuori. 

I suoi occhi mi dicevano qualcosa. Mi suggerivano qualcosa. Così ho preso la pianta, delicatamente, dalle sue mani, e l’ho poggiata sul tavolo, e il momento dopo Lin era tra le mie braccia, e io la stringevo con altrettanta delicatezza, ché lei quello era, un essere delicato all’esterno, ma che celava una forza innata all’interno, come le piante rampicanti che tanto amava. 

 

Le ho scostato un ciuffo di capelli fini, come seta, e gliel’ho appuntato dietro l’orecchio. 

“Mi stai molto a cuore, Alphard.”

“Anche tu mi stai molto a cuore, Lin.”

“Mi dispiace, avevo promesso che saremmo stati amici.”

“Non possiamo più esserlo, temo.”

 

Ci siamo baciati senza fretta, con lentezza. Ci siamo esplorati con curiosità. Non baciavo una donna da anni. Pensavo che sarebbe stato strano, ma con Lin è stato tutto così facile, così semplice, come bere un bicchier d’acqua dopo aver patito tanto la sete in un giorno particolarmente caldo. 

 

“Possiamo comunque essere amici,” ha sussurrato stringendomi le mani che tenevo sulle sue guance. “Amanti e amici.”

“Ti amo, Lin.”

Lei mi ha guardata con i suoi occhioni. 

“我爱你, Alphard. Ti amo.”

 

Non ci siamo lasciati più, da quella sera. Il glicine ci osservava dal tavolo della cucina.

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE: arrivo di corsa (ormai è la mia costante, ahimè); spero che questa piccola cosetta soft vi sia piaciuta (qualche gioia per Alphard) ♡

 

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Capitolo 6
*** VI. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

VI.

 

[ giorno 16 — teatro ] 

 

Mia madre Irma mi ha sempre insegnato che abitare la società Purosangue era un po’ come stare su un palcoscenico. Ogni cosa veniva esaminata, ogni atteggiamento scandagliato e giudicato, ogni pensiero autonomo soffocato. C’era solo ciò che era comunemente accettato - e tollerato. Non c’era spazio per l’individualità, e soprattutto, mia madre mi ha sempre fatto capire che l’individualità era una debolezza che non sarebbe stata tollerata. 

 

In quanto secondogenito, ho sempre goduto di particolari libertà. Era come se non valesse neanche la pena tenermi d’occhio. Sia perché mia madre era sempre stata focalizzata su Walburga, e sull’organizzarle un ottimo e utile matrimonio con un qualche cugino Black con il quale portare avanti il cognome e l’eredità di famiglia, e bla bla bla, sia perché non sono mai stato quello che ad una prima impressione si può definire interessante, o brillante. 

 

Per questo motivo, ho transitato su quel palcoscenico quasi da comparsa, ombra fuggente sempre nelle retrovie, a fare da contorno a feste e riunioni più o meno importanti e formali, ad apparire qui e là quando la mia presenza veniva richiesta per poi sgattaiolare via alla prima occasione, fuggendo dagli sguardi indagatori di mia madre - e di mia sorella, poi. C’era sempre un angolo in penombra, su quel palcoscenico affollato e pericoloso, dove trovare rifugio. 

 

E così sono vissuto. Quel palcoscenico non mi ha mai visto protagonista, nemmeno delle mie stesse vicende, che sono riuscito a tenere nascoste. Nessuno ha mai saputo di me e Frederick, a parte Marcus, e poi Morgana, la moglie di Frederick. Nessuno ha mai saputo del mio lavoro al giornale dei Prewett1, dove scrivevo articoli di denuncia sotto pseudonimo. Nessuno ha mai saputo di Lin, poi, e molto probabilmente non lo sapranno neanche dopo che me ne sarò andato da questo mondo - il che potrebbe accadere da un giorno all’altro, viste le mie condizioni attuali. 

 

La mia vita è trascorsa ai margini di un teatro. Ho assaporato l’eleganza, gli sfarzi della società nella quale abitavo, ne ho conosciuto i sotterfugi e i dissapori, le alleanze e gli intrighi, ma non sono mai stato trascinato là fuori, sotto le luci della ribalta, a prendere la mia dose di applausi e biasimi. Posso dire che me la sono scampata, forse. Non mi è mai stato organizzato un matrimonio “di comodo”, non mi sono mai state fatte domande e nessuno è mai venuto a sindacare sul mio stile di vita bohémienne. Nel bene e nel male, sono stato ininfluente, un fantasma che probabilmente nessuno ricorderà, un’altra bruciatura su un arazzo. 

 

La mia vita è trascorsa ai margini di un teatro - ma almeno posso dire di avere vissuto; almeno posso dire di avere amato. 

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE

1. Il giornale dei Prewett è una mia invenzione, comparirà senz'altro più avanti nella raccolta.

Oggi ritorno così. 

Alla prossima,
Marti

ps se volete seguirmi su instagram, mi trovate QUI

 

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Capitolo 7
*** VII. ***


The Sign of the Southern Cross 

 

VII.

 

[ giorno 18 — stelle ]

 

Caro Alphard,

sono seduto di fronte alla finestra della mia stanza, qui a Osborne House1, e non posso fare a meno di pensarti. Sai che qui il cielo è sempre un po’ più blu, e la volta celeste si schiude come uno scrigno pregno di tesori. Tesori preziosi, e luminosi, e pieni di segreti, ma irraggiungibili. A volte lo sei anche tu, irraggiungibile. 

Spesso ti sogno, e talvolta mi ritrovo a tendere una mano verso di te, ma tu non l’afferri mai. Perché non la prendi, Alphard? Penso sia il segno che saremo destinati a rimanere lontani, come due stelle divise da distanze siderali, caldissime ma circondate dal gelo. Sarà forse il nostro destino quello di guardarci da lontano, fissarci negli occhi senza poter fare nulla per accorciare lo spazio che ci fa inabissare in questi vortici di solitudine e tormento?  

Qui il cielo è più blu, e le stelle si vedono meglio. La luna sembra vicinissima, pare quasi che io possa sporgermi fuori dalla mia finestra e toccarla. Non ti preoccupare, non lo farei mai. La tua mente razionale mi direbbe che sono uno sciocco perché dalla luna ci separano trecentottantaquattro mila quattrocento chilometri, ma in fondo, quello che sta attento alle lezioni di Astronomia sei tu, non io - ricordi quando al tuo primo anno mi davi una mano con la lettura delle mappe astrali? anche se eri più indietro di me di tre anni? Sei sempre stato più intelligente, e non faccio alcuna fatica a riconoscerlo. 

Questa lettera ti sembrerà sconclusionata, ma diciamo che l’ho iniziata perché mi manchi. Il prossimo settembre, come sai, inizierò il mio ultimo anno (e tu il tuo quarto), e già sto pensando a quando me ne andrò e ci dovremo separare, non ci vedremo più tutti i giorni, e allora come farò? come faremo? Non dovrei indugiare su questo pensiero già ora, manca un intero anno, ma sai come sono fatto. Rimugino. E rimugino. 

Intanto guardo il cielo e mi chiedo cosa fai, a Grimmauld Place, e con chi sei. Attendo una tua risposta, trepidante, e chiedo alle stelle di te.

 

Sempre tuo,

FN

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE

1. La mia ideale collocazione della dimora storica della famiglia Nott;
QUI.

Il prompt "stelle" non era stato da me inizialmente incluso nella lista dei prompt che avrei utilizzato, diciamo che l'ispirazione mi ha colta di sorpresa. Spero vi sia piaciuta questa lettera a cuore aperto del nostro Frederick. A domani ♡

 

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Capitolo 8
*** VIII. ***


NOTE INIZIALI: non ho aumentato il rating da arancione a rosso, ma se necessario fatemi sapere e lo modifico. Grazie.
 



The Sign of the Southern Cross 

 

VIII.

 

[ giorno 19 — polvere ] 

 

Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. Cosa significa?”

“Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai.”

 

Giro il viso verso Frederick, distogliendo lo sguardo dall’incisione che campeggia nella grande sala dove generazioni e generazioni di Nott hanno fatto la storia della famiglia. 

“Wow. Altro che toujours pur. Siamo principianti, noi.” 

Frederick scoppia a ridere. “È pomposo, lo so. I Nott sono fatti così.”

 

“In generale, prendiamo molto sul serio la storia e le tradizioni, e ciò che viene tramandato di padre in figlio. Siamo Purosangue.” Storgo il naso alle mie stesse parole: mi sembro mia madre.

“Già.”

“Un giorno anche tu amministrerai la famiglia da qui.”

“Oh, non penso. Mio padre non l’ha mai usata, questa sala, ha sempre detto che gli ricordava quel barboso ammuffito di suo padre, e poi era stufo di comportarsi da signorotto medievale.” 

 

Scrollo le spalle. Effettivamente. 

“Effettivamente non ha torto,” gli dico quindi.

“Sul barboso ammuffito?”

È il mio turno di scoppiare a ridere, ora. “No, scemo. Sul signorotto.”

Frederick mi guarda sorridendo. È ancora più bello. I capelli biondi sono illuminati dalla luce del sole che penetra nella sala. Un sole estivo. 

 

“L’anno scorso mi scrivevi poesie d’amore guardando le stelle e un anno dopo siamo qui, insieme.” 

“Non ti scrivevo poesie d’amore,” protesta Frederick assestandomi una pacca sulla spalla. 

Io mi scanso d’istinto. “Sì, invece. Com’è che faceva…? Chiedo alle stelle di te?”

“Non prendermi in giro, Black, non si mette bene per te.”

Alzo un sopracciglio. “È una minaccia, Nott?” D’istinto, comincio a indietreggiare nel momento esatto in cui Frederick fa un passo verso di me.

 

“Ricordati che sei a casa mia, come mio ospite. Posso sempre decidere di tenerti in ostaggio qui per sempre…”

“Be’, nessuno si accorgerebbe che manco da casa, tranquillo. Almeno chiedi un bel riscatto.”

Frederick non la smette di avanzare, e ben presto mi ritrovo con le spalle contro la finestra, e finiamo nascosti dietro uno dei grandi tendoni che adornano la sala, verdi come un po’ tutto lì dentro. I Purosangue sanno essere così banali.

 

“Fregato. Ora come scappi?” Allunga le mani e mi imprigiona tra il suo corpo e la finestra. Sento le mie labbra inclinarsi in un ghigno e il mio stomaco tendersi. La presenza di Frederick, praticamente spalmato addosso a me, mi fa fremere di anticipazione. 

“Forse non voglio scappare?”

“A me sembrava stessi scappando, fino a pochi secondi fa.”

 

“Volevo che mi prendessi. E mi facessi prigioniero. Tienimi qui, Frederick. Tienimi qui per sempre.” Non sono solito dire certe cose ad alta voce, ma ho solo espresso un desiderio che sento da tempo, il desiderio di appartenere a qualcuno, o a qualcosa, di sentirmi voluto, e apprezzato, e amato, soltanto amato. Frederick mi fa sentire tutte queste cose e il pensiero di non averlo più a Hogwarts con me dal prossimo anno mi fa stare male. 

 

Lo vedo sorridermi, e tendere una mano ad accarezzarmi una guancia. Mi sento vulnerabile sotto il suo tocco, ma mai in pericolo. Mi fa sentire a casa anche solo guardandomi, come nessuno potrà fare mai.

“Vorrei. Non sai quanto, Al.”

“Ma non puoi. So anche questo.”

“Posso tenerti con me fino alla fine dell’estate, però. Che ne dici?”

 

Annuisco. Ora sono io che alzo una mano, anzi, entrambe le mani, e le incastro dietro il suo collo, giocherellando con i suoi capelli. Frederick non attende una mia risposta, si limita semplicemente a sporgersi in avanti, e io incontro le sue labbra inclinando la testa, lasciandolo entrare, approfondendo un contatto che ho anelato per tutta la giornata. Ed è naturale afferrare la sua mano e lasciarla scivolare in giù, verso la cintura e oltre il bordo del mio pantalone. 

 

“I domestici potrebbero scoprirci… Vengono spesso qui a togliere la polvere,” ridacchia Frederick toccandomi piano.

“Che ci scoprano,” sussurro al suo orecchio, spingendo i miei fianchi in avanti, contro la sua mano, strusciandomi contro la sua pelle morbida. “È così eccitante…”

 

Frederick non bada ad altro che a me, quindi. Mi accarezza, dapprima lentamente, facendomi gemere piano, e poi sempre più intensamente, il mio viso nascosto nel suo collo per non fare troppo rumore, le sue dita strette intorno al mio pene pulsante e duro. Affondo i denti nella sua pelle quando vengo con fragore e addosso a lui, i pantaloni ormai raccolti intorno ai miei piedi insieme agli indumenti intimi, la camicia raccolta sotto le ascelle. Frederick è rimasto vestito e mi bacia con passione, incurante dello sperma che gli ha macchiato i pantaloni. Si lecca le dita, e io lo guardo pensando che non esista al mondo essere umano più angelico e licenzioso allo stesso tempo. È come se fosse un demone travestito da angelo venuto a farmi perdere il senno e il sonno. 

 

“Sei bellissimo,” mi dice baciandomi ancora, le mani ora a tenermi per i fianchi. 

Tu lo sei,” ribatto. Le mie dita scorrono tra i suoi capelli, non mi stancherei mai. 

“Abbiamo fatto un casino, vero?” chiede subito dopo, staccandosi da me e guardandosi intorno. 

“Non importa, perché ne stiamo per fare un altro,” ridacchio, la mia mano che corre a sud della sua cintura, laddove il suo pene attende attenzioni. 

Frederick mi guarda ghignando. E poi ricominciamo. 

I domestici avranno altro da pulire oltre alla polvere, temo. 

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE: oggi esageriamo XD ho voluto far divertire un po' questi due, dai, se lo meritavano; spero vi sia piaciuto! A domani ♡

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

IX.

 

[ giorno 20 — confessione ] 

 

Cammino a grandi passi fuori dalla porta chiusa. Infilo le mani nelle tasche. Sfilo le mani dalle tasche. Così numerose volte. I miei piedi sembrano quasi voler consumare la moquette scura. Mi passo le dita tra i capelli. Sospiro. Chiudo gli occhi. Penso di andarmene, ma poi cambio idea. Non posso comportarmi da codardo. Semplicemente non posso. E poi è stata una mia decisione. Non posso tirarmi indietro perché poi non riuscirei più a guardare il mio stesso viso nello specchio per la vergogna di considerarmi un vigliacco. 

 

Sospiro un’ultima volta e busso alla porta. Una voce sommessa mi accorda il permesso di entrare, così faccio un passo all’interno della stanza, lasciandomi alle spalle ogni esitazione. Morgana è seduta sul divanetto ai piedi del letto - di quella che sarà la sua camera da letto privata qui a Osborne House, una volta che avrà lasciato alle sue spalle il nome Morgana Greengrass e sarà diventata Morgana Nott. Ingoio un bolo di saliva e malcontento, ma in fondo, sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, il giorno in cui Frederick, l’erede di suo padre e dell’eredità della sua famiglia, avrebbe dovuto sposare una ragazza di buona e antica famiglia Purosangue, e così assicurare un futuro al suo nome.

 

“Alphard?” È sorpresa, Morgana, sorpresa di vedermi lì, già vestito per la cerimonia alla quale purtroppo non ho potuto evitare di venire, dopo che mia madre e mia sorella mi hanno minacciato, mentre Cygnus sedeva svogliato sulla poltrona di mio padre a Grimmauld Place, a togliersi sporco inesistente da sotto le unghie e a biasimarmi con quella sua faccia maligna. 

 

“Scusa se ti disturbo,” inizio. “So che sarai indaffarata con le ultime cose e preparativi…”

Morgana scuote la testa. È molto bella, e i capelli castano chiaro sono già acconciati dietro la nuca, un fiore bianco appuntato dietro l’orecchio sinistro. Non indossa ancora il vestito da sposa, però, ma ha addosso solo una vestaglia di seta bianca. “No, tranquillo. Aspettavo che mi portassero il vestito.”

 

Sembra triste, Morgana. Alphard riflette che l’ha sempre vista così. Loro due non sono amici, e mai lo potranno essere, ma gli dispiace per quella ragazza così vulnerabile, costretta in un matrimonio con un uomo che non ama.

 

“Allora sarà meglio che vada.”

Codardo codardo codardo. 

Faccio per raggiungere la porta ma la voce di Morgana mi ferma. “Alphard, aspetta.”

Mi immobilizzo, e mi volto a guardarla: ora è in piedi, e si torce le lunghe dita. 

“Cosa sei venuto a fare?”

 

“Qui, adesso, o in generale al tuo matrimonio?”

Lei cerca di sorridere. “Qui, adesso.”

“Avevo una cosa da dirti, ma non so se ne sono capace. È pur sempre il giorno del tuo matrimonio, e Frederick non è un uomo facile da amare e-”

“Lo amo, Alphard.”

 

Sollevo le sopracciglia. “Cosa?”

Morgana arrossisce. “Lo amo. Amo Frederick.”

“Quindi…” inizio. Scuoto la testa.

“Quindi non si tratta di un matrimonio di convenienza, almeno non da parte mia. Certo, per mio padre lo è,”aggiunge in fretta. “Sposare un Nott è un grande onore. Unirmi a lui per portare avanti il suo nome è tutto ciò che una ragazza potrebbe mai desiderare nella vita. Ma io lo amo, quindi non faccio alcuna fatica a sposarlo.”

 

Mi passo una mano dietro la nuca. Cazzo.

Cazzo cazzo cazzo.

“Be’, sono felice per te, allora.” 

Non posso. Non posso farlo. Non posso dirle che amo Frederick, e che Frederick mi ama, non ora. Forse non potrò mai più. 

“Ti auguro tutta la felicità del mondo, Morgana.” Le sorrido, e sono sincero: non la odio, come potrei? Sta per sposare un uomo che non la ama e che non ricambia i suoi sentimenti perché quell’uomo ama un’altra persona - ama me.

 

Faccio per andarmene ma lei mi ferma di nuovo. “Alphard.”

“Sì?”

“Lo so che lo ami.”

Trattengo il respiro.

“E so che lui ama te.”

Faccio per parlare, ma Morgana alza un dito come a chiedermi di tacere. “Per favore.”

E non posso mentirle. Non siamo mai stati così vicini, noi due. E così simili. 

 

“Sei venuto qui per dirmelo, vero?”

“Sono venuto qui per confessartelo,” la correggo, ma dolcemente. Scuoto la testa ancora. “Ma sono un egoista. Tutto ciò che volevo era liberarmi di un peso e lasciarlo ricadere sulle tue spalle. Non era giusto. Non è giusto.”

Morgana mi sorride debolmente. “Lo capisco. Ti fa onore, però. Non so in quanti avrebbero fatto la stessa cosa, bussare alla porta della futura sposa per dirle che sono innamorati del suo quasi marito.”

 

“Non so quanto onorevole io sia, Morgana. Non mi merito le tue lodi.”

“Non ti sto lodando. Penso che tu sia coraggioso quanto stupido. Ma è okay. Siamo tutti stupidi quando amiamo una persona, e per la felicità di quella persona faremmo di tutto.”

“Sono pronto a rinunciare a lui, se così facendo potrà essere felice con te.” Ed è vero. Sono disposto a tutto per Frederick. 

Morgana scuote la testa. “Non posso chiedertelo, e nemmeno voglio. Vedo quanto Frederick sia felice con te, Alphard. Lo amo troppo per fargli rinunciare a quella felicità, anche se mi si spezza il cuore nel mentre.”

 

Frederick non si merita affatto Morgana Greengrass, né ora né in tutte le sue future vite. Per quanto lo ami, devo ammetterlo, almeno con me stesso. 

“Se sapevi, perché hai accettato di sposarlo? Avresti potuto avere chiunque…”

“Non avrei mai potuto rifiutare, non lo sai che noi donne non possiamo metterci contro il volere dei nostri padri?”

Penso a mia sorella Walburga, costretta in un matrimonio che non voleva con un uomo, il cugino Orion, che non amava, e che non avrebbe amato mai; e penso a Druella Black, andata in sposa a mio fratello Cygnus, e ai lividi che le ho intravisto addosso l’altro giorno, e che lei si è affrettata a coprire con lo scialle. 

 

“Hai ragione. Sono uno sciocco.”

“Posso chiederti una cosa?”

Annuisco senza rispondere.

“Continua a renderlo felice, per favore. Se puoi. Finché puoi.”

“Morgana…”

“Alphard,” mi interrompe lei a voce alta. 

 

Ci guardiamo. Infine annuisco.

“Lo prometto.”

Morgana mi sorride. Annuisce anche lei e smette di torcersi le mani in grembo. 

“Grazie per aver ascoltato la mia confessione, Alphard Black.”

“Grazie per aver ascoltato la mia.”

 

Ci separiamo così. Io lascio la stanza senza aggiungere altro. 

Morgana e io non avremmo mai più parlato di Frederick. Il nostro tacito accordo era stato firmato. 

 

✩ ✩ ✩
 

NOTE: arrivo e fuggo; questo capitolo mi piace, non chiedetemi perché; spero sia piaciuto anche a voi; a presto ♡

 

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Capitolo 10
*** X. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

X.

 

[ giorno 25 — sangue ] 

 

La notte è silenziosa. Ed è fredda. Mi stringo nel cappotto scuro lungo fino alle ginocchia mentre mi affretto lungo il marciapiede, e il calore del mio respiro si espande in nuvole di fumo nell’aria immobile di fine gennaio. Mi sono Smaterializzato in un vicolo, e casa Prewett dista circa duecento metri. L’asfalto è scivoloso dopo che la neve caduta la notte prima si è trasformata in ghiaccio a ricoprirne la superficie in lastre pallide di argento. L’inverno mi avvolge, è glaciale, ma cela segreti che sempre gli ho affidato, custodisce immagini che ho nascosto nelle sue brume e nelle sue vellutate penombre. L’inverno mi conosce, l’inverno sa

 

È in questa stagione che la mia produzione al giornale ha sempre avuto un maggior impatto, è in questa stagione, ma anche nell’autunno che la precede, che ho scritto i miei articoli di maggior successo. Nessuno sa che lavoro per il PRC (il Prewett Report Chronicle1) da ormai più di quindici anni, e che scrivo sotto pseudonimo da altrettanti. Nessuno sa chi sia l’Algernon Barnes2 che spesse volte ha firmato quelle che sono state definite vere e proprie “irriverenti denunce” dalla Gazzetta del Profeta - e non sempre sotto forma di lusinga. Ignatius e Augustus3 sono sempre stati come dei fratelli maggiori, per me, e includermi nel loro progetto è stato non solo un atto di fede, ma anche di coraggio. 

 

È da sempre noto nella società magica chi siano i fondatori del PRC, i fratelli Prewett non ne hanno mai fatto segreto. Non sono note invece le penne che collaborano al giornale, visti e considerati i temi trattati fra le sue pagine. Non solo ho un doppio gioco da portare avanti, ma non so, e mai saprò, i nomi degli altri collaboratori. Quando capito alla sede del giornale, una casetta bassa quasi ai margini di Diagon Alley, piena di spifferi freddi e con fogli e libri accatastati ovunque, ma sempre fornita di tè e caffè caldi, non vi trovo mai nessun altro, a parte i fratelli Prewett, e qualche volta Lucretia, mia cugina, nonché moglie di Ignatius. 

 

Proprio Lucretia mi ha invitato a cena a casa sua e di Ignatius, stasera, e chi sono io per rifiutare la zuppa di verdure di mia cugina? La casetta non è una reggia, ma è davvero carina. Ha un solo piano e un piccolo giardino che fa tutto il giro intorno, e che Lucretia ha curato personalmente nel corso degli anni. Le pareti sono di mattoni rossi e Ignatius ha sistemato la porta di recente, lasciando che il bianco scrostato lasciasse il posto a una fresca mano di pittura verde. Scosto il cancelletto e percorro il vialetto, per poi bussare e attendere con pazienza, le mani nelle tasche del paltò. Alzo lo sguardo sulla collina, e sul Royal Observatory che mi osserva nella notte. 

 

Infine, è proprio Ignatius ad aprire la porta. Mi sorride. “Eccoti qui. Ciao, Alphard.” Ha sempre avuto un sorriso pieno di calore, Ignatius Prewett. I capelli rossi gli si stanno cominciando a diradare sulla testa, e lo stomaco è un po’ più pieno rispetto a una volta. Ma gli occhi, azzurri e mai freddi, sono sempre gli stessi da che lo conosco. 

“Ciao.”

“Dài, entra, si gela.”

Ricambio il sorriso e varco la soglia. 

 

 

La cena si è conclusa già da un po’. Stiamo fumando tutti e tre, la portafinestra della piccola cucina è aperta sul giardino, e l’aria fredda penetra all’interno per cacciare fuori il fumo. 

“Non ti ho invitato solo per la zuppa di Lucretia,” inizia Ignatius. 

Annuisco. “In qualche modo me lo aspettavo.”

Lucretia si alza da tavola, i bei capelli lunghi e scuri le ricadono dietro la schiena, gli occhi azzurri volano sul mio viso, ne studiano ogni dettaglio, come se volesse imprimerselo nella memoria. Aggrotto le sopracciglia, incuriosito, ma Lucretia scuote la testa. “Vi lascio soli.”

La guardo andare via, bella e silenziosa com’è sempre stata. Lei e Ignatius sono una coppia strana, l’ho sempre pensato, ma in fondo sono una coppia solida. Lucretia non sembra essere corsa nelle ire di Walburga per aver sposato un Prewett, sembra che non sia nemmeno degna della rabbia di mia sorella. Nessuno si è mai interessato a lei, e così si continua a fare a casa Black.

 

“Non avrei mai pensato che un giorno sarei arrivato a dirti quello che sto per dirti, Alphard, ma…” Ignatius sospira, buttando fuori del fumo e poi spegnendo definitivamente la sigaretta nel posacenere posato sul tavolo. “I tempi stanno mutando. E in fretta. Quello che sta facendo Tom Riddle non mi piace, sai che ora si fa chiamare soltanto Lord Voldemort? Come prima faceva soltanto con la sua cricca.” 

Continuo a fumare tranquillamente. “Ne ho sentito parlare, sì.”

“So che la tua vita ha preso una piega molto diversa, negli ultimi anni, e non voglio in nessun modo tirarla in ballo, né ora né mai.”

“Ti ringrazio.” So che sta parlando di Lin. Ignatius e Lucretia, insieme ad Augustus e sua moglie Claire3, sono gli unici che sanno della mia storia con Lin. 

 

“Ultimamente ti sei molto frenato, per così dire. Non sei più l’Alphard di una volta.”

“Tutti perdiamo colpi, vecchio mio,” commento con l’amaro in bocca, e la sigaretta non c’entra. 

“Abbiamo bisogno di sapere da che parte stai.” Aggrotto le sopracciglia, così il mio amico prosegue. “Abbiamo bisogno di sapere a chi sei fedele, e a chi sarai fedele quando e se le cose dovessero mettersi male per tutti noi.”

“Mettersi male? Cosa credi che succederà, una guerra?”

Ignatius non risponde subito, ma distoglie lo sguardo e lo punta fuori, nel cielo freddo di gennaio. Sembra quasi che stia chiedendo una risposta alle stelle. Quando si rigira, il suo volto è freddo quasi quanto l’aria che entra nella stanza. 

 

“La Merlin Society4 si sta muovendo. Silente verrà a fare un intervento, dopodomani. Ha delle notizie interessanti. Augustus vorrebbe saperti dei nostri, ma non possiamo rischiare, mi capisci? Prima dobbiamo sapere da che parte stai.”

Spengo la sigaretta nel posacenere. “Mi stai chiedendo di scegliere, Ignatius?”

“Ti sto chiedendo se sei ancora fedele al tuo sangue, Alphard, perché se così è, allora non posso metterti a parte di certe informazioni. Spero che tu capisca.”

“Quindi tutto quello che ho fatto in questi anni non vale un cazzo, per te. È fumo.”

Ignatius si passa una mano sul viso. “Sapevo che saremmo arrivati qui.”

“Certo che lo sapevi, cosa ti aspettavi? Che sarei stato qui a sentirmi insultare da te con queste richieste del cazzo?”

 

Tu cosa ti aspettavi, invece. Ti siamo riconoscenti per quello che hai fatto per noi e il Chronicle, davvero, e siamo stati pazienti, abbiamo aspettato che capissi. Abbiamo bisogno di sapere cos’hai deciso, però. Ora.” 

Ti siamo riconoscenti,” ripeto, quasi tra me e me. Scuoto la testa. “Sono quasi vent’anni di doppio gioco, Ignatius, te ne rendi conto? Venti fottuti anni in cui rischio la vita per scrivere i vostri cazzo di articoli di denuncia, venti fottuti anni dove tradisco la mia famiglia per voi.”

“Tu non fai nulla per noi.” Ignatius si alza impetuosamente da tavola, facendo cadere la sedia. Lucretia accorre dall’altra stanza, ma si ferma sulla porta, silenziosa, gli occhi spalancati. “Non hai mai fatto un cazzo per noi, Alphard Black, ma per il mondo là fuori,” e con la mano indica la notte fuori dalla finestra. “L’hai fatto per i nostri figli, e per la loro eredità, e per tutti coloro che non possono difendersi da soli. Non hai fatto un cazzo per noi. Ricordatelo.”

 

Lo fisso da dove sono seduto. Ci guardiamo a lungo. Lucretia ci guarda a sua volta dalla porta. 

Tu dici che rischi la vita?” riprende l’altro, più calmo, ma di una calma terribile e glaciale. Come l’inverno. Ora i suoi occhi, mai freddi, sono freddissimi. “Scrivi sotto pseudonimo. Algernon Barnes. Nessuno verrà mai a cercare Alphard Black, ma sai chi verranno a cercare? Ignatius e Augustus. Augustus ha tre figli3.” 

Inghiotto un bolo di saliva. È amara come il fiele. “Io ho Lin.”

“Lo so. Lo so e mi dispiace, ma proprio in nome di quell’amore, devi decidere chi sei. Sei l’Alphard Black che tutti si aspettano? Docile, silenzioso, un perfetto damerino che fa da tappezzeria, o l’Alphard Black che io conosco? Coraggioso, vorace, leale.” 

 

Distolgo lo sguardo. Quello che gli occhi di Ignatius mi stanno dicendo mi fa paura. Le mani mi tremano. 

“Il sangue non è mai ininfluente. Ha un peso. Porta con sé dei diritti ma anche dei doveri. E ho paura che un giorno il peso dei doveri verso il sangue dei Black diventi troppo pesante per te da portare. E non posso permettermi che quel giorno tu possa metterci in pericolo.” 

Mi alzo in piedi, sospirando. Ultimamente mi sento debole come niente, senza fiato, ma questo lo imputo alle sigarette che dovrei smettere di fumare ma alle quali non posso rinunciare. Ho solo trentanove anni ma me ne sento sessantanove. 

“Non posso voltare le spalle a chi sono, Ignatius,” rispondo infine. “Essere un Black mi definisce, nel bene e nel male, e non posso dimenticare da dove vengo, chi mi ha creato e cresciuto. Mi porterò dietro questa maledizione per sempre, forse, ma è il giusto prezzo da pagare, e qualcuno dovrà pur saldarlo, no?”

 

Ignatius mi guarda tristemente, le mani lungo i fianchi, sconfitto. Non l’ho mai visto così. 

“C’è ancora qualcosa in quella famiglia per la quale valga la pena lottare. Non posso andarmene e voltare le spalle a quel qualcosa o lo rimpiangerei per sempre.”

Faccio il giro del tavolo e allungo la mano destra verso il mio amico. 

“Alphard…” comincia lui.

Io scuoto la testa. “Salutami Augustus. E i ragazzi.”

Ignatius annuisce solo, stringendomi la mano un’ultima volta. 

Gli do le spalle e faccio per uscire, e mi ricordo di Lucretia, che mi sbarra la via. 

 

Le guance di mia cugina sono rigate di lacrime silenziose.

“Lu, per favore,” comincio.

Lei scuote la testa. “Non andare.”

“Non posso rimanere.”

“Sì che puoi.”

“E a che prezzo? Sirius ha bisogno di me.”

Lei annuisce, singhiozza piano. Allungo una mano e, con il pollice, le asciugo qualche lacrima. 

 

“Il sangue è la nostra maledizione,” sussurra.

“Non la tua.” Lucretia alza i grandi occhi azzurri su di me. “Non la tua, cugina.”

Le accarezzo un’ultima volta la guancia e poi la sposto dolcemente, lasciando quindi la cucina. Percorro un’ultima volta lo stretto corridoio e, con un’altra occhiata dietro di me, mi richiudo la porta d’ingresso alle spalle. Ripercorro il vialetto e supero il cancelletto. Il Royal Observatory è sempre lassù. Mi mancherà salutarlo, di tanto in tanto. Greenwich5 scorre placida intorno a me mentre cammino, diretto verso casa. Mai come quella sera sento il sangue avvelenarmi lento.

 

    ✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. PRC (Prewett Report Chronicle): ovviamente è di mia invenzione e rientra nel mio personale headcanon riguardante i Prewett - e Alphard

2. Algernon Barnes: nome di mia invenzione, come scrivo nel testo, è lo pseudonimo che utilizza Alphard per firmare i suoi articoli per il Chronicle

3. Augustus Prewett è il nome che io ho dato al fratello di Ignatius, padre di Molly, Fabian e Gideon, che nel canon non ha nome, così come la moglie, sempre rinominata da me, Claire MacLean

4. La Merlin Society è di mia invenzione, e nasce come primo abbozzo dell’Ordine della Fenice; l’ho nominata qui, se siete curiosi

5. Greenwich è dove ho idealmente collocato casa di Ignatius e Lucretia; fa sempre parte del mio headcanon

 

Ho amato particolarmente scrivere questo capitolo, questa parte di headcanon su Alphard aspettava di vedere la luce da /anni/, e non scherzo. Spero vi sia piaciuto, fatemi sapere ♡

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Capitolo 11
*** XI. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

XI.

 

[ giorno 26 — fratello ]

 

Non posso dire di aver mai conosciuto davvero Cygnus. Mio fratello. 

 

Fin da quando eravamo piccoli, il rapporto che legava me e Walburga non lo aveva mai incluso. Cygnus era solo il nostro fratellino più piccolo, un po’ moccioso, silenzioso e fastidioso. Voleva rubare i nostri giocattoli, e noi a volte glieli lasciavamo quando proprio ci stufavamo di loro, e lui credeva di essersene finalmente appropriato e li nascondeva da qualche parte, geloso, mentre noi lo spiavamo da dietro le tende. Eravamo cattivi, forse. Senza saperlo, e come solo i bambini sanno essere. Lo capisco solo ora. 

 

Più avanti, Cygnus si è inserito nel giro di Purosangue quasi senza sforzo o impegno, com’era giusto e naturale per un rampollo dell’alta società magica - e pura. Essendo l’ultimogenito, aveva sempre goduto di particolari libertà, anche se totalmente diverse da quelle che godevo io. Io non avevo ricevuto attenzioni dai miei genitori, che forse avevano visto in me la pecora nera, o l’anello debole della catena, fin da subito; Cygnus invece, pur essendo libero, viveva sotto l’occhio attento di nostra madre e nostro padre, che facevano attenzione che non scivolasse mai sulle bucce di banana che lui stesso lasciava cadere alle sue spalle, errori grossolani che era solito commettere, parole di troppo che gli strisciavano fuori dalle labbra come serpenti velenosi.

 

Sposando Druella Rosier, speravano che il glaciale Cygnus che faceva qualche stupidaggine di troppo si acquietasse nelle comodità del matrimonio e nella quotidianità della vita domestica, ma ovviamente così non era stato. Nessuno poteva dire cosa succedesse dietro le porte chiuse di quell’unione, ma tutti vedevano i lividi che Druella copriva con i suoi scialli o le sciarpe, e le mani che le tremavano sempre, e non per il freddo, e gli occhi dardeggianti paura quando suo marito le si avvicinava o le rivolgeva la parola. Tutti vedevano, e tutti sapevano, ma nessuno faceva nulla. Nessuno poteva. Le consuetudini erano dure a morire e la sacralità del matrimonio era scevro da ogni influsso o ingerenza. “Non mettere il naso in cose che non ti riguardano”. Mi includo nella lista dei colpevoli, o almeno così li definisco. 

 

Cygnus era sempre stato illeggibile, persino per noi che ne condividiamo il sangue. Erano ben poche le emozioni che trasparivano dal suo volto affilato e severo, e che colavano fuori da quegli occhi che erano come due pozze di acqua gelata nel bel mezzo dell’inverno più freddo di sempre. Solo una volta vi ho letto qualcosa di diverso, qualcosa che assomigliava alla devozione, all’incanto, qualcosa che assomigliava all’amore. 

 

⭐︎

 

Narcissa Black nasce in un giorno di primavera. E non può che essere così. Le donne sono tutte raccolte intorno a Druella, nella sua stanza al piano di sopra della loro casa nel Buckinghamshire1. Non la si sente nemmeno urlare o lamentarsi dove noi uomini siamo riuniti, al piano terra, nel salotto-studio dove Cygnus è solito accogliere gli amici dopo cena, per un sigaro e un bicchiere di Firewhisky e le solite chiacchiere sulla politica e il sesso, due tra gli argomenti più gettonati. La stanza è impregnata del fumo delle sigarette che vengono fumate una dopo l’altra, vizio nel quale tendo a indugiare io stesso, ahimè. Durante quelle riunioni, passo la maggior parte del mio tempo accanto alla finestra, a fissare il cielo o il giardino, o qualsiasi tipo di panorama si schiuda là fuori, evitando alcune persone in particolare e parlando solo con chi mi garba, cioè molto pochi. Oggi, non riesco a guardare negli occhi Abraxas al pensiero dell’articolo che sta per uscire sul Prewett Report Chronicle e che lo riguarda indirettamente. Abraxas si è sempre comportato bene con me, mi ha spesso invitato a cena a casa sua e di sua moglie Diana2 nel Wiltshire, ed è uno dei pochi che non ha mai commentato le mie abitudini di vita. 

 

Veniamo tutti riscossi quando uno degli elfi domestici di Cygnus lo viene a chiamare, annunciando che la bambina è nata. “Un’altra femmina”, commenta qualcuno, non so chi. Si erano ovviamente aperte le scommesse sul sesso del nascituro. Sapevo tramite Frederick, al quale lo aveva detto la moglie Morgana, che Druella aveva “predetto” che sarebbe nata una femmina, “bionda come l’alba”, ma tutti gli uomini qui, all’oscuro della profezia di Druella, non avevano fatto altro che spronare Cygnus, rassicurandolo che questa volta sarebbe nato un “maschio tutto per lui”. Devo dire che mio fratello non aveva risposto loro con alcuna convinzione, forse perché sapeva che quando sua moglie “vedeva” qualcosa, allora quel qualcosa si sarebbe verificato3

 

Saliamo tutti al piano di sopra facendo un casino pazzesco. Sento Frederick prendermi per mano nel caos, e il suo tocco è caldo. Gli sorrido brevemente. Tante cose sono cambiate tra noi, e sento che altre cambieranno a breve. Forse il nostro tempo è davvero finito, ma non tutti e due ne siamo ancora consapevoli. Non posso pensare a Frederick, adesso, però. Sono tra i primi che segue Cygnus all’interno della camera da letto. Le finestre sono aperte sul pomeriggio mite di maggio e l’aria satura di sudore è spezzata dalla brezza lieve che muove le tende. Druella è stesa nel letto, le lenzuola tirate sul suo corpo esile. È pallida, ma la neonata che stringe tra le braccia è rosa, è tutta rosa. Sulla testa, solo qualche filo di capelli color paglia, chiari, chiarissimi. Gli occhi sono stretti, così come i piccoli pugni. Cygnus si avvicina al letto in punta di piedi ma non è Druella che guarda, non la guarda mai. I suoi occhi sono rivolti alla figlia. 

 

Druella lascia che lui la prenda, sospirando. Poi gira il viso in modo da darci parzialmente la schiena, una mano sugli occhi. Sono abbastanza vicino da vedere le prime lacrime solcarle le guance emaciate. La guaritrice che l’ha aiutata a partorire fa sgombrare la stanza, e rimaniamo in pochi, i parenti più stretti: io, Walburga e Orion, e i fratelli maggiori di Druella, i gemelli Damien e Daphne Rosier4. Antonin Dolohov, il marito di quest’ultima, le rimane accanto, mentre Medea Greengrass4, la moglie di Damien, lascia la stanza sotto lo sguardo irritato del marito. Rimaniamo lì a guardare Cygnus tenere in braccio la neonata come se stesse accudendo qualcosa di troppo prezioso da condividere. Ed è qui, in questo momento, che la maschera di mio fratello crolla, per la prima e ultima volta nella sua vita. 

 

Bellatrix, che ha ormai quattro anni, è nata per essere una guerriera, primogenita che si farà strada con i denti e con le unghie in un mondo di uomini, autonoma, indipendente, seria. Andromeda, che di anni ne ha solo due, è invece l’immagine di Druella, si potrebbe benissimo sovrapporle e sembrerebbero la stessa persona, ed è una dolce bambina bisognosa di coccole e premure, sempre pronta a caracollare dietro alla sorella grande. Le due sorelle maggiori si assomigliano molto, se non nell’indole, nell’aspetto. La nuova nata invece è diametralmente opposta ad entrambe ed è chiaro fin sa subito che è di Cygnus, che Cygnus l’ha riconosciuta come sua, non solo sua figlia, frutto della sua unione con Druella, ma sua, sua in un modo in cui Bellatrix e Andromeda non saranno mai. 

 

Le accarezza la testina delicata, indugia su una delle piccole mani strette a pugno. Le labbra della bimba sono due boccioli di rosa, proprio come le rose che fioriscono nel mese in cui è nata. E si capisce che sarà destinata ad essere il fiore di questa casa, un fiore delicato da accudire, e far crescere protetto, e amato. Sarà viziata e coccolata più delle altre due. “Narcissa,” mormora Cygnus, rapito. I suoi occhi contengono amore, non so quale tipo di amore, non ancora, e non posso esserne sicuro, con mio fratello, ma forse quella bambina è riuscita laddove nessun altro ha saputo fare finora. Ha penetrato la corazza. Ha trovato il cuore di Cygnus e lo sta stringendo tra le sue piccole dita. 

 

“Un’altra femmina, Cygnus.” Damien Rosier rompe per un attimo la magia. “Ancora niente maschio. Che disdetta, eh?” 

Cygnus gli lancia un’occhiata di fuoco, e Damien richiude la bocca, scegliendo la via del silenzio. 

“La signora non potrà più avere figli, signor Black,” la guaritrice gli sussurra, ma io sento tutto. “Già con la piccola Andromeda è stato un parto difficile, e non avrebbe più dovuto averne. Questa volta ha rischiato molto, e per questo ha bisogno di riposo. Fin da ora.”

 

Non so quanto Cygnus abbia compreso. Si limita ad annuire e io mi scambio un’occhiata con Walburga, la prima di quella sera. È una conversazione silenziosa, la nostra, anche se non sappiamo cosa dirci, e torniamo indietro nel tempo a quando invece sapevamo esattamente cosa dirci, ogni volta, mentre spiavamo Cygnus da dietro le tende e ridevamo sottovoce. 

Mi avvicino a mio fratello, mosso da non so quale forza, e senza sapere nemmeno io perché. Gli appoggio una mano sulla spalla, sono l’unico che ha il coraggio di toccarlo. 

 

“Congratulazioni, fratello,” inizio. “È bellissima.”

“Un giorno forse capirai,” risponde Cygnus senza guardarmi. “Quando diventerai padre.” 

Non gli dico che quasi sicuramente non diventerò mai padre, perché amo un uomo, e soprattutto perché non voglio che questo nome abbia un futuro, almeno non da parte mia. Il cognome Black potrebbe anche marcire all’inferno, per quanto mi riguarda. Non c’è nulla per cui valga la pena lottare, in questa famiglia5.

 

Mio fratello alza il viso su di me, un viso che è tornato la maschera di sempre, per cui scosto la mano, quasi come se rischiassi di bruciarmi. 

“La signora deve riposare, per favore,” insiste la guaritrice. È molto coraggiosa, devo ammetterlo. 

Usciamo tutti, e Cygnus si porta via la piccola. Druella non protesta, continua a darci le spalle, e forse si è addormentata, non lo so. È così gracile e indifesa in quel letto enorme. Narcissa continua a bearsi tra le braccia di suo padre e Cygnus la porta in giro come se fosse un trofeo. 

 

“Era un barlume di sentimento, quello che gli si leggeva in viso?” La voce di Walburga mi riscuote. Sta scendendo le scale accanto a me, siamo gli ultimi del piccolo corteo. Vedo Daphne Rosier accarezzare il viso della bambina con dolcezza. Rifletto sul fatto che sua figlia Cassandra4 ha la stessa età di Andromeda e che probabilmente andranno a Hogwarts insieme. Non so perché indugio su un pensiero così sciocco, è normale avere figli nello stesso periodo, nella nostra cerchia. 

“Può essere,” commento quindi sospirando, le mani in tasca. 

“Quando ti deciderai a sposarti? La mamma mi ha chiesto di te l’altro giorno.”

“Cosa le hai detto?”

“Che probabilmente continui a scopare uomini qui e là come sempre. Niente di nuovo.”

 

Sto per scoppiare a ridere, ma non voglio darle questa soddisfazione. Il fatto che mia sorella sappia ancora farmi ridere mi fa sorridere e rattristare allo stesso tempo. 

“Sembrava un teschio, con quel sorriso inquietante in viso. Sai di chi parlo.” 

“Già,” convengo. “Dagli tregua, però. È nata sua figlia.”

“Gli do tregua da venticinque anni.”

Non è esattamente vero, ma non ho voglia di litigare con lei, ora.

 

“Qualsiasi cosa tu faccia, a me sta bene. Non mi importa chi ti porti a letto,” chiarisce Walburga. “Uomini o donne che siano non fa differenza, non per me. Ma lava i tuoi panni sporchi dentro casa tua, fratello. Questa famiglia ha una reputazione.” 

Digrigno i denti. “Non preoccuparti. Non macchierò il tuo nome, sorellina.” 

“Lo sanno tutti, Alphard.” Mi ferma arpionandomi un gomito. 

“Cosa?” Ma so già cosa

“Di te e di Frederick. Vuoi diventare lo zimbello dell’alta società?” 

“Non mi importa dei pettegolezzi.”

“Ma a Frederick sì. E anche a sua moglie.”

 

Come posso dirle che Morgana sa tutto? E che le sta bene?

“Cosa succede qui?” È Cygnus a interromperci. Ha ancora Narcissa tra le braccia, ma è solo. Siamo soli. Noi tre. Nel bel mezzo del corridoio. Come non accadeva da anni. 

“Davo solo dei consigli al nostro caro Alphy.”

“Non chiamarmi Alphy.”

Cygnus si avvicina, silenzioso. Ci guarda entrambi. Ogni traccia di quel sentimento è sparito dai suoi occhi. “È nata mia figlia, oggi. Azzardatevi a tirare su una scenata e vi maledico. E non scherzo.” 

So che non scherza. Cygnus non scherza mai. Ci volta le spalle per allontanarsi, ma Walburga non sembra contenta. “Non sei più il bambino che ci rubava i giocattoli, eh, fratellino?”

Lo vedo immobilizzarsi, ma senza voltarsi.

“Se lo sappiamo?” continua lei. “Certo che lo sappiamo. Ti guardavamo da dietro le tende. Ridevamo di te.”

 

La guardo, e non capisco perché improvvisamente senta il bisogno di istigarlo e provocarlo, ma mia sorella è fatta così. È cattiva. Lo è sempre stata.

“Lo so che lo sapete,” risponde quindi Cygnus. “Sapevo che mi ridevate dietro, e vi facevate beffe di me di nascosto. L’ho sempre saputo.”

Rimaniamo entrambi zitti, anche Walburga. Forse per la prima volta nella sua vita non ha niente da ribattere. 

Quanto a me, mi sento un omuncolo. È una strana sensazione, se provata nei confronti di Cygnus. Mio fratello non ci aspetta, ci lancia solo un’occhiata da dietro la spalla e poi sparisce in salotto. 

 

E noi rimaniamo lì mentre il resto dei nostri amici e conoscenti e parenti lo festeggia a gran voce. Si sente un tintinnio di bicchieri. 

“Penso che me ne andrò a casa,” dico solo. 

“Anche io,” sospira Walburga. 

 

    ⭐︎ ⭐︎ ⭐︎ 

 

NOTE

1. Il Buckinghamshire è dove ho idealmente collocato casa di Cygnus e Druella

2. Diana Adams è un personaggio di mia invenzione, moglie di Abraxas

3. Il dettaglio riguardante la Vista di Druella fa parte del mio headcanon; se volete leggere qualcosa riguardante la mia Druella, vi lascio qui alcuni capitoli della mia raccolta “in the name of the Black” a lei dedicati: capitolo III / capitolo VIII (qui scrivo del suo rapporto con Cygnus, ma vi segnalo la presenza di tematiche delicate)

4. Damien e Daphne Rosier sono personaggi di mia invenzione, così come Medea Greengrass (sorella di Morgana e Marcus, rispettivamente la moglie di Frederick Nott e un amico di Alphard) e Cassandra Dolohov (figlia di Daphne Rosier e Antonin Dolohov); ho scritto dei Rosier qui e qui

5. qui ho giocato con la contrapposizione con l’Alphard dello scorso capitolo, che dice che qualcosa per cui lottare c’è ancora, nella sua famiglia, e quel qualcosa è incarnato nella figura del nipote Sirius, che ha bisogno di lui, e proprio per questo non può voltare le spalle a chi è; qui, le vicende precedono quelle dello scorso capitolo, e troviamo un Alphard più tenace, un Alphard pronto a mandare tutto al diavolo pur di rovinare il nome dei Black e vederli marcire

 

Che dire, avevate chiesto qualcosa su Cygnus, ed eccolo qui. Fatemi sapere i vostri pensieri ♡ mancano pochi capitoli alla fine del Writober — e di questa raccolta. A presto!

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Capitolo 12
*** XII. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

XII.

 

[ giorno 28 — penombra ] 

 

Ci vediamo in segreto. Ci amiamo nell’ombra di stanze allacciate, appartate, le imposte socchiuse. Ci incontriamo quando cala la sera ché quando è buio sembra tutto più facile. Beviamo qualcosa, le nostre risate si espandono lungo il corridoio, prendono forma rimbalzando contro le pareti, grottesche manifestazioni di una stretta conoscenza. E quando il tempo dei liquori è finito, ci incamminiamo in silenzio, saliamo le scale senza dire niente, la moquette scricchiola sotto i nostri piedi, la porta della camera da letto è già semiaperta. È come se attendesse - i nostri piedi veloci, le mani rapide che tolgono e danno, i corpi nudi, i vestiti sparsi, i gemiti trattenuti, la luce d'una candela a spargere ombre e disegnare arabeschi sulle nostre pelli ansanti. Intorno a noi, la penombra ci culla, la penombra ci protegge. È nostra testimone silenziosa. E, quando tutto finisce, la luce riprende a montare man mano che scendiamo, la moquette sempre scricchiolante sotto i nostri passi. Morgana siede immobile sul divano, un sorriso teso sulle labbra esangui. C’è solo luce, in quel salotto, ma dentro i suoi occhi ogni bagliore muore. Ed è di nuovo penombra. 

 

    ⭐︎ ⭐︎ ⭐︎ 
 

NOTE

Oggi arrivo di corsa, ma non potevo perdermi questo prompt che urlava Alphard/Frederick a gran voce ♡

 

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Capitolo 13
*** XIII. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

XIII.

 

[ giorno 29 — seta ]

 

È quando Lin mi porta in Cina che le dico la verità. Tutta la verità su di me. 

 

Viaggiamo alla Babbana, e viaggiamo lungamente. Mi stanco solo un po’, ma non mi lamento mai. Attraversiamo terre e lande, i giorni scorrono lenti ma mai uguali l’uno all’altro. Lin sa molte cose, e com’è giusto ne sa ancora di più quando si parla del suo paese, quella terra lontana che non ha mai veramente vissuto e assaporato, perché a cinque anni abitava già a Londra con i genitori, che avevano lasciato la Cina per cercare fortuna altrove. Nonostante torni in Cina solo una volta l’anno, due se è fortunata, per visitare la famiglia paterna nella provincia dello Shaanxi, sembra che abbia abitato lì da sempre. E quando parla della sua patria gli occhi le diventano lucidi, e allora le prendo la mano e le chiedo di fermarsi, ma lei scuote sempre la testa, e insiste per proseguire. Le serve per esorcizzare la sua mancanza, dice. 

 

La casa paterna è abbarbicata lungo il fiume Wei, a poca distanza da altre case sempre in legno, a due piani, con un giardinetto modestamente curato sul davanti. Il fiume li ha cullati per anni. Dalle finestre tenute aperte si sente il suo scorrere placido durante le notti serene, insieme alle lucciole che brillano come stelle. La famiglia di Lin arriva da una tradizione secolare di coltivazione di alberi di gelso e, in tempi più o meno remoti, i suoi avi avevano fatto fortuna con la produzione della seta e il suo relativo commercio. Le tradizioni si sono perse nel tempo, però. Una volta morti i bisnonni di Lin, nessun altro ha più continuato l’attività di famiglia. Il padre di Lin, quarto di sei figli, e quarto maschio, ha convogliato i suoi sforzi altrove e quando, in giovane età, ha conosciuto la madre di Lin, i due hanno deciso di seguire lo zio di Lin a Londra, e tentare la fortuna aprendo un piccolo ristorante. Tutto il resto è cronaca recente. 

 

Siamo nel giardino, sotto gli alberi di gelso, circondati dal loro profumo, quando le dico la verità. Le dico ogni cosa, tenendole le mani mentre sediamo tra l’erba e il sole non è ancora caldissimo sulle nostre teste. È quasi mistico che le grandi verità tra noi abbiano sempre come testimone qualche pianta o fiore importante per Lin: il glicine prima, e il gelso ora. È un po’ come quando ricomponi un puzzle fitto e intricato e finalmente ne puoi vedere il disegno. Lin mi guarda sorridendo, con quel suo bel sorriso che amo. Le sue mani sono piccole e calde. 

 

“Non dici nulla? Pensi che sia pazzo?”

Scuote la testa. “No, affatto.”

“E quindi? Capisco se vuoi finirla qui. Lo capisco perfettamente. Certo,” aggiungo in fretta tirando sù col naso, “sarà difficile, per me, ma sono pronto ad accettare qualsiasi tua decisione, Lin, io—”

Mi zittisce allungando un dito e poggiandolo sulle mie labbra. Continua a sorridermi.

“Lo sapevo già.”

 

Spalanco gli occhi, stupito. Lei annuisce, muovendo la sua bella testa dai capelli scuri e lisci - come seta. “Credevi che non avessi capito? Pensavi forse di potermi tenere nascosto qualcosa, Alphard Black? Ti conosco meglio di quanto conosca me stessa.”

Deglutisco e scuoto la testa, incredulo. “E ti sta bene? Cioè, non pensi che sia uno un po’ strano, magari da tenere a distanza?”

Lin mi sorride. Slaccia una delle sue mani solo per posarla sulla mia guancia, leggera. Con le dita traccia il contorno del mio zigomo, si ferma a solcare le rughe che già mi si sono disegnate sotto gli occhi, scende sulla mascella e lì si ferma.

 

“Ti amo, Alphard. Nulla di ciò che mi hai detto ha cambiato quello che provo per te, e nulla di ciò che mi dirai cambierà mai ciò che sente il mio cuore.”

Sospiro. Lin ha usato il futuro. Sa che c’è ancora qualcosa che non le ho detto, qualcosa che il mio cuore ancora ha taciuto. Frederick - e ciò che c’è stato, ciò che abbiamo vissuto insieme, e ciò che abbiamo distrutto. “Sei un essere umano straordinario, Lin.”

 

“Ti ho portato qui, in uno dei luoghi del mio cuore, a conoscere il resto della mia famiglia, a conoscere la mia terra. Dovessi andarmene prima di te, promettimi che mi seppellirai qui, in questa terra, nella mia Cina.”

“Smettila. Sarai tu a seppellire me. Fidati.”

“Dove vuoi essere sepolto?”

Penso che sia una strana conversazione, soprattutto in una giornata come questa, con il sole che piano piano cominci a riscaldarci. 

“Dove sei tu. Dove sarai anche tu, un giorno. Non voglio separarmi da te.” 

“Neanche nella morte?”

“Soprattutto nella morte.”

 

Lin si avvicina, e io la lascio infilarsi in mezzo alle mie gambe, la lascio cercare un rifugio sul mio petto, la bella testa poggiata dove mi batte il cuore. E sta battendo fortissimo, questo cuore.

“Una volta, tantissimo tempo fa, queste terre facevano parte della via della seta,” inizia lei giocherellando con la manica del mio maglione. “Si allevavano bachi da seta e si piantavano gelsi, nutrimento dei bachi. Durante il periodo di coltura degli alberi, ci si amava liberamente, a prescindere dai matrimoni che erano stati combinati e dalle unioni che erano state consumate. Non era ammissibile incontrarsi e unirsi fuori dal matrimonio. Tranne che in quei giorni.”

 

“Perché me lo stai raccontando?”

“Non lo so. Pensavo che noi saremmo stati come quegli amanti, fossimo vissuti secoli fa. Molto probabilmente la nostra unione non sarebbe stata accettata, e neanche ben vista: un uomo bianco che pretende di sposare una donna asiatica. No, i miei genitori non avrebbero mai approvato, a meno che l’uomo bianco non fosse stato molto facoltoso, tanto da portare la sua futura moglie in Europa, a vivere una vita agiata e lussuosa.”

“Stai dicendo che non sono un buon partito?” esclamo ridendo.

Anche Lin ride. Ha una risata bellissima. “Scemo.”

“Be’, effettivamente non lo sono. La mia casa di Paddington è un buco.”

 

“A me piace. Ci stiamo bene.”

“Sai che non voglio toccare i soldi della mia famiglia...”

“Alphard,” comincia lei con tono d’ammonizione. “Ne abbiamo già parlato. E sì, lo so. E no, non mi importa dei soldi. D’accordo?”

“D’accordo,” mi arrendo. Le mie dita le sfiorano la sommità della testa, scendono lungo i suoi capelli. 

“Mi piace pensare che ci saremmo amati di nascosto, con il favore della penombra.”

 

Deglutisco. “Ho già amato una persona nel buio, Lin. Tanto tempo fa.” Sospiro. “Voglio cercare di amarti nella luce, più che posso, il più a lungo possibile.”

Lei alza la testa, e il viso, e mi guarda negli occhi. Leggo una tristezza senza tempo al fondo di quegli occhi caldi. “Povero cuore,” sussurra, le dita di nuovo sulla mia guancia. “Puoi amarmi nella luce quanto vuoi. Non c’è nulla di tenebroso in noi, nulla che viva nel favore dell’ombra.”

“Sì,” rispondo. “我爱你, Lin.”

Lin riappoggia la testa sul mio petto. “Ti amo anch’io, Alphard.”

 

Intorno a noi, l’aurora si apre nel cielo a oriente. Non fa più male, ora, vederla. Non da quando c’è Lin, con me. Intorno a noi, i gelsi ondeggiano piano. 

 

⭐︎ ⭐︎ ⭐︎ 

 

NOTE: tutte le informazioni citate riguardanti la via della seta e facenti parte del racconto di Lin le ho trovate qui. Grazie a tutti quelli che continuano a leggere questa raccolta ♡ se volete potete seguirmi su instagram, qui il collegamento. A domani!

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Capitolo 14
*** XIV. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

XIV.

 

[ giorno 30 — giuramento ] 

 

“Mi dispiace.”

 

Tra noi il silenzio non è mai stato più carico di sottintesi. Anzi, no. Questa volta non sono sottintesi, ma realtà. È tutto così reale che l’eco delle mie ultime parole ancora vibra intorno alla stanza, ripercuotendosi sulle pareti come un suono di campane a lutto. È finita, gli ho detto. Non posso più andare avanti così. Non possiamo. Hai una moglie, e tutte le volte tua moglie ci aspetta di sotto, e ha la disperazione dipinta sul volto, una disperazione di cui non posso più farmi carico, di cui non posso più incolparmi. 

 

“Mi dispiace, Frederick.”

“Smetti di dirlo.”

Inghiottisco un bolo di saliva. Mi alzo dal materasso sul quale ero disteso, mi puntello sui gomiti e mi volto a guardare l’uomo coricato accanto a me. Siamo ancora nudi, e sudati. Il corpo di Frederick è bellissimo, la pelle chiara, le lentiggini sul viso e sul petto e sulle cosce, i capelli biondi spettinati, un rivolo di sudore che gli scivola sullo stomaco, e più giù. Vorrei chinarmi e leccarlo via, ma non posso. Ormai non posso più, non dopo ciò che gli ho detto.

 

“Vuoi dirmi che questa è stata l’ultima volta tra noi e io neanche lo sapevo?”

“È tutto ciò che sai dirmi?”

“È tutto ciò a cui riesco a pensare ora. Scusa se sono sconvolto.”

“Tu non ti sconvolgi mai.”

“C’è sempre una prima volta.”

 

Distolgo lo sguardo ché se continuo a guardarlo faccio la cazzata di baciarlo, e poi tra noi ricomincerà tutto da capo, e vaffanculo buoni propositi. Ma devo farlo. Devo finirla qui. Ripenso a tutte le notti passate a macerarmi nel mio letto, in preda ai sensi di colpa, il viso di Morgana impresso dietro le mie palpebre e quel “buonanotte, Alphard” sussurrato sulla porta. Non ce la faccio. Non ce la faccio e basta. Mi alzo dal letto per cercare i miei vestiti. Ho bisogno di rivestirmi e andarmene. Per l’ultima volta. 

 

Sento Frederick osservarmi dal letto. Non sembra avere alcuna intenzione di rivestirsi. Mi fa solo stare peggio, e penso che forse è proprio ciò che vuole. Una volta vestito, lo guardo. Sono quasi costretto. 

“Te ne vai così. Non mi lasci nemmeno dire la mia.”

Scrollo le spalle. “Certo che puoi dire la tua, ma non riuscirai a farmi cambiare idea.”

“Lo fai solo per Morgana, hai detto.”

“Mi sento in colpa, Frederick. Non ci dormo la notte.”

 

Lui annuisce. “Morgana sa. Ha sempre saputo. E ci ha dato la sua benedizione, mi sembra.”

“È diverso. Non c’entra nulla la benedizione di tua moglie. C’entra come mi fa sentire tutto quanto. E non voglio più sentirmi così.”

“Glielo avevi promesso.”

“Come lo sai?”

“Me l’ha detto. Nessun segreto tra moglie e marito.” 

Mi viene da ridere, ma mi trattengo. Se solo Morgana sapesse tutto di suo marito…

 

“Sono costretto a venire meno al mio giuramento, allora.”

“Sei un codardo.”

Incasso il colpo. Deglutisco e spalanco le braccia. “Fai pure. Colpiscimi. Me lo merito.”

“Non fare il martire perché è tutto ciò che non sei e non sarai mai, Alphard.” Finalmente si alza e indossa almeno i pantaloni. Recupera le sigarette e ne accende una, fumando davanti alla finestra. Fuori è ovviamente buio. È sera, come tutte le volte in cui ci vediamo. L’ombra striscia dentro la stanza - e dentro di noi. 

 

“Sei un codardo perché ti nascondi dietro i sensi di colpa per mia moglie quando in realtà non te ne importa nulla di lei, lo fai solo per te stesso.”

“Te l’ho detto, ci sto male.”

“Dì pure che ti sei stancato di me, di noi,” continua l’altro, le sopracciglia inarcate. “Non c’è nulla di male nel dire che non mi ami più, sai? Me ne farò una ragione, come per tante altre cose storte della mia vita.”

Scuoto la testa. “Non posso dire che non ti amo più, perché sarebbe una bugia.”

 

“Allora resta.”

“Non posso. Per favore, non chiedermelo. E non ricattarmi con la carta dell’amore.” Gli volto le spalle e mi avvio alla porta. Indugio, però, la mano sulla maniglia. Non è giusto andarsene così. Non dopo tutti questi anni. Lo guardo in viso ancora una volta. 

“Io non smetterò di amarti, Alphard Black. Magari tu sì, ci riuscirai, come riesci sempre ad adattarti a qualsiasi situazione e condizione, immutabile come il tempo. Ma io no, non ci riuscirò. Ma non temere,” si affretta ad aggiungere alzando la mano sinistra, la sigaretta stretta tra le dita, “non ti cercherò. Vivi pure la tua vita di reietto e codardo nella tua piccola casetta fuori dal mondo. Illuditi che quella sia la vita vera, ubriacati di normalità, ingannati pensando a quanto sia facile respirare, fuori da qui, ma arriverà un giorno in cui capirai che è tutta una cazzata, e che hai vissuto una grande, seppur piacevole, menzogna.” Adesso è lui a voltarmi le spalle, definitivo. 

 

Sento le lacrime pungermi gli occhi, premere agli angoli. Il cuore mi batte fortissimo nel petto e le mani mi tremano. Sento ancora l’eco delle sue parole nella testa quando sussurro un “addio, Frederick” appena appena udibile e mi precipito fuori. Corro giù per le scale, da solo. Faccio scricchiolare la moquette, da solo. Raggiungo Morgana, da solo. Le urlo un “buonanotte, Morgana” passando davanti al salotto, ché non riuscirei a reggerne lo sguardo, ora, ma lei mi sta aspettando altrove, davanti alla porta d’ingresso, stretta in uno scialle di seta bordeaux. Quasi mi spaventa, ritrovarmela lì davanti. 

 

“Ho sentito le voci alte,” esordisce. “Cos’è successo?”

“È finita,” rispondo solo cercando di evitare i suoi occhi. “Esco da questa casa per l’ultima volta.”

“Ci stai piantando in asso?”

“Lo sto facendo per te.”

“Non ti azzardare,” sibila la donna facendo qualche veloce passo avanti e fronteggiandomi. Solo in quel momento realizzo quanto sia alta, praticamente come me. “Non ti azzardare a dire che lo fai per me, Alphard Black, o giuro che ti Affatturo.”

 

“Non ce la faccio più. Ed è molto meglio così, fidati. Tu saprai amare Frederick molto meglio di me.”

“Di un amore non corrisposto. Frederick non mi amerà mai, è questa la mia maledizione. Pensavi di essere l’unico ad avere questo privilegio?” aggiunge con un pizzico di sarcasmo di fronte alla mia espressione disorientata. 

Scuoto la testa. “Non pensavo a nulla. Scusa.”

“Non chiedermi scusa come se volessi muovermi pietà. Non ne ho bisogno e non la cerco nemmeno. Quindi non dire che lo fai per me, abbi almeno la decenza di ammettere che lo fai per te. Sei tu quello che non riesce a reggere il peso di tutte le implicazioni in ballo in questo gioco. E lo sai.”

 

Annuisco. Non riesco a mentirle. In fondo, siamo sempre stati profondamente sinceri l’uno con l’altra. “Lasciami andare. Ti prego.”

“Avevi promesso che lo avresti amato. Stai rompendo un giuramento.”

“Mi dispiace. Mi dispiace davvero, ma non posso andare avanti così.” Ora le lacrime mi scorrono lungo le guance accaldate. Davanti a Morgana e alla sua fredda determinazione, la diga è crollata. Mi sento uno sciocco. 

“Risparmiati le lacrime, Alphard.” Tira fuori un fazzoletto da una tasca degli ampi pantaloni che indossa e me lo porge. È di stoffa, e profuma di sapone e pulito. “Non ti si addicono. E va bene così. Davvero. La tua è una scelta legittima, una scelta che non condivido e non approvo, ma che devo accettare.” 

 

Stringo il fazzoletto tra le dita, immobile. Non riesco a non guardarla in silenzio.

“Allora buonanotte, Alphard. Per l’ultima volta.”

Annuisco. “Buonanotte, Morgana.”

Lei mi sorride, con quel sorriso lieve che la contraddistingue, come se abitasse questo mondo in punta di piedi, figura vacua e indistinta. Si fa da parte e si allontana, lasciandomi solo. Mi volto e la guardo salire le scale, e so dov’è diretta: sta andando a rimettere insieme i pezzi, o comunque a provarci. Vorrei tanto seguirla, pregarla di darmi una seconda possibilità, pregare Frederick di darmi una seconda possibilità, ché è stato tutto uno stupido errore di valutazione, e che no, non smetterò mai di amarlo, anche se continuerò a ingannarmi in questa seconda vita che scorre parallela alla prima, una seconda vita vissuta ai margini, in un piccolo appartamento di Paddington, una seconda vita vissuta di scampoli e pezze, una seconda vita vissuta da codardo. Frederick ha ragione: sono solo un codardo. 

 

Ed è per questo che prendo la porta e lascio casa Nott. Non ci sarei mai più tornato. Quando raggiungo i confini della tenuta per Smaterializzarmi a casa, stringo ancora tra le dita il fazzoletto di Morgana. 

 

⭐︎ ⭐︎ ⭐︎ 

 

NOTE: come potete vedere, si tirano le fila della raccolta, qui. Il povero Alphard si prende vagonate di merd/a, in compenso. Be’, che mi piaccia scrivere di personaggi grigi e complessi molti di voi lo sapevano già, e soprattutto, di personaggi con i quali ci si possa relazionare, se non in tutto, almeno in qualcosa, e penso che i difetti siano una buona base di partenza. A domani con l’ultimo capitolo ♡

ps ho aperto proprio oggi un nuovo profilo instagram, mi sto piano piano trasferendo dal vecchio, se vi va ci possiamo seguire, qui il link 

 

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Capitolo 15
*** XV. ***


The Sign of the Southern Cross. 

 

XV.

 

[ giorno 31 — paura ]

 

“Zio Alphard?”

“Dimmi, Sirius.”

“Posso farti una domanda?”

Giro il viso verso mio nipote. Siede sulla solita sedia dove siede tutte le volte che passa a trovarmi. Oggi, una luce diversa irradia i suoi capelli scuri. Oggi, sembra tutto diverso. Oggi, sento che la mia vicinanza al mondo degli spiriti è più prossima. 

 

Annuisco. “Certo.” Le domande di Sirius mi piacciono. Non mi arrecano mai alcun disturbo. E mi piace aprirmi con lui, parlare liberamente e con sincerità. Sento di potergli dire tutto, ogni cosa. E ora che l’ho messo a parte anche di cosa c’è stato tra me e Frederick, e di cos’è successo con i Prewett, e dei miei inizi con Lin, e del rapporto con i miei fratelli, ora sento che non c’è davvero più nulla da rimpiangere. 

 

“Hai paura di morire?”

 

La domanda cade nel vuoto per un attimo. È una domanda difficile, se posta da un ragazzo giovane come lui. Sirius non dovrebbe nemmeno pensarci, alla morte. La morte è qualcosa di così lontano, remoto, distante nel tempo e nello spazio, ma immagino che vivere di questi tempi ti porti a domandarti tante cose, anche ciò che non sembra possibile. Voldemort sparge terrore. Ogni cosa - e vita - è appesa a un filo sottile. 

 

Sirius mi guarda, i suoi occhi grigi identici a quelli di Walburga. 

“Ogni tanto sì,” rispondo alla fine.

Lui sospira. Però non aggiunge altro. 

“Ricordi cosa ti ho detto riguardo la paura?”

“La paura deve accendermi. Fare da propulsore al mio coraggio.”

“Esattamente. E ricordi anche cosa ti ho detto riguardo alla mia paura?”

Sirius annuisce. “Hai detto che hai vissuto nella paura. Che la paura si è cibata del tuo cuore.”

 

È il mio turno di sospirare. “Ora che sai tutto di me, ora più che mai, penso tu possa comprendere cosa intendevo. Questa vita che ho vissuto… Non lo so, forse non è stata affatto vita, ma una sospensione nel tempo, un occupare il mondo per un breve periodo per poi scomparire nel nulla. Cancellabile. Dimenticabile. Ecco, forse è questo di cui ho paura: essere dimenticato.”

Sirius tende una mano e prende le mie dita. D’istinto. Cerca un contatto fisico, cosa inusuale per lui. “Io non ti dimenticherò, zio Alphy.”

 

Solo lui può chiamarmi Alphy. Proprio come Walburga quand’eravamo bambini. Ma questo Sirius non lo sa. 

 

Gli sorrido. “Grazie.”

“Neanche Lin ti dimenticherà. Ne sono certo. E neanche Frederick. Di questo non posso esserne certo, ma insomma, quasi certo.”

Mi scappa una risata. Sirius si unisce a me. “Davvero, grazie.”

Mio nipote scuote la testa. “Nah. Non ho fatto niente.”

“Hai fatto ciò che io non ho mai avuto il coraggio di fare io.”

“Questo non fa di me una persona coraggiosa. James lo è. E Remus.”

 

“Ognuno di noi si arma di diversi tipi di coraggio, diversi come sono diverse le nostre paure. Non sottovalutarti mai.”

“Grazie, zio.”

“Nah,” lo imito. “Non ho fatto niente.”

Ci sorridiamo. 

 

⭐︎

 

Mi sono appisolato. Quando mi risveglio, Sirius sta leggendo un libro accanto a me. 

“Che ore sono?” borbotto, la voce roca. 

Sirius posa il libro. “Appena le undici. Hai dormito un’oretta, zio.”

“Scusami.”

“Non preoccuparti. Vuoi che ti chiami Lin? Io dovrei andare.”

Annuisco. “Sì, grazie.”

 

Sirius si alza e poggia il libro sul mio comodino. Il “De Profundis” di Oscar Wilde.

“Ci vediamo domani?” mi chiede.

Gli sorrido e annuisco. Non ho il coraggio di dirgli che forse non ci vedremo più. Sento che non vedrò un’altra aurora. 

“Ti voglio bene, Sirius.”

“Anche io, zio.” Osservo il suo adorabile sorriso da canaglia, la giacca di pelle, i capelli lunghi che gli sfiorano le spalle, e quegli occhi, occhi che mi seguiranno ovunque andrò. 

 

“Sono fiero di te.”

“Non diventarmi sentimentale, adesso, zio Alphy,” ride lui. 

Scuoto la testa. “Non c’è pericolo, sta’ tranquillo.”

Agita la mano un'ultima volta e poi lo vedo sparire oltre la porta. Un sorriso sul volto. 

 

⭐︎

 

“Quel ragazzo spezzerà cuori,” osserva Lin divertita, seduta accanto a me sul materasso, spalla contro spalla, le lunghe gambe magre stese in avanti. 

“Come lo zio.”

Lin scoppia a ridere. “Ci scommetto. C’è un solo cuore che non hai mai spezzato, però.”

“Temo che lo farò a breve.”

Cala il silenzio. Lin stringe la mia mano con più forza, ora. È calda, caldissima, e la mia è già fredda, freddissima. 

“Hai paura?”

Scuoto la testa. Non posso dirle la verità. Non posso spezzarle il cuore. Non ancora. “No,” rispondo quindi. “Penso di aver vissuto la mia parte di felicità, più di quanto mi meritassi.”

 

“Ti sei meritato tutto, Alphard. E ti saresti meritato molto altro, a lungo, finché non saresti diventato bianco e storto. Ce lo meritavamo entrambi.”

“Hai promesso di tenermi con te. E che un giorno saremo uno accanto all’altra, sotto i gelsi in fiore. O il glicine.”

So che Lin sta piangendo. Lo capisco dal modo in cui respira, dal rumore della sua gola che cerca di trattenere i singhiozzi. 

 

⭐︎

 

“Vuoi che chiami il Medimago?” 

“No, Lin, va bene così.”

“Alphard…”

“Sapevi che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. Ci siamo.”

“Lo sapevo, eppure speravo non arrivasse mai.”

“Non me ne andrò. Non dal tuo cuore, almeno. So che mi conserverai lì dentro per lungo tempo.”

“Finché vivrò. E anche dopo.”

“Ti porterò ovunque andrò, Lin. Ti amo.”

“Ti amo.”

 

“Puoi restare?” le chiedo subito dopo.

“Resterò per sempre, Alphard.”

Chiudo gli occhi. Rivedo il viso di Frederick come l’ho visto l’ultima volta, più vecchio ma sempre bello, le rughe sotto gli occhi, i capelli spruzzati di grigio, alto e avvolto dalla luce.

 

⭐︎

 

“E così te ne andrai.”

“Sei il primo che entra qui dentro e non mi dice che sono pallido. Un record.”

“Scemo fino alla fine, vedo.”

“Posso dirti una cosa, Frederick?”

“Certo. Quello che vuoi.”

“Mi mancava la tua risata. Non ridiamo così da quanto tempo…?”

"Credo da anni. Sembrano secoli.”

“Mi fai una promessa?”

“Di nuovo: tutto quello che vuoi.”

“Vivi. Vivi una vita lunga anche per me. E ricordami, se puoi. Se vuoi.”

“Certo che voglio. E ti ricorderò sempre, Alphard. Non ti ho mai dimenticato, d’altronde.”

“Sono parole pericolose, possono far riaprire vecchie ferite.”

“E tu sei già abbastanza ferito, lo capisco.”

“Scusa. Non posso. Non ora.”

“Non scusarti. Ne è passato di tempo. E ormai è tardi.”

“Ti ho amato tanto, Frederick. Credimi.”

“Ti credo. Ti ho amato tanto anche io, Alphard.”


⭐︎ ⭐︎ ⭐︎

 

NOTE: siamo arrivati alla fine anche di questa raccolta. Avevo detto che non avrei scritto molto, ma a conti fatti parliamo di quindici capitoli, mica pochi! Alphard e tutti i personaggi coinvolti in questa parte di canon, ma soprattutto di headcanon, si sono presi i loro belli spazi. E non mi dispiace affatto di aver dato loro modo di uscire dalla mia testa così come li ho sempre immaginati. Alphard aveva paura di essere dimenticato, ma può stare tranquillo: non è successo. 

 

Qualche piccola precisazione, ora. Chi ha letto gli altri capitoli della raccolta si sarà sicuramente accorto che gli ultimi due pezzetti arrivano dal capitolo II, con prompt “pallore”. Chi invece ha seguito la raccolta dell’anno scorso sui Black, scritta sempre in occasione del Writober, magari si ricorda del capitolo in cui Sirius fa visita allo zio… Lo lascio qui, per chi volesse rinfrescarsi la memoria e per chi, al contrario, magari è curioso e vuole leggerlo. 

 

Detto ciò, ringrazio tutti coloro che hanno seguito questa piccola raccolta, e tutti quelli che hanno speso qualche parola lasciandomi un commento lungo la strada ♡ grazie di cuore!

 

A presto,
Marti

 

Ps io intanto sto qui 

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