Ed eccoci arrivati alla fine di questa piccola, quanto incisiva incursione nella vita di queste due persone. La palla torna a Kojiro – inutile dirlo, è lui il vero perno della questione – e, con lui, tocchiamo con mano quanto l’essere umano persegua una certa strada salvi ritrovarsi a dover fare dietro-front per evitare guai ancora peggiori di quelli che si è sinora arrecato.
Il problema (se non il Problema, quello con la dignità della maiuscola, per intenderci) è che quando finiamo quaggiù non abbiamo un libretto delle istruzioni, niente che ci dica, anche a grandi linee, quello che occorre fare. Così si va per tentativi e se una cosa porta a casa un risultato buono, si persegue per quella strada, come un martello che batte sulla testa di un povero chiodo. Ora, i chiodi son fatti d’acciaio e non si rompono spesso, ma spaccano i supporti di legno a cui li inchiodi, o si piegano contro quelle pareti troppo resistenti. E l’unica cosa che puoi fare, da bravo martello, è quello di non essere troppo duro, col tuo povero chiodo, e raddrizzare la rotta appena possibile. Quando un medico dal nome impronunciabile ti dice che ti sei massacrato le gambe a furia di tirare calci come un mulo, ad esempio. O quando capisci che il calcio non è solo picchiare un povero pallone e spedirlo dentro la rete avversaria, ma anche tattica, strategia, lavoro di cervello. O quando realizzi che nelle squadre in cui hai sinora giocato ti prendevi sulle spalle la responsabilità dell’intero gruppo, e che, invece, negli squadroni ultra blasonati esistono comparti ben definiti, ognuno col proprio ruolo. Insomma, se si ha l’intelligenza di fermarsi, prima dell’inevitabile, ci si salva. Ed è stata questa, la scelta di Jun, solo che Kojiro ci ha messo un po’ per capirlo.
Ognuno ha i suoi tempi, e se Jun ha capito subito (più o meno) che la loro relazione fosse arrivata al capolinea, Kojiro, no. Kojiro è andato avanti a battere come un martello che s’è perso il suo chiodo e ha dovuto inventarsi nuove cose da fare, anche solo prendere un treno puntuale nel suo ritardo (eh…) o mettersi a studiare daccapo gli schemi, la tattica e le strategie. O trovare un altro chiodo che scacciasse il precedente, o meglio: che ne prendesse il posto lasciato vacante, e non c’è niente di peggio di qualcosa che d’improvviso si svuota e non si ricolma. È come andarcene in giro con un buco nella pancia, nella gamba, nella testa. Ti senti mancante. Sei mancante. Un po’ come quando da bambino ti cadeva un dente e la lingua andava ad infilarsi in quello spazio improvvisamente vuoto.
E ti senti un ladro, sì, perché non è quello, il corpo che vorresti davvero stringere, perché se lo stringi, quel corpo così caritatevole da lasciarsi accarezzare, è perché ti manca un altro corpo. Perché è quel corpo, che cerchi nelle pieghe altrui. E lo sai. E la generosa, paziente compagnia di un altro corpo è solo un palliativo, per te, ma lo scrupolo di star approfittando dei sentimenti altrui viene eccome. Però continui. Però ti abitui. Però, alla fine, capisci che quello di prima era una aprentesi destinata a finire, per mille ragione, era una storia ad orologeria, che funzionava secondo dati parametri e dati prerequisiti; ma aveva una data di scadenza che ci siamo ostinati ad ignorare, perché non ci faceva comodo. Se tutti noi sapessimo come, dove e quando un rapporto finirà (e i pianti, le litigate, le urla e le gastriti che questo ci procurerà) non credo ci innamoreremmo tanto facilmente. Anzi.
Però, grazie al cielo, la Vita è una gran signora e preferisce lasciarci nel dubbio. Beatissimo dubbio, santo subito.
Questa storia in tre atti m’è piaciuta molto. Parla di qualcosa di quotidiano - la fine di una storia d’amore, un lutto, la sua elaborazione ed il suo superamento, qualcosa che si può ritrovare in qualsiasi canzone del repertorio italiano (anche se molti cantautori indugiano nel rigirarsi il coltello nella piaga, va detto) - ma è il modo in cui lo fa, in cui parla a chi la legge, a fare la differenza. Tocchi diversi aspetti di vita reale, vissuta: l’ossatura di questa storia funziona perché parla al vissuto di tutti noi, sia in presa diretta, sia per interposta persona, ché tutte noi abbiamo passato intere serate a fare da spalla all’amica che aveva rotto coll’ennesimo fidanzato sbagliato, con un barattolo extra large di gelato alla vaniglia e una scorta di fazzoletti degna di Rossella O’Hara.
Gli amori finiscono, muoiono e noi possiamo solo risorgere da quelle ceneri, diversi, ché quando un amore muore si porta appresso un pezzetto di noi; ma è come se, in questa crisi, noi si abbia perso qualcosa che non andava più bene (il dente da latte di cui sopra) perché siamo noi ad essere cambiati, perché è la Vita che ce lo impone (e sì, sarà anche una gran signora, ma sa essere una bastarda mica male, quando ci si mette).
Ho apprezzato davvero tanto la mancanza di una riconciliazione tra Kojiro e Jun, non perché Mr Heart of Glass mi stia antipatico, tutt’altro: tu me lo hai reso interessante, e di ciò ti ringrazio; mi è piaciuta l’assenza dell’happy ending da romanzetto rosa perché questa è una storia di crescita, e se Kojiro fosse ritornato con Jun (anche ammesso che Jun fosse ammattito strada facendo e avesse mollato Yayoi e figlioletta fuori scena – e non te l’avrei perdonato, un simile fuori scena, perché ci avresti privato di un bel momento d’introspezione –), non avremmo avuto alcun avanzamento, solo un ripiegare sulle posizioni iniziali. Che può andar bene, capiamoci: ma la storia non alludeva a questo, e non vi alludeva sin dalle prime battute. Era chiaro e palese che i due non si sarebbero riconciliati come amanti, e sei rimasta fedele al racconto. I personaggi sono cresciuti, sono diventati persone diverse, hanno fatto scelte diverse, si sono detti addio. E sono andati avanti, come succede nella vita reale.
E, lo confesso, mi sono sentita vicina a Kojiro vedendolo leggere il Genji Monogatari sul treno, ché era la stessa cosa che facevo io, da matricola, quando la mattina raggiungevo l’università ad orari indecenti (essendo un tipo crepuscolare, penso che dovrebbe essere vietato alzarsi prima delle otto del mattino. Minimo) ed il treno si perdeva per binari tutti suoi, arrivando alla stazione con un ritardo cronico di almeno un’ora. Almeno.
In conclusione, questa storia è stata una bella scoperta. Spero di leggere altro, di tuo, su Kojiro, ché lo hai reso fedele al personaggio, scevro di isterie, ringhi e quant’altro: hai mantenuto la sua natura nervosa, da tigre in gabbia, alle volte, senza scadere nel cliché. E non è cosa da tutti.
Alla prossima! |