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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    26/03/2012    6 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

And I still see your reflection inside of my eyes,

That are looking for a purpose,

They're still looking for life.

I'm falling apart, I'm barely breathing,

With a broken heart that's still beating.

In the pain is there healing?

In your name I find meaning.

Lifehouse - Broken

06. What do you want from me?

L’odore della carne cotta con le spezie era evaporato velocemente, presto rimpiazzato dal profumo dolce e rilassante del gelsomino notturno, di cui si trovavano alcune piante in mezzo ai cespugli che ci circondavano.

Ero uscita dalla tenda da alcuni minuti, mentre Edward dormiva profondamente ancora avvolto dal sacco a pelo. La notte era fresca, ma le temperature erano comunque alte, essendo inizio estate.

Mi sedetti sul tronco di legno, godendomi la leggera brezza che mi scompigliava i capelli e donava sollievo alle mie guance accaldate. Non ero riuscita ad addormentarmi, sdraiata nella stessa tenda che era testimone di tanti momenti felici trascorsi con Edward, e soprattutto non potevo prendere sonno quando lui era così vicino che riuscivo a sentire il suo respiro. Mi ero rifiutata di dormire nello stesso sacco a pelo, nonostante fosse abbastanza ampio da contenerci entrambi senza che ci toccassimo, e avevo deciso di avvolgermi nelle tante coperte che erano in auto. Edward non aveva opposto molta resistenza, probabilmente capendo i motivi. Il suo umore era stato pessimo per tutta la serata, e sembrava perso nei suoi pensieri. Più volte mi chiesi se anche lui, come me, stava rivivendo nella sua mente episodi passati di noi due insieme in campeggio; forse anche per lui non era semplice avermi così vicina. Scacciai quel pensiero quando ripensai al fatto che fosse stato lui ad invitarmi a intraprendere quel viaggio con lui e a proporre un’amicizia da capo: evidentemente per lui non era un problema avermi vicino, o forse solo adesso iniziava a fare i conti con quello che ciò significava.

Chiusi gli occhi, e massaggiai le tempie doloranti in un principio di mal di testa. Era l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento.

Perché non riuscivo a capire cosa avesse in testa Edward? Lui era sempre stato bravo a capirmi, a leggere la miriade di emozioni e idee che conservavo, mentre io ho sempre fatto fatica a capirlo. Era troppo bravo a nascondere i suoi sentimenti, sapeva indossare una maschera d’indifferenza che io non potevo neanche immaginare.

E lo odiavo per questo.

Odiavo il fatto che nonostante io facessi di tutto per imitarlo, per fingere che tutto andasse bene, che non provassi più nulla nei suoi confronti, i miei tentativi fallivano miseramente, rendendogli evidente quanto ancora soffrissi per quello che era successo fra di noi. Non volevo mostrargli quanto dolore provassi ancora, quanto sanguinante fosse la ferita che lui mi aveva provocato. Non volevo mostrarmi così debole e ancora succube di lui. Dovevo essere forte, e andare avanti. E per farlo non dovevo più pensare al passato, ma dovevo pensare a me stessa e al mio futuro; l’unico problema erano i ricordi: per quanto mi sforzassi, ogni volta tornavano a galla, tormentandomi.

Premetti i polsi sugli occhi, serrati con forza. Dovevo smetterla di piangere, soprattutto quando avevo Edward così vicino. Non poteva scoprire che provavo ancora qualcosa, perché così avrei solamente incasinato tutta la situazione. Eravamo già in un equilibrio precario, e a quel punto sarebbe bastata una semplice parola per mandare all’aria i tentativi di restare in piedi di quei giorni.

Rimasi immobile sul tronco per un tempo indeterminato, cercando di scacciare la preoccupazione e di trovare un minimo accenno di sonno per tornare a dormire, fino a quando una voce non mi fece sussultare, e spezzò la pace della natura.

«Bella?»

 

«Bella?»

Lasciai cadere le mani dal viso, e mi voltai verso la tenda. Edward era appena uscito, e mi osservava perplesso. I capelli erano scompigliati dal sonno, ma sembrava perfettamente sveglio.

«Che ci fai qui fuori?», mi chiese, avvicinandosi a piedi nudi sull’erba fresca.

Scrollai le spalle, voltandomi a guardare le pietre del focolare, che racchiudevano i carboni ormai spenti. L’unica luce era quella della luna, che si rifletteva sull’acqua del fiume, il quale scorreva tranquillo vicino a noi. Il suo scrosciare era piacevole, rilassante.

«Non riesco a dormire», risposi semplicemente, poggiando il mento sulle mie braccia incrociate.

Lui si sedette al mio fianco, imitandomi. «C’è qualcosa che non va?»

Mi irrigidii per un istante. «No», mentii. Anche quella volta aveva capito che avevo la testa altrove, ma come al solito non riusciva a comprendere quale fosse il motivo.

«Bella…», iniziò, con il tono che usava quando stava per rimproverarmi.

«Non c’è niente che non va, va bene?», sbottai.

«Allora perché non riesco a crederti?», ribatté lui. «È per l’altra sera? Ti ho spiegato cosa è successo…»

Scossi il capo. «Non è per l’altra sera…», borbottai. «Ne abbiamo già parlato di quello che è successo, e non voglio più tornare su quell’argomento».

«Allora cosa c’è?», insistette lui.

«Con chi eri al telefono dopo pranzo?», gli chiesi, dopo aver capito che non sarei riuscita a convincerlo a lasciarmi in pace.

Edward sussultò lievemente, sorpreso. «Con Esme», rispose, dopo un breve silenzio. «Voleva sapere come sta andando».

Mi voltai a guardarlo, nonostante mi fosse bastato il tono della sua voce per capire che stava mentendo. «Era l’ospedale, non è vero?», domandai, più che certa della risposta. «Ti hanno chiesto di tornare al lavoro».

Edward rimase in silenzio, e ciò mi bastò come risposta. Mi alzai in piedi, per allontanarmi da lui.

«Ho rifiutato», esclamò lui, alzandosi a sua volta.

Mi voltai a guardarlo, lasciando che la rabbia trattenuta da quel pomeriggio trapelasse. «Eravamo d’accordo, Edward! Niente lavoro fino a lunedì! Possibile che tu non riesca a smettere di pensare a quel dannato ospedale per un paio di giorni?!»

«Non ci ho pensato, infatti! Ma cosa dovrei fare quando mi telefonano? Poteva essere successo qualcosa di importante!»

In fondo sapevo che aveva ragione, che l’importante non era che avesse risposto al telefono ma che avesse rifiutato di tornare al lavoro, ma sapere che anche durante quella breve vacanza da soli il suo lavoro si era frapposto anche solo per pochi minuti mi faceva saltare i nervi. Ormai sembrava di vivere una relazione a tre: io, Edward e il suo lavoro, costantemente presente, che minacciava continuamente di allontanarlo da me.

«Avevamo deciso di tenere spenti i cellulari e di accenderli solo la mattina per controllare che non ci fossero messaggi. Non mi sembra che tu abbia ricevuto quella chiamata di mattina», continuai, ignorando le sue parole.

Edward si passò la mano sul viso, improvvisamente stanco. «Mi dispiace», disse, «non pensavo di ricevere delle telefonate, per questo l’ho lasciato acceso. All’ospedale sanno che sono in ferie, non dovrebbero telefonarmi, se non per cose importanti».

«Quindi non era importante il motivo per cui ti hanno telefonato oggi? Allora perché l’avrebbero fatto?», insistetti. Odiavo il suo lavoro. Odiavo litigare con lui anche nei pochi giorni insieme che avevamo, ma ormai sembravamo non fare altro.

«Lauren ha fatto il mio nome ad un chirurgo cardiotoracico che aveva bisogno di un assistente per un’operazione difficile. Per questo mi hanno chiamato», mi spiegò, brevemente.

«Lauren?», ripetei, stringendo i pugni. «Lauren Mallory?»

Edward fece un passo nella mia direzione, l’espressione grave. «Sì, la dottoressa di chirurgia plastica. Deve operare anche lei la paziente».

«So chi è Lauren Mallory», sbottai. «Se non te lo ricordi l’ho beccata che stava provando a stuprarti».

Edward sghignazzò, facendomi irritare ancora di più. Non era affatto il momento di ridere quello. «Non esageriamo. Stupro mi sembra una parola un po’ eccessiva».

«Ah, sì?», sibilai, sentendo il sangue al cervello solo ripensando alla situazione in cui li avevo trovati. «Come lo chiameresti tu? Ti ha sbattuto contro un muro, Edward. E poi ha cercato di spogliarti. Sono sicura che se cerchi sul manuale dello stupro perfetto quelle sono due delle fasi da compiere».

Edward scosse il capo, mentre un risolino lasciava le sue labbra. Si avvicinò a me, e chiuse la mano intorno al mio polso, gentilmente. «Il manuale dello stupro perfetto», ripeté, sorridendo divertito.

«Che c’è da ridere?», sbottai, senza però rifiutare il suo tocco.

«Niente», rispose, facendo scivolare le dita su per il mio braccio. Piccole scosse elettriche partirono da dove mi stava toccando, facendomi fremere.

«Non abbiamo ancora finito di discutere», gli ricordai, prima che si avvicinasse ancora di più.

Edward sospirò. «Mi dispiace, davvero. Non volevo rovinare il nostro weekend, è stato un caso che mi abbiano telefonato».

Nella poca luce, riuscii a scorgere nei suoi occhi sincero pentimento, e nonostante le mie reticenze, capii di averlo già perdonato. Non avrei voluto cedere così velocemente, ma le sue dita continuavano a scivolare lungo le mie braccia, fino ad arrivare alla mia guancia, provocando una scarica di brividi che correva lungo la mia schiena, distraendomi dal mio intento.

Premetti il viso contro la sua mano, facendo una smorfia. «Non vale così», bofonchiai.

«Così come?», domandò, fingendosi innocente. In realtà sapeva benissimo cosa stava facendo, conoscendo quella che sarebbe stata la mia reazione, e il sorrisino sulle sue labbra lo dimostrava.

«Lo sai», ribattei, lasciando che si avvicinasse ancora di più a me.

Edward chinò il viso verso il mio, e sfiorò con la bocca la mia fronte, leggero come una piuma. Chiusi gli occhi, lasciando che la rabbia evaporasse.

«Così, intendi?», sussurrò contro la mia pelle, scivolando piano verso uno zigomo.

Rilasciai un breve sospiro, mentre lasciava un piccolo bacio sotto l’occhio.

Passò la guancia, fino a sfiorare le mie labbra all’angolo. Un altro bacio.

«O cos-»

Non gli permisi di terminare, perché premetti la bocca contro la sua, facendolo tacere. Sentii il suo piccolo sorriso contro le labbra, e mi allontanai leggermente.

«Domani ne riparliamo», lo ammonii, guardandolo seriamente, decisa a non dargliela vinta totalmente.

Edward annuì, e tornò a baciarmi. «Domani», mormorò, mordendomi il labbro inferiore.

Allacciai le braccia intorno al suo collo, e le sue mani scesero lungo la mia schiena, fino alle natiche. Mi sollevò da terra, e chiusi le gambe intorno al suo bacino, gemendo quando sentii la sua erezione premere contro di me.

Allontanò le labbra dalle mie, piegando il capo per guardare il prato alle mie spalle, e iniziò a camminare verso la tenda. Mi mise a terra per farmi entrare, e non appena richiuse la zip della porta portai le mani al bordo della sua maglietta, sollevandola verso l’alto.

Lui alzò le braccia, aiutandomi a sfilargliela, e la lanciò in un angolo del piccolo spazio a nostra disposizione.

«Uhm…», mormorò, mentre mi seguiva sul sacco a pelo, «hai letto anche tu il manuale dello stupro? Perché credo che anche questo faccia parte delle fasi di cui parlavi prima», ghignò, infilando la mani sotto la mia maglia.

«Ma se sei tu che hai iniziato!», ribattei, mentre mi sfilava la maglietta.

Edward rise, e scese a baciarmi la clavicola, mentre allacciavo le dita all’elastico dei pantaloni da ginnastica che indossava.

«Se vuoi mi fermo», scherzai, giocando con l’elastico e abbassandoli di qualche centimetro.

«Per poi far fare la figura dello stupratore a me? No, grazie», rise contro la mia pelle.

Con la punta delle dita abbassò le spalline del reggiseno, e disegnò con la punta della lingua il profilo della mia spalla, scendendo con le mani fino ai miei fianchi. Mi fece sdraiare e si inginocchiò fra le mie gambe, infilando le dita ad uncino sotto l’elastico dei miei pantaloni. Li fece scorrere velocemente, e non appena sentii l’aria leggermente fresca della notte rabbrividii.

Edward se ne accorse, e accarezzò con i palmi delle mani le mie cosce, scacciando in parte la pelle d’oca. «Adesso ci mettiamo sotto la coperta, non preoccuparti», disse, con la voce roca ma premurosa.

Mi aggrappai al suo braccio e mi misi a sedere, arrivando davanti a lui. Infilai una mano fra i suoi capelli, spingendolo verso di me per baciarlo, e con l’altra mi aggrappai ai suoi pantaloni. Aiutata da lui riuscii a sfilarglieli, ed andarono a unirsi ai nostri vestiti, abbandonati vicino all’ingresso alla rinfusa.

Con una mano scostò il piumone del sacco a pelo e mi rifugiai al suo interno, seguita da lui. Era fatto per due persone, quindi era abbastanza ampio da contenere entrambi e ripararci dall’aria fresca.

Sentii le sue dita cercare il gancetto del reggiseno e chiusi gli occhi, lasciandomi andare.

Ai problemi avremmo pensato l’indomani; per quella notte volevo solo fingere che fosse tutto a posto e godermi la vicinanza di Edward, sperando che almeno per quel giorno il lavoro non me l’avrebbe portato via.

 

«Bella?»

Sbattei le palpebre un paio di volte, guardando confusa il viso di Edward, che mi osservava da davanti la tenda. Guardai i miei vestiti, ancora indosso, e l’erba verde: non c’era traccia di alcun focolare; in questo parco la zona riservata ai fuochi era lontano dai cespugli e il fiume, dove avevamo cenato quella sera. Quello di poco prima non era altro che un ricordo.

«Bella?», ripeté Edward, facendo un passo nella mia direzione, l’espressione preoccupata. «Stai bene?»

Strinsi i pugni lungo i fianchi, e mi morsi con forza il labbro, voltandomi nuovamente e dandogli le spalle. Perfino guardarlo ora era doloroso. Sentii le lacrime pungermi gli occhi.

«Sì», sussurrai, e la mia voce tremò. La schiarii, inutilmente. «Tra poco vengo a dormire».

Sentii dei passi sull’erba, e credetti che Edward era finalmente rientrato nella tenda, ma mi sbagliai. Lo trovai al mio fianco, e trattenni il respiro mentre si sedeva dal lato opposto del tronco, vicino a me.

«Non riesci a dormire?», sussurrò.

Scossi il capo, stringendo le mani in grembo.

Edward rimase in silenzio per un lungo istante, poi parlò. «Se è perché ci sono io, posso andare a dormire in macchina».

«Se non sbaglio siamo venuti in questo campeggio proprio perché non volevi dormire in macchina», sibilai, irritata dalla sua gentilezza. «Per quale motivo dovresti accettare di dormire sui sedili proprio adesso che siamo qui?»

«Perché sono passate tre ore da quando abbiamo spento il fuoco, ma tu non sei ancora riuscita ad addormentarti». Prese un breve respiro. «So che non è facile restare così vicini nella tenda anche per dormire, ma è solo per una notte».

Strinsi le labbra. «Per te è così semplice? Ho provato a dormire, ma non ci riesco», sbottai. «Non riesco ad addormentarmi sentendoti così vicino», aggiunsi, sottovoce.

Edward respirò profondamente. Non avevo il coraggio di guardarlo, e in quel momento maledissi quel dannato festival che ci aveva costretti a fermarci in un campeggio, e rimpiansi le camere d’albergo che mettevano fra di noi quattro mura.

«Va bene», disse lui dopo un breve istante, alzandosi in piedi. Lo sentii muoversi alle mie spalle, e poi il rumore di un sacchetto di plastica.

Mi voltai, confusa, e lo vidi mentre infilava nella busta del supermarket una bottiglietta d’acqua e alcuni cracker. Quando afferrò le chiavi della macchina capii cosa stava facendo. Mi alzai in piedi di scatto.

«Aspetta, no!», esclamai, alzando la voce e fregandomene delle altre persone che a qualche metro da noi potevano aver piantato una tenda ed essere addormentate. «Non devi andare a dormire in macchina».

Edward si fermò, e mi guardò con occhi stanchi e arrabbiati. «Quindi cosa proponi di fare, Bella? Preferisci che mi accampi sotto i cespugli qui fuori, così tu puoi dormire nella tenda sapendo che c’è un muro fra di noi? Oppure vuoi che resti qui a fare da guardia?»

Per qualche secondo mi sentii smarrita. Edward aveva perso le staffe. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo essere stata in compagnia del suo umore nero per tutta la serata ed averlo personalmente fatto scattare con le mie parole e il mio comportamento; ma l’avevo visto perdere il controllo così poche volte che non sapevo come affrontarlo ora. Di solito ero io quella che iniziava i litigi alzando la voce, lui era sempre stato pacato e riusciva a trovare qualcosa di divertente in ogni discussione, riuscendo così a tranquillizzarmi; ma quella volta non era così.

«No… certo che no», mormorai, sentendomi in colpa e al tempo stesso arrabbiata con lui.

In colpa, perché nonostante lui cercasse di essere gentile con me io rifiutavo la sua gentilezza, anzi la detestavo certe volte; arrabbiata, perché era stato lui a metterci in quella situazione scomoda, ed io non sapevo più cosa fare per mantenere in equilibrio quella nostra strana relazione.

«Allora si può sapere che cosa vuoi che faccia?», sbottò, alzando anche lui la voce. «Dimmelo, perché mi stai facendo diventare pazzo!»

Aprii la bocca, confusa e spaventata, ma lui non mi lasciò il tempo di parlare.

«Ogni volta che provo ad avvicinarmi tu mi respingi, ma appena mi allontano vieni da me. Quindi mi spieghi come dovrei comportarmi? Abbiamo deciso di ricominciare da capo, ma non mi sembra che la cosa stia funzionando granché».

Strinsi i pugni. «Stai dicendo che la colpa è solo mia? Credevi davvero che saremmo riusciti a fingere di non conoscerci? Come puoi pensare che dopo quello che abbiamo passato avremmo potuto ricominciare da capo? Pensa solo a questa dannata tenda: vuoi dirmi che guardandola non ti ricordi niente? Non ripensi anche tu a tutte quelle volte che andavamo in campeggio? A quando…» A quando facevamo l’amore in quel sacco a pelo?

La voce mi morì in gola, e mentre sentivo la rabbia evaporare lentamente le lacrime cominciavano ad accumularsi agli angoli dei miei occhi.

Edward aveva il respiro affannato, e gli occhi mi fissavano inquieti. Inalò l’aria fresca della notte, e quando parlò di nuovo lo fece con un tono di voce nuovamente calmo. «Certo che me lo ricordo, Bella. Non sei l’unica che deve vedersela con il passato, lo sai? Ma se non proviamo ad affrontarlo non potremo mai andare avanti», disse, duramente.

Strinsi i pugni lungo i fianchi. «Non c’è niente da affrontare. Dobbiamo solo dimenticare, non c’è un altro modo per andare avanti».

Edward sgranò gli occhi, e lasciò cadere a terra il sacchetto di plastica e le chiavi dell’auto. Si avvicinò a me con passo veloce, ed io arretrai, fino a trovarmi bloccata dai tronchi di legno distesi a terra. Edward si fermò a pochi passi da me, e il suo viso era buio, mentre la luce lunare creava un’aureola biancastra intorno ai suoi capelli scompigliati. Solo i suoi occhi sembravano brillare.

«Pensi davvero che dimenticare sia la soluzione migliore?», domandò, e nella sua voce lessi rabbia e angoscia.

Abbassai lo sguardo, sentendo ormai la rabbia scemare. «Di sicuro sarebbe più facile. Almeno non continuerei a pensare a quello che c’è stato fra di noi e quello che c’è ora».

Edward rimase in silenzio per un lungo istante. Mi chiesi se avevo scatenato un’altra ondata di rabbia da parte sua, e quando fece un altro passo nella mia direzione ero pronta a scappare. Non poter vedere il suo viso e leggere le sue espressioni mi metteva di fronte a una vastità di possibilità: era arrabbiato, confuso, ferito?

«Ferma», disse, non appena alzai il piede, pronta a scavalcare il tronco e allontanarmi da lui.

Mi immobilizzai. Dalla sua voce non traspariva rabbia, ma solo risolutezza.

Con una mano raggiunse la mia spalla, e il mio corpo si irrigidì all’istante. «Cosa vuoi fare?», sussurrai, sentendo ogni terminazione nervosa schizzare al contatto con la sua pelle.

Cercai i suoi occhi, trovando solo la macchia buia del viso.

«Voglio che affronti questa situazione», rispose, arrivando davanti a me. Il suo corpo mi sovrastava in altezza, nascondendomi alla luce della luna. «Abbiamo ancora molta strada da fare prima di ritornare a Chicago, e non possiamo continuare così. Devi smetterla di scappare ogni volta che mi avvicino, e c’è solo un modo per farlo».

Scossi il capo, e cercai di divincolarmi dalla sua presa. Tuttavia, non ebbi il tempo di farlo, perché le sue braccia si chiusero intorno a me, trascinandomi contro di lui.

Per un istante rimasi immobile, congelata dalla sorpresa e dalla strana sensazione di familiarità che quel contatto portò con sé; ma non appena mi resi conto di cosa stava succedendo frapposi le mani fra di noi, e le premetti contro il suo petto, cercando di allontanarlo. Edward non si mosse, ignorando le mie proteste.

«Lasciami andare», sibilai, piegando la testa all’indietro per cercare i suoi occhi.

Sentii il suo fiato caldo sulla pelle, e scorsi il suo viso. «No. Non finché non capirai che non serve a niente scappare dal passato. Solo accettandolo potrai andare avanti».

«Perché?», domandai, sentendo la disperazione nella mia stessa voce. «Perché devi sempre rendere tutto così difficile? Non ti basta quello che mi hai fatto un anno fa? Perché devi rovinare anche questo viaggio?»

Edward serrò la mascella. «Prima o poi sarebbe arrivato questo momento, Bella. Prima lo affrontiamo e prima potremo davvero ricominciare da capo».

Sentii le lacrime riempirmi gli occhi, e lasciai cadere le mie mani, arrendendomi al fatto che non sarei mai riuscita a liberarmi dalla sua stretta contro la sua volontà. Abbassai lo sguardo alla sua maglietta, grigia nell’oscurità. «Che cosa vuoi da me, Edward?», sussurrai, mentre una lacrima scivolava lungo la mia guancia. «Perché mi hai portata con te in questo viaggio?»

Avvertii il suo petto alzarsi e abbassarsi in un respiro profondo. «Perché voglio provare a rimediare a tutti gli errori che ho fatto», disse, con la voce così bassa che se non fossimo stati soli immersi nella natura non avrei sentito. Un brivido corse lungo la mia schiena. «So che è impossibile, e so anche che non ho più alcun diritto di immischiarmi nella tua vita. Ma voglio provarci. Non voglio il tuo perdono, so di non poterlo avere, e soprattutto di non meritarlo. Voglio solo starti di nuovo accanto, anche se significa essere solo un amico».

Premetti la guancia contro il suo petto, scosso da respiri affannati e agitati. Sentivo il suo cuore battere impazzito contro il mio orecchio, e chiusi gli occhi.

Per qualche secondo rimanemmo così, in silenzio e immobili, con le sue braccia intorno a me e la mia faccia nascosta nel suo petto, e mi lasciai avvolgere da quella sensazione di familiarità e calore, cullata dal suo profumo, così inebriante e ipnotizzante. Sentivo i brividi scivolare lungo la mia schiena.

Ora sapevo cosa voleva Edward. Quello che non sapevo era quello che volevo io.

Sentivo di volere ancora Edward, di volerlo ancora accanto, nonostante tutto, ma non ero sicura di essere pronta e che quella fosse la scelta più saggia. Sentivo di essere ancora troppo fragile e distrutta dalla nostra rottura per potermi rimettere ancora in piedi. Non volevo né potevo perdonargli gli avvenimenti dell’ultimo anno insieme, e non potevo nemmeno scordarli, nonostante lo volessi con tutte le mie forze. Lui aveva ragione, dovevo accettarli e soprattutto farmene una ragione: ci eravamo lasciati, ma questo non significava che dovevo cancellare la nostra storia.

C’era ancora una possibilità per me ed Edward, ma in quel momento ero troppo stanca e sconvolta per poterne parlare. C’erano tante cose da dire, e tante da chiarire, ma in quel momento mi limitai a restare fra le sue braccia, lasciando che fosse il battito del suo cuore a cullarmi e non più il suono del fiume.

 

Il mattino seguente mi risvegliai da sola, disturbata dalla luce del sole che filtrava attraverso il tessuto della tenda in cui mi trovavo. Il sacco a pelo in cui aveva dormito Edward era vuoto, e la zip era ben chiusa.

Cercai di sistemarmi i capelli con le dita, alla cieca, poi uscii all’aria aperta, trovando la piazzola d’erba vuota. Di Edward non c’era alcuna traccia.

Mi sedetti sui tronchi, decidendo di aspettare che si facesse vivo, e nel frattempo ripensai a quello che era successo la sera precedente, alle sue parole che mi avevano accompagnata per tutta la notte.

Quando riapparve pochi minuti dopo, con un sacchetto di carta e due bicchieri da caffè, non sapevo come comportarmi. Avevo paura di dargli l’impressione sbagliata, e sentivo un leggero imbarazzo a ritrovarmi insieme a lui.

Tuttavia, quando sorrise e si sedette accanto a me, l’ansia svanì, sostituita dallo stesso senso di familiarità provato la sera precedente, quando mi aveva abbracciata.

Insieme a lui aveva portato l’itinerario del viaggio, e mentre lui si occupava di smontare la tenda io lessi le tappe che avremmo potuto fare quel giorno, decidendo dove e quanto fermarci. Programmammo di percorrere un lungo tratto di strada con poche tappe, in modo da poter arrivare fino in Texas in serata, dove avremmo potuto dormire in uno dei motel caratteristici della Route 66, recentemente ristrutturato.

Quando lasciammo il campeggio tornammo a Tulsa, per riprendere la Strada Madre da dove l’avevamo lasciata, e ci dirigemmo verso Oklahoma City.

Le temperature si erano fatte più secche, mano a mano che ci dirigevamo verso sud, abbandonando la frescura di Chicago. L’aria condizionata soffiava dai bocchettoni rinfrescando l’abitacolo, ma diventando fonte di terribili mal di testa quando gli sbalzi di temperatura fra esterno ed interno erano eccessivi. A un certo punto decidemmo di viaggiare con i finestrini abbassati, entrambi infastiditi da quella situazione, accettando il compromesso di moderare la velocità per permetterci di tenerli abbassati senza rischiare di spaccarci i timpani per il frastuono dell’aria.

Ero ancora mezza addormentata a causa delle poche ore di sonno di quella notte, e rimasi seduta scompostamente sul sedile, con una gamba piegata contro la portiera e l’altro piede poggiato contro il cruscotto. Se la macchina fosse stata di Edward, probabilmente mi sarei beccata una ramanzina con i fiocchi, ma dato che il vero proprietario - ovvero Emmett - non era presente, decisi di sgarrare.

Edward guidava con un braccio piegato sul finestrino completamente abbassato e l’altro polso incastrato pigramente nel volante, per impedire all’auto di andare per conto suo quando trovavamo un dosso o una buca, ma per il resto la strada era completamente diritta, con poche curve di tanto in tanto. Sul viso l’ombra della barba di due giorni gli dava un aspetto un po’ trasandato, accompagnato dai suoi capelli costantemente spettinati. Aveva indossato gli occhiali da sole, e ogni tanto si voltava a guardarmi, e un piccolo sorriso piegava le sue labbra. Io d’altra parte, ogni tanto mi soffermavo a guardarlo, approfittando del fatto che il suo sguardo fosse costantemente fisso sulla strada; osservavo la linea della mascella, coperta dalla barba chiara e leggera; il modo in cui i muscoli del braccio si tendevano quando girava il volante, e come la maglietta che indossava sotto la camicia a quadri a maniche corte aderiva al suo petto. Poi, non appena vedevo il suo capo muoversi, distoglievo lo sguardo, fingendo di osservare il paesaggio scorrere intorno a noi.

Ci fermammo due volte quella mattina, prima di arrivare ad Oklahoma City: la prima volta alla periferia di Sapulpa, dove si trovava un ponte di mattoni rossi, e la seconda a Stroud, per fotografare un famoso cafè della Route 66, chiamato Rock Cafe.

Quando arrivammo alla capitale dello Stato dell’Oklahoma era già mezzogiorno passato, così decidemmo di parcheggiare l’auto e andare subito nella zona del Bricktown Canal, dove si trovavano diversi ristoranti e tavole calde. Dopo una cena a base di barbecue eravamo entrambi intenzionati a mangiare qualcosa di più classico, come della pasta.

Prima di pranzare, decidemmo di prendere il traghetto che compie il giro del canale, e ci sedemmo nell’ultima fila di panchine, io con la macchina fotografica in mano e lui una bottiglietta di acqua. L’aria era calda, e il soffio del vento mentre ci muovevamo attraverso gli edifici sopraelevati rispetto al livello del canale, che gettavano ombra su gran parte del corso, rinfrescava piacevolmente.

Mi voltai a guardare Edward, che si era tolto gli occhiali da sole, e notai le sue occhiaie violacee, che marchiavano la pelle come lividi. Anche il mattino precedente aveva delle brutte borse sotto gli occhi, e mi aveva detto di non essere riuscito a dormire di notte, al ritorno dal Drive-In; possibile che anche quella notte non fosse riuscito a riposare? Certo, quando mi aveva raggiunto fuori dalla tenda doveva essere mezzanotte passata, e avevamo trascorso quasi un’ora svegli, a parlare e ad abbracciarci, ma del resto ci eravamo alzati tardi la mattina, quindi sarebbe dovuto riuscire a recuperare un po’ del sonno arretrato. In quel momento ricordai di essermi svegliata da sola, e che quindi probabilmente Edward era sveglio già da un po’. Da quanto precisamente, non lo sapevo.

«Sei riuscito a dormire stanotte?», gli chiesi a bruciapelo, lanciandogli occhiate perplesse. Con gli occhiali da sole a nascondergli gli occhi non sembrava stanco, ma senza di essi era evidente dall’espressione del suo viso quanto lo fosse realmente.

Gli occhi di Edward incrociarono i miei, l’espressione illeggibile. «Sì, certo».

Aggrottai le sopracciglia. «Allora perché hai delle occhiaie che sembra che non dormi da giorni?»

Lui scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo. «Probabilmente non ho dormito molto bene. Ma sono riposato, non preoccuparti».

Sorrise lievemente, per rassicurarmi, ma non gli credetti.

Dopo qualche minuto di silenzio, Edward allungò il braccio dietro le mie spalle, appoggiandolo al bordo della barca, osservando con la coda dell’occhio la mia reazione. Io rimasi per qualche secondo immobile, provando il bisogno di allontanarlo, come avrei fatto fino a poche ore prima; poi però ricordai il discorso di quella notte, e il fastidio svanì.

Ignorando tutti i buoni motivi che fino a quel momento mi avevano portata a stargli lontana, scivolai un po’ più vicina a lui, ed appoggiai il capo al suo braccio, mentre tenevo lo sguardo puntato verso gli edifici in alto.

Sentii i suoi muscoli dapprima irrigidirsi e subito dopo rilassarsi, e con la coda dell’occhio scorsi le sue labbra piegarsi in un accenno di sorriso.

Quella notte aveva cambiato molte cose, ma non sapevo ancora dire se l’avesse fatto in meglio, o in peggio.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salve! :D

Credo di aver stabilito un primato in quanto puntualità con questa storia XD

Comunque, come avete letto non si parla molto del viaggio in questo capitolo, ma viene affrontato meglio il rapporto fra Edward e Bella, e c'è anche un breve ricordo su come era la loro relazione quando le cose iniziavano ad andare male. Ho preferito lasciare il capitolo dedicato solo a loro due, mettendo il viaggio in disparte, proprio per sottolineare l'importanza di questo passaggio.

Ora diciamo che le cose andranno un pochino meglio fra di loro.

Come sempre grazie soprattutto a chi recensisce e mi fa sapere cosa ne pensa, anche poche parole sono sempre di grande aiuto per continuare la storia :D Grazie anche ai lettori silenziosi, e a chi aggiunge la storia alle preferite/seguite/ricordate!

A presto! :D

   
 
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