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Autore: Beatrix Bonnie    27/03/2012    1 recensioni
Filosofo mi chiamavano, teologo, profondo conoscitore dei misteri del creato. Io, in realtà, non sapevo bene chi ero. Non capivo dove mi stesse conducendo la mia insaziabile sete di conoscenza e vagabondavo senza meta, stanco di ogni cosa, ma instancabile nella ricerca di qualcosa di meglio. Ero uno spirito inquieto, che non riusciva a trovare la sua collocazione nel mondo.
Dublino, 1185
Al giovane intellettuale sir Gregory è stata affidata dal suo signore una delicata missione da compiere alla corte di re Gilbert del Leinster. Certo, sir Gregory non si immagina che qualcosa verrà a turbare la sua affaticata esistenza: una ragazza, la pace di un vecchio podere di campagna e il profumo di una lontana leggenda.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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Liber XI






Il castello del re del Connacht non aveva nulla a che fare con quello del Leinster. Questa era una vera e propria cittadella fortificata, dotata delle più moderne e sofisticate tecniche difensive. Due portoni d'ingresso, in curva, in modo tale che il secondo fosse nascosto dall'angolatura, conducevano ad un cortile interno, al cui centro si trovava una cisterna sotterranea con un pozzo. Un mastio piuttosto imponente proteggeva il lato su cui si trovava l'entrata, mentre un altro paio di torri difendevano gli altri versanti. Nel cortile, una piccola chiesetta e qualche bottega, tra cui quella del fabbro e quella del fornaio, rendevano il luogo autosufficiente e pressoché inespugnabile.
Ciò che aveva condotto nel regno del Connacht me e il mio inseparabile compagno Cormac era il lontano profumo di una leggenda: si diceva che nei più nascosti anfratti del castello fosse custodito un potente artefatto magico, una pietra che rivelava profezie se veniva toccata da un re giusto. Quanto ci fosse di vero in quella storia, non potevamo saperlo, ma era la nostra unica speranza per recuperare qualcosa che fungesse da merce di scambio.
Quello che mi preoccupava realmente non era solo la possibilità che quella leggenda fosse totalmente falsa, ma anche la prospettiva di incontrare il re del Connacht: Ruaidri Ua Conchobair, re Supremo d'Irlanda. Da ciò che avevo sentito di lui, non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di un crudele tiranno. Era lo stesso uomo che aveva combattuto contro Diamaid MacMurchadha, una volta che questi era tornato in Irlanda con l'aiuto degli Inglesi. Lo stesso uomo che aveva catturato e fatto uccidere il padre di Feamair e quello di Cormac.
Non sapevo come il mio amico avrebbe reagito alla vista di colui che lo aveva reso orfano, ma la proposta di andare nel Connacht era stata sua.
Avevamo viaggiato per poco più di dieci giorni, sotto un tempo davvero inclemente: novembre si era trasformato in dicembre portando con sé neve e freddo. Il mio mantello di lana, ora, non era quasi sufficiente per proteggersi dal vento pungente che soffiava senza sosta, scuotendo le cime degli alberi imbiancate dalla neve e facendo turbinare i fiocchi come dei ribollenti gorghi di un torrente in piena.
Non avevamo ideato un vero e proprio piano per penetrare a corte: semplicemente, volevamo presentarci al re come due studiosi e pellegrini, venuti a visitare la biblioteca di Dún Bhun na Gaillimhe*, il “forte alla foce del Gaillimhe”, come veniva allora chiamata la cittadella. In realtà la piccola chiesetta di san Nicola, accolta all'interno delle mura, non aveva una biblioteca particolarmente fornita, ma non avevamo una scusa migliore.
Fu così che una fredda notte di dicembre bussammo alle porte della città e una guardia piuttosto scorbutica ci intimò di presentarci e solo quando vide che eravamo due innocui pellegrini ci permise di entrare all'interno della corte.
Ci venne incontro un uomo piuttosto rude, dai modi rozzi e sbrigativi. «Che volete?» ci aggredì, poggiando la mano sinistra sul pomolo della spada, come per far vedere chi comandava lì dentro.
«Sir Gregory di Scozia e fratello Cormac del Leinster. Ci puoi introdurre al tuo signore?» domandai con cautela, ben sapendo che genere di comportamento conveniva tenere con tipi come quello.
L'uomo sembrò soppesare le mie parole, scrutando quanto potessimo essere pericolosi io e il mio compagno, poi scatarrò a terra e ci fece segno con la testa di seguirlo. Io e Cormac ci lanciammo uno sguardo d'intesa, poi ci affrettammo a pedinare il tizio.
Il salone dove ci condusse il capitano delle guardie era spoglio ed essenziale, illuminato da un fuoco che scoppiettava placidamente nel camino. Un lungo tavolaccio di legno, con un paio di panche e una sedia a capotavola, erano l'unico mobilio della stanza. Seduto a tavola, che consumava in silenzio il pasto scarno, stava re Ruaidri Ua Conchobair, re supremo d'Irlanda.
L'idea che mi ero fatto di lui non coincideva per niente con l'uomo che si presentò ai miei occhi: re Ruaidri aveva i lineamenti del volto duri, il corpo nervoso e forte, l'abbigliamento semplice ma regale. Era di un'età indefinibile, certo non giovane ma non si poteva dire nemmeno che fosse vecchio. I suoi occhi erano un pozzo nero che attirava il mio sguardo, un ipnotico e profondo vortice di sicurezza, giustizia, onestà. Emanava una naturale aurea di carisma e tranquillità: improvvisamente pensai che se avessi dovuto affidare la mia vita nelle mani di qualcuno, sarebbero state senza dubbio quelle forti e paterne di re Ruaidri. Il suo aspetto possente e vigoroso unito ad una sensazione di protezione che permeava chiunque fissasse i suoi occhi scuri, lo facevano apparire come l'uomo migliore in cui riporre la propria fiducia. Pensai che un vero re avrebbe dovuto avere il suo aspetto, non quello di Gilbert.
«Che cosa vi conduce qui, giovani pellegrini?» ci chiese re Ruaidri, alzandosi da tavola per accoglierci nella sala.
«Lo studio, mio signore» risposi, con un piccolo inchino.
«Di alcuni manoscritti della biblioteca di san Nicola» completò fratello Cormac, nel tentativo di ricoprire con una patina di verità quella pietosa bugia.
«Dunque siete uomini di lettere» commentò re Ruadri, tornando a sedersi e indicando a noi di fare lo stesso.
Io e Cormac prendemmo posto su una delle due panche.
«Sarete affamati, immagino. Venite da lontano?» ci domandò il re, in tono affabile. Sotto i suoi gesti posati e tranquilli, però, riuscivo ad intravedere con quanta attenzione ci stesse osservando e studiando.
«Io sono originario della Scozia e il mio compagno del Leinster, ma il nostro viaggio ci ha portati qui dall'Ulster» spiegai, mentre ci veniva servita una porzione di minestrone da un servo. Mangiai con calma il piatto che mi era stato messo davanti, anche se avrei voluto trangugiare il tutto in pochi sorsi, vista la fame che avevo.
Cormac sorseggiava la sua minestra con altrettanta tranquillità; non aveva fatto una piega, quando avevo asserito di venire dalla Scozia, sebbene sapesse anche lui che quella era una pietosa bugia, perché io ero nato a Londra.
Re Ruaidri ci fece molte altre domande quella sera, sui nostri studi, su ciò che conoscevamo e sul motivo che ci aveva portato sulla costa occidentale dell'Irlanda, in quel regno che era quasi al confine del mondo. Le sue richieste erano pacate e cortesi, sebbene avessero l'aria di un interrogatorio a cui era saggio non mentire. Ma noi, che saggi non eravamo, o, al contrario, ci consideravamo tanto saggi da riuscire a ingannare il re supremo, raccontammo senza battere ciglio la versione della storia che ci eravamo preparati lungo il viaggio.
Finalmente, ormai a notte fonda, re Ruaidri si alzò da tavola. «Mi piacerebbe ancora conversare con voi, ma si è fatto tardi. Vi posso offrire una stanza del mio castello, per il tempo che intenderete trattenervi qui a Gaillimhe» ci propose, in tono gentile.
«Ne saremmo onorati» risposi io, con un breve inchino del capo. La prospettiva era perfetta per il nostro piano, ma avevo come l'impressione che dietro quella offerta ci fosse la volontà di controllarci. In fondo, i suoi sospetti non erano poi così infondati, visto che eravamo arrivati da lui come pellegrini e intendevamo andarcene da ladri.
La permanenza al cestello del Connacht fu in realtà quasi piacevole, se non fosse che ogni nostro pensiero era concentrato nella ricerca della pietra magica. La corte di cui si era circondato il re non aveva niente a che fare con quella un po' frivola e parassitaria del palazzo del Leinster: qui c'erano prevalentemente uomini d'armi analfabeti, con i quali non era certo piacevole conversare, oltre a qualche dotto dall'aria un tantino ammuffita. L'unico personaggio davvero interessante era Conchobar Maenmaige, il figlio di re Ruaidri: aveva ereditato dal padre, senza dubbio, l'aurea carismatica, ma a differenza di questo, pareva molto più impulsivo e senza scrupoli.
Certo la mancanza di lauti banchetti in cui il pettegolezzo la faceva da padrone non aiutava me e Cormac a carpire informazioni che potessero tornarci utili nella ricerca della pietra.
Un giorno provai ad intavolare l'argomento con quello che doveva essere il segretario della corte, ma a giudicare dalla sua espressione stralunata, non aveva la più pallida idea di cosa stessi parlando.
Più fortuna riuscimmo ad averla intromettendoci nelle discussioni dei popolani e dei servi, ma ognuno raccontava una versione diversa e sempre oltremodo fantastica della storia, quindi non riuscimmo a capire quale fosse la verità. C'era chi parlava di una segreta sotto la torre sul versante nord, protetta da guardie giorno e notte, chi ipotizzava che fosse invece nascosta nella stanza privata del re, chi fantasticava sul fatto che fosse incastonata nella sua corona, o addirittura nel trono ligneo. In realtà, nemmeno sulla stessa pietra c'erano opinioni concordi: si passava da una minuscola perla color della luna, ad un menhir nascosto nel folto della foresta fuori dalla cittadella.
Stavamo navigando in un mare troppo vasto per la nostra piccola nave.
Quando stavo cominciando a disperare sulla possibilità di trovare la pietra, finalmente la fortuna girò dalla mia parte.
Re Ruaidri era un uomo pragmatico, con una mentalità improntata al comando. Al tempo stesso, però sembrava particolarmente affascinato dalla poesia e dalla teologia speculativa: mi chiedeva spesso di spiegargli la teoria dei corpi celesti o di narrargli i versi dei trovatori che avevo imparato durante i miei viaggi per l'Europa. Era uno spirito curioso, interessato alla conoscenza non solo come passatempo e distrazione, ma come strumento per migliorare la sua umanità. Un uomo davvero singolare.
Una sera venne a bussare alla porta della nostra stanza, quasi cautamente, come se fossimo noi i signori e lui il sottoposto. «Sir Gregory, fratello Cormac» ci salutò, con un breve inchino.
«Mio signore» rispose Cormac, alzandosi da terra, dove si era inginocchiato per recitare le sue preghiere quotidiane.
«Vorrei mostrarvi una cosa, se volete seguirmi» disse il re, aprendo la porta e indicando il corridoio con un gesto cortese.
Io e Cormac ci scambiammo uno sguardo veloce, poi ci affrettammo a seguirlo.
Re Ruaidri ci condusse verso il mastio, ma invece di entrare per la porta principale, aprì una botola in un angolo della corte e cominciò a scendere per una scala a chiocciola piuttosto impervia, prendendo una torcia dal muro. Avevo sempre immaginato che quella apertura conducesse alla cisterna e alle dispense, invece ci ritrovammo in un'angusta stanzetta con una sola porta, davanti alla quale stava ritta in piedi una guardia. Con un solo cenno del capo di re Ruadri, l'uomo si spostò di lato e ci fece passare.
La stanza dove entrammo era circolare, semibuia e piuttosto umidiccia: dovevamo trovarci sotto il mastio. Al centro del locale si trovava una colonna monolitica, alta circa un metro, sopra la quale stava poggiato un piccolo scrigno di legno.
Re Ruaidri fece qualche passo avanti e sfiorò il bauletto con un dito. «Voi siete dei dotti, no?» ci domandò, quasi sovrappensiero, mentre i suoi occhi erano puntati sullo scrigno.
«Sì, mio signore» risposi con voce tranquilla, sebbene fossi vagamente eccitato dall'idea di scoprire che cosa contenesse. Anche Cormac, a giudicare dallo sguardo esaltato che mi lanciò di sfuggita, doveva pensare la stessa cosa: lì era custodita la pietra magica.
«Qui dentro c'è...» cominciò a dire re Ruaidri, interrompendosi proprio sulla rivelazione, come se stesse soppesando le parole. «Un oggetto particolare» sospirò infine.
Sia io che Cormac ci avvicinammo impercettibilmente alla colonna, come attratti da una forza soprannaturale.
Finalmente re Ruaidri distolse gli occhi dal piccolo forziere e fissò il suo sguardo profondo sui nostri volti. «Voi siete dei dotti. Forse potete davvero spiegarmi che genere di oggetto sia questo».
E con quelle parole aprì lo scrigno.
Se avevo immaginato una favolosa pietra di fattura straordinaria, ciò che vidi mi lasciò piuttosto deluso: si trattava di una piccola sfera nera, con delle sottili venature grigie. Poteva sembrare un banale oggetto di marmo.
«Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto» commentò re Ruaidri, vedendo le nostre facce, da cui forse trapelava la nostra delusione. «Questa pietra mi fu donata da mio padre, che a sua volta la ricevette dal suo. Ha qualcosa di davvero speciale, che io non so spiegarmi» ci rivelò il re, indugiando con la mano sopra la sfera. Ci rivolse un sorriso tirato, quasi come se un certo qual sentimento di modestia gli impedisse di parlare. «Tradizione vuole che riveli delle profezie quando un re giusto la tocca».
Si bloccò per qualche secondo, poi soggiunse: «Giudicate voi stessi».
Con quelle parole, sfiorò delicatamente la pietra e subito questa cominciò a fremere, poi a tremare sempre più velocemente, finché non esplose in un arcobaleno di colori, riempiendo la piccola stanza di luce tanto forte che fui costretto a socchiudere gli occhi per non restare accecato. Il volto di re Ruaidri fu attraversato da una strana smorfia, poi tornò sereno. Nel momento stesso in cui staccò la mano dalla pietra, tutto cessò.
Nella piccola sala circolare calò il silenzio.
Stranamente fu proprio Cormac a interromperlo per primo. «Non ha parlato, la pietra» commentò in un tono strano, quasi cattivo, che non gli avevo mai sentito usare.
«Ha parlato, sì, nella mia testa» spiegò il re con tranquillità, senza accorgesi dell'accusa di fratello Cormac.
«E cosa vi ha detto?» continuò il chierico, come se volesse mettere in dubbio la magia alla quale avevamo appena assistito.
«Di stare attento in chi ripongo la mia fiducia».
Non sapevo dire se si trattava effettivamente di una profezia, ma visto che io e Cormac progettavamo di rubare quello stesso oggetto custodito tanto segretamente dal re, non potei evitare di pensare che quella frase era pericolosamente vicina alla verità.
Ma Cormac sembrava che avesse dimenticato la sua abituale cautela, sembrava quasi non aver sentito ciò che il re gli aveva risposto. «È per questo che avete ucciso Conchobhair MacMurchadha e tutti gli altri prigionieri che erano con lui? Perché ve l'ha detto la pietra?» domandò con voce amara.
Era la resa dei conti.
Capii solo allora che Cormac si portava dentro quella domanda da giorni, o forse addirittura da una vita intera. Voleva sapere, doveva capire, doveva sentire dalla bocca dello stesso uomo che l'aveva reso orfano il motivo per cui suo padre era morto. Doveva sapere se l'odio sarebbe stata una vendetta sufficiente o se invece avesse dovuto perdonarlo e andare avanti.
Re Ruaidri chiuse lo scrigno con un colpo secco. «No, la pietra non c'entrò in quella occasione. Fu una scelta sofferta, ma sono un re e devo agire nel modo migliore per proteggere il mio popolo» rispose con tranquillità.
Non capivo se non riusciva a comprendere il tono astioso con cui gli si rivolgeva Cormac o se semplicemente aveva deciso di controbattere con pacatezza.
«Se fu una scelta così sofferta, avreste potuto comportarvi diversamente» replicò Cormac, sempre più cupo.
Re Ruaidri esitò solo un attimo, poi rispose: «Eravamo in guerra. Quando Diarmaid MacMurchadha era stato scacciato dal Leinster, si era rivelato per il traditore che era sempre stato, portando nella nostra isola invasori stranieri. Dovevo stroncare le sue mire espansionistiche e soprattutto quelle di re Henry d'Inghilterra. Minacciai Diarmaid dicendo che avrei ucciso gli ostaggi se non si fosse arreso, ma nemmeno questo lo fermò. Mi dispiace, ma io dovevo proteggere la mia gente e la mia terra dall'invasione straniera» la sua voce divenne fioca.
Fece una piccola pausa, poi aggiunse: «In realtà fu un sacrificio inutile, visto come vanno le cose adesso nel Leinster: gli Inglesi sono dappertutto e prima o poi si prenderanno tutta l'Irlanda, per colpa di Diarmaid».





*È la moderna città di Galway, capoluogo dell'omonima contea e una delle più importanti città dell'Irlanda.


Ebbene, eccoci giunti nel regno del Connacht. Re Ruadri è, come sempre, personaggio storico: QUI la pagina di Wikipedia a lui dedicata (vi consiglio di guardarla anche in inglese che è più completa), QUI invece il mio disegno.
Si tratta, come al solito, della mia interpretazione di una figura storica: ho sempre pensato che Diarmait fosse un re impulsivo e poco lungimirante, mentre mi immagino re Ruadri come un uomo giusto e retto, forse solo un po' troppo severo.
Quanto alla pietra di Fal, è un oggetto magico leggendario che ho riciclato per i miei racconti. Ciò che dice al re (di stare attento di chi si fida), riguarda non solo i nostri due giovincelli che vogliono rubare la pietra, ma anche il figlio Conchobair che lo spodesterà nel 1186 (un anno dopo rispetto a quando è ambientata la mia vicenda).
Povero Ruadri! ^^
Alla prossima,
Beatrix

   
 
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