È il sedici di ottobre...
Un buon giorno per una festa.
“Una donna
che non aveva se non gli onori senza il potere, una principessa straniera, il
più sacro degli ostaggi, trascinarla dal trono al patibolo, attraverso ogni
sorta d'oltraggi, vi è in ciò qualcosa di peggio del regicidio.”
Napoleone
Bonaparte
Aveva
sempre invidiato gli attori.
Non
era tanto la possibilità di vivere mille e mille esistenze a suscitare la sua
invidia, quanto il gesto che compivano a fine rappresentazione, lontani da
occhi indiscreti.
La
possibilità di togliere la maschera.
I primi dodici anni della sua vita
erano stati estremamente felici e spensierati; nonostante fosse la figlia di
una delle più importanti sovrane che la storia possa ricordare, la grande Maria
Teresa d’Austria, la giovane arciduchessa non aveva risentito della rigida
etichetta di corte ed era vissuta senza particolari obblighi e imposizioni.
Le
maschere che inevitabilmente tutti erano tenuti ad indossare le sembravano
leggere, quasi impalpabili, e nell’ingenuità tipica della giovinezza aveva
creduto che nulla sarebbe cambiato, che la felicità le avrebbe sempre fatto
compagnia, nonostante avesse dovuto sopportare la perdita del padre e delle
amate sorelle maggiori.
All’improvviso,
però, qualcosa era entrato nella sua vita modificandola radicalmente e
costringendola a indossare una maschera elaborata e pesante, che solo la morte
le avrebbe potuto togliere.
Era
arrivata la Francia.
Bella, ma non perfetta.
Intelligente, ma non colta.
Per
due lunghi anni la giovane Antonia era stata costretta a modificare il proprio
aspetto, per renderlo più piacevole all’occhio francese, e il proprio
carattere, per renderlo degno del ruolo che era destinata a interpretare, fino
a quando non era rimasto quasi nulla della fanciulla che era.
Il
19 aprile 1770 Antonia, arciduchessa d’Austria, svanì per sempre.
Al
suo posto nacque Maria Antonietta, delfina di Francia.
Poi
la delfina divenne regina, indossando maschere sempre più elaborate, senza mai
potersene privare, senza mai prendere aria, perdendo se stessa in
quell’elaborato artifizio che era divenuta la sua vita.
Si
era chiesta spesso, in quegli anni, se prima o poi avrebbe potuto liberare il
viso da quel peso, mostrandosi per ciò che era realmente e non per ciò che era
tenuta a essere.
Invidiava
gli attori, Maria Antonietta, perché lei non poteva sciogliere i nastri della
sua maschera, ma doveva stringerli sempre di più, giorno dopo giorno, perché
per la Francia la sua regina non era mai abbastanza.
L’avrebbero
mai vista davvero?
E
lei avrebbe mai osservato i loro volti nudi?
Quando tutto sembrava destinato a
rimanere immutato, infine, era arrivato lui.
Si
erano incontrati a una festa in maschera, nel più dolce dei paradossi, e per la
prima volta l’allora delfina di Francia si era lasciata andare, cullata dalla
consapevolezza che, per quanto sciocco potesse essere, avere il volto celato da
una maschera vera le avrebbe permesso di allentare leggermente i nodi della
propria, per provare a essere semplicemente se stessa, per qualche ora.
L’incanto
era durato poco, Maria Antonietta era stata presto riconosciuta, ma
imprevedibilmente il misterioso accompagnatore non si era scomposto.
Era
riuscito ad andare oltre, Hans Axel von Fersen, a trovare la donna che Maria
Antonietta credeva di aver perduto, leggendole nell’animo come mai nessuno era
riuscito a fare e lei, anziché sentirsi vulnerabile, si sentì protetta.
Da
allora si erano sfiorati per anni, senza mai incrociarsi davvero: lei, nel
frattempo, aveva indossato le maschere più importanti della sua vita, quelle di
regina e di madre, mentre lui era avanzato nella carriera militare che aveva
scelto di intraprendere.
Nonostante
la vita rigidamente scandita dall’etichetta di corte, non vi era giorno in cui
l’azzurro degli occhi e la dolcezza del sorriso del conte svedese non le
facessero compagnia nei suoi ricordi.
***
Il Petit Trianon era il suo rifugio
da dieci anni, sin da quando, nel 1774, re Luigi l’aveva donato alla giovane
sposa dopo essere salito al trono; benché non fosse stato un matrimonio d’amore
e nonostante i caratteri diversi, il sovrano provava un affetto sincero verso
la moglie e aveva compreso presto la sua necessità di allontanarsi di tanto in
tanto dalla rigida etichetta di Versailles... Il piccolo castello, lontano
abbastanza dalla reggia da non esserne influenzato, ma vicino quanto basta per
permettere alla regina di essere ragiunta rapidamente per qualsiasi evenienza,
era sembrata la soluzione migliore.
E
Maria Antonietta amava quel suo angolo di mondo, popolato solo dalle persone a
lei più care e governato dalle poche regole che aveva stabilito personalmente.
Eppure, neppure i componenti di quel cerchio ristretto la comprendevano davvero
o le permettevano di lasciarsi andare totalmente...
Poi
qualcuno venne per rimanere e il cuore della regina si riempì di gioia.
Sembrava
un eroe da romanzo, con quegli occhi azzurri e quei capelli scuri che
incorniciavano un viso di straordinaria bellezza, ma ciò che più di tutto Maria
Antonietta amava erano le fossette che si formavano ai lati della bocca quando
le sorrideva, con quell’espressione impertinente che sembrava sfidarla a
resistergli.
Bello
e ricco, il conte Fersen avrebbe potuto avere qualsiasi donna desiderasse, ma
aveva votato il proprio cuore all’unica che non sarebbe mai stata interamente
sua, non solo perché era sposata, ma anche, e soprattutto, perché Maria
Antonietta apparteneva alla Francia, che era un rivale con cui neppure lui
poteva competere.
Era
arrivato di notte, portato dalla pioggia dopo anni di lontananza; la regina
l’aveva accolto davanti al camino, con del vino e una cena fredda improvvisata.
Aveva detto che sarebbe rimasto poco, appena il tempo di godersi un’estate
ormai agli sgoccioli, ma poi i giorni erano diventate settimane e quando una
notte di fine settembre l’aveva osservata camminare tra i fiori, rosa tra le
rose, con la pelle lattea rischiarata dalla luna e i capelli biondi che le
scendevano morbidi sulle spalle, lo sguardo perso in mondi lontani e un sorriso
beato sul volto, aveva capito che non sarebbe riuscito ad allontanarsi da lei.
Maria
Antonietta l’aveva stregato sin dal primo istante, quando ancora non sapeva che
la misteriosa fanciulla che aveva attirato la sua attenzione fosse la delfina;
aveva continuato a cercarla, negli anni a venire, senza però fermarsi troppo,
contemplandola da lontano, ammirando la sua forza, il suo spirito fiero,
innamorandosi sempre di più, senza riuscire ad evitarlo e senza neppure volerlo
evitare, perché l’amore per lei lo rendeva felice, lo rendeva pieno, ricambiato
o meno che fosse.
-Le rose bianche vi si addicono, mia
signora.
Maria
Antonietta gli sorrise, sfiorando con un dito un petalo di un fiore. –Sono
simbolo di purezza. Credete che lo sia?
-Ne
sono assolutamente convinto.
Sorrise,
la regina, fin troppo consapevole dei libelli che la dipingevano come una donna
succube dei piaceri carnali, un’immagine così lontana dalla realtà che sarebbe
stata divertente, se non (fosse stata fonte di tanta sofferenza. Fersen la riteneva
pura, e lei sapeva che non parlava per compiacerla o guadagnarsi i suoi favori;
era sempre stato quel tratto di lui a colpirla... Non voleva denaro o cariche,
né titoli o prestigio. Le ricordava i cavalieri cortesi, che amavano per il
puro piacere di amare una donna che ritenevano superiore a loro.
-Alcuni
direbbero che il rosso mi si addice meglio...
-Perché
non vi conoscono.
-E
voi sì?
Fersen
sorrise e le si avvicinò. La conosceva? Non come avrebbe voluto, perché
conoscere completamente una donna come Maria Antonietta era un’impresa che non
avrebbe potuto compiere neppure votandole l’intera vita, ma sapeva di essere
riuscito a scorgere in lei molto più di quello che lasciava vedere.
-So
che vi regalerei una rosa gialla, perché muoio di gelosia nei confronti di
vostro marito, dei vostri amici e dell’intera Francia. O una rosa color pesca,
perché da anni vi amo segretamente.- Il cuore del conte gli batteva furioso nel
petto: nonostante le si fosse dichiarato altre volte, non era mai rimasto con
lei abbastanza a lungo da sperare in un cambiamento del loro rapporto. Quella
volta invece sapeva che dopo anni di amore silenzioso era arrivato il momento
di rischiare tutto, perché Maria Antonietta era l’unica cosa che davvero
contasse, a dispetto della carriera militare e delle speranze che la sua
famiglia riponeva in lui. La osservò arrossire e le prese una mano – Ma più di
tutto vi donerei un girasole...
La
donna lo guardò, confusa dalle sue parole e incuriosita. Aveva bisogno di
sapere, una volta per tutte, cosa sentisse il conte per lei. Cercò di
scherzare, imponendosi di non tremare –Perché sono perennemente alla ricerca
del sole sul volto, a dispetto delle usanze?
-No.
Sono io il girasole, e voi siete il mio sole.
-C’è
la luna...
Un
commento sciocco, che lo fece ridere di cuore. Come potevano pensare che quella
donna meravigliosa, così delicata, dal cuore buono e sincero, fosse la rovina
del loro Paese? Come si poteva odiare Maria Antonietta?
-Appare
così pallida, in confronto a voi. Ricordate il nostro primo incontro? Non
sapevo chi foste, ma venni irrimediabilmente attirato dal fascino candido che
emanavate. Non dimenticherò mai il colore dei vostri occhi, celati da una
maschera.
-Neppure
io dimenticherò mai quella sera.
Gli
si avvicinò e gli sfiorò il volto con la mano libera, ripercorrendo quei
lineamenti ormai familiari, ma che non si sarebbe mai stancata di osservare.
-Dovremmo
organizzare una festa in maschera.
L’idea
era nata spontanea, come prima lo erano state le parole di lui.
-E
cosa si festeggia?
-Le
mille maschere che si possono indossare, e l’incontro con l’unica persona a cui
si mostra il proprio vero volto. Il sedici di ottobre.- Aggiunse prima che il
conte potesse replicare. -Il sedici di ottobre... È un buon giorno per una
festa.
-
Davvero? Come mai?
Maria
Antonietta alzò le spalle, in un gesto noncurante e divertito. –Perché è
sabato, perché è a metà mese, perché abbiamo dieci giorni per i preparativi...
Ma poi, deve sempre esserci un perché? Lo è e basta! Con voi, Fersen, ogni cosa
sfugge alla logica, dunque... perché non questa?
Il
conte annuì –E sedici ottobre sia.
***
Durante la prima settimana di
ottobre Maria Antonietta tornò a Versailles per alcuni giorni, ma fuggì non
appena ne ebbe l’occasione per tornare al Petit Trianon, dove Fersen l’aveva
attesa.
Si
accomodarono su due divani nel salone azzurro, il preferito della regina, e per
un po’ rimasero in silenzio, persi nella contemplazione: l’una del paesaggio
esterno, l’altro dei lineamenti delicati della donna.
-Questioni
urgenti vi hanno trattenuta a palazzo?
-Non
esattamente. Luigi voleva il mio parere, ma è l’unico a desiderarlo, dunque
ufficialmente abbiamo parlato solo del matrimonio del delfino.
Gli
occhi di Fersen si sgranarono dallo stupore
–Il matrimonio del delfino? Ma
se ha due anni!
Maria
Antonietta sorrise, sporgendosi a sfiorargli una mano –Non è mai troppo presto,
immagino. Dal matrimonio dell’erede di Francia dipende il destino non solo del
nostro regno, ma anche dell’Europa intera, mio caro.
-E
l’idea del matrimonio vi preoccupa?
-Non
eccessivamente... No. Non è di lui che mi preoccupo. Mio figlio se non altro
non dovrà allontanarsi da casa sua, mentre la mia piccola Madame Royale e la futura delfina...
Non
aveva mai dato voce a quei pensieri, perché sapeva bene quale fosse il suo
ruolo e quello dei suoi figli, ma il conte riusciva a far cadere ogni sua
barriera, portandola a sussurrare segreti mai svelati.
-Bella gerant alii! Tu, felix Austria, nube!
Nam quae Mars aliis, dat tibi regna Venus.
“Le
guerre le facciano gli altri! Tu, felice Austria, unisciti in matrimonio! A te
infatti Venere dona quei regni, che gli altri conquistano con l'aiuto di
Marte.”
L’aveva
solo sussurrato, ma Fersen l’aveva udita perfettamente; conosceva quel motto
austriaco, nato secoli prima e che Maria Teresa, la madre di Maria Antonietta,
aveva interpretato nel modo migliore, tessendo una delicata politica
matrimoniale che aveva creato alleanze con le più importnati monarchie europee.
Quante sorelle la sua regina aveva visto lasciare l’Austria, dirette verso
luoghi ignoti e mariti sconosciuti, prima di farlo lei stessa?
-Vi
manca casa?
Maria
Antonietta sorrise appena, lasciando scorrere lo sguardo oltre la finestra
aperta.
-Casa?
La Francia è casa mia ora. Se vi riferite a Vienna, però, la risposta è sì, mi
manca. Mi mancano i giorni spensierati, la compagnia delle mie sorelle e dei
miei fratelli, persino il cipiglio severo di Maman. Ma la mia vita è qui. È nostalgia dei tempi passati, non desiderio
di un presente diverso. Vedete, la Francia non ama me, ma io amo il mio regno.
-La
Francia...
-Non
crucciatevi e non sforzatevi ad elaborare avvincenti e false teorie. La Francia
non mi ama, non mi ha mai amata. Sarò sempre la straniera, l’Austriaca, come mi chiamano con
disprezzo, tanto a corte quanto nel popolo, quando pensano di non essere
sentiti. Volevano ardentemente che consumassi il matrimonio, ma quando
finalmente successe... non fu abbastanza. Volevano che dimostrassi la mia
fertilità, ma quando Maria Teresa nacque non fu abbastanza. Volevano l’erede,
ma persino ora che lo hanno non è abbastanza. Io non sarò mai abbastanza.
Non
c’era amarezza nel suo tono, ma solo fosche tinte di rassegnazione a un destino
a cui da tempo aveva compreso di non poter sfuggire.
-Spero
che la moglie del Delfino sarà più fortunata di quanto non sia stata io. Non a
livello di matrimonio in sè, in realtà,- aggiunse corrucciando la fronte –
perché mio marito è un uomo amabile. Certo, un matrimonio d’amore come quello
dei miei genitori o quello di mio fratello Giuseppe con la povera Maria
Isabella è sempre preferibile, ma è molto raro. Devo ammettere che mi sento
molto fortunata se penso al destino della mia cara sorella Carolina, che deve
vivere con quell’uomo disgustoso, o a Maria Teresa, messa da parte con così
tanta facilità, costretta a sopportare per anni le amanti del marito, il vostro
re Sole. Persino Maria Lecz... Lescy...
-Maria
Leszczyńska- suggerì Fersen, senza mutare l’espressione rapita e
sorridente.
-Esatto!-
esclamò Maria Antoniettà battendo le mani. -Non sono mai riuscita a
pronunciarlo bene quel nome. Comunque, persino lei non ebbe vita migliore. Il
marito non le impose mai le amanti, è vero, però le aveva, giusto? Luigi, anche
se non mi ama, mi vuole bene e mi rispetta, so che non mi sottoporrebbe mai a
tali umiliazioni. No, non è un diversa sorte matrimoniale che auguro alla
futura moglie di mio figlio... O alla mia bambina. Auguro loro di essere amate
dai loro popoli, però, perché io so quanto brucino le frasi sussurrate, quelle
cariche di veleno.
-Se
può esservi di conforto, la Francia non ama neppure me.
Maria
Antonietta scosse la testa quasi divertita –Mio caro Fersen, la Francia non vi
ama perché vi invidia la bellezza e il successo, ma neppure vi odia. Per me è
diverso, lo sapete.
L’uomo
annuì e il silenzio avvolse entrambi per alcuni minuti, lasciandoli persi in
pensieri accessibili a loro soltano.
Fu
il conte a spezzarlo, poco dopo -Perché?
-Perché
cosa?
-Perché
ve ne curate così tanto? Siete la regina, dopotutto, superiore a tutti noi.
Maria
Antonietta sospirò e osservò per un istante il proprio riflesso in uno specchio
–Si è ciò che si è, Fersen, e per tutta la vita il mio unico desiderio è stato
dimostrarmi all’altezza delle aspettative, essere amata, rendere felice il
prossimo, chiunque egli fosse.
-Rendete
felice me.
***
Tutto era pronto per la festa. Maria
Antonietta aveva invitato il re, ma Luigi aveva gentilmente declinato, così
l’unico membro della famiglia reale presente sarebbe stata la regina,
intenzionata per una sera a dimenticare titolo e onori, per comportarsi come
una normale fanciulla desiderosa di divertirsi.
Candele
profumate erano state distribuite lungo tutto il giardino, insieme a divani,
cuscini, poltrone e tavole imbandite di ogni leccornia; ciò che, però, aveva
attirato su di sé gli sforzi degli invitati erano stati gli abiti, che quella
notte avrebbero creato una girandola di stoffe e colori che sarebbe rimasta per
sempre nei cuori di chi vi aveva potuto assistere.
Maria
Antonietta si guardò allo specchio, sorridendo delle voci allegre che dal
giardino all’inglese salivano fino alla sua finestra: amò ciò che vide.
L’elaborato
abito all’ultima moda era viola e nero, mentre i capelli, coperti con un solo
strato di cipria per lasciar intravedere il naturale colore biondo-ramato che
le era sempre stato caro, erano arricchiti da piume e diamanti neri che
sembravano cambiare tonalità seguendo la luce delle candele.
La
maschera invece... Non sarebbe esistita affatto.
Maria
Antonietta aveva deciso di regalarsi una sera priva di qualsiasi costrizione,
qualsiasi ruolo prefissato: anziché indossare l’ennesima maschera, si sarebbe
fatta dipingere sulla pelle dei disegni viola e neri che ne avrebbero
riprodotto le forme.
Lieta
del risultato ottenuto, lasciò che le aprissero la porta della camera e uscì in
corridoio... Il suo cuore perse un battito: Fersen la stava attendendo in cima
alle scale e il suo volto celato da una maschera le ricordò il loro primo
incontro.
Nel
marasma di tutte le cose che erano cambiate nel corso degli anni, la costante
presenza dell’uomo al suo fianco, fisica o epistolare che fosse, la stordì di
gioia al punto che dovette tenersi al suo braccio per non crollare soffocata
dal peso delle proprie emozioni.
Lo
sguardo chiaro del conte, tinto di nostalgia e affetto, le fece comprendere di
non essere l’unica a cui le maschere avevano riportato a galla antiche memorie.
Maria
Antonietta posò la mano su quella che l’uomo le stava offrendo, sorridendo
incredula davanti a quell’immenso dono che la vita le aveva offerto, quasi a
ripagarla delle lacrime di dolore che aveva versato sin dal suo arrivo in
Francia, molti anni prima.
Scese
al piano inferiore al suo fianco e sempre insieme raggiunsero il resto degli
ospiti nell’elegante gazebo posizionato per l’occasione al centro del giardino:
vi trovarono Yolande de Polignac, la favorita della regina, la contessa di
Chalons e la cognata Yvonne de Polastron, che tra le donne risplendevano per
bellezza ed eleganza, e i nobili cavalieri Bensenval, Ligne, Ségur, il conte de
Polignac, il conte Vaudreuil e altri nobili che condividevano con la regina il
desiderio di allontanarsi dall’etichetta di corte, prediligendo un’atmosfera
più informale e rilassata.
Maria
Antonietta sorrise e chiacchierò con tutti, senza mai lasciare il fianco di
Fersen; la sola idea di allontanarsi da lui, quella notte, era impensabile al
punto che la regina ballò solo poche danze e unicamente con il conte.
Un
comportamento che a corte sarebbe stato scandaloso, ma che in quella ristretta
cerchia di amici fece sorridere: tutti erano a conoscenza dell’amore di Fersen
per la regina e si chiedevano solo quando Maria Antonietta avrebbe ammesso di
ricambiarlo. Quella notte mascherata, illuminata solo da uno spicchio di luna
crescente, sarebbe stata la notte giusta?
La
regina non si era mai sentita così felice come quella sera; una gioia matura,
consapevole, priva di qualsiasi regola che non fosse dettata dal cuore o
dall'istinto.
L’orologio
aveva suonato la terza ora della notte quando finalmente si sedettero,
circondati solo dai pochi coraggiosi che ancora non avevano ceduto al sonno o
al fascino dell’amore, ma Fersen era inquieto e dopo pochi minuti le chiese di
fare una passeggiata. Presero due calici, una bottiglia di champagne e si
avviarono nel buio verso il luogo che più di tutti Maria Antonietta amava di
quel suo piccolo regno: il Tempio
dell'Amore.
La
regina guidò il conte lungo i margini del lago, fino alla piattaforma
sopraelevata che ospitava il tempio in stile neoclassico, oltre le dodici
colonne, fino ai piedi della statua di Ercole.
-Qui.
Qui è perfetto.
Fersen
sorrise del suo entusiasmo e la aiutò ad accomodarsi sul freddo marmo,
coprendole le spalle con la sua giacca e togliendosi la maschera. Il volto
della regina sarebbe rimasto coperto dai disegni, ma non aveva importanza: lui
sarebbe sempre riuscito a vedere oltre qualsiasi maschera lei avesse indossato,
trovando la sua anima sotto strati di pizzo e convenzioni, oltre spoglie che
non le appartenevano e che era costretta ad indossare.
L’esigua
luce lunare illuminava appena la piccola collina su cui si trovavano e il
tempio era troppo lontano dal Petit Trianon perché la luce delle torce potesse
raggiungerli: con il volto in penombra Maria Antonietta gli appariva ancora più
bella, quasi ultraterrena.
Eppure
era lì, con lui, viva e palpitante.
Fu
puro istinto chinare il capo fino a raggiungere le labbra di lei, scoprendo un
incastro che lo scosse per la sua perfezione. Bastò poco perché entrambi percepissero
il desiderio di andare oltre, di lasciare davvero dietro di sé ogni maschera
per essere semplicemente un uomo e una donna ebbri d’amore.
Maria
Antonietta si lasciò andare, sdraiandosi sul pavimento e permettendo a Fersen di
adagiarsi sopra di lei.
Fu
un incontro di mani curiose, di respiri mozzati, di battiti accellerati. Furono
vestiti lasciati cadere lontani e gemiti che sfuggivano al controllo.
Fu
la fusione di due anime che non avrebbero mai smesso di rincorrersi, di
cercarsi e di trovarsi, nonostante la distanza, nonostante la vita che
costantemente si intrometteva tra loro.
Maria
Antonietta e Fersen impararono a memoria il corpo l’uno dell’altra, quella
notte, senza remore e senza paure, e quando il conte si spinse in lei per
l’ultima volta tremando in preda al piacere, un Toniette si perse nella notte, cristallizzando il momento a
perpetua memoria di un amore nato senza che se ne rendessero neppure conto,
custodito come il più prezioso degli averi.
Era bello, Hans Axel von Fersen, poggiato
a una delle dodici colonne del tempio, con la camicia bianca aperta a metà e i
capelli in disordine. Maria Antonietta l’avrebbe ricordato sempre così,
l’immagine stessa della perfezione, non perché lo fosse davvero, ma perché il
conte era perfetto ai suoi occhi, perfetto per lei come mai nessuno sarebbe mai
stato.
E
rise, Toniette, in piedi con solo la sottoveste addosso e la bottiglia vuota ai
suoi piedi, incredula e felice.
-Non
ve l’avevo forse detto, mio caro Fersen, che il sedici ottobre è un buon giorno
per una festa?
Andò
al centro del tempio e allargò le braccia, senza smettere di ridere, poi iniziò
a girare su se stessa, chiudendo gli occhi e beandosi della brezza fresca che
portava con sé i suoni lontani del palazzo che
si stava svegliando e il profumo più vicino del meraviglioso uomo che le aveva
donato una felicità che non credeva avrebbe mai provato.
Continuò
a girare, sfuggendo da qualsiasi ruolo, percependo la leggerezza di quel
momento, lasciando scivolare a terra tutte le maschere della sua vita.
Furono dei passi che risuonarono nel
corridoio di pietra a farla fermare bruscamente, spingendola ad aprire gli
occhi: niente più colonne corinzie, rose profumate e alberi autunnali, ma solo
mura grigie e fredde attorno a lei.
Si
morse il labbro, respirando profondamente per ritrovare una calma che pareva
sfuggirle, impedendosi di cedere al dolore e allo sconforto.
Si
avvicinò ad un catino e osservò i contorni sfumati del proprio corpo nel
riflesso dell’acqua che le era stata fornita per lavarsi: il volto era confuso,
ma il candore del semplice abito risplendeva persino nell’oscurità di quella
prigione. Le avevano vietato di indossare il nero, quegli sciocchi, senza
ricordare che il bianco era stato per secoli il colore del lutto per le regine
di Francia.
Maria
Antonietta lisciò con mani tremanti le pieghe dell’abito e si sfiorò la
treccia, poi respirò a fondo, cercando di ritrovare nell’aria stantia l’odore
dei prati austriaci, dei profumi di Versailles, dei fiori del Petit Trianon.
La
sua intera esistenza.
Infine
raddrizzò il capo e si voltò verso gli uomini che erano lì per lei, fiera e
solenne come solo una regina poteva essere.
E
non si piegò mai, neppure quando le tagliarono rozzamente i capelli e la fecero
salire sul carro dei condannati. Guardò fisso davanti a sé, con gli occhi
rossi, ma privi di lacrime: moglie ormai vedova, madre privata dei suoi figli,
regina senza più un trono, ma la dignità... Di quella nessuno poteva privarla.
Fersen
era lontano dalla Francia e lei ne era felice: era vivo, al sicuro, ed era
l’unica cosa che contasse, non aveva bisogno di averlo accanto a sé per
sentirlo vicino. Le aveva inviato un biglietto, nonostante lei l’avesse pregato
di non farlo per non mettere anche la sua vita in pericolo; Maria Antonietta
l’aveva prontamente bruciato, ma conservava le parole vicino al cuore.
Ti tengo la mano, Toniette. Togli la maschera amore mio.
Un
passo dopo l’altro, tra le urla di quello che era stato il suo popolo, arrivò
davanti alla ghigliottina, la stessa, forse, che aveva brutalmente ucciso suo
marito dieci mesi prima.
Inciampò
con un piede del boia e gli chiese scusa, istintivamente.
Sarebbero
state le sue ultime parole.
Verso la fine della vita avviene come verso la fine di un
ballo mascherato, quando tutti si tolgono la maschera. Allora si vede chi erano
veramente coloro coi quali si è venuti in contatto durante la vita.
Quante
persone che si erano finte amiche erano lì ad osservarla morire, felici della
sua sorte? Di tutti i nobili che in quegli anni l’avevano sostenuta, quelli che
le erano stati accanto anche nella sventura era un numero irrisorio e, proprio
per questo, le erano ancor più cari. Una vita di finzione e di maschere, che
erano state prontamente sostituite non appena la Rivoluzione era esplosa.
Maria
Antonietta osservò la piazza ai suoi piedi, che un tempo portava il nome di un
re che aveva molto amato, quel Luigi XV che l’aveva accolta in Francia come una
figlia; i parigini l’avevano rinominata Place
de la Revolution.
Il
sole splendeva alto su Parigi e il cuore le si gonfiò di dolore e di speranza.
Era troppo giovane per morire, ma al tempo stesso era pronta a farlo.
Strinse
una mano, cercando di ritrovare il calore di un corpo troppo lontano da lei...
Togli la maschera amore mio.
E
così fece, Maria Antonietta, per essere, nell’attimo estremo, solo una donna:
non più arciduchessa, né regina.
Quando
posò il capo sul legno di quell’arnese simbolo della rivoluzione era da poco
passato mezzodì.
Chiuse
gli occhi e quasi sorrise, vedendoli tutti lì per lei: i suoi genitori, le sue
sorelle, sua cognata, suo marito, i suoi figli ed infine Fersen, privi di
maschere, con i volti esposti proprio come il suo. I compagni di tutta una
vita, gli unici che desiderasse ricordare in quel momento, mentre si preparava
a dire addio ad alcuni di loro e, chissà, magari a ritrovarne altri in un luogo
più felice di quel mondo intriso di sangue.
La
fine del ballo era giunta, i volti si erano rivelati per ciò che erano, nel
bene e nel male, e lei stava mostrando alla Francia la se stessa più vera,
quella che non avevano mai voluto vedere e che, dopo quel giorno, non avrebbero
più visto.
È il sedici di ottobre... Un buon giorno per una festa.
Maria Antonia Giuseppa Giovanna
d'Asburgo-Lorena, arciduchessa d’Austria, delfina di Francia, regina di Francia
e, infine, vedova Capeto, morì il sedici di ottobre 1793, alle 12:15.
La sua testa fu presa dal boia e
mostrata al popolo che gridò «Viva la Repubblica!».
Il conte svedese Hans Axel von
Fersen morì il 20 giugno 1810, linciato da una folla inferocita che lo
accusava, a torto, d'aver avvelenato Carlo Augusto, duca di Augustenburg, erede
al trono di Svezia.
Non si sposò mai.
Note:
Era da tempo che volevo scrivere questa
storia, ma non ne avevo mai avuto l’occasione. Fortunatamente Elle, Cinzia e Lela hanno
avuto la splendida idea di indire un contest che aveva come colonna portante il
tema delle maschere, di un ballo e con una frase che facesse da filo
conduttore. La trovate alla fine della one shot, è di Arthur Schopenhauer:
Verso la fine della vita avviene come
verso la fine di un ballo mascherato, quando tutti si tolgono la maschera.
Allora si vede chi erano veramente coloro coi quali si è venuti in contatto
durante la vita.
Contrariamente a quanto magari si possa
pensare la mia idea non era descrivere l’amore tra Maria Antonietta e Fersen,
quanto ripercorrere i punti salienti della vita della regina, una donna che in
vita sua è stata molte cose, fuorché se stessa.
Maschere.
Fersen è stato, in realtà, un mezzo.
Forse troverete la parte iniziale
lenta, ma quello che volevo era, appunto, raccontarvi Maria Antonietta e i
riferimenti alla sua vita prima di quella festa sono stati inevitabili.
Il ballo è realmente accaduto o è stato
solo il sogno a cui si è aggrappata poco prima del triste epilogo della sua
vita? Lascio a voi la scelta...
Di certo c’è che Fersen conobbe davvero
l’allora delfina ad una festa in maschera, ma per anni il loro rapporto rimase
puramente platonico; probabilmente la relazione divenne fisica solo nel 1784,
anno in cui è ambientata la one shot.
Non vi annoio oltre.
Voglio solo ringraziare di tutto cuore
le giudiciE, sia per aver indetto il contest, sia per lo splendido giudizio che
hanno dato a questa one shot (Che per dovere di cronaca vi comunico essere
arrivata terza.) Grazie davvero ragazze!
Grazie a Dubhe, per averla betata e per i preziosi consigli.
Menzione speciale per Agnesina e Veronica, compagne di concorso e amiche meravigliose, ma
soprattutto permettetemi di dedicare questa storia a Erica, perché è il suo Fersen, e perché è OGGI.
Un abbraccio,
Emily