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Autore: Sarinne    29/03/2012    7 recensioni
Inghilterra 21 Giugno 1805. Il corpo della nobile ventenne Catherine Harling viene trovato riverso per terra in una pozza di sangue sotto il suo balcone del terzo piano. E' stato un suicidio?
Nascosta in quelle ombre. Nascosta dietro i muri dalle classiche decorazioni aristocratiche. Nel soffitto bianco. Nello specchio.
Lei era dappertutto.
Avvertiva la sua presenza nell’oscurità della stanza. Si nascondeva, forse strisciava nel pavimento come un verme, le sfiorava i piedi. Avvertiva il suo respiro, leggero e gelido sulla pelle. Costantemente a ricordarle che lei c’era ancora. Che non se ne sarebbe mai andata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prologo
Ombre










Gli occhi di Catherine erano spalancati nel vuoto, le unghie affondate nelle coperte, il petto che si alzava fin troppo velocemente sotto la vestaglia da notte ricamata, boccheggiava dalle labbra secche come se l’avessero appena liberata da due mani che la stavano strangolando.
Deglutì rumorosamente e subito dopo tossì stringendosi il petto, strozzata dalla sua stessa saliva.
La finestra era spalancata, le tende si muovevano al soffio della brezza estiva creando giochi di ombre sul muro alle sue spalle, come lussuosi vestiti da sera di ballerine danzanti nell’aria.
Un fruscio sulla pelle sudata le fece penetrare una lama di ghiaccio nel basso ventre, la sentì roteare nella carne mentre il cuore pompava sangue a ritmi accelerati, come un matto che batte la testa contro un muro fino a farla sanguinare.
Un altro fruscio, la sensazione di un respiro estraneo sulla pelle marmorea della sua guancia.
Silenzio.
Respiro bloccato. Arti bloccati. Cuore improvvisamente silenzioso, come se avesse paura di far rumore.
Pioggia gelida nella carne, che strisciava fin all’interno delle sue membra trasformando le ossa in fragile e pesante gesso, che scricchiola ad ogni movimento.
Solo la luna, come spinta a pietà, illuminava la sua camera creando ombre che agli occhi di una bambina spaventata sarebbero sembrati orribili mostri.
Lo sembravano anche per Catherine
Le iridi scure vagarono lentamente per la stanza, i suoi amati mobili lussuosi, d’avorio lucido e legno di ciliegio diventarono ombre di sudiciume dense come fango col calare della notte, il suo alto armadio uno squallido teatrino per marionette rotte, la sua specchiera rifletteva le ombre danzanti della tenta come orribili streghe nere nella notte.
Quelle ombre
Lei era lì.
Nascosta in quelle ombre. Nascosta dietro i muri dalle classiche decorazioni aristocratiche. Nel soffitto bianco. Nello specchio.
Lei era dappertutto.
Avvertiva la sua presenza nell’oscurità della stanza. Si nascondeva, forse strisciava nel pavimento come un verme, le sfiorava i piedi. Avvertiva il suo respiro, leggero e gelido sulla pelle. Costantemente a ricordarle che lei c’era ancora. Che non se ne sarebbe mai andata.
Catherine chiuse gli occhi, due calde lacrime le colarono lungo le guance, le rimasero sulla pelle, come cera sciolta di una candela.
Si alzò lentamente, pregando di non produrre alcun rumore, ma il fruscio della coperte ed i suoi piedi che atterravano sul pavimento gelido gli fecero pentire di essersi alzata.
Sentì il contatto morbido delle tende sotto i polpastrelli, dalle labbra secche fuoriuscì un sospiro di sollievo per essere ancora in camera sua e non a qualche parte a bruciare nel sangue bollente dell’inferno.
Non voleva aprire gli occhi.
Temeva che si sarebbe ritrovata il suo viso davanti, il suo sorriso sottile, le sue mani che le accarezzavano la guancia, la sua bocca che si posava delicatamente sulla fronte, lasciando solo la traccia di un bacio leggero come il vento di primavera, destinato a scomparire in un battito di ciglia.
Apri gli occhi.
Catherine strinse i pugni, le unghie bruciarono nel palmo sudato.
Sollevò di scatto le palpebre, la bocca dischiuda in un respiro pesante.
Niente.
Solo i suoi giardini lucidi di luna che brillavano d’un aura antica nella notte.
Chiuse la finestra delicatamente, fece scorrere le tende e si sedette sul letto, le palpebre pesanti calate, le mani composte sulla vestaglia, la schiena dritta, rigida, i capelli sciolti gettati all’indietro.
Emise un respiro leggero: Era tutto a posto.
La consapevolezza che in quella camera non c’era nessuno oltre a lei la fece sentire leggera come se al posto del suo corpo ci fosse solo la vestaglia di raso estiva.
Si umettò le labbra ed i suoi denti candidi brillarono in un sorriso di sollievo, uno di quei sorrisi di primavera che mischiati ai sui occhi e capelli color ebano la rendevano un affascinante e graziosa creatura da ammirare ad ogni ballo estivo.
Tirò lentamente su le lunghe ciglia scure, rassicurata dal fatto che davanti a lei non avrebbe trovato niente che non fosse stata la famigliare finestra lucida coperta dalle tende statiche e candide quasi quanto la sua pelle.
Si sentì una sciocca, come si era sentita le notti ed i giorni prima quando l’isteria e la paura si impossessavano di lei per ragioni del tutto irrazionali.
Sorrise, fiera del suo coraggio, d’aver vinto la patina gelida che le bloccava gli arti, chiudendo la finestra dopo essersi guardata intorno con coraggio.
Si umettò le labbra, il sonno, con sua deliziosa sorpresa, era sceso su di lei rendendola meno lucida e più goffa del solito. Si trascinò stancamente alla specchiera. Osservò il suo viso, illuminato solo in parte dalla luna, l’altra metà nascosta da una fitta ombra nera che graziava solo uno spicchio di luce alla punta del nasino sottile, sbarazzino e leggermente all’insù, il nero dei suoi occhi pareva fondersi con la stessa oscurità che contrastava con la marmorea tonalità della pelle, un difetto che faceva risaltare le labbra rosa chiaro più di quanto una pelle più scura avrebbe fatto.
Catherine non era alta, o slanciata o florida, o con forme perfette al posto giusto. L’unica cosa di cui poteva vantarsi erano i suoi lineamenti così graziosi da renderla un eterna ragazzina che nonostante i suoi vent’anni ne dimostrava a malapena sedici, ed il suo fisico così minuto, come una delicata e splendida farfalla che al minimo tocco si sarebbe spezzata contribuiva a bollarla come fragile bambina delicata come un fiore.
Impugnò il freddo manico della spazzola in legno laccato bianco, si portò i capelli davanti, fece scorrere le setole folte per tutta la loro lunghezza, fino alla punta scura e sottile che cadeva al lato della poltrona, all’altezza della vita, diede uno sguardo al collo latteo, non era mai stato slanciato nemmeno quello, poi il suo sguardo si bloccò. Le pupille parvero restringersi con lo spalancarsi degli occhi, il respiro mozzato gli gelò il petto, colando come acqua gelida fino al bassoventre e miscelandosi nelle viscere mentre la mano che teneva la spazzola a mezz’aria iniziò a tremare fino a farla cadere con un tonfo sul legno del pavimento, rimbalzò sul tappeto e rotolò con tonfi secchi fino a nascondersi sotto l’oscurità del letto.
Le ombre.
Le ombre riflesse nello specchio. Si muovevano.
Era impossibile…
<< no…>> un sussurrò quasi impercettibile mentre scuoteva la testa scura, l’immagine sconvolta del suo viso non riusciva a coprire l’angolo riflesso in cui figure scure danzavano come ventagli nelle abili mani di una geisha.
Era la tenda che proiettava quelle ombre.
Lanciò un rapido sguardo alla finestra: era chiusa, le tende era immobili.
Si girò di scatto verso le figure sul muro.
<< che cosa vuoi da me?! >>
Un urlo sconvolto, pieno di rabbia e disperazione, troppo forte per essere fuoriuscito da quelle flebili e sottili labbra.
Si alzò di scatto. La poltrona cadde all’indietro, lo schienale penetrò a fondo nella specchiera spaccandola con un rumore cristallino, i frammenti aguzzi luccicarono mentre si infrangevano al suolo, rimbalzando sul legno lucido illuminato dalla luna.
<< va VIA! >> urlò tutta la sua rabbia, la sua disperazione, la sua preghiera, la sua supplica in quelle semplici parole.
Silenzio.
Il busto teso in avanti, i pugni serrati, la bocca spalancata, il petto che si alzava ed abbassava, le lacrime che le colavano incessanti sulle guance sudate.
Presto Gwenda sarebbe corsa da lei, avrebbe spalancato la porta, l’avrebbe vista sconvolta e l’avrebbe stretta tra le braccia e rassicurata finché non sarebbe riuscita a calmarsi e poi l’avrebbe vegliata tutta la notte stringendole la mano. Com’era sempre successo.
Ma quella volta non fu così. Gwenda non venne da lei.
 
Nell’oscurità della notte, la lussuosa dimora appariva come un imponente edificio classico di un bianco lucido che brillava con la luna, attorno ad esso uno sconfinato giardino. Sul retro un labirinto di siepi scure. Fu quello il centro di un urlo agghiacciante, straziante e lacerante come una lama penetrata in profondità nella carne, salì fino alla luna e si spense senza un lamento come se fosse stato tranciato improvvisamente, senza un ottava in più













Questa è la mia primissima storia quindi supplico in ginocchio  accetto  qualunque tipo di critica e consiglio da scrittori e lettori più esperti. 
Un grazie a chiunque abbia letto il prologo.

Sarinne
  
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