Serie TV > Una mamma per amica
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Autore: ReaderNotViewer    01/04/2012    1 recensioni
Dieci scene tratte da un'ipotetica ottava stagione. Dieci gocce, tutte rigorosamente commestibili
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sono stata invitata a un tè!” annunciò Paris in tono indignato. Sbatté sul tavolo della cucina una pila di pesantissimi tomi di anatomia comparata e di altre piacevolezze d’argomento medico. Uno dei più grossi ruzzolò dal mucchio e Doyle si ritrovò a fissare da vicino l’illustrazione ultra dettagliata e ingrandita due volte di un globo oculare distaccato dalla sua sede naturale.
“Bentornata, tesoro, com’è andata la giornata?”
“È andata che sono stata invitata a un dannato tè.” Paris scostò le tende, mettendo in mostra una poco piacevole veduta sul muro della casa di fronte. Afferrò la maniglia, che girò a vuoto. “Perché il padrone di casa non è qui a riparare la maniglia della portafinestra?” chiese lasciando ricadere le tende.
“Verrà domani mattina alle otto.”
“Sarò già uscita a quell’ora.”
“Che è esattamente il motivo per cui verrà domani mattina alle otto. Cos’è questa storia del tè?”
Doyle salvò l’articolo che stava scrivendo sul portatile. Paris si appoggiò alle sue spalle per guardare. “Ancora con quell’articolo sullo zoo?”
“Domani lo consegno e mi pagano. Ti porto a mangiare fuori, se ti va.”
“Grazie.” Per un momento, Paris sembrò persino vagamente sorpresa che il suo fidanzato la invitasse a cena. Piacevolmente sorpresa, per di più. “Ma non posso: devo andare a quel tè.”
“Tutto il giorno?”
“È un posto sperduto in mezzo alla campagna. Gli Hurlindson abitano in un maniero isolato a due ore da Boston.”
“Ho già sentito questo nome…”
“Il Premio Hurlindson. Diecimila dollari per uno studente meritevole della Scuola di Medicina di Harvard. Il Consiglio accademico segnala cinque nomi e la famiglia Hurlindson sceglie uno dei cinque a cui andranno i quattrini. Barbaro. Anche se genuinamente capitalista, in fondo.”
“Tu avevi concorso per l’assegnazione di quel premio.”
“E adesso devo fare in modo che la signora Hurlindson sc me invece di uno degli altri quattro.”
“Sono sicuro che ci riuscirai. Vi vede tutti insieme o…”
“Uno alla volta, come camerieri mandati dall’agenzia di collocamento” Paris scosse la testa. “Sono preoccupata: ti sembrerà strano, ma io non riesco simpatica alle vecchie signore.”
A Doyle non sembrava poi così strano.
“Ti accompagnerei volentieri ma non posso. Devo vedere il mio capo alle quattro.”
“Perché dovresti accompagnarmi?” chiese Paris sospettosa.
“Per offrirti il mio supporto morale.”
“Oh. Giusto. Perché questo è quello che fanno i fidanzati: offrire supporto morale. Ma tu devi pensare al tuo lavoro: lo sai che per me la tua carriera viene al secondo posto, subito dopo la mia” dichiarò lei con un certo orgoglio. Rifletté un attimo prima di concludere: “Anch’io ti offro il mio supporto morale, visto?”
“Grazie” disse Doyle con semplicità.

Il maniero degli Hurlindson era una grande casa di campagna al centro di una vasta tenuta in parte boschiva. Poiché l’ultimo tratto di strada non era asfaltato, l’utilitaria di Paris, che non aveva le sospensioni molto in ordine, arrivò al cancello sobbalzando come un gioioso coniglietto a caccia di uova pasquali. La sua proprietaria non sembrava altrettanto gaia mentre scendeva dall’auto e armeggiava col video-citofono a fianco del monumentale cancello di ferro battuto. Era posto troppo in alto per lei, come spesso succedeva. Dopo una lunga serie di domande, peggio che se avesse voluto intrufolarsi nei quartieri generali della CIA, una voce sepolcrale le diede dettagliate istruzioni su come percorrere il viale e dove parcheggiare. Paris si ritrovò a suonare a un secondo videocitofono, nuovamente troppo in alto per lei, di fianco a una porta d’ingresso liscia come l’acciaio e altrettanto luccicante. L’edificio, una grande villa in arenaria grigia che si sarebbe intonata di più a un contesto urbano, era una deprimente costruzione risalente agli anni Trenta del secolo scorso in perfetto stato di conservazione che trasudava agiatezza e indifferenza per i comuni mortali. Paris, che un tempo era stata ricca, ne fu più urtata che impressionata. Un segaligno maggiordomo che sembrava intagliato nell’ebano le aprì la porta e le comunicò che la signora Hurlindson la stava aspettando. L’interno era leggermente più allegro dell’esterno, anche se quasi altrettanto monumentale. Una cameriera più larga che lunga la condusse silenziosamente lungo una sfilza di stanze dorate e lussuose fino a una grande biblioteca, le cui alte finestre prive di tende davano sul retro della casa. Lo sguardo veniva catturato dalle enormi ciotole letteralmente strabordanti di ogni sorta di bulbose in piena fioritura, che adornavano una grande terrazza che si stendeva al di là dei vetri. La stanza era così luminosa da far male agli occhi, arredata con alte librerie di legno scuro piene di volumi per la maggior parte molto vecchi. Paris pensò che avrebbero sicuramente fatto la gioia di Rori Gilmore. Davanti al caminetto, sulla cui mensola si allineava una serie di vasi di bronzo che sembravano urne cinerarie, c’erano un paio di monumentali poltrone in pelle, con lo schienale così alto che era impossibile capire se qualcuno vi fosse seduto o meno.
Paris aspettò qualche secondo e poi, consapevole che spesso le persone anziane sono sorde, gridò risolutamente: “Signora Hurlindson, sono arrivata!”
Ebbe l’impressione di sentire ridacchiare, ma prima che potesse registrare la stranezza di questa informazione, una candida mano si sporse e si agitò blandamente per indicarle di sedersi nella poltrona di fronte.
Auspicando che la signora Hurlindson non fosse paralizzata dall’artrite, Paris obbedì.
“Perché gridi tanto?”
Sebbene difficilmente Paris restasse senza parole, questa volta aprì e chiuse la bocca a vuoto per qualche minuto, dopo essere stramazzata, più che essersi seduta, sull’accogliente poltrona; poi ritrovò abbastanza fiato per esclamare: “Che mi venga un accidente!”
La signora Hurlindson ridacchiò nuovamente, tolse da sotto il corpo le lunghe gambe e si sedette più o meno correttamente, sistemandosi sotto il sedere il cortissimo vestito di morbido tessuto bianco e nero. Un campanellino risuonò nella testa pochissimo frivola di Paris e l’avvertì che quell’abito, nato in un atelier di gran nome a Milano o a Parigi, costava probabilmente quanto un anno d’affitto del suo appartamento.
“Oh, Paris, sono proprio contenta di vederti” disse la sua ospite in tono salottiero.
“Chissà come ti sarai divertita quando avrai riconosciuto il mio nome” rispose Paris socchiudendo gli occhi in un modo che un tempo sarebbe bastato a riempire la sua interlocutrice di terrore.
Madeleine Lynn, ora Madeleine Hurlindson, scrollò le spalle, mentre il chiassoso assortimento di pietre preziose che portava attorno al collo, appeso a un cordoncino d’oro così sottile che sarebbe potuto essere benissimo filo interdentale, rotolava di qua e di là, catturando la luce come la luminaria di un luna park.
“Un pochino mi sono divertita, sì.” ammise Madeleine senza scomporsi. Ad eccezione della collana di preziose pietre multicolori, era un’immagine completamente in bianco e nero: sembrava la fotografia di una lussuosa, patinata rivista di alta moda.
“Allora, devo ritenere che sia tu a farmi questo colloquio una cosa positiva o una cosa negativa?” chiese Paris con la solita franchezza.
“Non saprei…” rispose Madeleine scuotendo i lucenti capelli neri, esattamente come aveva fatto alla Chilton, quando si sentiva in difficoltà davanti alla domanda di un test, cioè molto spesso. “Da quando sei diventata povera, Paris?”
“Da prima che tu diventassi la signora Hurlindson, immagino.”
“Avrai bisogno di questi soldi del premio, allora” disse Madeleine in tono pratico, sporgendosi per prendere un fascicolo dal tavolino davanti a sé.
“Quello è il mio fascicolo, Madeleine?”
Con grazia ma con decisione, l’altra allontanò le mani di Paris. “Non credo che dovresti vederlo.”
“Perché? Che cosa potrebbe esserci scritto che io già non sappia?”
“Sto prendendo questa cosa molto sul serio.”
“Perché?” chiese di nuovo Paris. “Perché devi prendere sul serio proprio una cosa che potrebbe costarmi diecimila dollari, quando non hai mai preso niente sul serio in vita tua?”
“Sei tu che non hai mai preso sul serio la mia vita, Paris” la corresse Madeleine. “Io prendo sul serio moltissime cose. Non mi guardare così: non mi importa se tutti credono che io abbia sposato Herbert per il suo denaro.”
“Posso darti il beneficio del dubbio, visto che anch’io ho soggiaciuto al fascino delle rughe, una volta.”
“Lo dici per convincermi a scegliere te invece di un altro candidato?”
“Dovresti sapere che non sono una bugiarda. Se lo fossi, ti direi che questo mausoleo in cui vivi è molto bello.”
“Non lo è?”
“Fa venire i brividi. A proposito, quelle sul camino sono urne funebri?”
“Spero proprio di no, ma non ne sono sicurissima. Così, vuoi diventare un dottore?”
“Visto che sai già che frequento la Scuola di medicina di Harvard, la risposta è un deciso sì.”
“Che cosa ti attira? Pratica clinica o ricerca?”
Paris faticò a credere alle sue orecchie: non avrebbe mai pensato che Madeleine potesse usare certi termini, tanto più a proposito.
“Il laboratorio non mi dispiace, ma tutto sommato preferisco il contatto umano. Quindi penso che prenderò qualche specializzazione per curare la gente” rispose onestamente. “Che cosa c’è da ridere?”
“Niente” rispose la signora Hurlindson:” Stavo solo pensando che sarai proprio come il dottor House.”

N.d.A: noticine sparse:

(1) Madeleine è una delle due amiche (l’altra è la bionda Louise) che Paris ha alla Chilton. Apparentemente svampita, Madeleine non se la prende troppo per la prepotenza di miss Gellar

(2) Paris a Yale frequenta quello che credo si chiami “premed” quindi dovrebbe proseguire con la scuola di medicina. Mi piace pensare che sia riuscita ad entrare ad Harvard, visto che dopo la Chilton non ci era riuscita.

  
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