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Autore: Blackvirgo    01/04/2012    4 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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Cos’è che nascondi?

Gino si spogliò velocemente dei pantaloni eleganti e della camicia stropicciata e si infilò qualcosa di comodo. Mise la tessera magnetica in tasca e uscì dalla stanza riservando alla porta il trattamento che avrebbe voluto riservare alla faccia di Gentile: sbatterla violentemente contro lo stipite. Non aveva mai avuto così voglia di picchiare qualcuno con la lucida prerogativa di fargli tanto male. Fortuna che, almeno lui, non aveva bevuto. Non abbastanza almeno. Corse giù per le scale e fuori dall’albergo, ringraziando la sorte per non aver incontrato nessuno: difficile spiegare che il suo improvviso desiderio di una passeggiata notturna dipendeva dalla malsana voglia di spaccare la faccia al suo compagno di stanza. Nonostante lui – di solito – fosse quello che le risse le sedava.
 
L’aria di ottobre si rivelò piacevolmente fresca sulla pelle. Gino inspirò a pieni polmoni, guardandosi attorno per orientarsi. Non era il caso di perdersi per Tokyo: quella sera ci aveva già pensato Gentile a far abbastanza casino per tutti quanti. Iniziò a muovere i piedi, uno avanti all’altro, lasciandosi assorbire dal via vai della gente, dalla confusione, dal rumore e dalle luci. Non voleva pensare a quello che era appena accaduto, ma ogni singola scena, parola e gesto gli tornava alla mente come un disco rotto, aumentando ulteriormente la rabbia che già aveva in corpo. E non aver nessuno con cui sfogarsi era la parte peggiore: Shingo doveva essere nel mondo dei sogni già da un bel po’ – si era addormentato su una sedia verso la fine della festa – e qualche paranoia esistenziale che avrebbe portato a un monologo sconclusionato non valeva una telefonata intercontinentale. Avrebbe solo fatto preoccupare il suo interlocutore, nella fattispecie suo fratello o sua sorella o entrambi.
Paradossalmente, la cosa che gli dava più fastidio era che il dubbio che Gentile fosse meno stronzo di quanto desse a vedere lo aveva avuto per davvero.
 
Era nato all’ultimo ritiro, quel dubbio, una settimana prima della partenza per il Giappone. Avevano passato il pomeriggio a studiare le tattiche e le tecniche dei loro avversari e Salvatore, dopo aver visto un video su Shingo, aveva cominciato a denigrarlo – al solito – e lui – sempre come al solito – lo aveva difeso. Giusto per essere preso a male parole dal compagno di squadra e poi tacere per evitare di litigare sul serio. Ma Gentile, una volta in camera da soli, aveva ripreso l’argomento: “Dì, Hernandez, da quando sei diventato il paladino del calcio giapponese?” gli aveva chiesto, strafottente e arrogante.
”Io non sono il paladino di nessuno: non mi piacciono i pregiudizi. E poi, mister miglior libero del mondo, dovresti sapere che al mondiale juniores siamo stati battuti da avversari più che validi. Tanto che quel campionato se lo sono aggiudicato proprio i giapponesi, vincendo in finale la Germania che, obiettivamente, era una squadra più forte della nostra.”
“Punto sull’orgoglio, Hernandez?”
Gino aveva scosso la testa: “Mi dà più fastidio l’accanimento che hai contro Shingo. Quando arrivò in squadra, nelle giovanili dell’Inter, successe la stessa cosa: gli combinarono cattiverie di ogni genere.”
“Ma aveva il prode Hernandez dalla sua parte!” Che splendida faccia da schiaffi che aveva Gentile!
“Molto spiritoso,” aveva commentato Gino senza il minimo divertimento. “Dato che sei così brillante, potresti anche spiegarmi una cosa che i miei compagni di squadra non sono riusciti: che gusto c’è a prendersela con un ragazzino che parla a mala pena la tua lingua ed è venuto ad abitare a diecimila chilometri da casa sua per fare la stessa cosa che facciamo noi?”
“E sarebbe?”
“Correre dietro a un pallone,” aveva risposto Gino pragmatico. “O, se preferisci essere più poetico, imparare a giocare a calcio.”
Gentile ci aveva pensato un po’ su: “È divertente,” aveva concluso.
“Io mi diverto a giocare a calcio, alla play station, a uscire con gli amici... divertirsi alle spalle degli altri, a casa mia, si chiama essere stronzi.”
“Mi stai dando dello stronzo?” aveva ribattuto Salvatore piccato.
Gino aveva alzato le sopracciglia e si era stretto nelle spalle, un’espressione eloquente dipinta in volto.
“Quindi tu non hai mai preso per il culo nessuno durante la tua irreprensibile vita?” aveva continuato Gentile, offeso.
Era stato il turno di Gino di perdersi in riflessioni prima di rispondere: “Forse, ma sicuramente ho smesso quando ho capito che può fare male.”
“E per cosa potrebbe mai essere stato preso in giro il perfect keeper e colpito così profondamente da trasformarsi in un paladino dei poveri?” aveva insinuato Gentile, inquisitorio. Irridente.
Gino aveva risposto con un sorriso. In realtà non era mai stato realmente sfottuto per qualcosa: il suo modo di fare aperto e spontaneo e la bravura nello sport erano sempre stati ottimi lasciapassare nei rapporti con i compagni di classe o di squadra. Ma certe parole pesavano come macigni, anche quando non erano rivolte direttamente a lui.
“Sai perché non sopporto quando la gente prende in giro Shingo?” aveva domandato a sua volta. “Perché si appella al fatto che è giapponese: come se dipendesse da lui. E, soprattutto, come se fosse una colpa.”
“Wow! Anche lezione di psicologia per noi poveri stronzi! E tu che difetto di fabbrica avresti?” gli aveva chiesto Salvatore squadrandolo con occhio critico.
“Praticamente perfetto sotto ogni aspetto.”
“Non fregarmi le battute, Hernandez.”
Gino aveva riso. “Veramente era Mary Poppins!”
“Vediamo... quale scheletro potrebbe nascondere nell’armadio il prode Hernandez?” si era chiesto ad alta voce Gentile continuando a squadrare il compagno di stanza con occhio clinico. “Gambe corte no, denti storti neppure, giapponese neanche per sogno,” aveva iniziato ad elencare ad alta voce. “Qualche drammone esistenziale della tua famiglia? Sei stato raccolto di fianco a un cassonetto per la raccolta differenziata?”
“Acqua.”
“Allora è vero che nascondi qualcosa,” aveva commentato Gentile, malignamente felice.
“Chi non nasconde qualcosa?” aveva risposto Gino teatrale, sperando di far cadere il discorso.
Ma il difensore non lo era stato a sentire: “Vediamo un po’... non hai la faccia né da serial killer né da stupratore... ma magari sei solo bravo a nasconderti!”
Gino aveva scosso la testa.
“Hai un figlio illegittimo?”
“La pianti di sparare stronzate, Gentile?” aveva ribattuto marcando l’ultima parola. Da quando si chiamavano per cognome, poi?, si era chiesto Gino. O voleva sfotterlo anche perché il suo non era italiano?
“Vuol forse dire che mi sto avvicinando alla verità?”
“No, vuol solo dire che stai iniziando a scocciarmi.”
Era andato avanti così, con le domande più disparate, fino a che non era venuto fuori con quel: “Sei frocio?” che Gino non era stato in grado di negare.
“Hernandez?”
Di nuovo silenzio, mentre i denti si erano serrati ancora di più: un conto era mantenere il riserbo, un altro mentire.
“Lo sei davvero?”
Gino si era voltato e aveva posato su Salvatore uno sguardo stranamente duro.
“La vuoi piantare con questi stupidi giochetti?”
Ma il volto di Salvatore si era chiuso in un’espressione indecifrabile: “Lo sei davvero,” aveva mormorato incredulo.
“Pensa quello che vuoi, Salvatore, ma lasciami in pace.”
A Gentile era scappata una risatina sarcastica: “Ci ho preso! Fra tutto quello che potevi sembrare, non avrei mai detto che avresti potuto essere una checca.”
“Vedi di non ripeterlo, allora,” gli aveva intimato Gino, in procinto di salutare la sua proverbiale pazienza.
“Perché nel qual caso potresti trasformarti nel ben più pericoloso prototipo di checca isterica?”
“No,” gli aveva risposto Gino serrando la mascella. “Perché nel qual caso potrei abbandonare i miei ideali anti-violenza a scopo didattico, giusto per capire cosa si prova a spaccare la faccia a chi ti rompe i coglioni.”
“Ti piace violento, Hernandez? Anche questo non l’avrei mai detto.”
“Sai una cosa, Gentile?”  aveva replicato Gino avvicinandosi e squadrandolo con occhi diversi, come folgorato da una prospettiva completamente nuova. “Se non fosse che sei tu a fare queste illazioni, direi quasi che ci stai provando. C’è solo un problema: saresti anche scopabile se non avessi il carattere di merda che ti ritrovi.”
 
Gino non si era aspettato che lo tenesse per sé. Si era preparato a tutto: da battutine di pessimo gusto che lo mettessero in imbarazzo davanti agli altri fino al più completo sputtanamento... Invece nulla: l’argomento non era mai più riemerso, fino a quella sera. E sarebbe stato meglio se non fosse emerso neppure quella sera. Ma che diavolo gli sarà preso?, pensò Hernandez guardando in alto, a cercare le stelle nascoste dai bagliori della città e dallo smog. Anche a Milano era così. Gino aveva sempre preferito il cielo che poteva vedere da casa dei suoi genitori: in campagna, le luci del paese non potevano competere con quelle dei corpi celesti. Ma neppure quei radi puntini luminosi gli suggerirono una risposta: fosse stato un altro, avrebbe pensato che ci stava provando. Ma il comportamento di Salvatore era stato volto a umiliarlo, a dimostrare di poter avere ragione di lui. Gli era apparso come la risposta ai rimproveri che lui stesso gli aveva rivolto durante la cerimonia. E gli occhi del difensore sembravano dire: tu sarai anche il capitano, ma sono io che ti ho in pugno.
Rimane il fatto però che un etero, di solito, non si approccia così a un gay, pensò Gino. Ma che ti aspetti da un idiota arrogante, ubriaco e vendicativo? Chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni l’aria fresca di quella sera ottobrina, sperando di ritrovare un po’ di calma: era raro che lui si arrabbiasse e Salvatore Gentile stava rapidamente scalando la classifica delle persone che potevano dire di averlo visto perdere le staffe più di una volta.
 
Gino pensò a lungo se fosse il caso di tornare nella propria camera o chiedere asilo politico a qualcuno dei suoi compagni. Alla fine si era rassegnato a scartare la seconda ipotesi: non aveva nessuna voglia di raccontare quello che era successo, neppure omettendo i particolari equivoci. Non era il caso di incrinare ulteriormente la già scarsa coesione della squadra, né di rischiare un coming out assolutamente fuori luogo dovuto alla sua congenita incapacità di mentire: non era pronto a mettere in gioco quell’autostima e quella consapevolezza di sé che aveva guadagnato a duro prezzo. Erano affari suoi di chi si innamorava o chi si portava a letto, solo affari suoi. Serrò i denti, ripetendosi una volta in più che avrebbe dovuto imparare a difendersi dai pregiudizi un giorno, perché tanto non avrebbe potuto nascondersi per sempre – né lo voleva. Ci penserò domani, si disse, varcando la soglia dell’albergo. Sempre che non ci pensasse Gentile a metterlo di fronte al fatto compiuto, nonostante il silenzio mantenuto fino a quel momento: dopo quello che aveva combinato quella sera, non sapeva più cosa aspettarsi. Non che avesse mai avuto idea di cosa passasse per la testa del difensore: definirlo impenetrabile era un eufemismo. Sembra la prova vivente che ognuno diventa ciò che fa, sorrise Gino. Alla faccia della difesa di ferro e del catenaccio!
Percorse silenzioso i corridoi dell’albergo, pregando che la doccia fredda avesse calmato i bollenti spiriti del difensore e sperando di trovarlo già a letto addormentato. Passò la tessera magnetica nel lettore ed entrò in camera in punta di piedi per non far rumore, ma quando notò la luce accesa lasciò perdere ogni accortezza. Richiuse la porta alle sue spalle con un lieve clack, appoggiandosi contro di essa e scrutando la stanza alla ricerca del compagno. In bagno la doccia stava ancora scrosciando, beatamente ignorata. Di Gentile, invece, nessuna traccia.
Gino si irrigidì e, con la fronte corrugata, mosse qualche passo verso il suo letto, finendo per preoccuparsi seriamente quando vide Salvatore seduto sul pavimento, la schiena appoggiata a un letto, le braccia abbandonate lungo il corpo, la testa piegata di lato e le gambe rattrappite perché l’altro letto non gli permetteva di allungarle.
Gino si avvicinò rapidamente e gli si inginocchiò di fianco: “Salvo?!” lo chiamò afferrandolo per le spalle e scuotendolo.
“Mhhh....”
“Salvo, tirati su,” continuò Hernandez, con un sospiro di sollievo. Almeno non è in coma etilico. “Se rimani a dormire in quella posizione, domani avrai male anche a posti che non sai di avere.”
“Mi scoppia la testa,” biascicò Gentile senza neanche aprire gli occhi, appoggiandosi pesantemente al portiere per alzarsi e lasciandosi guidare verso il proprio letto.
Tempo un minuto e Gino gli mise in mano un bicchiere con un po’ di acqua: “Bevi. Sono due aspirine: male non ti possono fare.”
Gentile obbedì di nuovo, insolitamente docile. “Gino,” riprese poi con voce strascicata, “Ti devo parlare.”
“No,” rispose Hernandez mettendo al sicuro il bicchiere. “Quello che devi fare ora è toglierti questa roba bagnata di dosso, asciugarti e metterti a dormire.”
Salvatore lo fissò inebetito, intento a interpretare il significato delle sue parole, quindi le sue dita tremanti iniziarono a litigare con un bottone della camicia, senza riuscire a scendere a compromessi con l’asola.
Gino osservò perplesso il difensore, pungolato da un fastidioso senso di colpa: temeva che la doccia fredda avesse fatto ancora più danni della sbornia. Certo che non era stato lui a chiedergli di comportarsi in modo talmente idiota da fargli attuare quella vendetta così stupida e... così gratificante. Sul momento almeno. 
Non ce la farà mai, constatò Hernandez, allungando un braccio per sorreggere Salvatore che, sbilanciatosi in avanti, aveva rischiato di finire disteso sul pavimento ancora una volta: l’alcol, la doccia fredda e la mezza dormita che s’era fatto sembravano averlo completamente disattivato. Dalla padella alla brace, pensò Gino, sparendo in bagno. Chiuse la doccia, e tornò armato di phon, accappatoio e asciugamani. Appoggiò tutto sul letto e iniziò a dedicarsi all’arduo compito di liberare Salvatore dai vestiti bagnati. La stoffa della cravatta, ruvida e impregnata di acqua, non ne voleva sapere di scorrere per lasciar disfare il nodo. Se Gino avesse avuto un paio di forbici a portata di mano l’avrebbe direttamente tagliata, con buona pace della divisa ufficiale della nazionale. Imprecò fra i denti, scostando con malagrazia le mani di Gentile che, nel tentativo di aiutarlo, facevano più danno che utile, e a forza di tirare e strattonare, riuscì infine ad allargarla abbastanza da sfilarla dal collo di Salvatore, inciampando, nel processo, sia nelle orecchie che nel naso e strappando dei mugolii di protesta da parte del difensore.
Che fatica!, pensò Gino, togliendosi a sua volta la felpa. Riempì d’aria i polmoni e si preparò mentalmente ad attaccare i bottoni della camicia.
 
Ad ogni centimetro di pelle umida che Hernandez denudava, una stilettata di ghiaccio percorreva ogni fibra nervosa del corpo di Salvatore, raggiungendone ogni anfratto. Ad ogni tocco delle mani calde di Gino, Salvatore guadagnava quello stesso centimetro verso il suo compagno, alla ricerca del suo corpo, del tepore che prometteva. Non aveva mai avuto così tanto freddo in tutta la sua vita. Si avvicinò al portiere, facendosi spazio fra le sue braccia fino ad accoccolarglisi addosso, e gli posò la testa sulla spalla bagnandogli la maglietta coi capelli ancora grondanti d’acqua. Era comodo, Hernandez, e aveva un buon profumo. Magari ha anche un buon sapore, considerò, poggiandogli un bacio alla base del collo, un bacio morbido che nulla aveva della voracità di quello che prima gli aveva stampato sulle labbra, ma che conservava integro lo stesso desiderio.
“Salvo, smettila,” lo redarguì Gino, piegando la testa di lato per allontanarsi e risolvendosi a drappeggiargli l’accappatoio sulle spalle perché, da quella posizione, non era in grado di farglielo indossare. Né Gentile pareva dell’idea di cominciare a comportarsi da persona sensata. A Hernandez quella confidenza – quell’intimità – che il difensore si stava arrogando dava fastidio. È ubriaco, si ripeté il numero uno per l’ennesima volta collegando il phon alla presa di corrente e accendendolo, tutta la sua mente tesa nello sforzo di reprimere quella rabbia che era riuscito a sopire con tanta fatica, ma che minacciava di esplodere un’altra volta.
Salvatore alzò il volto: aveva la fronte corrugata, gli occhi lucidi e addolciti dal sonno. Scoccò un’occhiata truce al phon, infastidito dal suo rumore, trovandosi a strizzare gli occhi quando vennero investiti dal getto di aria calda per poi rifugiarsi di nuovo sulla spalla del suo compagno.
Gino non riuscì a trattenere un sorriso, tanto quell’espressione era diversa da qualunque altra avesse mai visto sul viso del difensore. Cosa nascondi dietro tutta quell’arroganza, eh Salvo?, si chiese e, complice un pungente senso di colpa per aver contribuito a renderlo così indifeso e la premura che quello stato gli ispirava, finì per concedergli di essere sfruttato come cuscino ricevendo come ricompensa, di tanto in tanto, un bacio sulla pelle tra il collo e la spalla assieme a qualche parola inintelligibile.
“Salvo, tirati su,” gli mormorò Gino, dopo avergli passato una mano tra i capelli per assicurarsi che fossero decentemente asciutti. Gentile obbedì, sedendosi sul letto mentre l’accappatoio bagnato scivolava giù dalle sue spalle e un nuovo brivido gli attraversava la schiena e le ossa. Mentre Gino armeggiava con la maglietta del pigiama, Salvatore gli si appoggiò nuovamente addosso, circondandogli il torace con le braccia e mormorando qualcosa che il portiere non riuscì ad afferrare. Gino avrebbe voluto redarguirlo di nuovo, ma i gesti di Salvatore destavano in lui un’ improbabile tenerezza: sapeva che continuavano a essere solo i deliri di un ubriaco intirizzito, ma l’ostinazione con cui il difensore continuava a cercarlo, quella determinazione priva della solita – insopportabile – arroganza, lo confondeva. Gino gli circondò a sua volta la schiena con le mani, sfregandola per scaldare la pelle ancora fredda e umida. Il respiro regolare di Salvatore gli fece presumere che si fosse addormentato: era strano tenerlo così, fra le braccia. Era la  vertigine di trovarsi un cuore vigliacco in gola, fuggito dal petto per paura di cadere senza scampo nel vuoto che sentiva alla bocca dello stomaco. Era desiderio di stendersi senza lasciarlo andare, di scaldarlo e di lasciarsi baciare, di addormentarsi e di svegliarsi abbracciati. Idiota, Hernandez! si disse, destandosi dalle quelle fantasie che solo la stanchezza del viaggio, la rabbia di poco prima e l’ora tarda potevano giustificare. Gino si conosceva abbastanza bene da sapere di non avere nessuna vocazione per il martirio: prendersi una sbandata per un compagno di squadra era un’idea da troncare in partenza. Soprattutto alla vigilia di un campionato mondiale. Soprattutto per uno come Gentile, amabile solo mentre dormiva e etero fino a prova contraria. Basta così, si ripeté scuotendo la testa, per dare una mescolata ai suoi neuroni affinché ogni cosa tornasse al suo posto. Stronzate incluse.
“Salvo, tirati su, dai,” gli ripeté, scostandolo da sé più bruscamente di quanto avrebbe voluto.
Gentile mugugnò qualcosa, per nulla contento di interrompere il contatto. Si convinse a indossare il pigiama e – insolitamente docile – si fece infilare sotto le coperte.
“Gino, devi dirmelo,” mormorò di punto in bianco, aprendo gli occhi con un grandissimo sforzo. La voce suonava roca, come se avesse dovuto arrampicarsi dalla gola pur di uscire e formulare quella domanda che non gli dava pace. “Stai con Aoi?”
“Smettila con questa storia e bada a dormire,” fu la secca risposta di Hernandez. Non si sentiva in grado di sostenere quella conversazione: non a quell’ora e non in quello stato.
“No,” insistette Salvatore allungando una mano per afferrargli un polso, ma stringendo solo aria. “Devi dirmelo.” Lo guardava con gli occhi lucidi e sembrava più presente di prima.
“Perché lo vuoi sapere?”
Gentile si tirò a sedere sul letto, portandosi una mano alla fronte. Chiuse gli occhi per un attimo e quando ebbe la certezza che avrebbe potuto aprire la bocca senza vomitare, riprese a parlare: “Gino, quello che è successo... io...”
“Sssst!” fece Hernandez appoggiandogli un dito sulle labbra per zittirlo. “Ne riparliamo dopo il World Youth. Ora abbiamo cose più importanti a cui pensare. In primo luogo dormire.”
***
 
Note:
- Non è vero che due aspirine male non ti possono fare. Soprattutto se prese a stomaco vuoto. *lo dovevo dire*
- Un enorme ringraziamento a tutti quelli che stanno leggendo questa storia e tanto amore a Melantò e Releuse che mi hanno lasciato due commenti meravigliosi.
- il solito abbraccione ad Ale!
   
 
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