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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    02/04/2012    5 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

I'm sorry that I hurt you,

It's something I must live with everyday;

And all the pain I put you through,

I wish that I could take it all away and be the one who catches all your tears 

Thats why i need you to hear:

I've found a reason for me,

To change who I used to be,

A reason to start over new.

And the reason is you.

Hoobastank - The Reason

07. Crossing streets

Non avevo mai guidato una jeep, né avrei mai pensato di farlo. Per prima cosa non credevo mi si sarebbe mai presentata l’occasione, e secondo non avrei mai creduto che il proprietario di suddetta jeep mi avrebbe permesso di guidarla. Tuttavia, quando la stanchezza di Edward divenne troppo evidente perché lui potesse continuare a guidare, in qualche modo riuscii a convincerlo a lasciarmi prendere il volante. Già durante il pranzo sembrava sul punto di crollare con la faccia nel piatto, e non volevo rischiare un incidente perché lui rischiava di addormentarsi al volante.

Probabilmente Edward rifletté sul fatto che se mi avesse concesso di guidare, anziché fermarci da qualche parte per lasciarlo riposare, ci saremmo mossi, avvicinandoci un altro po’ alla nostra meta, ovvero Los Angeles. Il giorno precedente avevamo fatto poca strada, e avevamo bisogno di procedere con il nostro viaggio, soprattutto visto il fatto che ci stavamo avvicinando sempre di più alla zona desertica degli States. Se in Oklahoma faceva già così caldo non osavo immaginare quali sarebbero state le temperature in Texas, New Mexico ed Arizona.

Edward passò i primi venti minuti del viaggio a controllarmi e a darmi indicazioni su come manovrare l’auto e come calibrare la velocità, poi, infine, con mio grande sollievo, si addormentò. Me ne resi conto quasi subito, perché erano passati più di due minuti dall’ultima volta che mi aveva rimproverata per la scarsa velocità a cui viaggiavamo, e quando voltai il capo nella sua direzione lo vidi con il gomito incastrato contro il finestrino, e la testa sorretta dalla mano. Gli occhi erano chiusi, ma un lieve cipiglio infastidito rimaneva a piegare la sua fronte. Di certo quella non era la posizione più comoda per dormire, ma almeno avrebbe riposato un po’.

Senza più Edward a darmi ordini e rimproveri, potei godermi la mia prima guida dopo tanti anni. In fondo guidare la jeep non era così diverso da guidare il mio vecchio pick-up; i comandi erano perfino più semplici e il volante si girava facilmente, senza alcuno sforzo. Il paesaggio scorreva davanti ai miei occhi, e le ruote scivolavano sull’asfalto vecchio e scolorito. L’erba che circondava la strada era gialla e polverosa, e alcuni alberi erano completamente secchi e anneriti. Di tanto in tanto a lato spuntava il cartello marrone della Route 66, che mi indicava che stavo seguendo la giusta via.

Dopo più di un’ora di viaggio in silenzio, accompagnata solo dal chiacchiericcio della radio, arrivai alla città di Hydro, dove si trovava una vecchia stazione di servizio. Accostai l’auto sullo sterrato accanto alla casupola e spensi il motore. Il climatizzatore, fino a quel momento impostato per mantenere una temperatura che non fosse né troppo calda né troppo fredda, si spense, e mi sembrò di sentire il caldo aumentare immediatamente. Presi la macchina fotografica dal sedile posteriore e guardai Edward, ancora addormentato. Mi aveva esplicitamente chiesto di svegliarlo una volta giunti ad un punto d’interesse, ma vederlo così profondamente addormentato mi fece sentire in colpa. L’avrei svegliato solo per vedere una piccola stazione di servizio in disuso, simile ad altre viste fino a quel momento, e che avrebbe tranquillamente potuto osservare in fotografia. Tuttavia, sapevo quanto Edward ci tenesse a non perdersi nulla del viaggio, ed ero certa che anche solo essersi addormentato per un’ora mentre la strada scorreva sotto di lui sarebbe stato fastidioso, quindi decisi di svegliarlo.

«Edward?», lo chiamai, scuotendogli leggermente la spalla.

Vidi le sue sopracciglia aggrottarsi, e parlò prima ancora di aprire gli occhi. «Ti prego, dimmi che non hai bucato una gomma», mormorò, con la voce arrochita dal sonno.

Alzai gli occhi al cielo, sorridendo. «Non hai proprio un minimo di fiducia».

Le sue labbra si piegarono in un piccolo sorriso e finalmente aprì gli occhi, alzando il capo. Quando girò il viso nella mia direzione vidi la macchia rossiccia lasciata dal suo pugno sulla tempia destra. «Sembra che hai fatto a pugni», commentai.

Edward inarcò un sopracciglio, perplesso. Istintivamente allungai una mano fino a sfiorare con la punta delle dita l’arrossamento della pelle, su cui erano visibili i segni delle nocche e delle falangi. Nei suoi occhi lessi sorpresa e allontanai la mano, imponendomi di non indugiare sulla sua pelle. Distolsi lo sguardo, a disagio, e aprii la portiera, stringendo fra le dita la macchina fotografica. «Siamo arrivati alla Lucille’s Service Station», lo informai, e scesi dall’auto.

Con la coda dell’occhio lo vidi annuire, e subito dopo mi raggiunse all’aperto. Non c’era molto da vedere: era una piccola casupola bianca con due vecchie pompe di benzina Phillips 66 rosse fiammanti.

Una volta scattate un paio di fotografie tornammo alla macchina. Prima che Edward potesse allungare il braccio per afferrare la portiera dalla parte del guidatore lo fermai. «Tocca ancora a me guidare», lo rimproverai.

«Ho dormito», disse lui, come se un’ora di sonno - per di più in una posizione scomodissima - potesse essere ristoratore.

Gli lanciai un’occhiataccia, e lui sbuffò. «Ricordati che io non so fare bene le foto. Se vuoi fotografare qualcosa per strada dovrai fermarti per farle tu».

Alzai gli occhi al cielo, e mi infilai al mio posto in auto. In pochi minuti il fresco garantito dal climatizzatore era svanito, sostituito da un’asfissiante afa che toglieva il respiro. Accesi l’aria condizionata, tenendola bassa per evitare l’effetto indesiderato di generare un brutto mal di testa ad entrambi, e mi rimisi in carreggiata.

Edward rimise il sedile in posizione più eretta, e passò i successivi venti minuti a chiedermi come far funzionare la macchina fotografica, ordinandomi al tempo stesso di non provare a staccare gli occhi dalla strada per controllare quello che stava facendo né di allontanare le mani dal volante per gesticolare o indicare. Era buffo il modo in cui si preoccupava che mantenessi il controllo dell’auto, nonostante non ci fosse neanche l’ombra di una macchina con cui avrei potuto fare un incidente. In questo tratto di strada non c’erano nemmeno i fossati al limitare della banchina, quindi nella peggiore delle ipotesi sarei finita sullo sterrato dove avrei rischiato di bucare una gomma.

«È troppo complicato questo affare», brontolò dopo aver provato a scattare una fotografia, senza successo. «Avremmo dovuto prendere una di quelle macchine fotografiche istantanee».

«Così avremmo avuto un solo tentativo per foto», commentai, sorridendo. Le macchine fotografiche professionali erano sempre state un mistero per Edward, per quanto si sforzasse di capire come funzionassero non riusciva a fare una fotografia a fuoco accettabile.

Edward lasciò cadere il discorso con un gesto della mano, e si soffermò ad osservare il paesaggio che scorreva al nostro fianco: una serie di mulini a vento per l’energia eolica ruotavano sopra un prato che si estendeva a perdita d’occhio, come tante girandole giganti. Eravamo arrivati nei pressi di Weatherford, dove si trovava il Wind Energy Center.

Fermai la jeep sul bordo della strada, e recuperai la macchina fotografica dalle mani di Edward, reimpostando tutti i comandi che aveva scombussolato in quei pochi minuti di prove. Curiosai in mezzo agli scatti di prova, e risi davanti ai risultati orribili.

«Credo sia meglio che lasci a me fare le fotografie. Non sono proprio il tuo forte», dissi, ridendo leggermente.

Edward scrollò le spalle, e fece una risatina. «Sono più bravo a stare davanti all’obiettivo che dietro», commentò semplicemente.

Su quello non potei dire nulla, poiché era la pura e semplice verità. Edward era sempre stato fotogenico, e in alcune foto quando si metteva in posa sembrava perfino un modello. Ma questo ovviamente non glielo dissi, onde evitare di aumentare il suo ego già di per sé smisurato.

Mentre ci dirigevamo verso Clinton, dove avremmo potuto visitare l’Oklahoma Route 66 Museum, il caldo iniziò ad essere insostenibile. Accesi l’aria condizionata al massimo, ed Edward iniziò ad maneggiare le manopole e i tasti del climatizzatore, senza successo.

«Sta facendo aria calda anziché fredda», disse, accigliato.

Portai una mano davanti ad un bocchettone, aggrottando le sopracciglia. «Eppure ho impostato il climatizzatore su diciotto gradi. Non dovrebbe fare così», borbottai, contrariata.

Edward spense tutto, e attivò semplicemente l’aria condizionata, subito dopo aver abbassato i finestrini. L’afa era una delle cose peggiori che potessero esistere: ti toglieva il respiro, e la strada che si estendeva davanti a me sembrava essere immersa in una gigantesca gelatina trasparente, che faceva traballare la vista. Sentivo il calore che come una patina si appiccicava alla mia pelle, e il fatto di non potermi muovere nemmeno per farmi aria da sola era un problema.

Quando arrivammo a Clinton Edward non era ancora riuscito a risolvere il problema. Aveva perfino cercato nel libro dei comandi cosa fare per impostare il climatizzatore, ma senza successo.

Appena varcammo l’ingresso del museo, che riportava come cartello a bordo strada un’enorme targa della Route 66, ci dirigemmo ai bagni per darci una rinfrescata. Il museo non era molto diverso da quelli visitati in precedenza, ma a differenza degli altri era più frequentato. C’erano famigliole di stranieri in visita, e la musica all’ingresso, proveniente da un vecchio juke box, era allegra e accogliente. Era fornito di ogni genere di pompa da benzina del passato, e in un’ultima saletta era disposto l’immancabile furgoncino della Volkswagen, per metà verniciato nei colori classici e per l’altra con ogni tipo di colore brillante, e la frase “Make love, not war”.

Tornati in auto, Edward mi lasciò guidare senza dire nulla, preoccupandosi piuttosto di impiegare il tempo del viaggio fino ad Elk City per leggere attentamente il manuale delle istruzioni. Quando parcheggiai la jeep davanti al secondo ed ultimo museo dedicato alla Route 66 di quel giorno - e dell’Oklahoma -, annunciò la sua teoria: «Credo che il serbatoio dell’aria condizionata sia scarico».

Lo guardai preoccupata. «E questo cosa significa?»

«Significa che dobbiamo portare la macchina da un meccanico per farci ricaricare il serbatoio. Per fortuna non è nulla di grave».

«Credi», sottolineai, scettica.

Edward si accigliò. «Sì. Non sono un meccanico, non posso essere sicuro al cento per cento».

Sospirai, e scesi dalla macchina, seguita da lui. Visitammo il National Route 66 Museum in fretta, decisi a cercare un meccanico non appena ci saremmo rimessi in marcia. Ne trovammo uno in centro ad Elk City, e fermammo l’auto davanti al garage giusto in tempo per fermarlo dal chiudere l’officina. Era quasi sera ormai, e tutti i negozi stavano iniziando a spegnere le loro insegne e a chiudere le porte.

Il meccanico era un uomo sulla cinquantina, che indossava una vecchia salopette macchiata d’olio in più punti e un capellino da football nonostante si trovasse al chiuso, perfettamente riparato dalla luce del sole. Il viso era burbero, e quando Edward lo chiamò, chiedendogli di aspettare a tirare giù la serranda, gli lanciò un’occhiataccia.

Edward non si fece scoraggiare, e gli spiegò brevemente il problema.

Fortunatamente, l’uomo accettò di sistemarci l’auto, e borbottò anche che eravamo l’ennesimo caso di serbatoio scarico, e forse anche per questo accettò di aiutarci.

Edward segnò il costo del meccanico sul piccolo quadernetto delle spese che facevamo durante il viaggio, infilando lo scontrino nella busta incollata alla copertina. Era un modo come un altro per tenere sotto controllo il budget giornaliero, e soprattutto ci dava un’indicazione su quanto stavamo spendendo e quanto potevamo permetterci. Sia io che lui fortunatamente non avevamo problemi economici - soprattutto lui, sia grazie al suo lavoro altamente remunerativo che al capitale di famiglia - ma non eravamo il tipo di persone che spendevano i soldi alla prima occasione, senza un motivo. Avevamo fissato un budget giornaliero, e avremmo cercato di rispettarlo.

Quando risalimmo in macchina pochi minuti dopo e accesi l’aria condizionata, una folata d’aria fresca riempì l’abitacolo, facendomi sospirare per il piacere. Non avrei retto un chilometro di più con quell’afa.

Il caldo mi aveva stancata notevolmente, e mi sembrava di sentire la stanchezza come un peso fisico che mi premeva sulle spalle, compressandomi contro il terreno. Avrei solo voluto sdraiarmi su un letto, possibilmente con una temperatura che non superasse i venti gradi. Edward non era messo meglio di me, e in più aveva chissà quante ore di sonno da recuperare dalle notti precedenti; nel complesso, eravamo messi davvero male. Per questo motivo una volta superato il confine del Texas decidemmo di cercare subito un posto dove dormire, anche perché il sole stava ormai tramontando e si avvicinava l’ora di cena.

Guidai a fatica fino a McLean, dove si trovava uno dei vecchi motel dell’originaria Route 66, completamente ristrutturato. L’insegna era un grosso cactus, che riportava il nome in giallo Cactus Inn Motel. Le auto nel parcheggio erano poche, come poche erano le porte delle stanze. Parcheggiai davanti all’ufficio-reception e scesi con Edward, incapace di stare ancora in auto. Prima di ripartire Edward mi aveva chiesto di fare cambio, ma mi ero imposta a continuare: per una volta avevo la possibilità di guidare io, e se volevo che Edward mi permettesse di farlo ancora dovevo dimostrargli di essere in grado di gestire l’auto senza problemi quando lui era stanco.

Mi trascinai dietro di lui fino a davanti il bancone, dietro il quale stava una donna con i capelli biondi stretti in uno chignon scomposto e un piccolo ventilatore appoggiato sulla scrivania, puntato sul viso e il decoltè prosperoso. Guardò Edward e poi me, con lo sguardo vacuo di chi è stravolto dal caldo - specchio dei nostri.

«Volete una stanza?», chiese, con un forte accento del sud. «Altrimenti l’ufficio informazioni è a cinquecento metri a destra».

Edward non si scompose davanti al suo tono maleducato. «Vorremmo due singole per questa notte», disse gentilmente.

La donna non si mosse. «Ci è rimasta solo una singola. Tutte le altre sono matrimoniali».

Presi un profondo respiro e guardai Edward, che ricambiò lo sguardo. Eravamo entrambi troppo stanchi per cercare un altro posto dove dormire, ma al tempo stesso eravamo entrambi consapevoli che dormire nella stessa stanza avrebbe voluto dire con ogni probabilità affrontare lo stesso discorso della notte precedente in campeggio.

Edward si passò una mano sul viso, e respirò profondamente. «Quanto costano la singola e la matrimoniale?»

Finalmente la donna dietro il bancone si raddrizzò sulla sedia, e aprì il quaderno del motel davanti a lei. Lesse i prezzi per la singola e la matrimoniale, e non mi servì guardare Edward per capire che prendere entrambe le stanze per dormire una sola notte sarebbe stato da pazzi, sia come spesa che anche solo a pensarci. Essendo uno dei motel più rinomati in quanto punto di interesse della Route 66 era ovvio che i prezzi per le stanze fossero abbastanza alti - abbastanza alti per essere quelli di un semplice motel, ma mai quanto quelli di un hotel, ovviamente.

Edward mi guardò, indeciso. «Cosa facciamo?», mi chiese.

Mi morsi il labbro inferiore, e distolsi lo sguardo. «Per me va bene prendere anche la matrimoniale. Basta avere un posto dove dormire, non ce la faccio più», ammisi.

Lui annuì, e si voltò nuovamente verso la donna, che ci osservava annoiata. «Prendiamo una matrimoniale».

 

Quando uscii dal bagno, dopo una rilassante doccia rinfrescante, mi sdraiai sul letto, e maledii per la seconda volta le misure dei materassi matrimoniali dei motel. Quelli non erano letti da due piazze, ma letti da una piazza e mezza, i cosiddetti Queen Bed. Erano sempre più spaziosi del sacco a pelo di Edward, ma non sarebbe stato come dormire in due letti separati.

Mentre Edward era sotto la doccia mi sdraiai sul materasso, e provai a ruotarmi dalla parte dove avrei dormito quella notte. Sapendo quanto mi muovevo nel sonno le probabilità di non toccare accidentalmente Edward erano pochissime. Era anche vero che quando ero molto stanca il più delle volte non mi spostavo, ma non era sicuro.

Chiusi gli occhi, respirando l’aria fresca della stanza. L’aria condizionata era accesa, ma non si sentiva alcun rumore di ventole. Il letto era così morbido che avrei voluto infilarmi sotto le coperte e non riemergerne più. Il rumore dell’acqua della doccia era terminato, lasciando solo un piacevole silenzio.

Mi addormentai, e fu solo una scossa alla spalla più forte delle altre a risvegliarmi dal sonno profondo in cui ero precipitata. Riaprii gli occhi, confusa, e scoprii che la luce dell’abat-jour era accesa, illuminando la stanza di un giallo-arancione scuro. Piegai il capo, e incontrai lo sguardo di Edward. Era sdraiato sul letto al mio fianco. I capelli erano tutti scompigliati, segno che probabilmente non li aveva nemmeno asciugati con il phon. Gli occhi erano assonnati e stralunati.

«Che c’è?», gracchiai, incapace di scrollarmi di dosso la stanchezza.

«Sono le undici», disse, anche lui con la voce arrochita dal sonno. «Non abbiamo neanche cenato».

Mi alzai a sedere, e mi passai la mano sul viso. «Cosa facciamo ora?», domandai, schiarendomi la voce.

Edward si alzò sui gomiti. «C’è un McDonald’s qui vicino. Se hai fame possiamo andare a mangiare qualcosa lì e poi tornare a dormire».

Annuii, confusa dal sonno. Andai in bagno a lavarmi la faccia con l’acqua ghiacciata, cercando di scacciare questa sensazione di stanchezza, e subito dopo uscimmo nell’afa texana, diretti verso l’unico locale per mangiare aperto a quell’ora.

Cenammo lentamente, entrambi con gli occhi che si chiudevano per la stanchezza e incapaci perfino di parlare. Edward si era sdraiato sul letto insieme a me subito dopo aver fatto la doccia, ripromettendosi di svegliarmi non appena fosse arrivata l’ora di cena, ma si era addormentato a sua volta, risvegliandosi solo dopo tre ore.

Quando tornammo in stanza parte del sonno se ne era andato, rimpiazzato da un leggero stordimento accompagnato dalla spossatezza. Avrei voluto riuscire ad addormentarmi subito, ma al contrario, dopo essermi cambiata e infilata nel letto, rimasi a fissare il muro davanti a me, fino a quando Edward non mi raggiunse e spense la luce.

La camera era silenziosa, ed Edward non mosse nemmeno un muscolo. Pensai si fosse addormentato, così mi voltai verso di lui, cercando di muovere il meno possibile il materasso e le lenzuola. Nel buio della stanza riuscivo solo a scorgere il suo profilo, illuminato dalla luce della radiosveglia posta sul comodino al suo fianco, e per poco non sussultai quando lo vidi piegare il capo nella mia direzione.

«Stai bene?», sussurrò nell’oscurità.

Annuii, poi ricordai che non poteva vedermi. «Sì. Non riesco ad addormentarmi», aggiunsi qualche secondo dopo.

«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dormire prima», disse, rammaricato.

«No, hai fatto bene», lo rassicurai. «Sicuramente mi sarei risvegliata nel cuore della notte per cercare da mangiare. Meglio così».

Edward rimase in silenzio per alcuni istanti, e pensai che si fosse addormentato davvero questa volta, ma poi si girò su un fianco, verso di me. Sentii il calore espandersi sulle mie guance, ma non mi mossi. Lo sentivo vicino. Troppo vicino. Probabilmente mi sarebbe bastato piegare un ginocchio in avanti per toccare le sue gambe.

«Che cosa avresti fatto ieri se ci fossimo trovati in questa situazione?», mi chiese all’improvviso, prendendomi alla sprovvista. Non mi aspettavo una domanda simile.

«Con questa situazione intendi…»

«Intendo dover scegliere fra dividere la stanza o prenderne una singola e una doppia pur di non stare insieme. Cosa avresti fatto prima di ieri notte?»

Rimasi in silenzio per un breve istante, riflettendo. «Non lo so. Forse se non ci fosse stato da pagare il meccanico avrei deciso di prendere le due stanze separate, anche se sarebbe costato molto di più», ammisi. «Altrimenti avrei accettato di dividere la stanza».

«Mi avresti fatto dormire per terra, immagino», disse lui, con una nota di divertimento nella voce.

Risi nervosamente. «Credo di sì».

Sentii un fruscio di lenzuola, poi di nuovo silenzio. «Non lo trovi assurdo? Fino a ieri sera non riuscivi neanche a starmi vicino, adesso siamo addirittura nello stesso letto».

Mi irrigidii. «Non era questo l’intento del tuo discorso di ieri sera? Fare in modo che non ti evitassi come la peste?»

Edward rimase in silenzio per alcuni minuti, e quella volta ero sicura che si fosse addormentato. Del resto anche io finalmente iniziavo a sentire gli occhi chiudersi per il sonno appena ritrovato.

«Edward?», biasciai.

«Non voglio che ti senta obbligata a comportarti così per quello che ti ho detto ieri notte», sussurrò, risvegliandomi in parte. «Se lo stai facendo perché ti ho detto quelle cose…». Fece una breve pausa. «È vero che vorrei che le cose fra noi due andassero bene, ma se questo significa obbligarti a comportarti in un certo modo preferisco tornare a come stavano prima le cose».

Rimasi in silenzio, assimilando lentamente le sue parole. Quando allungai una mano verso di lui ero già mezza addormentata, e non sono certa che sapessi bene quello che stavo facendo. Trovai le sue dita, e le intrecciai con le mie. «Non mi sento obbligata», sussurrai, semplicemente.

L’ultima cosa che sentii, prima di addormentarmi, fu la sua stretta intorno alla mia mano intensificarsi, e poi più niente.

 

Il risveglio il giorno seguente fu stranamente piacevole, ma anche imbarazzante. Edward non aveva impostato alcuna sveglia, e fu solo quando un raggio di sole arrivò a illuminarmi il viso attraverso la fessura fra le tende che mi risvegliai.

Aprii gli occhi sentendomi perfettamente riposata, e il mio sguardo scivolò fino alla radiosveglia sul comodino. In quel momento mi resi conto di due cose contemporaneamente: primo, che erano le nove e mezza passate, segno che nel giro di mezz’ora avremmo dovuto lasciare la stanza; secondo, che mi trovavo dalla parte del letto opposta a quella in cui mi ero addormentata. Il mio terrore aumentò ancora di più quando avvertii la lieve pressione di un braccio cinto intorno alla mia vita, e un leggero respiro infrangersi contro la mia nuca. Le dita della mia mano erano intrecciate a quelle di Edward, ferme sul mio ventre, e le allontanai lentamente, generando un lieve protesta da parte sua. Sentii il suo viso strusciarsi contro il mio collo, e la stretta intorno alla mia vita avvicinarmi di più a lui.

Trattenni il respiro. «E-Edward?», lo chiamai, sperando di svegliarlo.

Dopo alcuni secondi sentii i suoi muscoli irrigidirsi, e il suo braccio scivolò via dal mio corpo, mentre si sollevava ed allontanava. Lo sentii alzarsi dal letto senza dire niente. Mi girai nella sua direzione, con le guance sicuramente rosse. Aveva raggiunto la sua valigia, e stava prendendo dei vestiti puliti. Presto saremmo dovuti andare a cercare una lavanderia automatica per fare qualche lavaggio di vestiti, onde evitare di doverne comprare di nuovi.

«Dobbiamo sbrigarci, tra poco verranno a cacciarci dalla stanza», disse con la voce arrochita dal sonno, mentre andava in bagno.

Appena si richiuse la porta alle spalle mi alzai dal letto, e preparai anch’io il mio cambio di vestiti. Guardai il letto disfatto, e mi chiesi ancora come diavolo avevo fatto a ritrovarmi dalla parte opposta del letto; l’ipotesi più probabile era che nel sonno avessi scavalcato Edward, e al solo pensiero sentii le guance andarmi a fuoco nuovamente. Avrei voluto chiedergli se si era reso conto di qualcosa quella notte, ma a giudicare da come era scappato in bagno senza neanche guardarmi non era molto disposto ad affrontare l’argomento.

Quando finalmente entrambi fummo pronti lasciammo alle nostre spalle McLean, rimettendoci in viaggio. In macchina, con Edward di nuovo al suo posto di guida, mi decisi a farlo parlare.

«Per caso questa notte ti ho dato fastidio?», gli chiesi, non sapendo bene come iniziare il discorso. «Sai, con la storia del muoversi durante il sonno».

Edward aggrottò leggermente la fronte. «No. A dire il vero ti sei mossa pochissimo rispetto al tuo solito».

Lo guardai, perplessa. «Allora come ho fatto a ritrovarmi dall’altra parte del letto stamattina?»

«Ah, quello è successo quando sono andato in bagno stanotte. Sono tornato e ti eri messa al mio posto», rispose, togliendomi finalmente quella curiosità.

Avrei voluto chiedergli anche se mi aveva abbracciato di proposito quella notte, o se era stato un riflesso incondizionato avuto durante il sonno, ma non ne ebbi il coraggio.

La nostra prima tappa per quel giorno fu a Conway, dove si trovavano cinque vecchie carcasse di Volkswagen piantate nel terreno, tutte dipinte di colori brillanti.

A quel punto Edward decise di fare la prima deviazione dalla Route 66: imboccò una strada che conduceva verso il sud del Texas, diretto verso quello che era chiamato il Grand Canyon del Texas, il cui vero nome era Palo Duro Canyon. Arrivammo dopo appena mezz’ora, e pagammo l’ingresso al parco dello Stato, per andare a visitarlo. Mentre raggiungevamo la piazzola vicino al punto di osservazione, però, mi resi conto di quanto facesse caldo in auto nonostante l’aria condizionata accesa. Portai una mano davanti ad un bocchettone, e guardai Edward.

«Sta di nuovo rilasciando aria calda», mormorai, preoccupata.

Edward imitò il mio movimento, accigliato. «Dannazione. Non può essere già scarico». Spense il motore, e sospirò. «Credo che ci sia qualche problema. Forse il serbatoio è rotto».

Lo guardai allarmata. «Cosa facciamo adesso?»

Lui arricciò le labbra. «Ora niente. Dobbiamo aspettare di uscire da questo parco e trovare un altro meccanico per far controllare l’auto».

Sospirai pesantemente, ed uscii all’aria aperta. Con il caldo che in quei giorni tormentava l’America non avremmo retto molto senza aria condizionata. Mi sentivo male solo al pensiero di dover attraversare il New Mexico e l’Arizona, dove l’afa sarebbe stata addirittura peggiore.

Passai i successivi venti minuti nel parco in preda all’ansia, chiedendomi come avremmo fatto a continuare il nostro viaggio nel caso la jeep avesse avuto qualche guasto e domandandomi se fossi stata io la causa di ciò. Del resto il climatizzatore aveva iniziato a dare segni di malfunzionamento qualche ora dopo che avevo iniziato a guidare io l’auto, e nonostante non ricordassi di aver fatto nulla di sbagliato non vedevo altre spiegazioni al guasto.

Una flebile speranza riapparve in me quando uscii dal negozio di souvenir, mentre Edward era al tourist office per cercare informazioni sulla zona per sapere se c’erano officine nelle vicinanze. Nel parcheggio passai vicino a un uomo, con una valigetta chiaramente da meccanico, fermo alla fermata del bus. Stava parlando al telefono, e passandogli accanto lo sentii mentre parlava con qualcuno di una riparazione ad una macchina effettuata per i ranger del parco. Un’idea balenò nella mia testa, e mi fermai a pochi metri dalla pensilina della fermata dell’autobus.

Aspettai che l’uomo chiudesse la chiamata, poi mi avvicinai.

«Mi scusi», lo chiamai, imbarazzata. Mi avrebbe presa per una disperata, poco ma sicuro.

L’uomo voltò il capo nella mia direzione, sorpreso. I suoi occhi scuri incontrarono i miei, e solo in quel momento mi resi conto che era molto giovane, nonostante la corporatura robusta. Avrà avuto la mia età, probabilmente.

«Sì?», rispose, gentilmente.

Strinsi le mani in grembo, a disagio. «Non volevo origliare, ma mi è parso di capire che lei è un meccanico».

Le sue labbra si schiusero in un sorriso. I denti bianchissimi creavano un forte contrasto con la pelle bronzea del suo corpo. «Esatto». Non aspettò che continuassi. «Ha per caso bisogno di aiuto?»

Arrossii. «Sì… la mia jeep - la jeep di un mio amico - ha qualche problema con l’aria condizionata. Ieri sera abbiamo fatto ricaricare il serbatoio ma oggi rilascia di nuovo aria calda», spiegai, inceppandomi più volte.

Il viso dell’uomo si illuminò di interesse. Strinse la valigetta al suo fianco. «Temo ci sia una lesione del serbatoio o dei tubi. Dovrei darle una controllata all’auto per esserne sicuro». Si guardò intorno, osservando le auto nel parcheggio. «Se vuole posso fare un veloce controllo», si offrì.

«Non la disturba? Se deve prendere un autobus non…»

«Nessun disturbo, davvero», mi interruppe, avvicinandosi a me. «Allora, dov’è la sua auto?»

 

Quando Edward mi vide ritornare accompagnata dal meccanico aggrottò entrambe le sopracciglia, e mi guardò perplesso. Quando gli spiegai la situazione guardò l’uomo con sospetto.

«Non c’è bisogno che si disturbi», gli disse Edward. «Mi hanno appena dato l’indirizzo di un’officina di Amarillo, che a quanto pare è la più vicina della zona. Se deve prendere un autobus non è il caso che perda tempo qui».

Mentre il meccanico apriva la sua valigetta, estraendo uno skate-board pieghevole, tirai una gomitata nelle costole ad Edward, accompagnata da un’occhiataccia. Cosa gli saltava in testa? Avevamo l’occasione di avere un controllo immediato da un uomo tanto gentile e lui si comportava in quel modo?

«Che officina le hanno consigliato?», domandò il meccanico, infilandosi un paio di guanti da lavoro macchiati di olio e grasso.

Edward aggrottò le sopracciglia, ed estrasse il biglietto su cui aveva scarabocchiato il nome e l’indirizzo dell’officina. «Officina Black», lesse.

L’uomo sorrise. «Allora siete fortunati. Sono già qui in persona, e non dovete venire fino ad Amarillo per il controllo».

Edward lo fissò con sospetto mentre si infilava sotto la jeep sdraiato sullo skate-board. «Lei è il proprietario di quell’officina?»

«In carne ed ossa», rispose l’uomo da sotto l’auto.

Rimanemmo in silenzio, mentre lui si muoveva là sotto. Quando tornò in piedi aveva un’espressione seria. «Temo che il tubo del gas sia lacerato. Per questo motivo l’aria non si raffredda».

«Teme o sa che il tubo è lacerato?», precisò Edward, con le palpebre socchiuse mentre lo scrutava.

«So», rispose l’uomo. «Bisogna cambiare il tubo, nient’altro».

Edward sospirò. «Immagino che sarà quello che faremo».

L’uomo si sfilò i guanti e risistemò la sua valigetta, richiudendola.

«È stato molto gentile da parte sua controllare la jeep subito», gli dissi, vedendo che Edward rimaneva in silenzio a fissarlo quasi ostilmente. «Spero che sia ancora in tempo per prendere il suo autobus».

Il meccanico tirò fuori un piccolo cellulare dalla tasca, e guardò l’ora. Aggrottò la fronte. «Mi sa che l’ho appena perso. Ma per fortuna ce n’è un altro fra un’ora», disse.

Mi sentii in colpa. «Che ne dice se l'accompagniamo noi ad Amarillo? In ogni caso siamo diretti alla sua officina, suppongo», dissi. Vidi Edward lanciarmi un’occhiata di fuoco, ma lo ignorai. «Dovrà sopportare il caldo però».

L’uomo rise, e ignorò l’occhiata che Edward riservò anche a lui. «Se per voi non è un problema…»

«Nessun problema, mi creda. Del resto lei è stato così gentile che mi sembra il minimo».

Sorrise. «Allora accetto volentieri. Ma prima credo sia il caso di fare le presentazioni e di smetterla di darci del lei; credo che abbiamo la stessa età, più o meno».

Ricambiai il sorriso, e allungai la mano per stringere la sua. «Credo di sì. Io mi chiamo Isabella Swan, ma puoi chiamarmi Bella».

«Io sono Jacob Black, molto piacere», rispose. Allungò la mano anche in direzione di Edward, che prima di accettarla la osservò, come se potesse scoprire da un momento all’altro che non è altro che una chela pronta a pinzarlo al primo tocco.

«Edward Cullen».

Si strinsero la mano in silenzio, e per un istante mi sembrò di leggere rabbia sul viso di Edward. Non capivo a cosa potesse essere dovuta, ma sperai solo di essermi sbagliata.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno! :D

Altra settimana puntuale, non mi sembra vero!

Come avete letto è entrato in scena Jacob. Quanto resterà? Sarà importante? Lo scoprirete nel prossimo capitolo ù.ù Scherzi a parte, Edward sembra odiarlo già, e anche per questo troverete la risposta al prossimo aggiornamento. Potete iniziare a provare a indovinare il motivo per cui sembra detestarlo, però :D

Grazie mille a chi continua a recensire e mi fa sapere cosa pensa della storia, e grazie anche ai lettori silenziosi, e a chi aggiunge la storia alle liste!

Alla prossima settimana! :D

   
 
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