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Autore: ponlovegood    06/04/2012    4 recensioni
Raccolta di cinque storie, una per ognuno di loro.
«Certo che ci farebbe davvero comodo un altro musicista per la band» sospirò e lentamente iniziò a raccogliere le sue cose per poi rimetterle nella borsa.
«Ehi, solo perché sbavi dietro a quel tipo io non acconsentirò a fargli far parte della band. Poi un chitarrista c’è già» esclamò Ryo con convinzione.
«Uno, io non gli sbavo dietro e due, era solo un commento generale. So perfettamente che un altro chitarrista non serve» replicò l’altro un po’ stizzito.
«Ah ok, mi stavo già preoccupando»
La campanella suonò. Era ora di ritornare alla triste realtà scolastica.

[da cap. 1 Sveglia pt. 4]
«Il mese prossimo vado a trovare i miei. Voglio presentarti a loro»
Al suono di quelle parole mi andò di traverso il the che stavo bevendo; lui invece continuò a guardarmi con tutta tranquillità.
«C-che… che cosa?»

[da cap. 2 La porta di casa pt. 1]
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aoi, Kai, Reita, Ruki, Uruha
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sticks
 
Tu tum
 
Il cuore batteva a ritmo della batteria.
O era la batteria a battere a ritmo del cuore?
 
Tu tum
 
Le bacchette si muovevano come dotate di vita propria e  da esse scaturiva un ritmo travolgente, quasi alienante. Senza mai fermarsi, senza mai perdere un colpo, percuotevano la pelle dei tamburi e facevano tintinnare i piatti.
Tutto era musica, in quel momento.
Anche il batterista sembrava essere parte dello strumento stesso.
O  era forse lo strumento a fare parte di lui?
Tutto era ritmo, in quell’istante.
Instancabile, il musicista continuava a suonare, una canzone dopo l’altra.
La folla era trascinata dalla musica.
O era la musica ad essere trascinata dalla folla?
Anche l’aria palpitava come i cuori di tutti i presenti, compresi quelli dei musicisti che erano sul palco a suonare.
Per l’ultima volta.
 
«Voglio lui» mormorò un piccolo ragazzo dai capelli neri. «Voglio che sia lui il nostro batterista»
Il ragazzo biondo platino al suo fianco sorrise e annuì.
 
Dalla posizione del pubblico quel concerto, se possibile, era ancora più sensazionale.
 
Eppure non tutto era come appariva: non c’era gioia, non c’era passione sui volti dei musicisti. D’altra parte, come ci si può sentire totalmente coinvolti quando si sa che quello sarà l’ ultimo giorno come band?
E dopo tutti a casa, a far finta di essere persone normali. D’altra parte le alternative non erano poi molte e, in ogni caso, quella situazione era inevitabile e non sarebbe cambiata. Sarà scontato da ricordare, ma fa sempre bene ripetere le ‘lezioni di vita’: per quanto uno possa dispiacersi, disperarsi, pentirsi delle proprie azioni, di certo il mondo non tornerà indietro per noi. Non metterà la retromarcia per darci la possibilità di non commettere quella determinata azione. Ma scommetto che, anche se così fosse, tutti sarebbero capaci di ripetere lo stesso errore.
 
E mentre i musicisti lasciavano il palco, quel senso di vuoto ancora li pervadeva e, si potrebbe dire, era diventato ancora più grande, divorandoli dall’interno e rendendoli poco più che una scatola vuota. Ma per quanto ne fossero tutti dispiaciuti, non uno si fece avanti per dire che quella non era la giusto soluzione, dopo tutto, e che non sarebbe dovuta finire così.
Ma così era finita, dopo tutto.
 
Era tutto buio e calmo, come se la sua mente si trovasse in un deserto di notte: non c’erano particolari pensieri, solo qualche piccola parte di essi che si spostava qua e là come una piccola palla di spine. In quel momento non era né calmo, né agitato.
Improvvisamente quello strano stallo mentale venne interrotto dal suono secco delle dita che picchiettano contro il legno della porta e una tenue luce si insinuò nella sua mente, come un pallido sole che sorge. Tuttavia rimase ancora qualche istante con gli occhi chiusi, cercando di recuperare gli ultimi lembi di quella sensazione che via via scemava. Una parte di sé maledì chiunque fosse entrato. Inoltre l’essere entrato implicava di certo il voler parlare con lui, cosa della quale avrebbe fatto decisamente a meno. Anzi, effettivamente non aveva voglia di parlare proprio con nessuno.
Lentamente, come se nulla fosse, si alzò dalla sedia su cui era seduto e uscì, senza curarsi minimamente di colui che era entrato.
 
Per essere ancora gennaio non faceva particolarmente freddo, ma l’inverno si faceva sentire in altri modi: il sole spariva dietro l’orizzonte sempre fin troppo presto e tardava sempre a riapparire. Anche ora mancavano ancora diverse ore all’alba e, di conseguenza, alla partenza del primo treno.
Meditò qualche istante su quanto fosse in vena di attraversare Tokyo a piedi o in alternativa andare alla stazione e aspettare.
Tuttavia aspettare implicava varie altre cose, come pensare.
E pensare era la cosa peggiore che potesse fare in un momento del genere.
Guardò in direzione della strada e sospirò, ma non si mosse. Alle sue spalle aveva sentito dei passi avvicinarsi; subito aveva pensato ad un passante solitario, ma poi quei passi si erano fatti sempre più vicini, sempre più vicini. Qualcuno tossicchiò debolmente, ma Yutaka non si voltò e, senza esitare un istante di più, si incamminò. «Aspetta!» osò finalmente dire il suo osservatore misterioso. Yutaka rallentò, ma non diede l’impressione di volersi fermare o di aver anche solo sentito ciò che l’altro aveva detto. Ma fu costretto a fare entrambe le cose quando il suo osservatore lo trattenne per un braccio. Questa volta di girò e si staccò dall’altro, che lo fissò con occhi sgranati per la sorpresa di come e di quanto in fretta avesse reagito. Yutaka di ritrovò davanti a un ragazzo dai capelli neri che lo guardava dal basso della sua scarsa statura.
Poteva avere sì e no sedici anni, pensò [1].
Preferì non dire nulla, ma sembrava che quel silenzio mettesse un po’ in difficoltà il ragazzino che giocherellava con un foglietto che stringeva tra le mani. Tuttavia il nervosismo che il suo corpo dimostrava non si rifletteva nei suoi occhi, che fissavano Yutaka con grande risolutezza tanto da portarlo a chiedersi se i sedicenni di allora avessero tutti uno sguardo così maturo.
«Mi chiamo Matsumoto Takanori» disse e mise tra le mani dell’altro il foglietto che aveva tenuto stretto fin’ora e che Yutaka constatò essere un biglietto da visita. Non era di certo uno di quelli belli, professionali e plastificati, ma sembrava essere proprio un biglietto da visita. Su di esso erano riportati il nome, un numero di telefono e un secondo nome scritto in katakana.
«Gazetto?» domandò Yutaka leggendo quella parola senza capirne il significato. «Sono un vocalist. Quello è il nome della mia band» rispose semplicemente l’altro. Entrambi si guardarono  per qualche istante senza dire nulla poi Matsumoto fece per parlare, ma Yutaka lo bloccò con un gesto della mano. Aveva perfettamente capito dove sarebbe andato a parare e la risposta risuonava già chiara e nitida nella sua testa: no. «So già cosa stai per dire. Non mi interessa» disse con un tono di voce che pareva quasi sprezzante.  E con l’intenzione di chiudere lì il discorso si voltò nuovamente e si allontanò come se non ci fosse mai stato nessuno lì con lui.
Maledì quel ragazzino. Ma soprattutto maledì quella sua voglia di vivere che lui sembrava aver perso. Sapeva bene che non avrebbe mai trovato il coraggio di formare una nuova band nonostante sapesse altrettanto bene che lui, senza la musica, non era nulla. Ficcò maldestramente il biglietto da visita in tasca cercando di dimenticarsene.
 
Due ore dopo il buio regnava ancora sovrano e il sole non sembrava voler dare alcun segno di farsi vedere. Per le strade si vedevano solo più poche persone reduci di una bevuta al bar o di una notte di lavoro. Yutaka li osservava e li invidiava, tutti; era certo che tutti avessero un qualche scopo nella vita, non come lui. Non aveva nemmeno idea di cosa sarebbe successo quando il sole sarebbe sorto. E avrebbe preferito non saperlo, perché ormai ogni cambiato gli pareva in peggio.
 
L’appartamento era scuro e non gli era mai parso così vuoto in tutta la sua vita nonostante ci vivesse ormai da anni. Tutti gli oggetti che vi avevano accumulato sembravano aver improvvisamente perso di significato e non gli sarebbe importato più nulla se qualcuno li avesse buttati. Si guardò un’ultima volta attorno senza trovare nulla che lo legasse ancora a quel posto o qualcosa per cui valesse la pena rimanervi. Poi uscì.
 
Febbraio ormai era iniziato e con esso era arrivato un pessimo tempo, quel genere di tempo che faceva venire voglia di rintanarsi in casa e non fare assolutamente nulla se non bere litri e litri di tè bollente. Eppure Yutaka si trovava fuori, avvolto dal gelo di Tokyo. Fosse stato per lui non avrebbe messo neanche un guanto fuori di casa, ma le circostanze lo obbligavano.
Aveva trascorso un mese a casa della madre, tornando nella sua città di origine ed ora era di nuovo a Tokyo per occuparsi dell’appartamento che aveva così improvvisamente abbandonato. Se avesse potuto, l’avrebbe lasciato così com’era, ma obbiettivamente non era possibile e prima avesse parlato col padrone di casa prima se ne sarebbe potuto andare via per sempre, tagliando anche l’ultimo legame con quel luogo.
 
L’appartamento era esattamente come l’aveva lasciato, solo leggermente più polveroso. Giusto una cosa non ricordava di averla lasciata lì: il suo bel giubbotto nero che aveva ormai dato per disperso. Evidentemente non l’aveva preso quando era uscito quella sera. Dopo essersi sfilato quello che già indossava e averlo gettato sul divano con poca cura –non è che gli piacesse particolarmente- indossò l’altro, come a controllare che fosse proprio quello giusto e che non fosse cambiato.
 
Se ne stava seduto in un bar, tenendo il tempo di una canzone che passava in radio col piede. Il padrone di casa era rimasto bloccato in ufficio e lo aveva avvisato che sarebbe arrivato in ritardo e Yutaka aveva decisamente preferito uscire e trovare qualcosa che occupasse il tempo, che sembrava non passare mai. Intanto la canzone era terminata e ora veniva trasmessa la pubblicità che non gli interessava proprio per nulla. Infilò la mano nella tasca per prendere il lettore mp3, ma realizzò di averlo lasciato nell’altra giacca, tuttavia al suo posto trovò qualcos’altro: sembrava essere un foglietto piuttosto stropicciato  dalla provenienza misteriosa. Lo tirò fuori e lo dispiegò con attenzione; gli era estremamente familiare, ma non riusciva a ricordare in che circostanze lo avesse avuto; neanche quel nome –Matsumoto Takanori- sembrava dirgli qualcosa. In quel momento giunse la cameriera portandogli il conto e per poter pagare posò il foglietto sul tavolino e come ci potrebbe aspettare uscì dal bar lasciandolo lì.
 
Passeggiava tranquillo in quel freddo pomeriggio dirigendosi verso il suo vecchio appartamento, aveva optato per un percorso un po’ più lungo per rivedere questo o quel luogo al quale era stato un tempo affezionato e che, da in quel momento in poi, avrebbe conservato i suoi ricordi per sempre, anche se lui se li fosse dimenticati. Si chiese quando fosse stata l’ultima volta che si era ritrovato a passeggiare per Tokyo.
Fu in quel momento che ricordò.
Ricordò la sua passeggiata notturna. Il concerto. Il ragazzino dai capelli neri. Il biglietto da visita.
Quel biglietto da visita che aveva lasciato sul tavolino del bar.
Senza neanche pensarci due volte vece dietro front e ripercorse tutti i suoi passi fino a ritrovare quel bar e quel foglietto spiegazzato, che apparentemente non aveva alcun significato, ma che, da solo, avrebbe cambiato la sua vita. In lui era scattato qualcosa, come una riserva nascosta di voglia di vivere, di ricominciare. Avrebbe potuto iniziare una nuova vita in mille modi diversi, ma scelse di ritornare a prendere quel foglietto, che in quel momento sembrava essere diventato il pass per il futuro. In quel momento, quel foglietto di carta, sembrò dargli tutte le certezze che, per diverso tempo, gli erano mancate.
 
Venti minuti dopo si trovava in una cabina telefonica con la cornetta stretta in una mano e il foglietto nell’altra, mentre il telefono dall’altra parte squillava.
«Pronto?»
 
Nella su testa risuonava ancora quel nome scritto in katakana e qualcosa gli diceva che avrebbe avuto a che fare con quel nome per un lungo, lungo tempo.
 

I am the GazettE

 
[1] So perfettamente che tra Ruki e Kai c’è soltanto un anno di differenza, ma era tanto per sottolineare il fatto che Ruki sembri decisamente più piccolo.
 
pons chat
FINITO.
E così siamo giunti alla fine. Di tutto.
Wow, non ci posso davvero credere che sia finita. Questa fanfic è stata una vera e propria impresa per me dato che non mi ero mai cimentata in un progetto tanto importante, se così si può dire. A dire il vero non ho ancora ben realizzato che sia finita anche perché scrivere questi due ultimi capitoli mi ha preso un lungo, lunghissimo tempo e mi sembra impossibile che io li abbia seriamente conclusi. Probabilmente ci sarebbero molte cose da dire, ma –ovviamente- non me ne vengono in mente molte… Forse, innanzitutto, dovrei scusarmi con voi per la lunga attesa, ma la mia ispirazione è scarsissima ed è un miracolo che sia riuscita a scrivere quest’ultimo capitolo. In ogni caso mi impegnerò al massimo per portare a  termine la mia altra fic!
Questo è una periodo strano e diverso perché stanno succedendo varie cose e lo scrivere è passato decisamente in secondo piano, come diverse altre cose. Ma di certo non abbandonerò questa mia passione, forse la coltiverò un po’ più lentamente perché è una parte molto molto importante di me. Ma riassumendo: scusate davvero il mio ritardo.
Ma passiamo a parlare del capitolo!
Il protagonista è Kai, quell’uomo che io venero, ma che mi crea sempre immani problemi nelle fic, non so neanche perché. Inizialmente doveva essere un po’ diversa, ma scrivendo è cambiata senza che me ne accorgessi. L’idea che volevo dare era quella dell’unità di gruppo, ma dato che è cambiata si percepisce decisamente meno. Si tratta, alla fin fine, della semplice storia di Kai che decide di unirsi alla band. Bah, il finale non mi piace poi così tanto, lo trovo un po’ affrettato, ma in quel momento sentivo davvero la necessità di finire così ho messo un punto e tutto è davvero finito. E poi questa shot sembra un misto tra la storia di Ruki e quella di Aoi, bah. Originalità portami via.
Spero possa piacervi almeno quanto le altre perché tengo molto a questa shot.
Grazie mille  a tutti voi che siete rimasti fino alla fine.
Grazie mille ♥
 
Ci si legge alla prossima!
 
Un abbraccio,
pon.
  
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