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Autore: LauriElphaba    07/04/2012    4 recensioni
“Mi chiamo Olympe Maxime.
Sono nata nel 1934, sono diventata Preside dell'Accademia di Magia di Beauxbatons nel 1984.
Mio padre era Fabrice Maxime. Di mia madre so ben poco. Quel che è certo è che si chiamava Alexane, ed era una Gigantessa."

Dedicata a chi ama i personaggi minori :)
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Fleur Delacour, Rubeus Hagrid, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Allora...prima di cominciare, un paio di note d'autore.
Punto uno: questo capitolo sul serio avevo dubbi se pubblicarlo o meno. Mi faceva schifo. Tuttora, ho millemila dubbi sulla storia in generale e su questa parte in particolare. A convincermi a continuare, con poche parole magiche e tanta dolcezza, è stata Shnusschen, meglio nota (a me) come la mia omonima.. Grazie, perchè quando l'ho riletto dopo che abbiamo parlato, mi ha fatto meno schifo del solito. Grazie <3
Punto due, note relative al capitolo:
- Gli Augurey sono uccelli magici simili ad avvoltoi. Non ne so molto, ma mi servivano un paio di creature magiche random da inserire in una frase. XD
- Il Granio è una specie di cavallo alato, sempre appartenente al Potterverse e trovato nell'Harry Potter Wiki. Se ho sbagliato il plurale, prendetevela con la wiki che non lo specificava. XD
- La bestia è (nella mia testa) la Bestia del Gévaudan, una delle pochissime creature magiche che ho trovato vagamente credibili e attestate (vabbè...) in Francia.
- Non volevo innamorarmi di Fabrice ma è successo.
- La data di nascita di Olympe è ignota al mondo. Ho scelto il 25 Gennaio perchè il compleanno di una persona molto importante per me, una persona che non legge Harry Potter e non vedrà mai questa storia, ma in 22 anni che ci conosciamo mi ha insegnato più e più volte che l'apparenza fisica è l'ultima cosa di cui preoccuparsi, e che si può avere fascino, stile e insomma essere delle gran fighe anche con qualche kilo di troppo. Ergo, questo capitolo è dedicato a lei, anche se non lo leggerà mai <3
- “mia grande”, l'ho fregato a Pennac. Chi ama la serie dei Malaussene capirà <3 Mi sembrava ironicamente perfetto, come vezzeggiativo XD
- Maxime sa che Leila vuol dire notte in arabo perchè in Francia ci sono un sacco di arabi, quindi ha imparato un paio di parole a casaccio. E soprattutto, perchè Leila è il mio nome di donna preferito e sarà il nome di mia figlia, quando ce l'avrò!ò.ò/
- In quanto insegnate di Creature Magiche e soprattutto in quanto figo, Fabrice si può tenere Exelle e tante altre creature intorno casa. Perchè sì. Tanto tutta la parte di territorio intorno alla scuola è off limits per i babbani.

Mi sembra di aver detto tutto, quindi buona lettura e... recensioni sarebbero graditissime, soprattutto per aiutarmi a uscire da questa matassa di dubbi sull'andare avanti o meno!T_T/








 

 

 

 

 

 

 

25 Gennaio

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Settembre, Clairie partì per Beauxbatons.

Mi scriveva ogni pochi giorni, ma l'invidia per la vita di cui mi raccontava a volte mi impediva di risponderle. Nonostante ciò, le lettere continuavano ad arrivare, almeno una volta a settimana. Ancora una volta, capii con un pizzico di vergogna che mi voleva bene davvero.

Inoltre, spesso Fabrice mi riportava i suoi saluti, o storielle di come andava a Cura delle Creature Magiche. A quanto pare, la mia amica non aveva un gran talento per quella materia, visto che nel giro di tre o quattro lezioni era riuscita a far morire di stenti un Vermicolo, far infuriare uno stormo di Augurey e rompersi una costola facendosi sgroppare da un Granio.

Per il resto però, tutto sembrava andare per il meglio: mi raccontava dei nuovi amici che aveva conosciuto, dei suoi Professori preferiti e di quelli più odiosi, e di come la scuola fosse ancora più strepitosa, da dentro.

E per quanto fossi sinceramente felice per lei, non riuscivo a nascondere il pizzico di amarezza che ognuna di quelle lettere mi lasciava. Dicembre stava passando in fretta, mancavano ancora solo sei mesi a Luglio e la cosa più magica che avessi fatto in tutto questo tempo era montare uno dei Cavalli Alati che mio padre teneva per le lezioni nel recinto dietro casa nostra. Il che, in effetti, non richiedeva questo gran talento da strega, al massimo una gran pazienza da parte degli animali.

 

Dovetti aspettare il 25 Gennaio, il giorno del mio compleanno, per quello che sarebbe stato il regalo più bello della mia vita.

Era una mattina piuttosto fredda ma soleggiata, e ricordo che Fabrice mi svegliò bussando alla porta di pino chiaro della mia cameretta.

“Olympe, sei sveglia mia grande?”

Papà non veniva mai a darmi il buongiorno, perché di solito era già al lavoro quando io mi alzavo. Quell'anno però il mio compleanno coincideva con uno dei suoi giorni liberi e nonostante il sonno e la voglia di rimanere ancora a letto ero contenta che lui fosse con me. Gli lanciai un grugnito non meglio identificabile che voleva essere un invito ad entrare.

Con un enorme vassoio di colazione in mano e un sorriso soddisfatto sul viso abbronzato, fece la sua apparizione in camera e si accomodò a sedere sul piumino, accanto a me.

“Tanti auguri!” , aggiunse schioccandomi un bacio sulla fronte.

Scoppiai a ridere apertamente vedendo che quell'uomo robusto e imponente che era mio padre per l'occasione aveva indossato un fantastico grembiule a quadretti bianchi e rossi, con tanto di virilissime frange ai bordi e fragola stampata nel mezzo.

“Sei bellissimo così, papà!”

“Proprio figlia di tua madre... - ridacchiò lui - e adesso diamoci dentro con questa roba, è dalle cinque che sono in piedi a cucinare!”

E in effetti aveva dato fondo a tutte le sue capacità: sul vassoio c'erano uova, pancetta, salsicce, una pila di crêpes, latte, succo d'arancia e dulcis in fundo una piccola, bellissima torta al cioccolato con il mio nome glassato sopra.

Mentre mangiavamo come se non avessimo mai visto cibo in vita nostra, disse qualcosa che lì per lì non seppi interpretare:

“Quest'anno è importante, eh? Undici anni... tanti cambiamenti!”

Vidi una scintilla brillare nei suoi occhi mentre concludeva la frase e si avvicinava per abbracciarmi.

Risposi all'abbraccio cercando di non irrigidirmi, ma dentro di me qualcosa dell'allegria di pochi secondi prima si era spento. Cosa voleva dire? Non poteva davvero essere certo che avrei cominciato la scuola, quell'anno... almeno, non che avrei cominciato Beauxbatons... magari voleva solo alludere al fatto che sarebbe stato orgoglioso di me anche se fossi dovuta andare in una qualche scuola babbana? Bel momento per farmelo notare... io tremavo al solo pensiero!

Cercai di comportarmi normalmente per il resto della colazione, scherzai e risi con lui ma la mia mente era altrove.

 

Finito di mangiare, mi chiese di vestirmi bene e raggiungerlo in giardino appena fossi stata pronta.

Ad attendermi fuori, insieme a lui, c'era la creatura più bella che avessi mai visto. Era un cavallo alato, ma non era grigio e basso come i Grani che papà teneva nelle stalle dietro casa, che pure mi piacevano tanto: il suo manto era completamente bianco, così come le sue enormi ali, spiegate come se volesse impressionarmi ancora di più. Era altissimo.

Dimenticai in un attimo tutte le preoccupazioni di pochi minuti prima.

“Papààààààààà!”, urlai prima di correre ad abbracciarlo: era il regalo più bello del mondo.

“Un destriero per la mia principessa”, rispose lui con un sorriso, passandomi le briglie in mano.

“E oggi si rimane a terra. - aggiunse con un cipiglio severo. L'ultima volta che avevo provato a volare, ovviamente dimenticandomi casualmente di chiedere il permesso, era dovuto venire a tirarmi giù da una quercia. - Aspettami qui, io vado a prendere uno degli altri dalle stalle e poi ci faremo una gran bella passeggiata, ti va?”

Non c'era neanche bisogno di chiederlo. Sempre reggendo le briglie, mi avvicinai al muso del cavallo per accarezzarlo. Lo guardai negli occhioni neri mentre si lasciava sfiorare come se ci conoscessimo da sempre. Ed ero già innamorata persa.

Per quando Fabrice fu tornato portandosi dietro Exelle, una delle cavalle che avevamo tenuto per più tempo, io ero già montata in groppa al mio nuovo amico e lo accarezzavo sul collo.

Mio padre venne a controllare che la sella fosse ben fissata e poi montò a sua volta in groppa ad Exelle.

“Dove si va?” gli chiesi incuriosita.

“Oh beh, pensavo che ormai sei abbastanza grande per una visitina ai boschi dietro la scuola... sempre se te la senti, ovviamente!”

Spalancai gli occhi. Mio padre, il lavoro che faceva, mi avevano trasmesso una vera passione per la natura e per le creature magiche. Il bosco dietro Beauxbatons pullulava di quegli esseri, ed era per questo che non ci ero mai stata: sapendo della mia curiosità e di quanto potesse essere pericoloso, papà me lo aveva proibito da subito.

E finalmente ci sarei andata!

“Prontissima!”, risposi semplicemente e feci per spronare il mio cavallo quando mi venne in mente una cosa:

“Papà... ha già un nome?”, chiesi.

“Il mercante che me l'ha venduta la chiamava Leila...”

“Leila... come la notte!”, risposi soddisfatta. Mi erano sempre piaciuti i nomi arabi, avevano un tocco di magia esotica e misteriosa indescrivibile.

Partimmo alla volta del bosco senza altre interruzioni. Ero stata spesso a cavallo con mio padre, e ci piaceva rimanere in silenzio durante il percorso. Ascoltare il fruscio leggero delle piume mentre le ali dei nostri compagni si spostavano ad ogni passo, assecondare con rispetto i movimenti della creatura che acconsentiva a portarci. Era un contatto meraviglioso, solo chi ama cavalcare può capirlo.

Oltrepassammo i campi di lavanda per giungere alla scuola, e mentre cavalcavamo intorno alle mura non riuscì a fare a meno di buttare un occhio dall'altra parte... magari avrei visto Clairie!

L'ultima volta che l'avevo incontrata era stato durante le vacanze di Natale, ma tra i compiti di cui l'avevano sommersa e altri impegni, non eravamo riuscite a stare insieme molto a lungo.

Quel poco del cortile che riuscii a scorgere però era deserto, probabilmente tutti erano a lezione.

Quando infine, un po' delusa, distolsi lo sguardo, avevamo raggiunto il limitare del bosco.

 

Per un attimo esitai. Per quanto fosse ancora pieno pomeriggio e la giornata fosse molto luminosa, a pochi metri da dove ci trovavamo, nel fitto, la luce che riusciva ad oltrepassare le fronde degli alberi cresciuti quasi l'uno sull'altro era pochissima.

Mi ritrovai a pensare che doveva essere ancora molto freddo, sotto quell'ombra fatta di tronchi, foglie e silenzio. Un brivido mi percorse la schiena. Chissà cosa poteva esserci, là dentro.

“Tutto bene, mia grande?”

Ero talmente presa a fissare nel folto che la voce di Fabrice mi fece sussultare. Ma mi bastò ricordarmi che era al mio fianco, sorridente sotto il sole, perché quella strana paura sparisse in un soffio. Con lui, ero al sicuro da qualsiasi cosa.

“Benissimo! Andiamo?” mi affrettati a rispondere per non far trapelare quella momentanea inquietudine.

“Andiamo. Ma prima di entrare... Olympe. So che questo bosco ti incuriosisce tanto e che sono anni che tenti di sgattaiolare qui nonostante abbia messo in chiaro che è pericoloso – si accigliò per un istante – quindi prometti che non ti farai prendere dall'entusiasmo e rimarrai sempre vicino a me. E farai qualsiasi cosa ti dico di fare, d'accordo signorina?” chiese fissandomi negli occhi. Una cosa che non sono mai riuscita a dominare, è la mia reazione a quello sguardo. Quegli occhi verdi preoccupati e determinati mi hanno sempre fatto sentire piccola piccola e allo stesso tempo tanto importante... sempre, anche quando ormai ero una donna.

“Va bene”, risposi cercando di non abbassare lo sguardo.

Dovette decidere che avevo passato l'esame, perché tornò a sorridere e cominciò ad addentrarsi con Exelle fra gli alberi e i cespugli, facendomi cenno di seguirlo e di stare in silenzio.

Lo seguii senza esitazioni e dopo pochi minuti di marcia al passo i campi di lavanda erano spariti dalla nostra vista, nascosti dagli alberi enormi del bosco.

 

Era più antico e più buio di quanto avessi mai immaginato, gli unici rumori erano il fruscio delle piume di Exelle e Leila e il battito attutito dei loro zoccoli sull'erba. Continuavo a guardarmi intorno senza osar fiatare, inquieta, mentre la luce del sole si allontanava sempre di più e il bosco ci avvolgeva.

Fabrice aspettò che lo raggiungessi e per un po' proseguimmo fianco a fianco. Se non ci fosse stato lui a darmi sicurezza, penso che me la sarei data a gambe molto prima.

“Tutto bene, mia grande?”, chiese ancora una volta.

Mi resi conto che avevo la gola secca, e mi limitai ad annuire con un mezzo sorriso. Solo allora mi resi conto di quanto avevo paura: tutto quello che avevo intorno mi era sconosciuto. Sotto ogni radice, all'ombra di ogni fronda, per quanto ne sapessi... poteva esserci qualsiasi cosa. Poteva spuntare fuori qualsiasi mostro, da un momento all'altro. Ma non l'avrei mai ammesso a mio padre, questo, non dopo tutte le volte che gli avevo chiesto di portarmi in quel posto.

D'improvviso, Leila s'immobilizzò. Alzai gli occhi, che avevo tenuto ostentatamente bassi per non guardarmi intorno e farmi trasportare dall'inquietudine, e notai che anche Exelle si era fermata.

Ancora una volta, l'indice sulle labbra, Fabrice mi fece cenno di fare silenzio. La sua espressione non era esattamente allarmata, ma doveva esserci un motivo se le cavalle si erano fermate. Qualcosa che non andava?

Exelle scalpitava.

E poi le vedemmo: un gruppo di Fate, forse una dozzina, di tutti i colori, ci passò davanti svolazzando ed emettendo un tintinnio continuo, come se ad ogni loro movimento suonassero dei campanellini.

Ero più che sorpresa, ero incantata: non avevo mai visto delle Fate in vita mia, se non nei libri di papà. Ed erano bellissime, ognuna aveva la pelle di un colore diverso in sfumature delicatissime e le ali sembravano di carta velina, fragili e aggraziate, ognuna con disegni diversi a decorarle.

Svolazzarono intorno alla mia testa per qualche secondo mentre io, completamente rapita, riuscivo solo ad ammirarle in silenzio col timore di rompere quell'incantesimo incredibile.

Quando si allontanarono nella direzione di Fabrice notai che lui osservava non le Fate ma la mia faccia incantata e sorrideva tranquillo e soddisfatto.

Tutta la paura che avevo avuto... per quegli esseri meravigliosi? Mi lasciai scappare una mezza risata, finalmente rasserenata. Come doveva essere bello il lavoro di papà, sempre in mezzo a creature del genere, un continuo entrare e uscire da quel bosco incantato...

Ma c'era qualcosa di sbagliato.

Le Fate si erano immobilizzate a mezz'aria, poco lontano dal muso di Exelle. Il tintinnare si era interrotto improvvisamente, eravamo di nuovo nel silenzio più completo. Mi sembrò di vedere, per quanto piccole fossero, che guardassero tutte nella stessa direzione, verso il folto del bosco alla nostra sinistra... e improvvisamente... erano sparite, in un soffio di luce colorata.

E stavolta mio padre era preoccupato, glielo leggevo nell'espressione attenta, nella fronte aggrottata.

Mi guardai intorno, cercando di capire cosa potesse aver spaventato le creaturine e prima lieve e lontano, poi sempre più deciso, lo sentii.

Un ringhiare basso, rabbioso. Accompagnato, pochi secondi dopo, dal rumore inconfondibile di grosse zampe sulle foglie bagnate che ricoprivano il terreno.

E infine, fra due radici che sporgevano alte dalla terra, a pochi metri da dove mi trovavo, li vidi.

Due occhi rossi, che brillavano al buio. Brillavano di fame. E di furia.

“Scappa via, Olympe!” gridò mio padre, dando una pacca fortissima sul fianco di Leila.

Lei partì al galoppo nella direzione opposta e l'ultima cosa che vidi fu Fabrice che estraeva la bacchetta e quella cosa, simile a un lupo ma molto, molto più grossa – almeno due volte mio padre - che gli si scagliava addosso.

Mentre Leila galoppava terrorizzata, tirai le redini più forte che potessi: sapevo quello che mi aveva detto papà prima di entrare nel bosco e sapevo che non sarei stata che un impiccio, senza magia e senza sapermi difendere, sapevo anche che lui aveva a che fare con le Creature Magiche ogni giorno della sua vita, che se non riusciva a cavarsela da solo, ben poco avrei potuto fare io. Ma non m'importava. Era il mio papà. Era l'unica cosa che contasse.

“Oh, forza...” sibilai tra i denti: la mia cavalcatura decisamente non voleva lasciarsi convincere a tornare sui suoi passi. Alla fine tirai con tutte le mie energie, con le lacrime agli occhi per la paura e lo sforzo e con mio estremo sollievo Leila impennò e si girò su se stessa. Approfittai del momento in cui aveva deciso di collaborare per spronarla forte e finalmente galoppavamo a ritroso, verso il punto dove avevo lasciato Fabrice.

Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia, ma allo stesso tempo non avevo il coraggio di tirarmi indietro e lasciare che succedesse quello che poteva succedere. Quando finalmente riuscimmo a raggiungerlo, non ero più neanche spaventata: ero completamente terrorizzata.

Vidi mio padre scagliare un incantesimo contro quella bestia enorme, che lo schivò con un'agilità che doveva essere magica e poi la vidi gettarsi su di lui con tutto il suo peso, su due zampe.

Vidi gli artigli brillare poco prima di infilarsi nella veste di papà, sul petto.

Lo vidi perdere la bacchetta, e cadere a terra coperto di sangue.

Vidi i suoi occhi sbarrati, mentre rialzava il capo a fatica e realizzava di essere indifeso.

E fu troppo.

 

 

Urlai.

Non ricordo cosa, ma urlai con tutte le mie forze e a lungo, mi sembrò durare per ore. Urlai sperando che se le avessi urlato addosso, la realtà sarebbe cambiata, chiusi gli occhi per metterci tutte le mie forze mentre la gola mi faceva male per lo sforzo, sperando che quando li avessi riaperti mio padre sarebbe stato in groppa a Exelle, sorridente e senza sangue addosso.

Tutto quel sangue.

Me lo vedevo davanti anche ad occhi chiusi, impregnava la terra, le foglie e soprattutto le vesti di Fabrice, il mio papà, il mio papà così forte, indifeso, in pericolo, con tutto quel sangue... mi terrorizzava, mi dava la nausea. Urlai e urlai, finché l'urlo non si trasformò in un rantolo per la fatica. E capii che avrei dovuto riaprire gli occhi, prima o poi. E fare i conti con quello che era successo mentre mi rifiutavo di guardare. Con la bestia pronta ad attaccarmi, sicuramente, e con mio padre steso a terra, coperto di sangue. Papà...

 

Aprii gli occhi lentamente, come se quel semplice movimento potesse far esplodere qualcosa.

Pronta al peggio quanto una bambina di undici anni può esserlo.

E quello che vidi... non era quello che mi aspettavo. Fabrice era in ginocchio davanti a me. Mi teneva per le spalle, fortissimo, e non me ne ero neanche accorta, tanto tremavo. Era ancora coperto di sangue e tra lo squarcio nella veste potevo vedere una grossa ferita sul petto. Ma era accanto a me. Mi osservava preoccupato come non lo avevo mai visto, con una paura sconosciuta negli occhi. Guardai oltre le sue spalle: la bestia era stesa a terra, morta, a pochi passi da dove ci trovavamo.

E scoppiai a piangere a singhiozzi fortissimi, gettandomi al collo di mio papà, il mio eroe, che avevo avuto tanta paura di perdere. Sentii qualcosa rilassarsi in lui, mentre mi stringeva a sé accarezzandomi i capelli.

“Non piangere Olympe... non piangere, mia grande... pensa a quello che hai fatto...”

Cosa avevo fatto? Cosa... non ero una bambina stupida, ma sicuramente ero sconvolta. I singhiozzi mi scuotevano tutto il corpo, non me la sentivo di ragionare.

Mi ci volle un po' per capire dove stava andando a parare.

“Cosa hai fatto, Olympe? - continuò ad accarezzarmi – su, rispondi al papà... vedrai che ti farà smettere di piangere...”

La bestia a terra. Mio padre sano e salvo. Un urlo che era durato per più di un minuto, di certo, molto più del normale...

Alzai gli occhi su di lui, e vidi che inspiegabilmente mi sorrideva. Stava aspettando che capissi.

E per capire, capii. Capii con una violenza tale, che i singhiozzi mi si arrestarono in gola, strozzati da una risata di gioia che mi fece quasi male, tanto era improvvisa e inaspettata.

“Ho fatto... papà, ho fatto una magia!”

Mi accarezzò con due dita le guance, per asciugare le lacrime.

“Esatto, mia grande... era ora!”, disse a voce bassa, continuando a sorridere. E nei suoi occhi che sapevano parlarmi tanto bene, lessi che non aveva mai dubitato. Che lui era certo che fossi una strega da quando mi aveva visto in quel cestino di vimini. Ne era certo mentre io passavo ore a piangere la mia sorte di ibrido, chiusa in camera mia. Lo sapeva quella mattina, quando aveva accennato alla grande tappa degli undici anni.

Lo sapeva da sempre.

Lo abbracciai più forte che mai, ridendo a voce altissima, incurante di spezzare il silenzio del bosco.

Non c'era niente che potesse spaventarmi, adesso.

 

Ero una strega.

Ero una strega.

ERO UNA STREGA!

  
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