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Autore: Loda    07/04/2012    2 recensioni
Se non ti guardi allo specchio, non lo vedi che stai piangendo. Ma le lacrime ne hanno anche un altro di riflesso, che è tutto interiore, ed è più crudele di esse stesse, infinitamente.
Si tratta del sangue.
"Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo. Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che crescono. Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1
CAPITOLO I
FUORI TEMPO
 
 
 

“Hai la faccia di chi vuole dimenticare qualcosa” scherzò lui, dopo un sorso di birra.

Lei si riscosse e lo guardò. Non era solo bella, aveva un velo di tremendo e inquietante fascino poggiato sul viso.
“Cosa?” domandò, con l’esatta faccia di chi vuole nascondere qualcosa. Del resto, le cose che nascondi, le vuoi dimenticare.
Eppure dimenticare doveva essere una cosa da niente, per lei, così giovane.
“Non dimostri l’età che hai, sai” proseguì lui.
“Mi dicono che sembro più grande” ribatté la ragazza. Non sorrideva, sembrava stesse sulla difensiva.
“Non è quello” insistette l’altro “La tua espressione… è adulta”.
La giovane donna sbatté le palpebre, come se fosse confusa. Ancora non c’era segno di sorriso o divertimento sulle sue labbra, che pure dovevano saper flirtare bene, e ciò la rendeva ancora più intrigante.
Ma lui doveva pensare al suo dovere, prima di tutto.
“Troppo sofferta per una ragazza” continuò. Bevve un altro sorso e tornò a fissarla. Oh, si sarebbe perso in quei suoi meravigliosi e freddi occhi. “Perché non mi racconti la tua storia, Emily?”.
 
 
 
Germania, 1939
 
È la tua natura, gli aveva detto. E ora lui la guardava con gli occhi iniettati di sangue, così rossi e paradossalmente gelidi, che non riflettevano più il ricordo della sua bambina, e mai più l’avrebbero fatto.
“Fermati, ti prego” gli sussurrò le sue braccia.
Una volta era lei a tenerlo così, per proteggerlo o dannarlo, chissà.
Ma lui aveva quello sguardo cattivo e non demordeva, e lei sentiva tutte le sue energie scorrerle via, velocemente, come il sangue che colava da sempre e non si fermava…
“Ehi, Aci, svegliati… Svegliati!”.
Acilia aprì gli occhi nella confortante oscurità del sotterraneo. Si sentiva tirare per un braccio.
Irritata si voltò e stringendo gli occhi riuscì a vedere dei lineamenti da bambino.
“Che vuoi, Eike?” sbottò.
Il visetto di Eike si corrucciò. “Ho fame”.
Acilia si guardò intorno. Era stesa sul pavimento ed era sola con Eike. Jacque non c’era.
Ma quanto ho dormito?
Quel maledetto la stava trattenendo ancora una volta nel sonno, la teneva prigioniera dei suoi stessi sogni…
Si ricordò che aveva Eike al suo fianco, e che aveva fame.
Lo guardò arrabbiata. “Perché vieni a dire a me che hai fame? Non sono mica tua madre, dov’è Jacque?”.
Jacque era un irresponsabile, non ce l’avrebbe mai fatta ad allevare Eike da solo, e purtroppo ne era consapevole. E Acilia si era ritrovata irrimediabilmente un moccioso in più tra i piedi.
“Ha detto che aspettava te per andare” tentò di difendersi Eike.
L’altra alzò gli occhi al cielo. Sbuffando si alzò, risalì in fretta la scaletta, aprì la botola e riemerse come ogni sera dopo un lungo sonno di morte tra i tappeti impolverati di una casa vecchia ormai da buttare.
Jacque era in piedi, davanti alla finestra e Acilia lo raggiunse in un attimo.
“Perché non porti Eike a mangiare?” gli chiese, alzando la testa e guardandolo dritto negli occhi.
Il ragazzo esitò per un momento. “È il suo compleanno, volevo andassimo insieme”.
Acilia sgranò gli occhi.
Compleanno?
“Oh, Jacque, ma quanto sei stupido”.
L’altro non sembrò offendersi. Guardava al di là delle spalle di Acilia e lei si voltò, riscontrandosi negli occhi azzurri di Eike, quegli occhi fanciulleschi che le dicevano che lui ancora non aveva accettato quello che era.
Acilia neanche ricordava il giorno del suo – di lei – compleanno, non sapeva neanche quanti anni avesse. “Quanti anni compi, Eike?”.
Non sapeva se fosse giusto che Eike tenesse il conto. Jacque avrebbe dovuto impedirglielo, avrebbe dovuto dirgli che non esistevano più compleanni.
Ma il bambino sorrise, quasi fosse contento, e le sue guance lisce e morbide si distesero.
“Ventuno”.
 
 
 
Roma, 81
 
Acilia indossava per l’occasione una stola ornata da una striscia di porpora sopra la tunica bianca. Mentre la serva la aiutava a legare stretta la cintura intorno alla vita, provò un moto di stizza. Poteva benissimo vestirsi da sola, ma quello era un giorno speciale e doveva essere vestita bene.
“Quali gioielli volete indossare, signorina?” chiese la serva, dopo aver finito. Si chiamava Decia, era nuova ma era obbediente e servizievole.
Acilia amava i gioielli, ma non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto indossarli quella sera. Quella sera Damiano non ci sarebbe stato, come non ci sarebbe mai potuto essere.
Vedendo che la ragazza esitava a rispondere, Decia si azzardò a prendere l’iniziativa e aprì il cofanetto dei gioielli posto sul tavolo. “Questo vi donerebbe tantissimo” disse, estraendo un nastro ornato di smeraldi “Risalterebbe i vostri occhi e darebbe luce a…”.
“Osi troppo” la zittì Acilia. Decia chinò il capo mortificata.
Mi dispiace, pensò subito dopo la ragazza, senza proferire parola. Non voleva comportarsi in maniera troppo molle con la sua nuova serva. Col tempo poi, una volta che Decia avesse imparato a rispettarla completamente, avrebbe potuto trattarla con più affetto e l’avrebbe potuta rendere quasi un’amica.
Fece un passo verso di lei osservando il nastro che teneva tra le mani.
Una volta l’aveva indossato per uscire con Damiano e lui, vedendola coi capelli mori intrecciati a quel verde lucente che anche era nei suoi occhi, era rimasto senza fiato. Al ricordo le venne da sorridere e sentì il suo cuore farsi un po’ più leggero.
“Va bene” disse, rivolta a Decia, che la guardò sbigottita “Acconciami i capelli con quel nastro, poi voglio una spilla sulla stola, in prossimità della spalla, e l’anello con lo smeraldo”.
Mentre sentiva le mani della serva che, obbedendo prontamente, le prendevano i capelli cercò di farsi forza. Dopotutto si trattava di resistere ad un’ennesima festa in cui suo padre, suo fratello, il suo promesso sposo e tutti gli altri uomini presenti avrebbero mangiato e bevuto fino a scoppiare e a vomitare, mentre lei, la sorella più piccola e loro madre avrebbero assistito alla scena con dignitosa pietà dando indicazioni agli schiavi per la pulizia. Solo che quella era la festa per il suo compleanno, e lei non si sarebbe divertita per niente.
Sentì dei passi veloci e sua sorella apparve sulla soglia della camera.
“Sono già arrivati quasi tutti gli ospiti” disse, trafelata.
Acilia alzò gli occhi al cielo. “Lia, non devi correre per casa”.
“Ma…”.
“Non c’è fretta, Decia deve ancora acconciarmi i capelli e truccarmi. Non ho intenzione di lasciare a metà l’opera” disse Acilia, con fermezza. La verità era che voleva rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe incontrato Vito, il suo futuro sposo.
Sentì le mani di Decia smettere di lavorare e capì che i capelli erano pronti. Senza neanche curarsi di guardarsi allo specchio per osservare il risultato si voltò verso la serva con gli occhi chiusi, pronta per il trucco. Sentì subito le mani della serva cospargerle sul volto quella che sicuramente era biacca mentre Lia brontolava qualcosa sul fatto che lei odiava quella roba.
Acilia trattenne il sorriso che le stava nascendo sul volto per evitare di ostacolare le mani di Decia ma subito dopo qualunque voglia di sorridere le scomparve dalla mente. Sua sorella, che aveva appena dodici anni, poteva permettersi di fare la schizzinosa e di snobbare le pratiche femminili ma ancora per poco. Presto la madre sarebbe stata più severa e il padre le avrebbe trovato un fidanzato, allora lei sarebbe dovuta essere sempre impeccabile. Un triste destino l’attendeva, ma ancora più triste forse era quello di Acilia. Acilia sperava che la sorella più piccola non si innamorasse mai, cosicché le sarebbe stato più facile piegarsi alla volontà del padre. Lei era fidanzata a Numerio Aemilio Vito, della famiglia Aemilia, da quando aveva undici anni ma lo conosceva appena e il suo cuore si era inevitabilmente legato a qualcun altro, a quel Damiano che non avrebbe mai potuto sposare.
Le mani di Decia si spostarono dalle labbra e agli occhi e Acilia si sforzò di tenerli chiusi. Ancora qualche istante e sentì la serva allontanarsi, e lei poté aprire gli occhi. Questa volta si guardò allo specchio, più per fare un piacere a Decia che per rimirarsi veramente. Una ragazza dalla carnagione bianchissima, gli occhi verdi cerchiati di grigio, le gote colorite grazie alla feccia di vino rosso, labbra ridipinte di ocra e i capelli raccolti su una pioggia di fili lisci, neri mischiati a smeraldi ricambiava lo sguardo triste e assente che si sentiva pesare sul volto ogni istante che passava in quella casa. La spilla d’argento si faceva ben vedere sulla stola e lei capì che non poteva più indugiare.
Guardò Decia che la guardò con comprensione e fece un inchino, poi si rivolse verso Lia e insieme uscirono dalla stanza trovandosi nell’ampio porticato che si affacciava sul loro giardino ben curato. Acilia fu presa  per un momento dalla tentazione di rifugiarsi lì, nel verde, come faceva da piccola, quando lei e il fratello Spurio giocavano a rincorrersi e si nascondevano dietro le colonne e le statue.
“Sono nel tablino?” chiese Acilia, riferendosi agli ospiti.
“Sì” rispose Lia, mentre camminando faceva attenzione a non pestare la tunica. Non era abituata a portare tuniche così lunghe.
Si diressero verso l’atrio e scostarono le tende che lo separavano dal tablino.
Il tablino era la sala dove di solito ricevevano gli ospiti e difatti li trovò tutti lì, chi impegnato a parlare, chi impegnato a guardare i dipinti dei loro antenati e gli oggetti di lusso.
Acilia pensava che con tutte le stanze inutili che avevano era proprio assurdo non poter mai invitare a casa chi voleva lei.
Fu il padre il primo ad accorgersi di loro. “Oh!” esclamò, trionfante e ilare “Ecco Acilia Maior e Acilia Minor”.
Lia fece una smorfia, odiava l’appellativo minor, mentre Acilia si sforzava di sorridere, ringraziando uno per uno gli ospiti che le venivano incontro per gli auguri.
Il primo fu Spurio e Acilia, vedendolo così alto e lo sguardo distaccato, provò una stretta al cuore. Ormai stava per completare il suo percorso di studi alla scuola dei retori e ogni volta che apriva bocca era peggio che ascoltare un sermone. Quel ragazzino con cui giocava sempre ormai ostentava superiorità da tutti i pori, e le parlava solo in rare occasioni. Dopotutto Acilia era una donna, e conversare con le donne non era poi questo granché.
Dopo Spurio fu il turno del padre Senecio e poi – Acilia avrebbe voluto sotterrarsi – di Vito accompagnato dai genitori. Si scambiarono due parole formali, di pura cortesia mentre la signora, entusiasta, non finiva più di dire di quanto si fosse fatta bella Acilia.
Poi c’erano gli zii, i cugini, altri amici di Senecio, e ad Acilia già girava la testa. Fu quasi un sollievo quando il padre propose di mettersi a tavola.
Tutti si avviarono verso l’uscita ed Acilia rimase indietro con Lia e la madre. Quest’ultima le si avvicinò con sguardo severo: “Vedi di comportarti bene con Vito e i suoi genitori, e cerca di conoscerlo e rendertelo simpatico, adesso che ci siamo quasi”.
Acilia la guardò con gli occhi sgranati. Non aveva fatto niente di male, avrebbe forse dovuto mettersi a civettare? Poi si rese conto delle parole della madre. Adesso che ci siamo quasi.
“Volete forse dire che il matrimonio è vicino?”.
La madre sospirò. “Hai già diciotto anni, penso tu sia l’unica ragazza di buona famiglia in tutta Roma nubile a diciotto anni! Non so più cosa inventarmi con tuo padre per rimandare ancora le nozze”.
Acilia sentì il suo cuore sprofondare. La festa in suo onore stava andando ancora peggio di come si era immaginata. Sua madre l’aveva sempre coperta, aveva indotto suo padre a posticipare il matrimonio dicendo che Acilia era interessata al canto, poi al disegno, poi ancora alla danza. Ma le scuse erano finite e la condanna dei diciotto anni le era sopra come una spada affilata pronta a calare su di lei.
La voce della madre continuò, crudele, riducendosi ad un bisbiglio: “Quindi comincia a pensare di dire addio a chi devi”.
Quelle parole furono come una pugnalata. Acilia aveva già finito il tempo a disposizione che aveva per godersi la vita, anzi, doveva essere grata che fosse finito così tardi.
Non riuscì a dire niente e si limitò a seguire la madre fuori dal tablino, affianco a Lia, che la guardava preoccupata.
Passarono ancora di fronte al giardino e ancora Acilia, guardando quel pezzo di cielo sopra il verde, provò il desiderio di fuggire via, verso un’altra vita. Ma entrarono nel triclino e l’oppressione si impadronì ancora di lei. Tutti gli ospiti erano già seduti sui letti disposti lungo la tavolata. Un posto era stato riservato a lei di fianco a Vito. Acilia si diresse verso di lui con un macigno nel petto. Ricordò le parole di sua madre: cerca di conoscerlo e rendertelo simpatico. Si sedette e lo guardò. Non lo aveva mai conosciuto, magari era un ragazzo simpatico, magari non sarebbe stato male vivere con lui.
Ma lui non si voltava a guardarla, impegnato com’era in una conversazione con Spurio sulle tecniche di retorica più adatte. Ma certo, a lui non interessava niente di lei, come lei di lui, magari anche lui aveva una fidanzata o un fidanzato segreto, con cui scivolava dolcemente nella passione ed era costretto a rinunciare a tutto quello per sposare un’altra persona. E chissà come doveva odiarla.
No, sicuramente non sarebbe stato bello vivere con lui.
Acilia alzò lo sguardo sugli altri presenti. Alla sua sinistra c’erano solo donne, alla sua destra solo uomini. Sentiva le sue cugine parlare di argomenti frivoli, di trucco forse, di matrimoni. Alla sua destra invece sentiva parlare di arte retorica, di politica, dell’imperatore Tito gravemente malato.
Suo padre si era steso sul letto a capotavola, con la pancia ingombrante rivolta verso il tavolo, mentre mangiava un chicco d’uva dopo l’altro.
Acilia decise di fare uno sforzo con Vito, dopo aver incrociato lo sguardo eloquente della madre. Tossicchiò, per cercare di catturare l’attenzione del ragazzo.
Quello non si voltò allora lei decise di parlare, sentendosi piena di rabbia, forse addirittura sbottò: “Allora, si hanno notizie sulla salute dell’imperatore?”.
Vito si voltò con aria sorpresa.
“È grave” disse poi, parlando con un lieve sdegno “Dicono che morirà”.
“Ma è terribile” fece Acilia, sincera. Era turbata all’idea che un imperatore mite e generoso come Tito morisse per essere rimpiazzato da chissà chi.
Vito annuì. “Gradirei che non mi interrompeste più in tal modo” disse poi, voltandosi nuovamente verso Spurio.
La ragazza si sentì come se l’avesse schiaffeggiata.
Voltò subito lo sguardo altrove e incrociò quello della madre in cui le parve di vedere quasi una dolorosa rassegnazione e in quel momento capì che sua madre davvero ci teneva che lei facesse amicizia col suo futuro sposo.
Gli schiavi cominciarono a portare il cibo in tavola ma ad Acilia si era chiuso lo stomaco in maniera terribile. Cominciava a rendersi conto che avrebbe dovuto davvero dire addio a Damiano per sposare quell’uomo dal naso adunco e pieno di sé.  Sentiva un gran vociare, delle risate, i primi sintomi del vino e le voci cinguettanti delle cugine che ancora parlavano di matrimoni.
Come fate a sopportare tutto questo?!
Nella confusione e tra un portata e l’altra i discorsi degli uomini si fecero sempre più fuori luogo e volgari e quelli delle donne sempre più timorosi. Il padre, rosso in faccia e sempre più ilare, faceva commenti indecenti sul loro schiavo greco scatenando le risate generali. Acilia guardò la madre e la vide a braccia conserte, labbra serrate, il piatto vuoto proprio come il suo. Era quello il destino che l’attendeva, quello l’inferno che avrebbe passato, guardare suo marito ubriacarsi, guardarlo flirtare con gli schiavi, sentire di non valere niente, per tutta la vita.
 
*
 
 
Lo sfortunato uomo che avevano scelto li stava guardando ammirato.
Era stato Jacque ad incantarlo, e ora l’uomo era davanti a loro con quello sguardo di adulazione che ogni volta lo incuteva. Guardò Eike incoraggiante. “Vai per primo” gli disse.
Il bambino si avvicinò alla preda che volse lo sguardo verso di lui.
“Calmati, non ti agitare” fece Eike, alzandosi in punta di piedi e costringendo l’uomo a piegarsi verso di lui. Quello lo assecondò e gli mostrò il collo. Eike si piegò su di lui e lo morse. L’uomo lanciò un urlo terribile ma dopo pochi istanti si mise a ridere, mentre il colorito che aveva sul volto cominciava piano piano a sparire. “Basta così” disse Acilia, dopo un po’, risoluta “Jacque, digli di smettere”.
Jacque obbedì. “Eike, fermati”.
Eike non si fermava e il ragazzo fu costretto a prenderlo per il colletto della camicia.
“Quando ti dico di fermarti, ti devi fermare”.
Il bambino si pulì la bocca sporca di sangue senza replicare. Doveva ancora imparare a controllarsi, Jacque lo capiva, ma sentiva su di sé lo sguardo severo di Acilia e voleva fare una buona impressione su di lei, voleva che lei lo considerasse un buon creatore.
Continuò a guardare negli occhi – e ad incantarlo – l’uomo che, incredulo, si tastava il collo ricoperto di grumi di sangue con la mano.
Poi Jacque si piegò su di lui, prendendogli il polso, il battito del cuore si sentiva ancora distintamente e lui si lasciò andare serenamente all’attizzante odore del sangue che gli stava penetrando con forza le narici. Un lieve dolore nell’arcata dei denti superiori, qualcosa che spingeva, la prima volta che gli erano comparse le zanne aveva urlato e cercato di piangere perché quei denti così lunghi, affilati e orribili non potevano essere i suoi…
Cercò di colpire la pelle dell’uomo con le zanne negli esatti punti colpiti da Eike. Non voleva sfigurare ancora ulteriormente quel collo, non era cattivo, non voleva essere cattivo. Acilia diceva che erano dannati, come se avessero un orribile marchio sulla pelle e non potevano fare nulla per cambiare le cose.
Mentre l’uomo urlò di nuovo Jacque succhiò avidamente e sentì il sangue scivolargli giù per la lingua e la gola. Da vivo non avrebbe mai pensato che il sangue avesse un sapore così buono, non avrebbe mai pensato neanche di assaggiarlo.
Sentì il corpo dell’uomo fremere per un attimo e Jacque lo lasciò andare. Guardò Acilia, era il suo turno, ma lei scosse la testa. “Morirebbe” disse solo, e sparì in un attimo, probabilmente alla ricerca di qualcun altro.
Erano in un vicolo stretto, tra due palazzi. La gente non si sarebbe mai avventurata in un posto simile, con le storie che circolavano sui vampiri. Probabilmente quello era un ebreo che cercava rifugio da una SS, aveva pensato Jacque. Avrebbe voluto succhiare il sangue a quei tedeschi ignobili, l’avrebbe succhiato fino a prosciugarli, e li avrebbe lasciati, morenti e vuoti, secchi, con l’espressione smunta, terrorizzata e urlante di chi ha visto un vampiro. Ma Acilia diceva che se avessero bevuto il sangue delle SS non sarebbero di certo passati inosservati. Dovevano nascondersi e dovevano farlo bene. Bastava solo qualche prova e un po’ di coraggio dalle persone giuste e sarebbe stata rivolta anche contro di loro.
Eike si stava succhiando un dito su cui era rimasto del sangue, mentre Jacque ancora teneva sotto controllo la psiche dell’uomo che aveva offerto inconsapevolmente loro il suo sangue.
“Perché non lo beviamo tutto?” chiese Eike.
Jacque lo guardò sorpreso. “Vuoi uccidere?”.
“Non è ciò che fanno i vampiri?”.
“Vuoi uccidere?”.
Eike lo guardò, ostinato. “Io non vorrei neanche succhiare il sangue alle persone, ma ho fame, sempre fame”.
Jacque sospirò, senza sapere che dire. Cercavano di limitare i danni, per quanto fosse brutto succhiare il sangue delle persone, ucciderle sarebbe stato peggio, anche se a volte non ne era poi così sicuro.
“Grazie” disse, rivolgendosi all’uomo “Ora non ricorderai niente di quello che è successo”.
L’uomo annuì, con un sorriso da ebete e Jacque continuò: “Quella che hai sul collo è una brutta ferita, faresti meglio a coprirla quando vai in giro”.
Ancora l’altro annuì. Era sulla trentina, forte e robusto. Si sarebbe presto ripreso. Li sceglievano sempre corpulenti e giovani apposta.
“Andiamo a casa” disse Jacque, ancora attento a non distogliere lo sguardo “prima che si svegli”.
Sparirono entrambi in un soffio, prima di sentire gli affanni spaventati del giovane di cui si erano nutriti.
 
*
 
 
Acilia si faceva largo tra le persone, il mantello che la copriva dalle spalle ai piedi. Sentiva i cocci del sentiero sbattere contro i sandali, aveva voglia di correre e di urlare, ma cercò di mantenere la calma che le era stata insegnata finché non si ritrovò davanti a quello che sembrava un gigantesco magazzino. Era lì che abitava la famiglia di Damiano.
Spinse con delicatezza la porta centinata e si ritrovò nella bottega. Si aspettava di vedere il padre di Damiano dietro il lungo bancone di pietra invece trovò Damiano stesso, che appena la vide esplose in un sorriso.
“Aci! Cosa ci fai qui? Non dovevamo vederci domani?”.
Acilia si avvicinò al bancone. “Devo parlarti” disse, sentendo un grosso peso sullo stomaco.
La porta si aprì di nuovo e altre persone avvolte nei mantelli entrarono in uno scalpiccio di sandali.
Damiano assunse un’aria preoccupata. “Ora non posso, devo occuparmi dei clienti”.
La ragazza sentiva di non poter aspettare ancora neanche un secondo ma annuì. “Tuo padre?” chiese solo.
Damiano accennò alla scala di legno alla sua sinistra. “È malato e si sta riposando”.
Una donna dai capelli grigi e il viso magro si avvicinò al bancone ma Acilia chiese ancora, turbata: “È grave?”.
Il ragazzo scosse la testa frettolosamente e si rivolse alla signora. “In cosa vi posso essere utile?”.
La donna disse di volere del pane e Damiano scomparve nel retro.
Acilia si guardò intorno: dietro la donna c’erano altre due persone. Il suo cuore non avrebbe retto a tant’attesa.
Damiano ricomparve con del pane nero scaldato e Acilia pensò che era molto diverso dal pane bianco di farina finissima che lei aveva in tavola tutti i giorni.
Attese pazientemente che il ragazzo servì tutti i clienti presenti nella bottega. Quando l’ultimo uscì, sentì che stava per scoppiare in lacrime e Damiano se ne accorse. “Che cosa succede?” chiese, cauto, con lo sguardo di chi già immaginava.
“Si tratta del matrimonio” disse lei “Non si può più aspettare”.
Capì che Damiano aveva immaginato bene quando lo vide sospirare e abbassare lo sguardo. “E tu hai intenzione di assecondarli, immagino”.
Acilia si sgranò gli occhi. Non si aspettava una reazione del genere. “Che altro dovrei fare?” disse, sgomenta “Sono i miei genitori!”.
“Quindi preferisci mollare me piuttosto che mollare loro” disse l’altro, con lo sguardo duro.
La ragazza si sentì come se le mancasse l’aria, quelle parole la ferivano profondamente. “Ma come ti permetti… Io non preferisco affatto, io non ho scelta!”.
“Si ha sempre una scelta!” esclamò Damiano, alzando la voce.
Acilia pensò improvvisamente a sua madre come la vedeva a tavola, muta e col volto della rassegnazione, pensò a sua sorella che ancora non sapeva cosa l’attendeva.
“Noi donne no!” esplose “Non abbiamo mai una scelta!”.
Vide Damiano deglutire e si accorse che si stava trattenendo dal piangere. Stava nascondendo il suo dolore dietro la rabbia.
Ma Acilia non avrebbe sopportato di vederlo piangere. “Non devi essere triste” disse, con la voce rotta dal pianto “Sono io quella che soffrirà enormemente, con un uomo orribile accanto che non ho scelto io, mentre tu potrai innamorarti di un’altra donna e…”.
Damiano la guardò coll’angoscia che traboccava dagli occhi scuri. “Non mi innamorerò mai di un’altra donna”.
Acilia si portò una mano alla bocca, scossa dai singhiozzi, mentre sentiva le lacrime percorrerle le guance. Erano le parole più belle che una donna potesse sentirsi dire, eppure le stavano facendo male, malissimo, sentiva il suo cuore lacerarsi. Avrebbe forse potuto sopportare la sua stessa sofferenza, ma quella dell’uomo che amava no, l’avrebbe uccisa.
“Ti sto chiedendo di fuggire, Aci” continuò Damiano, con un luccichio tra le lacrime degli occhi “Vieni via con me”.
Acilia lo guardò, stranita.
Lui continuò: “Tuo padre non accetterebbe mai il figlio di un bottegaio per sua figlia, non so neanche cosa sia la grammatica” accennò ad un sorriso “L’unica mia possibilità di vittoria è che tu gli volti le spalle e vieni via con me”.
Fu un attimo in cui Acilia pensò alla rabbia che avrebbe provato il padre, il disprezzo di suo fratello, il dolore di sua madre perché non l’avrebbe potuta vedere mai più. Non avrebbe più rivisto neanche sua sorella.
La testa le girava e il peso allo stomaco non si era allentano neanche un po’. Damiano aspettava una risposta e lei non sapeva cosa dire. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta, non aveva mai osato tanto in tutta la sua vita.
La porta si aprì e Damiano volse la sua attenzione a quel cliente che entrando non aveva idea di quello che aveva interrotto.
 
*
 
 
Ormai sarebbe sopraggiunta l’alba ed Acilia era seduta in veranda.
Tra poco sarebbe dovuta andare a stendersi nel sotterraneo, ma non era stanca. Il vento le accarezzava la pelle e chiuse gli occhi, consapevole del fatto che quella era la loro ultima notte in quel posto.
Jacque era seduta accanto a lui, Eike già era andato a riposare.
Doveva dirglielo.
“Domani ce ne andiamo” disse, senza preamboli.
Jacque la guardò, visibilmente sorpreso. “Perché?”.
Acilia continuò a tenere lo sguardo sull’orizzonte, in attesa del sole.
“La Germania sta diventando un posto pericoloso, te ne sarai accorto”.
“Sì”.
Ci fu qualche momento di silenzio, poi Jacque aggiunse: “Qualsiasi posto è pericoloso, sta per scoppiare una guerra”.
Acilia si lasciò sfuggire una risata. “Le guerre per noi non sono pericolose,  anzi, è per noi il periodo migliore. La gente non sta di certo a pensare ai vampiri durante le guerre”.
Si rese conto dello sguardo di disapprovazione di Jacque. Il ragazzo si sentiva ancora attaccato alla sua vita d’umano, e sentire parlare bene delle guerre non doveva fargli piacere.
“Invece qui ci sono le SS” continuò Acilia “e quelle scrutano in ogni angolo, sono insopportabili”.
Jacque non replicò, ma neanche assentì. Una volta lui le aveva confidato la voglia che aveva di proteggere la gente da quello squinternato di Hitler. Avrebbe potuto raggiungerlo in un battibaleno, avrebbe potuto conficcargli le zanne nel collo, ucciderlo in una frazione di secondo…
Ma i vampiri non potevano interferire nelle faccende umane, non era giusto e sarebbe stato oltremodo pericoloso. Avrebbero salvato la vita a tantissime persone, ma, una volta venuti allo scoperto, nessuno avrebbe risparmiato la loro di vita.
“E dove vorresti andare?” chiese Jacque, riluttante.
Acilia aveva la risposta pronta. “Inghilterra”.
Il ragazzo, da bravo francese, fece una smorfia. “Perché proprio lì?”.
Lei scrollò le spalle. “Non ci sono ancora stata”.
La verità era che confidava molto nell’Inghilterra. Era un paese all’avanguardia, e forse un giorno gli inglesi avrebbero cominciato a temere meno i vampiri e ad integrarli. Sapeva che era impossibile quanto il sogno di Jacque di fermare i nazisti, ma non poteva fare a meno di sognare. Se solo i vampiri avessero trovato un altro modo di nutrirsi…
“Dovrò imparare anche l’inglese” disse Jacque, sbuffando “Avevo appena cominciato a parlare decentemente il tedesco”.
Acilia rise. “Non è difficile imparare le lingue, io ne ho imparate tantissime”.
Jacque la guardò scettico e lei continuò: “Le grammatiche delle varie lingue sono molto simili tra loro, immagino che sia perché abbiamo tutti lo stesso cervello”.
Il ragazzo era stralunato, ma disse solo: “Non so neanche cosa sia la grammatica”.
Acilia sorrise, lasciandosi andare a ricordi lontanissimi. Anche Damiano le diceva che non sapeva cosa fosse la grammatica, però… il suo volto ormai neanche lo ricordava più.
Sperava stesse bene, lassù, nel cielo, dove meritava di essere.
Sentì Jacque sbuffare ancora ed alzarsi, dato che lei non rispondeva più. “Vado a dormire, buonanotte”.
Il cielo si stava colorando di rosa per le prime luci dell’alba, e anche Acilia si alzò, rassegnata.
 
   
 
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