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Autore: roxy92    09/04/2012    4 recensioni
Chi ha sbirciato la fic che ho cancellato prima avrà una vaga idea di come scrivo. Mi piacciono le cose che non piacciono alla massa, trattate in modo non ordinario. Io lo so che me le cerco, ma ognuno, quando libera la fantasia, produce i risultati più disparati. Il mio è questo.
Dal prologo:
"Quando non ricordi il tuo passato, è come se un macigno fosse sempre in procinto di caderti addosso. Ce l’hai sospeso sopra alla testa, trattenuto da un filo sottile. Il terrore che il presente sfumi come il tempo trascorso è una morsa che attanaglia lo stomaco e a tratti non fa respirare.
Se sei abbastanza forte, ore, giorni, minuti e secondi, ti scivolano addosso come se il tempo non esistesse. Le tue mani sembrano vuote ai sentimenti e ti ritrovi sempre a stringere il niente. Non hai nulla per cui vivere e nulla per cui morire."
Io mi metto alla prova nel disperato tentativo di creare qualcosa che superi almeno le più basse aspettative... Qualcuno di voi mi da una mano e mi dice che ne pensa? Anche sapere se è meglio lasciar stare... Se ne avete il coraggio, buona lettura. :)
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Piccolo, Un po' tutti
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Spero tanto di non aver fatto pasticci con un capitolo di questo tipo, l'ho riletto mille volte ma non sono riuscita a fare di meglio.

A chi legge la sentenza, di vita o morte che sia. :)

Da quando si era svegliata non era rimasta ferma più di un mese nello stesso posto. La sua nuova vita era cominciata tra le pareti bianche della stanza asettica di un ospedale, alla città dell’ovest.

C’era rimasta per un periodo abbastanza lungo. Ad assisterla, si erano succedute almeno quattro diverse infermiere. Stessa uniforme bianca, stessa faccia.

La prime cosa che aveva imparato erano l’indifferenza e la compassione. La dottoressa che le aveva chiesto il nome e da dove venisse, non ci aveva messo molto a liquidare il suo problema: amnesia.

Forse era perché lei non era molto collaborativa come paziente o. semplicemente, non c’era mai stata simpatia tra loro. A tutte le sue domande, l’unica risposta era che non sapeva. Nella sua testa era tutto bianco o tutto nero.

Non vi era traccia neppure di un ricordo. Le fratture, invece, quelle no, guarivano in fretta. A una velocità sorprendente, quasi spaventosa. Non sopportava più di essere considerata il fenomeno da baraccone del reparto di medicina generale.

Così, appena possibile, si era liberata degli stracci da ammalata, zaino in spalla fornito dalle suore della cappella interna, medicine nel cestino prima dell’ingresso principale ed era scappata.

Appena fu all’esterno, nel caos della città, si sentì mancare. Tutto quel rumore e quelle luci accecanti la colpirono così forte da tramortirla. Quello non era mai stato il suo mondo.

Doveva aver tremato. La voce distorta di qualcuno le aveva chiesto se aveva bisogno di aiuto e si era fatto tutto distorto poi nero. Si era aggrappata solo per qualche istante, ma spalancò gli occhi quando capì che il passante sconosciuto l’avrebbe riportata nel luogo da cui era finalmente uscita.

Si era liberata con uno strattone allora, ed era corsa via, disperdendosi nel dedalo di vie e persone della stazione ferroviaria. Lei quel mondo non lo conosceva. Non solo non le piaceva. Già lo detestava.

Quel giorno corse via, dalla prima mattina fino al tramonto, dalle strade principali fino alle periferiche, quando alle case si sostituirono edifici e gli sguardi curiosi dei rari tizi che incrociava. Per quanto le gambe la ressero, arrivò ai vicoli più bui della città.

Si fermò, stremata, vicino a un gatto dagli occhi gialli che tagliavano le tenebre come punte di un coltello, tra qualche bidone rovesciato, muffe, altri umori di cui percepiva l’odore pungente.

Eppure, quel buio e quel fetore facevano meno male del frastuono e del caos che l’avevano colpita quella mattina tremenda. Quel gatto rognoso che soffiava si era avvicinato a graffiarla, ma lei non aveva badato al sangue che doveva colare dal suo braccio tagliato.

Rispose con un ringhio, un verso selvaggio che bastò a spaventare la bestiola e farla fuggire via, in un cozzare di coperchi rovesciati e bidoni. Poi aveva lasciato scivolare la schiena sui mattoni sudici e umidi di quel vicolo, stretto e malsano.

Aveva chiuso le palpebre, pesanti come macigni. Senza dubbio, l’oscurità era meglio del caos che l’aveva travolta.

Tutti gli esseri umani non avevano volto e se ce l’avevano era sempre lo stesso. La ragazza si era data della sciocca mentre si riavviava una ciocca più fastidiosa, dietro l’orecchio a punta.

Ormai, le sue unghie erano così lunghe che faceva fatica a stringere i pennelli. Il bianco e il nero che aveva in testa avevano assunto i colori strani di un mondo che non esisteva. Non ricordava che si chiamasse Namecc.

Da quando aveva conosciuto quella strana donna, Chichi si chiamava, aveva avuto l’impressione che, se avesse teso la mano, davvero si sarebbe trovata meno sola.

“Il mio Goku e il mio Gohan sono i combattenti più forti della terra.”

Quelle parole erano incise come un marchio nella sua testa. Era fuggita tanto a lungo. Che male avrebbe fatto se si fosse fermata qualche giorno in più, nello stesso posto?

Si morse il labbro. Forse la donna si sbagliava. Ne aveva già conosciuti tanti di presunti combattenti più forti della terra, tutti i buoni a nulla usciti dalla scuola di mister satan. Li aveva atterrati con uno, al massimo due colpi, trattenendosi un sacco, per giunta.

“Il mio Goku e il mio Gohan sono i combattenti più forti della terra.”

Non le era mai successo prima di stringere così forte da rompere il pennello.

Aveva riposto decisa l’album, colta dalla frenesia d’una ragazzina che si avvicina a qualcosa che, insieme, la attira e la spaventa. Aveva imboccato il sentiero e aveva lanciato sul selciato la capsula con la moto. Addirittura senza casco, aveva dato gas per dirigersi verso casa Son.

Non s’era accorta minimamente che ogni suo movimento era stato tenuto sotto stretta osservazione.

Piccolo aveva scrutato, un po’ indispettito, ogni leggero cambiamento e vibrazione della sua aura perché sì, ora era certo che la ragazza ne aveva una, ed era a dir poco particolare.

Sciolta la posa meditativa, inarcò un sopracciglio, vittima di una certa sorpresa. Che intenzioni aveva quella matta, nel dirigersi verso casa Son?

“Ehi ragazzina? Che intenzioni hai?”

Una voce profonda l’aveva bloccata prima che potesse bussare alla porta. Si girò veloce, allerta.

Non aveva percepito il minimo suono alle proprie spalle. Spalancò gli occhi, nel trovarsi davanti una persona simile.

Non aveva mai visto un essere umano così alto, e sì che lei non era propriamente bassina. Fu colpita da quegli occhi così scuri, come un pozzo senza fondo. Il fatto che fosse verde, era un particolare secondario.

“Che intenzioni hai tu?”

Gli rispose, già pronta ad attaccare. Per esperienza, aveva capito che con chi era così diretto c’era sempre poco da scherzare. L’uomo aveva uno strano ghigno in faccia e non era per niente ben disposto, a giudicare da come teneva le braccia strette al petto.

“Sono un amico di Gohan. Tu chi sei, piuttosto?”

Chi era lei? Avrebbe voluto tanto potergli dare una risposta. Lo avrebbe voluto davvero.

Cercò di tergiversare. Non era chiaro neppure a lei stessa quali fossero le sue intenzioni. Non aveva mai agito così da bambina.

“Non te l’hanno insegnato a presentarti prima di chiedere il nome a qualcuno?”

Non ottenne lei risposta, per cui decise di ignorarlo. Quando però si ritrovò ad avere il polso bloccato, quella furia che s’impossessava di lei quando era in pericolo esplose subito.

Repentina si girò su se stessa. Lo colpì con un gancio alla guancia e il crack che era seguito non era un dente che si spezzava, ma qualcuna delle sue ossa.

Non c’era andata a piena potenza. Voleva liberarsi, non fargli del male. Anche se per pietà, fu lasciata andare. Barcollò appena. Non s’aspettava che avrebbe impattato contro una superfice così dura.

Si inginocchiò un attimo, trattenendo al petto la parte lesa. Anche se era un dolore lancinante, non avrebbe pianto.

“Ma di che diavolo sei fatto? Di metallo rinforzato?”

Appena preoccupato, il namecciano aveva provato a schiarirsi la voce, nel tentativo di chiederle se fosse ancora intera. Tirò un sospiro di sollievo, quando vide che scuoteva le dita, in piedi dopo pochi istanti.

“Ti pare il modo di fare con la gente, questo? Potevi farti male per davvero!”

Aveva urlato e la sua pazienza era arrivata già al limite.

“Ha parlato l’insegnante di buone maniere.”

L’afferrò per la maglietta e stava già ringhiando. Mai si sarebbe fatto prendere in giro da una ragazzina.

Però, neppure lui aveva capito che quella non voleva essere toccata, perché la testata sul naso non l’aveva messa proprio in conto.

Era deciso a farla fuori, perché la misura era colma già da un pezzo.

Stava per colpirla lui, quando si spalancò la porta di casa Son. Chichi era apparsa sulla soglia, tra le braccia una cesta colma di biancheria da stendere. Dapprima solare, sul suo volto si era dipinta subito un’espressione terribile.

“Che-cosa-le-stai-facendo?”

Aveva scandito a chiare lettere.

La mano aperta davanti alla faccia di quella matta, con una sfera energetica pronta ad esplodere, lasciava poco spazio all’immaginazione.

Piccolo non provò neppure a giustificarsi. Il suo corpo fremette, nel disperato tentativo di calmarsi. Tremava letteralmente. Non seppe neppure lui come vi riuscì.

Diede le spalle alle due donne e annunciò che aspettava Goku nel solito posto.

Prima di spiccare il volo, però, rivolse l’ultimo sguardo all’estranea. Aveva un’espressione a dir poco omicida.

La ragazza deglutì. Quella era la prima volta che ricordava la paura.


  
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