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Autore: elans    10/04/2012    2 recensioni
Arwen, stufa di stare ad ascoltare le previsioni catastrofiche di suo padre sull'impresa di Aragorn, parte per Chicago insieme ad Elizabeth Swann, che, da quando ha visto partire Will, è stanca della sua vita. La dragonessa Saphira dovrebbe "completare il suo addestramento, rafforzare la sua relazione col Cavaliere etc.", ma si è innamorata di Legolas. E Voldemort? Lui, poveretto, è caduto in depressione quando Harry Potter ha tentato di ucciderlo, e si consola con Queer As Folks.
Volevo scrivere una long impegnata e incasinata a tema ribellioni al destino, fughe precipitose che non riescono a tagliare i legami col passato ma anzi li rinforzano e personaggi stravolti. Non ci sono riuscita ed è venuta fuori questa.
Storia sospesa a tempo indeterminato. Le sono molto affezionata e non voglio abbandonarla, ma al momento non riesco a portarla avanti. Grazie comunque a chi la segue/legge!
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Arwen
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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002. Rose (appassite al ramo)



Speravi in un amore come l'infante
Che ti segue reggendoti in mano.
E invece che fiori, versi e collane
La morte ti diede rose - appassite al ramo.

[F. Garcìa Lorca, Elegia a donna Giovanna la Pazza
]



Venerdì, 2 febbraio, ore 22.10
Stanza 39, Motel U.S.A. Paradise
Chicago, USA
“Ahiaaa, Dio margherita! Mi stai strappando la pelle dalle ossa! Wen, se finisci subito ti offro la cena, giuro su Jude” ululò Elizabeth, coprendosi con le lunghe mani il volto ridotto a una maschera di dolore.
Nella stanza malandata del motel, i bei lineamenti corrugati in una smorfia di elfica concentrazione, Arwen stava passando con precisione clinica un rombante esemplare di silk-épil sulle gambe dell’ex piratessa. Quest’ultima era riversa sul letto agonizzante, gli occhi rivolti verso il poster di Jude Law largo due metri e alto tre che lei ed Arwen avevano acquistato per il non-compleanno di Voldemort.
“Senti, donna, l’ultimo sudicio maghetto a cui ho inflitto la maledizione cruciatus strillava la metà di te, e lo faceva in modo molto più elegante” sbuffò il Voi-Sapevate-Chi dalla gabbietta in cui si era ritirato in buon ordine dopo aver attaccato al chiodo bacchetta e Mangiamorte e aver assunto sembianze di scoiattolo. “Se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire. E se non appari bella stasera ti licenziano, quindi. Mettici un po’ d’impegno.”
“Disse quello che s’era perso il naso per strada” lo redarguì Elizabeth.
“Come osi? Lurida babbana.”
“Topaccio puzzone.”
“Scampolo di cambusa.”
“Fattucchiero da quattro soldi.”
“Stolida bucanieretta.”
Arwen dovette alzare la voce per interrompere il battibecco.“Et voilà. Finito” sorrise, e si alzò con grazia per raggiungere il termosifone e prendere solennemente in mano il vecchio diario di Davy Jones. La luna le si riversava addosso attraverso i vetri opachi, insinuandosi tra le maglie del pull enorme di lana grigia che indossava a mo’ di vestito. Brillava come una stella lei stessa, ma non c’era nessun Aragorn a vederla e ad andarsene a letto col cuore in tumulto, quella sera.
In quel momento Voldemort trasalì e corse a nascondersi sotto la sua ciotola. “Per Salazar Serpeverde, pace all’anima sua!” esclamò terrorizzato. “Gli Auror! Sapevo che mi avrebbero scovato, prima o poi!”
“Ma che cavolo va blaterando?” sbuffò Elizabeth, che si stava massaggiando le gambe con il Cremoso Infuso Idratante Ingrediente Segreto di Arwen, gli occhi chiusi e i lineamenti distesi in un’espressione di estrema beatitudine (probabilmente non sarebbe stata così sollevata se avesse saputo che l’Ingrediente Segreto da mescolare a miele, olio di jojoba e funghi tritati era latte acido di pipistrello silvestre). “Cosa sono gli Auror?”
“Gli Auror sono l’FBI del mondo magico, se non ricordo male” spiegò Arwen. “E tra l’altro, Lord Voldemort, non capisco proprio come le sia venuta in mente un’assurdità del genere. Non la scoprirebbero mai. Nessuno andrebbe mai a pensare che Voldemort possa nascondersi a Chicago. Sarebbe statisticamente più probabile trovare mio padre in vacanza alle Hawaii. E poi cosa le fa pensare che siano qui proprio adess…”
Un tramestio di passi affrettati e incerti si riversò nel corridoio del motel, seguito da un paio di tonfi contro le pareti e uno, molto plateale, sul pavimento. Pochi secondi dopo, la porta della camera cominciò a tremare sotto una frenetica pioggia di colpi.
Elizabeth si alzò drammaticamente e andò a sbirciare all’occhiello, dopodiché aprì la porta roteando gli occhi mentre Voldemort lanciava un gridolino da Rossella O’Hara e si accasciava sulla paglia semisvenuto.
Una massa informe di capelli ramati si catapultò nella stanza, inciampò e crollò a sedere, distrutta, sull’unica poltrona della stanza, un relitto foderato da un liso tessuto a fiori.
“Phy?” chiese Elizabeth andando a versarle un bicchiere d’acqua. “Tutto bene? Abbiamo appena finito col silk-èpil, mi dispiace che te lo sia perso” ghignò. “Se non rischiassi di essere licenziata, non ti dico cosa gli farei, a quell’arnese.”
La massa informe, adesso che era ferma, aveva assunto le sembianze di una ragazza piuttosto sottile, col volto sporco di terra e seminascosto da una criniera rossa che schizzava in tutte le direzioni. Indossava un maglione nero e una minigonna verde a fiori troppo leggera. Le gambe pallide erano tutte graffiate e chiazzate di rosso.
Costei prese una lunga boccata d’aria e poi dichiarò: “Io in quella foresta di merda non ci torno più. Il cavaliere mi perseguita. Non fa niente dalla mattina alla seria. Niente. Aria.”
"Quell'Arya?" ammiccò Elizabeth.
"Sì. Quell'Arya. Stramaledetta stangona. (Con tutto il rispetto, Wen.) E poi parla! Parla in continuazione!"
“Saphira…” provò a dire Arwen, assumendo un’espressione da saggia e moderata vecchia elfa.
Saphira le puntò un dito contro con fare minaccioso. “No. Non farmi il discorso della comunione di pensieri, perché i miei maestri” fece una pausa significativa, durante la quale assunse un’espressione indescrivibile “mi ci fanno un capo grosso così. Vorrei però ricordare ai miei maestri” e qui cominciò ad agitare il piede in un tic nervoso “che non ci sono mica sposata, io, con quello lì.”
Elizabeth storse il naso. “Ah, dalla Terra di Mezzo nessuna notizia, prima che tu lo chieda” annunciò. “Nemmeno una letterina. Arwen non lo ammetterebbe mai, ma cerca di mettersi in contatto con lo Specchio di Galadriel tre volte al giorno.” Indicò una bacinella colma d’acqua appoggiata nel lavello. “E quella vecchia risponde sempre che non ha nulla da dire e poi zum, chiude la linea. Ha provato anche a buttarci lo Svelto per i piatti per vedere se riusciva a far assumere a quest'acqua qualità chiaroveggenti, ma niente.”
"Tentar non nuoce" sorrise Arwen.
“Ah.” Saphira si guardò i pollici in silenzio. “Ormai è più di due mesi che sono partiti” constatò, alzandosi per raggiungere il frigorifero e agguantare la Riserva Segreta di gelato all’amarena di Arwen. Si accanì sul coperchio tentando di aprirlo con furia dragonesca, finché Arwen non le mostrò che bastava tirare su una levetta.
Il nasino nero di Voldemort spuntò guardingo da sotto un cumulo di paglia e annusò l’aria. “Ah, sei tu” disse con noncuranza uscendo dal suo nascondiglio e ravviandosi il pelo con un colpo di coda. “Certo che potresti anche fare un po’ meno confusione. Che maniere sono queste?” la rimproverò impavido.
“Guarda che ti mangio” mormorò Saphira scoccandogli un’occhiata sanguigna, passandosi una mano tra i capelli per rovesciarli all’indietro e ottenendo solo di aggrovigliarseli ancora di più attorno al polso. Affondò il cucchiaio nel gelato per estrarne una generosissima porzione, metà della quale le finì sulla gonna. “Ridivento un drago e ti mangio.”
“Saphira, ignoralo. Piuttosto, dovresti farti una doccia” osservò Liz in tono piatto. “Tra mezz’ora dobbiamo essere a lavoro.”
“Quindi dobbiamo uscire? Di nuovo?” gemette Saphira ingoiando un’enorme amarena tutta intera e volgendosi verso il bagno. “Tu non sai cos’ho fatto per arrivare qui. Voglio dire, tutto è andato bene finché non è spuntato un tizio che voleva inseguirmi. Dopo che mi sono trasformata, nella mia grotta, ho fatto lo Zum Zum e sono arrivata sulla Flist Avenùe (credo di averlo letto bene, il cartello), e da lì…”
“Lo Zum Zum sarebbe una Smaterializzazione?” la interruppe Voldemort in tono petulante, mentre lei si faceva largo nella microscopica stanza da bagno e imprecava contro l’acqua gelida. “Ah, quando avevo ancora i miei poteri era robetta da niente, per il sottoscritto. La sapeva fare anche Potter” ventilò Voi-Sapevate-Chi. Elizabeth intonò una marcia nuziale.
“Comunque” stava proseguendo Saphira, urlando per sovrastare lo scrosciare dell’acqua “poi mi sono fatta dire dov’eravate. Ho fatto attenzione. Non ho fatto sbandare nessuno di quegli affari con le ruote. Ho anche rispettato i cosi a luci rosse.”
“Vuoi dire i semafori?” suggerì Arwen.
“Esatto. Insomma, stavo benissimo finché non sono arrivata qui vicino. A un certo punto è arrivato un tizio tutto ubriaco che ha cominciato a farmi proposte incidenti.”
“Indecenti, Saphira” sussurrò Arwen.
“Sì, quelle lì. Sono rimasta un po’ ferma come un orso strafatto di erba gatta, ma quello lì ha cominciato a inseguirmi! L’ho fatta tutta a corsa, dalla Quindicesima a qui. Ditemi che non ho manie di persecuzione… Ma come diavolo si apre ‘sto balsamo?”
“Benvenuta tra gli esseri umani, Phi” annunciò Elizabeth, recuperando le sue calze da sotto il letto. “Tranquilla, non hai manie di persecuzione. Invece a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato gli è preso un mezzo infarto quando ti ha sentita arrivare. Visto, Voldie? Niente Auror.”
“Ma io li avevo sentiti” si lamentò Lord Voldemort, parlando più al poster di Jude Law che ad Elizabeth.
“Beh, c’è una spiegazione, Lord Voldemort” disse Arwen in tono rassicurante, e andò a soccorrere Saphira, che era scivolata nella doccia e stava snocciolando un rosario di imprecazioni particolarmente fornito contro Eragon e i Cavalieri, tanto per cambiare. “Gli scoiattoli hanno l’udito finissimo, come gli elfi. Anch’io ho sentito la baraonda per le scale. Lei ha pensato che fossero gli Auror. È un po’ suggestionabile ultimamente, mio caro ragazzo.”
“Capito? La mancanza del Potterino ti ha rammollito” lo prese in giro Elizabeth, riponendo le ciabatte dei Muppets e tirando fuori un grosso fermacapelli dei Gremlins, che venne immediatamente bocciato da Arwen.
Davanti allo specchio ossidato che il geniale arredatore del motel aveva piazzato sopra i fornelli, Arwen avvolse un asciugamano bitorzoluto attorno ai capelli di Saphira e sussurrò una preghiera ai Valar perché l’aiutassero a trovare la spazzola (finita, come al solito, tra i vecchi dizionari di sortilegi di Elizabeth). “Puoi gettare la testa all’indietro? Ecco, bravissima.”
Mentre una pioggerellina gelida le scivolava lungo la schiena e Arwen le passava le mani tra i capelli, Saphira rabbrividì. Gli elfi hanno tutti dita lunghe e fredde, quando ti sfiorano sembrano impercettibili soffi di vento, o labbra sul collo. Nel riflesso opaco del volto dell’elfa, Phi riconobbe quello di Legolas e si mordicchiò pensosamente la lingua, chiudendo gli occhi. Il mormorio della voce di Arwen, che cantilenava una vecchia canzone della sua gente, capovolse il suo orizzonte.
Un bosco così bello e la certezza di non rivederlo. Il dolore e la malinconia nello stormire delle foglie, clorofilla sulle dita, sotto le unghie l’odore del muschio bagnato. I pensieri piatti del cavaliere ad agitarsi come deboli scarabocchi in sottofondo, Saphira si era chiusa a chiave e l’aveva lasciato fuori.
Legolas la guardava e canticchiava piano nella propria lingua. In seguito, Phi si sarebbe corrosa per giorni interi nel tentativo di ricordare le parole, senza riuscirci. Per fortuna non aveva ancora dimenticato la melodia, si portava con sé la sua voce, la sua pelle bianca, il calore nel centro del bosco gelido, tra le foglie morte, alle soglie dell’inverno. Il morbido uragano della sua bocca, le sue dita sulla schiena nuda.
Al mattino si era ritrovata tutta sola, distesa sul terreno umido, un mantello elfico avvolto attorno al suo stupido minuscolo corpo. Quella storia avrebbe dovuto finire così, com’era iniziata. Ma il suo profumo…
“Phi. Phi, dobbiamo andare.” Arwen le stava tendendo uno straccetto che avrebbe dovuto essere un vestito da sera. “Ti ho preso un libro di poesie, così se vuoi puoi esercitarti a leggere” sorrise. Indossava ancora il suo maglione, e un paio di vecchi jeans. Si sarebbe cambiata nel locale.
Elizabeth si diede una ripassata di rossetto e agguantò Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato a tradimento dopo averlo attirato con un’amarena grande quanto un mandarino.
“Andiamo, Colui-Che-Non-Può-Uscire-Dal-Grande-Fratello. Chissà che non trovi l’amore della tua vita, stanotte. Una bella vecchietta senza naso in calze a rete” sbuffò, cacciandoselo nella tasca della giacca.
Voldemort tacque, lanciando a Jude Law un’occhiata del tipo “solo tu mi capisci” mentre se ne andavano.
Prima di Durza
Nelle sue ore di nullafacenza meditativa privata, Saphira era tornata almeno un miliardo di volte, spinta da un lungo fiume melmoso di sensi di colpa, a com’era cominciata la faccenda. Sola con Glaedr che schiacciava il suo eruditissimo pisolino su una rupe, non faceva che riempirsi di tutti i se e i ma con cui la storia non si fa, senza trovarvi un capo.
All’inizio era stato solo un gioco. Mentre Eragon e Brom si allenavano, tra una città e l’altra, tra un guaio e l’altro, Saphira era costretta a passare ore da sola nella foresta. Si annoiava terribilmente e non poteva farci nulla. Era stufa perfino di cacciare. Passava le giornate distesa sulle rive dei fiumi, guardava l’acqua scorrere e si dava ai sogni ad occhi aperti. Fingeva di essere una delle belle ragazze, un po’ grassottelle, simpatiche, sboccate, che a volte, durante i suoi voli solitari, intravedeva passeggiare per le strade con i vestiti troppo scollati e i riccioli in disordine.
Una notte Brom l’aveva cercata per ore nel bosco senza trovarla, si era infuriato, aveva borbottato incantesimi complicatissimi per scoprire dov'era. Alla fine la magia si era fermata ai piedi di un albero, dove una ragazza dai riccioli rossi disordinati, nuda, dormiva avvolta nella coperta di Eragon. Aveva pensato fosse una mendicante, l’aveva svegliata per mandarla via.
“Che c’è?” aveva mugolato Saphira, assonnata, nella testa di Brom – in quanto dragonessa, non poteva parlare, ma solo far arrivare i suoi pensieri alla mente dell’interlocutore.
Brom si era infuriato. “Dove diavolo sei finita?”
La ragazza aveva aperto un poco gli occhi e Brom l’aveva scossa per le spalle, le aveva ordinato di parlare. Lei aveva mosso la bocca, confusa, e aveva pronunciato qualche sillaba sconnessa con scarsa convinzione, trasalendo al suono della sua stessa voce.
Brom aveva imprecato, mandato fanculo in culo affanculo tutte le divinità dell’Alagaesia, detto che una certa Eva era una gran puttana, e aveva abbaiato: “Saphira, sei tu?”
“Certo che sono io” aveva protestato Saphira nella sua mente. La ragazza aveva sbadigliato e aveva cercato di mettersi a sedere, ma era caduta. Aveva visto il suo riflesso nell'acqua e le era preso un attacco di panico.
Il cantastorie jedi aveva tentato di calmarla, ma non aveva saputo darle una spiegazione. “Te l’ho detto un miliardo di volte che la magia dei draghi è incomprensibile. Ma di questa trasformazione nei libri non si parla.” Aveva fissato il corpo della ragazza, pallido nella luce lunare, con uno sguardo strano. “Copriti” aveva borbottato, allungandole il suo mantello, e l’aveva issata in piedi. Le sue mani ruvide contro la pelle così sottile di Phy le avevano dato un brivido. “Non voglio che Eragon ti veda così. Mai. Ci mancherebbe altro che s’innamorasse di te. Vedi di trasformarti di nuovo, prima che arrivi. Non me ne importa di come fai. Saphira, per una volta nella tua vita…”
Saphira si era impegnata. Dopo due notti insonni era riuscita a trovare la sensazione giusta, l’incastro mentale che le permetteva di tornare ad essere una dragonessa.
All’inizio, mortificata, aveva evitato accuratamente di pensare troppo agli umani, per non trasformarsi ancora. Teneva la mente occupata a contare i rami, le stelle, le rane. Una noia.
Poi si era detta che era una dragonessa, che aveva perfettamente tra le zampe il controllo della situazione. E qualche giorno dopo aveva costretto anche Brom a convenire che quell’incantesimo strano che aveva trovato avrebbe potuto tornarle utile, in situazioni di estremo pericolo, se avesse avuto bisogno di non essere notata. Così, suo malgrado, lui l’aveva aiutata. Tutte le notti si era seduto di fronte a lei e, con la sua solita pazienza, aveva cercato di insegnarle come si fa ad essere una mezzasega di essere umano (anche se non capiva come facesse a preferire di essere un mucchietto di duecentootto ossa senza artigli, invece che un bestione di novecento chili grosso come un armadio).
“Fai schioccare le labbra tra loro, così. Prova a dire 'ba'. Andiamo, Saphira. Ba. Ba. Porrrca miseria, e io che pensavo di essere troppo vecchio per avere figli da accudire”. “Devi trovare l’equilibrio. Non stare gobba. Cammina.”. “Prendi il vestito così, prima il buco della testa, poi le maniche, poi tiri giù tutto. Andiamo.” Quanto doveva volerle bene…
Mentre Eragon e Brom erano in città, Saphira si metteva a correre attraverso la foresta, cadeva e si rialzava, ripeteva balbettando frasi stentate. “Sopra la panca la campra panca… Fanculo!”
Era strano: aveva sempre considerato gli umani come esserini troppo fragili e nella maggior parte dei casi sciocchi e insulsi. E in quel corpo si sentiva veramente spaesata: non aveva la lunga coda azzurra a bilanciarla, il suo campo visivo si era ristretto e i movimenti rallentati, e le sembrava di udire tutto come se avesse dell’ovatta nelle orecchie. Ogni tanto le tornava a galla l’idea che, se avesse dovuto difendersi, non avrebbe potuto spiccare il volo né incenerire nessuno, per non parlare poi del fatto che la sua pelle nuda, sottile e senza scaglie avrebbe potuto tagliarsi anche solo sfiorando un coltello. Si sentiva goffa, vulnerabile e, cavolo, estremamente piccola.
Ma dall'altra parte, nel recesso paradossalmente più selvatico e istintivo della sua mente, troneggiava una sensazione meravigliosa, leggerezza, libertà. Come volare.
Sabato, 3 febbraio. Ore 03.30
Black Angel, nightclub equivoco.
Chicago, USA
“Senti qui: Speravi in un a... amore c-come l’infont... ehm, l'infante, l'infante! l'infante che ti... che ti segue reggendoti in-in mano.... E inv... invece di f-fiori, versi e collane, la... morte ti diede rose. Ap... appassite al ramo.” Saphira chiuse il libro tenendo il segno con un dito, e guardò Elizabeth con un sorriso. Certo, urlare una poesia in mezzo a un locale di spogliarelliste tentando di sovrastare Mr. Sexobeat non è mai stato il modo migliore per declamarla, ma Liz non faceva caso a quelle piccolezze da “romanticismo sublunare”, come lo chiamava.
Non era cambiata affatto. Portava un trucco leggerissimo, brandiva lo shaker come un coltello a serramanico e teneva ben nascosto nella scollatura il ciondolo che la insigniva del titolo di Re dei Pirati (Arwen le aveva consigliato di appenderlo ad una catenina di finto argento, dal momento che l’originale era sbrilluccicosa e pacchiana come solo una collana di fine Seicento sa essere).
"Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale, eh, Phi? Mi piacerebbe entrare in quella testolina di drago e scoprire in quale amore speravi” gridò Liz, rovesciando indietro la testa per dare aria ai capelli biondi. “Garcìa Lorca, vero? Adoro quel poeta. E adoro. Quella. Donna.”
Sulle sue labbra spuntò un sottile, triste sorriso quando Saphira le lanciò un’occhiata interrogativa.
“Ehi, Signore Oscuro, passami il lime.”
Una bottiglia di lime si mosse silenziosamente sul tavolo. Nascosto nella tasca dell’elegante (e cortissimo) grembiule nero di Liz, Lord Voldemort sbuffò. “Lo sai che mi stancano gli incantesimi.” Lei lo ignorò.
“Giovanna la Pazza era la regina di Spagna ai tempi del mio bis-bis-bis-bis-nonno, sarà stato il Cinquecento. Non mi ricordo bene cosa c’era scritto nei miei libri di storia” urlò. “Una ragazza ribelle, comunque, alla corte di Borgogna. Nella sua famiglia c’erano stati piccoli episodi di follia, niente di serio. Poi sposò Filippo il Bello. Se ne innamorò. Lui morì e lei impazzì. La rinchiusero in un castello a Tordesillas per trent’anni, finché non tirò le cuoia.” Shakerò il cocktail in silenzio.
Saphira rabbrividì nel maglione di Arwen, i capelli rossi sparsi sul viso come per nascondersi. Il silenzio di Elizabeth la intimoriva quasi più della folla e della musica rombante, perché sapeva benissimo che cosa significava. Anche lei, per quanto quella città potesse illuderla di essere lontana dai suoi guai, era succube dei propri sensi di colpa.
Qualcuno caracollò sul bancone e biascicò che voleva scopare sulla spiaggia.
“Vuole un Sex On The Beach?” chiese Elizabeth inarcando un sopracciglio. Idiota, pensò. “Cocktail? Qui io servire cocktail” aggiunse, vedendo che il signore non recepiva. “Glu glu?” sbuffò alla fine, mimando l’azione dell’attaccarsi a una bottiglia e sollevando un’ondata di doppi sensi.
Tortuga. Ah, quanto le ricordava Tortuga... Almeno lì la gente non era falsa, e non credeva neanche di essere la padrona del mondo.
“Sì. Con poooooca crema chantilly, grazie” precisò il gentleman.
Elizabeth lo fissò con aria di sufficienza. “Crema chantilly?”
Il lord le rivolse un’occhiata che sottintendeva: “Certo, donna, cosa credi, di saperne più di me?”
“Plebeo. Crucio. Crucio!” sibilò Voldemort con odio, ma ottenne solo che il gentleman si grattasse dietro un orecchio. Almeno sull’infermità mentale dei clienti lui e Liz erano d’accordo.
Fare il barman in un locale di spogliarelliste era un lavoro che non doveva piacere a molte rappresentati del gentil sesso, ma Liz lo odiava con tutto il suo cuore, e non cercava neanche di nasconderlo. Sebbene non lo dicesse mai ad alta voce – non parlava mai di Will lì – lo sguardo che rivolgeva ai clienti, alle bottiglie, allo shaker e a tutto ciò che incappava nella traiettoria del suo sguardo gelido significava: A quest’ora potrei essere in mezzo all’oceano Pacifico a guardare le stelle con l’amore della mia vita, bere rum e scopare come una coniglia, quindi per piacere cerca di non rompere le palle.
Saphira mosse la bocca sventolandole davanti un foglietto che aveva tratto dal libro di poesie, e Liz schizzò in avanti a toglierglielo di mano. “Cos’era?” lesse nel labiale della dragonessa in incognito.
“Non qui” sillabò Elizabeth, nascondendolo nella propria scollatura. “Non. Qui! To’, guarda, Arwen sta ballando.”
Voltò suo malgrado la testa. La grazia di Arwen rimaneva immutata anche sulla passerella. Riusciva a trasformare l’ancheggiare scoordinato delle sue colleghe in una specie di danza solenne. I piedi sembravano tentare di non sfiorare la superficie sporca d’alcool del bancone, nonostante li separassero almeno dieci centimetri di plateau. Le gambe nude sibilavano nelle luci livide mentre si attorcigliavano al palo. Un po’ triste, ma bellissima.
Uno avrebbe anche potuto chiedersi perché quello schifo e non Granburrone, ma Liz conosceva la risposta. Era anche nella sua mente.
Saphira si mordicchiò il labbro. “A proposito, Liz” esclamò, sempre gridando. Ho sentito Eragon tradurre il titolo di un manoscritto interessante… Strapparsi il cuore. Catalogo degli incantesimi di separazione.
Per un momento gli occhi di Elizabeth s’illuminarono; poi, delusa, abbassò gli occhi su un bicchiere vuoto. “Però sarà in rune. Io non lo so tradurre, dobbiamo chiedere a Wen… – Mi puoi versare il gin nello shaker? – Purtroppo le mie conoscenze non vanno oltre l’inglese, il francese – quanti cubetti di ghiaccio? – e un po’ di coreano che mi ha insegnato Gibbs.” Gli occhi di Liz, colmi di nostalgia, vagarono per un momento in un paesaggio che solo lei poteva vedere, perdendosi nelle luci colorate che impazzivano sopra la pedana delle spogliarelliste, mentre le mani, abbandonate a sé stesse, agitavano svogliatamente lo shaker. “Ma forse Wen ci riuscirebbe. Dio santo, è stata mille anni a non fare un emerito cazzo, l’avrà trovato il tempo di studiare un po’ di rune. – Ce lo vuole il limone?”
In quel momento vide Lord Voldemort schizzare dal suo grembiule alle ginocchia di Saphira con un gridolino da ninja. “Guarda che se l'Ufficio d'Igene o quella roba lì ti pesca qua, puoi fargli tutte le avade kedavre che ti pare, finisci comunque in un cassonetto” lo avvertì. "Non l'hai mai visto Ratatouille?"
Il Signore Oscuro-ma-non-troppo finse di non sentire e gridò qualcosa nell’orecchio di Saphira, uno strisciante mix di sibili e fischi. Ecco, era matto. Ma la cosa peggiore fu che Saphira gli rispose tranquillamente nella stessa lingua, come se non avesse fatto nient’altro in tutta la sua vita.
Liz indirizzò un sorriso angelico al sant’uomo che le aveva appena chiesto di fargli una vodka alla pesca e dargliela (non si specificava, qui, se il complemento oggetto fosse ancora la vodka), si voltò e agguantò lo scoiattolo per la coda.
“Grasso vecchio sciuride puzzone, si può sapere che c’è?”
“P-potter. Potter è qui” mormorò Voi-Sapevate-Chi guardandola terrorizzato.
“Voldemuccio, per favore, ragiona. Secondo te cosa ci fa il Potterino alle tre e mezza della notte in un club di spogliarelliste? Eh? Visto che per tua sfortuna sta anche con l’amichetta rossa. Andiamo.”
“Ti dico che è qui!” balbettò la povera mente criminale.
“Tu te lo sogni la notte, quel povero ragazzo. E dire che t’ha pure ammazzato, per farti capire che non ti voleva intorno.”
“Veramente, non è andata proprio così. Ma è irrilevante! Sta venendo a prendermi.”
Elizabeth lo depositò di nuovo nella sua tasca e chiuse la zip. “Quel vecchietto sta veramente perdendo il senno, parola mia” disse.
“Perché, l’ha mai avuto?” domandò una voce alle sue spalle.
Prima che potesse voltarsi, Elizabeth vide, con la coda dell’occhio, un lampo di luce azzurra volare appena dietro di lei, dritto contro i ripiani di Martini, che esplosero.
“Oh, cazzo” mormorò quando, in mezzo alla folla affastellata intorno al bancone, vide un ragazzo pallido, dai capelli rossi, accasciarsi per terra. “Voldie, ma che hai fatto?”
“Non è stato lui” sussurrò Saphira. “Sono stata io.”
In quel momento, in un affannoso ticchettio di tacchi, un paio di gambe chilometriche raggiunse il balcone e per poco non infilzò i presenti estasiati. “Muoversi, muoversi” sussurrò Arwen sopra le loro teste, agguantando Saphira per un braccio e issandola sul bancone. “Liz, sbrigati.” Il volto perfetto era imperlato di minuscole goccioline di sudore, e il kajal nero con cui si era incorniciata gli occhi sopra l’ombretto sfumato stava cominciando a sbavarsi.
Corsero, per quanto permettevano loro i tronchetti, lungo la pedana, verso un’altra sala, nella parte interna del locale, sollevando un concerto di fischi.
“Arwen, ma che diavolo…”
“Gli Auror, Lizzie. Voldemort aveva ragione.”
Il fermaglio argentato che Arwen si era appuntata tra i capelli si confuse nella folla danzante.
Saphira chiuse gli occhi per controllare l’attacco di panico che stava accelerando i battiti del proprio cuoricino ridicolmente piccolo e si lasciò guidare dalla mano di Elizabeth, mentre il suo corpo veniva risucchiato da un’onda di altri corpi e le pareva improvvisamente di non riuscire a respirare.
   
 
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