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Autore: Dernier Orage    14/04/2012    2 recensioni
Parigi, Marzo 1997. Due amanti si rincontrano dopo quattordici anni: Ismaël ha una piccola libreria a Parigi, Stéphane è diventato uno scrittore, ha due figlie e tifa l'Arsenal. Storia di una ricostruzione.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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L’euforia con la quale Stéphane aspettava Immanuel irritava profondamente Ismaël. Lo aveva odiato fin dal principio, a partire dal nome e lo aveva odiato quando, per una questione di educazione, gli aveva ceduto il posto del passeggero per scivolare nei sedili anteriori. Lo aveva odiato quando l’aveva visto uscire attraverso le porte scorrevoli lucidate a specchio dell'aeroporto, con un trolley nero. Giacca grigia e pantaloni neri di due completi differenti, un fermaglio in platino sulla cravatta scura, occhiali da sole. I lineamenti affilati, le guance svuotate e aderenti al teschio, gli zigomi alti e gli occhi chiari incastonati nelle orbite incavate, la sfumatura alta enfatizzata dai capelli neri pettinati all’indietro. Aveva odiato come aveva baciato sulle guance Stéphane e come, appena partiti, si era voltato verso di lui ad osservarlo attentamente, forse aspettandosi qualche frase di circostanza che non sarebbe arrivata. 
Ismaël si era sporto dal lato sinistro, aveva poggiato una mano sulla spalla di Stéphane e gli aveva chiesto di alzare il volume della musica. Li aveva odiati quando avevano iniziato a chiacchierare, l’accento perfetto di Immanuel poteva essere il suo o quello di suo padre, nessuna cadenza regionale o straniera, non come Stéphane o le bambine, oppure come Marc e il suo accento parigino. 
Immanuel gli aveva passato il suo portafoglio, aperto in modo da mostrare la foto di un ragazzo dai capelli rasta intrecciati a piume e bulloni, non guardava verso l’obiettivo ma si distinguevano gli occhi castano chiaro dalle influenze verdi e dorate, le spalle possenti tradivano la muscolatura allungata e nervosa. 
Gli aveva detto il nome, Egon, Ismaël glielo aveva restituito senza dire una parola e si era acceso una sigaretta, perché gli dava così fastidio? Per come muoveva le spalle quando camminava o per come Stéphane ne aveva parlato? Stéphane aveva bisogno di lui per lavorare e lo aveva voluto affianco, un frammento di vetro a pungere il petto. 
Immanuel era rimasto appoggiato alla portiera con la schiena, si teneva con un braccio al sedile e lo fissava con un sorriso sornione, aveva accennato a quanto Stéphane gli avesse parlato di lui ed Ismaël gli aveva risposto alludendo alla convinzione non giustificata dello scrittore di conoscerlo, prendendosi una rivincita anche su Stéphane e la semplicità con la quale lo feriva, sembrava non rendersene conto o sottovalutarlo, forse scaldato da quella palese gelosia come da un complimento o un’ammissione di debolezza. 
Stéphane accomodante lo aveva richiamato guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore, sostenendo lo sguardo fino a quando non venne distratto dal traffico all’entrata dell’autostrada. 
Nelle prime ore di viaggio lo aveva osservato spesso, a cadenza regolare, con un sorriso si era accorto che si era addormentato con la testa contro il finestrino, aveva abbassato l’aria condizionata e si era concentrato sulla strada. Immanuel gli aveva raccontato di come andava la vita ad Amburgo, qualche commento su un nuovo scandalo che aveva coinvolto l’ex moglie e un membro del Bürgerschaft, un accenno alla redazione e al salto di qualità che avevano fatto. 
- Sei mai stato a Brest? - aveva domandato Stéphane mantenendo il volume basso per non svegliare Ismaël; in quel punto della strada il mese prima aveva forato ed era stato un incubo dover mettere la ruota d’emergenza, uscire al primo paese e cercare un meccanico aperto la domenica pomeriggio. 
- In Bielorussia, non in Francia - rispose Immanuel inarcandosi per togliere la giacca e rimanere in maniche di camicia. Poi aggiunse; - gli stai rendendo tutto quello che hai dovuto subire? - 
- Subire? No, affatto, ma non nego che sia piacevolissimo vederlo così geloso - mormorò Stéphane, lasciando scivolare lo sguardo dalla strada, al retrovisore, ad Immanuel e agli specchietti laterali. Immanuel gli aveva sempre evitato di andare dallo psicologo e parlare con lui veniva istintivo; - tutto quello che ho sempre desiderato si è avverato. Anche più di quanto desideravo, non mi azzardavo neppure sperarle certe cose. Tutta la mia vita si è sistemata in una persona e nel suo mondo. Io invece gli ho portato la confusione... - 
- Non mi pare se ne lamenti - aveva constatato Immanuel togliendosi gli occhiali mentre il sole spariva dietro le nuvole. 
- Addirittura suo padre mi ha ringraziato per aver convinto Maël a passare a casa le vacanze e non a Parigi. Prima lo vedeva solo nei giorni di Hanukkah - Stéphane sogghignò e aggiunse: - a proposito, cerca di non accettare mai da bere da Jean-Jacques, ti ritroveresti ubriaco in meno di dieci minuti - 
- Se me lo dici tu mi posso fidare - aveva borbottato Immanuel riferendosi ai trascorsi con l’alcol dello scrittore nei primi anni di matrimonio. Più volte lo aveva recuperato al pub ubriaco di prima mattina, più volte lo aveva aiutato nelle stesure, nelle correzioni, nei bisogni di continuità e lucidità. Stéphane non accettava le banalità che il grande pubblico bramava, certo, erano soldi facili, ma lui ci stava rimettendo la salute, nella speranza di riuscire a scrivere per se stesso. Lo scrittore creava una musicalità, ricercava l’eufonia ed era un lavoro semplificato dall'idealizzazione della lingua straniera. Immanuel aveva la stessa familiarità col francese, per questo Stéphane aveva bisogno di lui nella traduzione: doveva ricreare il ritmo buffo comprensibile solo allo straniero.
- Hai fame? - Stéphane guidava rilassato, una mano sul volante, l’avambraccio sulla portiera, appoggiato allo schienale. Preciso, lineare. Con la coda dell’occhio vide il cenno di diniego dell’amico; - meglio, non voglio svegliarlo adesso che dorme così bene. Tra due ore ceniamo però - 

Il sole scivolava dietro le nuvole all’orizzonte diffondendo una luce calda e ambrata. Il cielo diventava livido e denso mentre calavano le tenebre; non accesero la luce. Ismaël sul ciglio del letto, circondato dai quaderni di appunti, dalle fotocopie e dai ciclostilati sgualciti di qualche fanzine punk trovata nei meandri di un cassetto dei ricordi di Stéphane. I segni sbiaditi del nastro adesivo sul muro, sul pavimento la scatola dei ventagli ingialliti della collezione materna. Stéphane inginocchiato teneva le mani di Ismaël con i palmi rivolti in alto, perdendosi a percorrere le falangi sottili e lunghe, ad osservare le piccole cicatrici madreperla, il neo sotto il mignolo destro. Mani che disegnavano sulla pelle, su cui depositare baci distratti. 
La musica nella stanza, dischi ritrovati dopo anni di distacco forzato per non rimanere sommersi dai ricordi. A means to an end, una canzone e le lacrime che Stéphane non nascondeva, l’unico significato lampante. I put my trust in you, I put my trust in you, I put my trust in you, I put my trust in you. 
Jeopardy, l’album preferito di sempre, il riascolto provocava lo scioglimento del ghiacciaio della loro eterna adolescenza, un passepartout per l’età adulta, una questione risolta in un momento intenso e grave, solenne nell’intimità. Il tremare della mano di Ismaël sul Desire. 

- Michelle, guarda cosa ha trovato nonna Eveline - esclamò Ismaël un primo pomeriggio di un giorno assolato mostrando alla bambina il seggiolino da montare sulla bicicletta - ti va di fare un giro con me?- 
- Io devo fare i compiti, tu vai - la convinse Louise, spingendola verso Ismaël. 
- Lo montiamo sulla bici del nonno e poi andiamo a prendere un dolce nel cafè di nonna Annik, okay? - Ismaël aveva scelto apposta quel momento per trovare le strade relativamente deserte, in modo che Michelle non si trovasse paura - se poi ti piace lo portiamo anche a casa, così possiamo rinunciare all’automobile - 
- Davvero? - mormorò Michelle stranita. 
Ismaël le sorrise. In poco tempo, grazie soprattutto alle indicazioni di Eveline che aveva usato il seggiolino per portare in giro i nipotini, lo montò sul portapacchi della bicicletta del padre, prese in braccio Michelle e le spiegò che doveva stare ferma, tranquilla e non slacciarsi le cinture di sicurezza. Mise lo zainetto della piccola dentro il cestino anteriore e partirono. Percorsero rue Denver, attraversarono i giardini di place de Gaulle, e dopo boulevard Français Libres, Michelle volle fermarsi a guardare gli scafi dal Pont de Recouvrance, in altri cinque minuti arrivarono al cafè.
Annik appena vide la nipotina lanciò sul bancone lo straccio e corse ad abbracciarla. 
- Cosa ci fate qui? - domandò la donna stupita, erano dieci giorni che li vedeva solo a colazione e poi sparivano per l’intera giornata a casa di Jean-Jacques, dove Stéphane lavorava con Immanuel. In realtà la questione che la preoccupava maggiormente era l’insofferenza di Ismaël nei confronti di Immanuel. 
- Volevamo venire a trovarti - Ismaël si appoggiò al bancone e tolse gli occhiali da sole per riporli nella tasca della camicia; - ho promesso un dolce a Michelle, cosa consigli?- 
- Dritto dal nord, da Saint-Malo: ker y pom? - Annik fece accomodare Michelle davanti ad un tavolino illuminato dalla luce soffusa della vetrata colorata. Dietro una teca sul bancone prese tre cupolette di sablée bretone ricoperte di gocce di cioccolato e con metà mela a fettine all’interno. Annik diede un’ultima occhiata agli avventori per individuare quanto tempo di pausa avrebbe potuto prendersi, poi si sedette voltata verso la porta, per controllare; - li fanno in una pasticceria qui vicino - 
- Okay - confermò annuendo Ismaël e sedendosi vicino alla bambina. Michelle aveva appoggiato sul tavolino lo zainetto e aveva tirato fuori due bamboline di pezza fatte da zio Egon. Annik le trovava spaventose ed Ismael inquietanti; - come le hai chiamate? - 
- Non lo so, a te che nomi piacciono? - chiese Michelle affondando un cucchiaino nella pasta morbida del dolcetto. 
- Ferenc o Arkadij, Zoe o Cybèle - a sentire i nomi preferiti da Ismaël, Annik fece cadere con un tonfo il cucchiaio sul piatto di ceramica dai bordi ondulati. 
- Ismaël, caro, non immagini quanto io sia contenta che Michelle non si chiami Cybèle - gli bisbigliò a denti stretti. Poi sorrise alla nipotina e aggiunse; - ci sono tanti nomi carini: Marina, Brigitte, Alain, Eric...- 
- A me piacciono quelli di papà- Mormorò Michelle indicando le due bamboline e sporcandosi le labbra di cioccolata. Annik rimase a guardare affascinata la nipotina e lasciò il filo dei pensieri ingarbugliarsi e cambiare direzione mille volte. Pensò con fierezza al coraggio del figlio di ricominciare daccapo e che forse l’aria allegra e lo sguardo felice di Michelle erano dovuti proprio agli ultimi mesi. Dopo qualche minuto la bambina chiese; - cosa vuol dire imbuto? - 
- Imbuto? - ripeté Annik attonita; - come ti è venuto in mente? - 
- È una cosa di plastica o vetro per travasare i liquidi… forse è meglio fartelo vedere però - cercò di spiegare Ismaël guardandosi intorno; - Annik, hai un imbuto? - 
Annik si mise a ridere della curiosità improvvisa della nipotina e andò a recuperare l’imbuto che usava per travasare il sidro dal fusto alle bottiglie di vetro. Mostrò a Michelle come funzionava e diede una bottiglia ad Ismaël da portare per la cena. 

Le due settimane di lavoro febbrile e stancante avevano portato come risultato la traduzione completa e soddisfacente, una busta di carta gialla con il libro rilegato col nastro adesivo telato nella valigia di Immanuel ed una cartellina con diversi floppy disk contenenti il confronto tra l’originale tedesco e la traduzione francese. Prima che Stéphane lo accompagnasse all’aeroporto di Brest a Guipavas, Ismaël gli aveva teso la mano e lo aveva invitato a tornare per le vacanze di Natale assieme ad Egon. 
Ismaël rimase sul divanetto dello studio intento a leggere delle lettere ricevute dalla Russia dal padre, come quando, da giovane, ogni suo apprendimento della lingua straniera veniva confinato in quella stanza e veniva incoraggiato a tenere tutto a mente senza appunti che poi avrebbe dovuto bruciare. 
Ogni tanto Jean-Jacques commentava ad alta voce le vignette di Siné e sorseggiava il the al gelsomino preferito dalla moglie. Con un’espressione divertita aveva accolto il rientro di Stéphane e osservato il modo con cui si erano abbracciati - le dita di Stéphane immerse nei capelli Ismaël e le sue mani strette sui fianchi dello scrittore - invidiandoli un poco per la giovane età. 
Scoprire che il figlio era omosessuale non era stato un trauma o un motivo per disprezzarlo o ripudiarlo, l’unica amarezza riguardava il non poter avere dei nipoti. D’altronde era stato in guerra in Indocina e parecchi uomini in quell'inferno asiatico avevano abbandonato i dogmi occidentali della famiglia e dei figli per mostrare il loro vero lato, come dei colleghi del SDECE di stanza a Berlino, nei tre anni in cui aveva lavorato in Bebelplatz; ne aveva conosciuti molti e tanti non erano tornati in Francia vivi, alcuni li aveva rispettati e ammirati. Proprio non poteva disprezzare suo figlio, non dopo il modo in cui non glielo aveva detto ma presentato come la cosa più comune al mondo, coadiuvato dall’appartamento a Parigi che sicuramente rappresentava per lui l’indipendenza. Jean-Jacques si era divertito al proprio matrimonio a dividere l’interesse e la curiosità dei parenti con il figlio e Morgan. E ora c’era Stéphane e c’erano le due bambine, nessun problema. 
Solo uno: voleva abbracciare Eveline più spesso. 
Jean-Jacques trasalì a sentire le risate di Stéphane, erano ancora stretti nel loro mondo. 
- Dunque non lo odi così tanto? - stava chiedendo lo scrittore. 
- Ho avuto modo di parlargli - accennò Ismaël baciandolo e sollevando gli angoli della bocca in un sorriso; - mentre eri sotto la doccia e cantavi.- 
- Canto discretamente, lo devi ammettere - mormorò Stéphane sedendosi sul divano e stiracchiandosi i muscoli del collo. 
- Io non ammetto niente - borbottò Ismaël uscendo dallo studio. 
- Grazie di averci ospitati - da sopra il settimanale Jean-Jacques vide chiaramente Stéphane distendere le braccia sopra la spalliera e piegare il capo per guardarlo sottosopra; - grazie mille - 
- Tranquillo, aspetto una copia - gli rispose immergendosi nuovamente nelle vignette. 
- Per Natale, credo - sussurrò Stéphane, reprimendo uno sbadiglio. 
- Ritornate prima di andare a Parigi - pregò Jean-Jacques lasciando cadere la conversazione. 
- Certamente - confermò lo scrittore, poi si alzò e prima di richiudere la porta mormorò nuovamente un ringraziamento. 
   
 
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