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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    16/04/2012    7 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

Last Friday night

Yeah we danced on tabletops

And we took too many shots

Think we kissed but I forgot

Last Friday night

Katy Perry - Last Friday Night

09. Last Friday night

«Giù, giù, giù!»

Guardai un’ultima volta Edward e ricambiai il suo sorriso di sfida, mentre la gente intorno a noi ci incitava a mandare giù l’ennesimo bicchiere di shot. Portai il piccolo bicchiere alle labbra e bevvi l’intero contenuto in un unico sorso, deglutendo il più velocemente possibile per non sentire il gusto amaro della tequila in bocca.

Appoggiai il bicchiere al tavolo con la testa che girava pesantemente, sentendo il liquido risalire velocemente dallo stomaco. Ricacciai il groppo deglutendo e ciondolai avanti. Mi appoggiai con i gomiti al bancone di legno, mentre sentivo qualcuno ridere. Fissai lo sguardo sulle venature screpolate del tavolo, cercando di far smettere alla terrazza di girare, inutilmente. Capovolsi il bicchiere dello shot, affiancandolo alla pila degli altri dalla mia parte.

Guardai Edward, che respirò profondamente prima di bere il suo bicchiere ed imitare il mio movimento dopo averlo svuotato. Ancora pari.

Al contrario di me, lui sembrava ancora sobrio. Mi chiesi come poteva un ragazzo che beveva pochissimo riuscire a mandare giù tanto alcol senza ritrovarsi ubriaco dopo un solo shot. Forse era solo una facciata ed anche lui era brillo quanto me.

Allungai una mano verso un nuovo bicchiere di tequila, ma Edward lo prese prima di me, coprendolo con il palmo. Lo guardai accigliata.

«Meglio se ti fermi», mi disse, apprensivo.

Posai la mano sulla sua, e cercai di scacciarla per liberare il bicchiere. «Posso ancora vincere», ribattei, senza rendermi conto di quanto biascicate fossero le mie parole.

Edward scosse il capo, e quando pensavo di essere riuscita a strappargli il bicchiere di mano Jacob lo prese al mio posto, e bevve tutto il liquido in un sorso.

«Bene, direi che per questa sera abbiamo bevuto abbastanza!», esclamò, sorridendo, un po’ brillo.

Edward lo guardò con un sopracciglio inarcato. «Finalmente l’hai capito. Dopo tutti gli shot che l’hai convinta a bere pensavo le avresti comprato ancora una bottiglia di alcol».

Jacob sghignazzò, portandomi un braccio intorno alle spalle. «Su, una bevuta ogni tanto non fa male. Aveva bisogno di svagarsi, non è vero?», chiese, rivolgendosi a me.

Lo guardai con aria assente. «Ce ne andiamo?», domandai, sorpresa.

Edward si alzò dallo sgabello. «Sì».

Jacob tolse il braccio dalle mie spalle, e finì l’ultimo shot rimasto sul bancone al posto di Edward.

Scesi dallo sgabello, e non appena fui con i piedi per terra un capogiro mi colse inaspettato. Jacob posò entrambe le mani sulle mie spalle, tenendomi dritta. «Ohi. Tutto bene?», mi chiese divertito, mentre Edward mi osservava preoccupato.

Scrollai le sue mani di dosso, annuendo.

Edward fece un passo avanti e mi prese delicatamente per un gomito, facendomi avanzare verso la folla di gente, diretti verso l’uscita della terrazza. Jacob era dietro di me, a chiudere la fila.

Eravamo giunti al centro della terrazza, accanto alla fontana con il Cupido, quando mi fermai, impiegando alcuni secondi per elaborare il motivo per cui l’avevo fatto.

Edward si voltò a guardarmi, e Jacob posò una mano sulla mia schiena, avvicinandosi per controllare che non stessi per cadere o vomitare, probabilmente.

«Che cosa c’è?», mi chiese il mio compagno di viaggio, senza lasciare il mio gomito.

«Conosco questa canzone», esclamai, ricordandomi cosa mi aveva convinta a fermarmi.

Edward inarcò un sopracciglio, ma non disse niente. Jacob invece premette delicatamente la mano contro la mia schiena, per spronarmi ad andare avanti.

Feci un passo, e posai entrambe le mani sulle braccia di Edward, sorridendo. «Balliamo».

I suoi occhi si spalancarono, sorpresi. «Balliamo

Annuii scuotendo il capo, finendo per rendere tutta la mia visuale ancora più confusa. «Mi piace questa canzone».

Edward assottigliò lo sguardo. «Tu odi ballare», disse, guardandomi come se fossi un’aliena.

«Io non odio ballare. Mi sento stupida a ballare», ribattei, abbassando lo sguardo e ciondolando da un piede all’altro. In un’altra situazione probabilmente sarei arrossita violentemente, ma in quel momento le mie guance erano già bordeaux a causa dell’alcol.

Sentii Jacob ridacchiare alle mie spalle. «Meglio accontentarla», lo sentii dire. «Gli ubriachi vanno assecondati».

Mi voltai a guardarlo, accigliata. «Io non sono ubriaca», borbottai. Alle mie orecchie la mia voce suonava normale, ma a giudicare da come Jacob ed Edward scoppiarono a ridere dovevo avere un tono strascicato e assonnato, da perfetta ubriaca.

Tornai a guardare Edward, e mi avvicinai ancora un po’. «Balliamo?», insistetti, guardandolo negli occhi. Sotto le luci colorate della terrazza le sue iridi verdi sembravano più brillanti e profonde che mai.

Mi fissò per un istante, pensieroso, poi sospirò. Senza dire niente prese le mie mani nelle sue, e iniziammo a ballare. Non sapevo di preciso cosa stavo facendo. Muovevo il corpo al ritmo della musica - o almeno così mi sembrava - e cercavo di imitare altre ragazze che vedevo muoversi scioltamente, oscillando i fianchi e scuotendo le chiome ribelli. Edward mi fece fare una breve piroetta, e per un istante mi parve di scorgere un sorriso divertito sulla sua faccia quando mi riacciuffò mentre ciondolavo con la testa che girava violentemente. Mi tenni stretta a lui, alla ricerca di un punto fermo per riprendere cognizione del luogo in cui mi trovavo, e in quel momento la musica cambiò, divenendo lenta.

Posai la testa sul suo petto, e chiusi gli occhi. La sensazione di giramento diminuì lievemente, e pensai che per la prima volta in vita mia ero riuscita a ballare senza sentirmi una completa idiota incapace di muovere due passi senza sembrare una papera umana, nonostante in quel momento stessi praticamente ciondolando con tutto il mio peso lasciato contro Edward, che mi sorreggeva e dettava il ritmo. Le sue mani si erano ancorate alla mia vita, tenendomi vicina. Mi sembrava quasi di sentire il battito del suo cuore contro l’orecchio, se non fosse stato impossibile a causa della musica troppo alta e il confuso chiacchiericcio intorno a noi. Distesi con la punta delle dita le pieghe della sua camicia, sentendo sotto i polpastrelli la consistenza soda dei muscoli del petto, e sospirai leggermente.

Dopo pochi minuti Edward si fermò, e la presa sui miei fianchi si fece leggera come una piuma. Alzai il capo per incontrare il suo sguardo e lui fece un passo indietro, allontanandosi. «È meglio se torniamo al motel», disse, e il suo sguardo vagò verso Jacob, che stava parlando con una ragazza mai vista prima, appoggiato contro il bordo della fontana.

Piegai la bocca in una smorfia. «Non possiamo restare ancora un po’?», biasciai, cercando di riavvicinarmi a lui.

Edward posò le mani sulle mie braccia, tenendomi a distanza. «Bella…», mi rimproverò con gli occhi socchiusi.

Mi allontanai di un passo. «Va bene», sbottai, voltandogli le spalle. Andai vicino a Jacob, e ignorai la ragazza che ci stava chiaramente provando con lui, prendendogli un braccio. «Andiamo», gli ordinai malamente, costringendolo a muoversi. Jacob guardò Edward, confuso, poi mi seguì mentre cercavo di farmi strada nella folla, senza sapere se stessi andando verso l’uscita. Jacob cercò di indicarmi la giusta direzione, e dopo un minuto ci ritrovammo al limitare della terrazza. Sentii la mano di Edward stringermi il braccio mentre mi avviavo verso i gradini che portavano in strada, e la scacciai con uno strattone.

«Lascia che ti aiuti a fare le scale», disse, cercando di riafferrarmi.

Feci il primo gradino di tre da sola, reggendomi sui miei piedi con difficoltà, ciondolando pericolosamente senza nemmeno rendermene conto. Mi voltai a guardare Edward, che mi fissava con preoccupazione, insieme a Jacob. «Ce la faccio da sola», sbottai, fieramente.

Mi voltai nuovamente per completare la breve scala. Giunta con un piede sull’asfalto del marciapiede stavo già iniziando a dire “Visto?” che non riuscii a reggermi su una sola gamba e crollai a terra, provando una fitta alla caviglia destra. Edward e Jacob furono subito al mio fianco, inginocchiati sull’asfalto.

Edward passò un braccio intorno alla mia vita, tirandomi a sedere. «Stai bene? Ti fa male qualcosa?» Mi appoggiò sul primo gradino della scala, e percorse velocemente il mio corpo con sguardo clinico.

«La caviglia», brontolai, provando una fitta quando tentai di muovere il piede.

Le sue mani da medico corsero al mio piede, dove sfilò la Converse per poter controllare che non ci fossero danni. Tastò gentilmente la carne, e gemetti debolmente.

«Riesci a muoverlo?», mi chiese, mentre Jacob stava perdendo la testa. Aveva già il cellulare in mano, pronto a chiamare un’ambulanza. Edward lo zittì, cercando di spiegargli che telefonare da ubriachi al pronto soccorso non era la scelta più saggia in quel momento e che aveva la situazione sotto controllo. Questo sembrò calmarlo un po’, ma continuava a tenere il cellulare a portata di mano.

Mossi il piede circolarmente, provocando l’ennesima fitta. Feci una smorfia, annuendo.

«È solo una storta», confermò, dopo aver risistemato la calza al mio piede, facendo attenzione a non muoverlo. «Guarirà in pochi giorni».

Annuii debolmente, e lui lanciò la mia scarpa a Jacob, che l’afferrò fortunatamente al volo con una strana acrobazia delle braccia. Mi aiutò ad alzarmi su un solo piede, e poi si voltò fino a rivolgermi la schiena; si abbassò leggermente fino ad arrivare alla mia altezza e mi disse di salirgli in spalla. Il mio corpo si mosse automaticamente, e allacciai le braccia intorno al suo collo, riuscendo per miracolo ad aggrapparmi a lui senza rischiare di far cadere entrambi. Le sue mani si allacciarono sotto le mie ginocchia, e si sollevò rimettendosi dritto. Appoggiai il mento alla sua spalla, sospirando.

Jacob sorrise sornione, e ritirò il cellulare. «Che serata ragazzi», esclamò, stiracchiandosi. Si incamminò verso il nostro motel, poco distante, e iniziò a canticchiare una canzone che non conoscevo.

Chiusi gli occhi, affondando il viso contro il collo di Edward e inspirando il suo profumo. Le sue mani si strinsero maggiormente intorno alle mie ginocchia, e sfregai il viso contro la sua pelle, solleticandomi con i suoi capelli. Lo sentii irrigidirsi e allungare il passo, fino ad affiancare Jacob, che continuava a canticchiare.

Caddi in una specie di oblio per qualche minuto, e mi risvegliai quando sentii Edward fermarsi.

«Credo che si sia addormentata», sentii dire da Jacob, nel dormiveglia. Tenni gli occhi chiusi, stringendo la presa intorno al collo di Edward, cercando una posizione più comoda.

Edward respirò profondamente. «Bella?», mi chiamò.

«Hm?», mormorai a bocca chiusa, rifiutandomi di aprire gli occhi.

«Siamo arrivati al motel. Riesci a prendere le chiavi?»

Sollevai controvoglia le palpebre, e alzai il capo fino a vedere che ci trovavamo davanti alla porta della mia camera. Slacciai un braccio dal suo collo per infilare una mano nella tasca dei jeans, dove avevo messo la chiave della mia stanza per non portarmi dietro la borsa. La presi e la porsi a Jacob, tornando ad appoggiarmi alle spalle di Edward.

Il meccanico aprì la porta, spalancandola, e gettò la mia scarpa all’interno della stanza, vicino all’ingresso.

«Va bene», disse poi, sorridendo. «Credo proprio che ci vedremo domattina ragazzi. A che ora è la sveglia?»

«Nove e mezza. Alle dieci ci troviamo alla tavola calda per fare colazione», rispose Edward, prendendo le chiavi della mia stanza dalla toppa.

Jacob annuì e si diresse verso la sua camera, a qualche porta più in là. «Perfetto. Buona notte, ragazzi!»

Non appena si allontanò canticchiando Edward entrò nella mia stanza, chiudendo la porta con il piede alle nostre spalle. Accese con il gomito l’interruttore della lampada a terra che gettò una luce arancione nella stanza, e poi avanzò verso il letto da una piazza e mezza, dove mi fece scendere.

«In valigia ho la crema per i lividi e una benda. Se mi aspetti posso andare a prenderle», disse, riferendosi alla storta alla mia caviglia, mentre mi sfilavo anche l’altra scarpa e le calze. La caviglia era diventata già gonfia, e al minimo movimento mi faceva male.

Annuii senza dire nulla, e non appena Edward uscì dalla stanza mi alzai per andare a prendere il mio pigiama, appoggiato sul sedile dell’unica sedia della stanza. Saltellai facendo una smorfia ogni volta che il mio piede destro toccava terra, e rischiando più volte di cadere a causa del giramento di testa che non mi aveva ancora abbandonato. Mi sentivo confusa e non riuscivo a pensare lucidamente, ma in quel momento non mi rendevo affatto conto di essere ubriaca. Riuscii a cambiarmi la maglia, e a fatica riuscii anche ad abbassare i jeans, imprecando quando piegandomi in avanti per sfilarli dal piede destro sbattei la testa contro la scrivania. In quel momento sentii la porta della stanza richiudersi e mi voltai verso Edward, che teneva in mano un rotolo di bende ed un flacone di pomata. Mi guardò per un istante, poi distolse lo sguardo. «Che stai combinando?», mi chiese, avvicinandosi al letto e lasciando cadere sul piumone i suoi attrezzi da medico.

Mi sfregai con una mano la fronte nel punto in cui mi faceva ancora male, con le lacrime agli occhi per il dolore improvviso. «Volevo mettermi il pigiama», brontolai, sollevando i pantaloncini corti del pigiama. Solo in quel momento mi ricordai di avere le gambe completamente nude ed esposte alla sua vista, insieme alle mie mutandine. Cercai di coprirmi con i pantaloncini, ma poi ricordai che in fondo Edward aveva già visto tutto quel che c’era da vedere, e anche se non eravamo più fidanzati quello non cambiava il passato.

«Mi si è incastrato il piede e ho battuto la testa», aggiunsi, mentre lui mi guardava.

Sentii le guance calde e abbassai lo sguardo, tenendomi con una mano alla scrivania e cercando con l’altra di togliermi i jeans completamente. Feci una smorfia quando mi costrinsi a piegare il piede per riuscire a liberarmi, e li gettai alla rinfusa sulla sedia, con rabbia. Presi i pantaloncini del pigiama, e li tesi in avanti per infilarli.

«Aspetta», disse in un sospiro Edward, venendomi davanti. «Ti aiuto, prima che cadi».

Prima che potessi obiettare prese i pantaloni corti dalle mie mani e si sedette sui talloni davanti a me, allargandoli per far passare i miei piedi.

Incerta, appoggiai entrambe le mani sulle sue spalle e alzai il piede sano, sostenendomi sulla caviglia dolorante, trattenendo un gemito di dolore.

«Avresti dovuto cambiarteli da seduta, lo sai?», disse senza alcuna intonazione.

Trassi un respiro di sollievo quando tornai a sostenere il peso sul piede sano, e sollevai l’altro, infilando definitivamente i pantaloncini.

«Non ci ho pensato», bofonchiai, sostenendomi ancora a lui.

Le sue mani sollevarono lentamente i pantaloni, sfiorando con le nocche dei pollici la pelle nuda delle mie gambe in tutta la loro interezza fino ad arrivare ai fianchi, dove rilasciarono l’elastico. Una cascata di brividi scivolò lungo la mia schiena, e se non fosse stato per l’appoggio alle spalle di Edward probabilmente sarei caduta a terra a causa delle ginocchia improvvisamente deboli.

Dopo un istante Edward si rialzò, e lasciai cadere le mie mani.

«Grazie», sussurrai.

Lui si schiarì la voce brevemente, e si voltò verso il letto. «Vieni. Ti faccio la fasciatura», disse.

Zoppicai fino al letto e mi sedetti sul bordo, per poi strisciare fino ad arrivare con la schiena contro i cuscini. Edward si fermò a metà del materasso, e appoggiò la mia caviglia sulle sue gambe, prendendo in mano la pomata. Quando posò la prima goccia di crema sussultai per il contatto con quella sostanza gelatinosa che sembrava ghiaccio. Con il palmo della mano massaggiò con lentezza la caviglia, facendo attenzione a non premere troppo nel punto in cui vedevo i muscoli gonfi, che mostravano già un colorito più scuro. La sua pelle scivolava sulla mia senza attriti, facilitata dalla crema che rendeva la mia piacevolmente liscia, e diffondeva un delicato profumo di eucalipto nell’aria. Le dita di Edward indugiarono ancora per un istante sul mio piede, poi lo spostò, alzandosi.

«Tienilo sollevato per un po’. Appena la crema si asciuga faccio la fasciatura», mi disse, dirigendosi verso il bagno per lavarsi le mani dalla crema.

Mi sollevai dai cuscini, facendo scendere i piedi dal materasso e lasciandoli a penzoloni dal letto, per evitare di macchiare le lenzuola di pomata. Quando lui tornò si sedette accanto a me, prendendo in mano la garza e passandola da un palmo all’altro, in attesa.

«Perché non sei ubriaco?», domandai dopo un attimo, imbronciata.

Edward fermò il movimento delle sue mani e mi guardò con le sopracciglia inarcate. «Dovrei esserlo?»

Socchiusi gli occhi. «Hai bevuto un sacco anche tu. Io lo so di essere un po’ brilla, ma tu sembri normale», borbottai.

Un angolo delle sue labbra si piegò verso l’alto, in un sorriso sghembo. «Un po’ brilla?»

Gli colpii il braccio, facendolo ridere leggermente. «Io non sono ubriaca», sbottai, imbronciata.

Edward bloccò la mia mano per impedirmi di colpirlo ancora, continuando a ridere. «Se lo dici tu».

«Perché non sei ubriaco?», insistetti, quasi dimenticandomi di cosa stavamo parlando. Il suo sorriso era così rilassato che sarei potuta restare a guardarlo tutta la notte.

«Abbiamo bevuto al massimo tre shots, Bella. E un cocktail. Sei tu che hai una bassa resistenza all’alcol», ghignò, lasciando andare il mio polso.

Sbuffai, e mi lasciai cadere all’indietro sul materasso, aprendo le braccia. «È impossibile che non sei brillo», dissi, osservando distrattamente il soffitto.

«Un po’ mi sento confuso», ammise dopo un secondo di silenzio, ancora seduto sul bordo del letto. «Ma riesco a nasconderlo meglio di te», aggiunse, con un sorriso divertito.

Allungai un braccio fino ad attaccarmi al suo, e mi sollevai fino a tornare accanto a lui, sentendo la testa girare. «Quindi ora sei confuso?», mormorai, notando solo lontanamente quanto eravamo vicini.

Edward assottigliò lo sguardo, ma nei suoi occhi lessi un sentimento che riconobbi immediatamente: desiderio. «Non abbastanza da non capire che sei ubriaca e non ti rendi conto di quello che stai facendo».

Presi una sua mano nella mia, muovendola fino a portarla sulla mia coscia. «Non sono ubriaca», ribadii, senza freni né controllo. Dove era finito tutto il mio raziocinio? Possibile che l’alcol avesse mandato in fumo tutti i miei propositi e pensieri? Tutto il passato?

Negli occhi di Edward scorsi una scintilla, ma non capii che sentimento fosse. Allontanò la mano, liberandosi dalla mia debole presa. «Bella…», mi rimproverò, con tono grave.

«Che c’è?», sbottai, imbronciandomi.

Lui respirò profondamente. «Sto cercando di non fare niente di stupido. Perciò ti prego. Cerca di collaborare», disse a denti stretti, aprendo la benda bianca per iniziare la fasciatura. «Dammi la caviglia», disse, cercando di mantenere un tono severo, ma la sua voce tremò.

Sbuffai, e sollevai il piede fino ad appoggiarlo alla sua coscia. Lo osservai mentre teneva lo sguardo puntato sulla mia gamba, cercando di concentrarsi mentre mi fasciava il piede in modo da non muoverlo eccessivamente. La fronte presentava due rughe create dal cipiglio concentrato sul suo viso, e gli occhi seguivano il movimento delle sue mani, che giravano intorno alla mia caviglia legandola. Quando la garza terminò appuntò un piccolo fermaglio, chiudendo la fasciatura.

Lasciai ricadere il piede sul materasso, e prima che Edward potesse alzarsi lo afferrai per la manica della camicia. «Resti a dormire qui?», gli chiesi, dando voce al mio desiderio.

Edward mi fissò sorpreso, ma presto quel sentimento venne oscurato da pensieri più cupi.

«Non lo vuoi davvero», disse semplicemente, alzandosi e lasciando le mie mani a cercare nel vuoto.

«Sì, invece», sbottai, battendo il pugno rimasto vuoto contro il materasso.

Edward mi guardò dall’alto, più serio che mai. «Lo vuoi adesso solo perché sei ubriaca. Domattina quando ti sveglierai vorrai uccidere me e prendere a testate te stessa. Quindi faccio un favore ad entrambi andandomene», ribatté, raccogliendo il barattolo di pomata e dirigendosi verso la porta.

Mi alzai in piedi tempestivamente, ignorando il giramento di testa e il dolore al piede destro, e feci alcuni passi zoppicanti verso di lui. «Non è vero che non lo voglio», replicai, più disperata che arrabbiata. «Lo voglio sempre ma non ho il coraggio di ammetterlo».

Edward si fermò accanto alla porta, con la mano già sulla maniglia. Lo vidi respirare profondamente, poi si voltò verso di me. «Non è così».

Strinsi i pugni, avvicinandomi ancora. «Sì invece. Non si dice in vino veritas? Se davvero sono ubriaca significa che ti sto dicendo la verità quando dico che voglio restare con te la notte. Non lo ammetto mai perché ho paura». Sentii gli occhi diventare improvvisamente lucidi, e mi morsi il labbro inferiore con forza.

Edward mi guardò per un lungo istante, ed ero certa che se fossi stata più vicina avrei potuto leggere nei suoi occhi la battaglia che stava combattendo dentro di lui. «Non vorresti dirmi queste cose. Domattina probabilmente ti odierai per avermele dette».

«Non importa», sussurrai. «Ti prego, resta».

I suoi occhi mi scrutarono per un lungo istante. «Sei sicura?»

In risposta sorrisi, annuendo. Edward mi guardò ancora per un istante indeciso, poi si sfilò le scarpe, lasciandole nell’ingresso con le calze. Mi venne accanto, e mi aiutò a saltellare fino al letto; poi fece il giro, e si sedette sul materasso, ma prima che si infilasse sotto le coperte lo fermai.

«Non ti togli neanche i jeans? Non ti danno fastidio?», gli chiesi, perplessa, senza pensare al fatto che avrebbe dormito nel mio stesso letto, attaccato a me. Entrai nel letto, restando vicino al bordo.

Edward aggrottò le sopracciglia. «Per te va bene se li tolgo?», si assicurò, per niente convinto.

Annuii, ripensando al fatto che quella non sarebbe stata la prima volta che avrei dormito insieme a lui in biancheria intima.

«Domattina non mi ucciderai vero?», insistette, alzandosi per sfilarsi i pantaloni.

Risi leggermente. «No, te lo prometto».

Osservai il suo profilo illuminato dalla luce arancione della lampada, soffermandomi sulla curva del suo fondoschiena fasciato dai boxer neri aderenti. Solo quando si schiarì la voce capii di essere stata colta in flagrante mentre lo guardavo. Sentii le mie guance diventare incandescenti, e dopo essermi voltata dalla parte opposta alla sua tirai le coperte fin sotto il mento, nonostante il caldo estivo che aleggiava nella stanza; l’aria condizionata si era spenta ore prima, e di notte avrebbe dato troppo fastidio tenerla accesa.

Sentii Edward infilarsi sotto i lenzuoli leggeri, e mi sembrò quasi di sentire il suo calore irradiarsi fino a me, aumentando la temperatura nella stanza - già di per sé alta. Avvertii un lieve movimento, e vidi il suo braccio tendersi oltre di me, sfiorandomi la spalla; il suo respiro accarezzò i miei capelli per un istante, poi nella stanza calò il buio, ed Edward si allontanò nuovamente.

«Buona notte», sussurrò nell’oscurità, sistemandosi alle mie spalle.

«‘Notte», risposi, chiudendo gli occhi. Qualche secondo - o minuto? - dopo girai su me stessa, voltandomi verso di lui. Non potevo vederlo, ma ero certa di sentire il suo respiro infrangersi contro il mio, accarezzandomi il viso.

Nonostante fossi cosciente della sua presenza a pochi centimetri da me non impiegai molto ad addormentarmi. Caddi in un sonno pesante, privo di sogni.

 

Fui cosciente del fastidioso mal di testa che mi assillava prima ancora di aprire gli occhi. Sentivo il sangue pulsare violentemente contro le tempie, e la bocca così secca che non riuscivo nemmeno a deglutire. L’unica spiegazione ad una simile situazione era evidente: la sera prima dovevo averci dato dentro con l’alcol, e anche parecchio - almeno secondo i miei canoni.

Aprii gli occhi cautamente, pronta a ritrovarmi accecata dalla luce del sole che filtrava attraverso la finestra: ero sicura di aver dimenticato di chiudere le tende prima di uscire, e non ricordavo se una volta tornata in camera avevo avuto la lucidità di farlo. Tuttavia trovai la stanza piacevolmente avvolta da una semioscurità, e vidi le spesse tende verdi tirate accuratamente. Sospirai pesantemente, e richiusi gli occhi. La sveglia segnava le nove in punto, quindi avevo ancora mezz’ora di tempo - sempre se Edward e Jacob non avevano cambiato orario la sera precedente, quando eravamo al pub.

Sollevai il capo per girare il cuscino, alla ricerca di uno sprazzo fresco su cui poggiare la testa, e scacciai con i piedi i lenzuoli, che si erano attorcigliati intorno a me durante la notte. All’improvviso un mugolio spezzò il silenzio, e mi fece immobilizzare. Rimasi ferma e zitta, aspettando che il suono si ripetesse, ma non udendo nient’altro mi girai lentamente su me stessa, fino a trovarmi con il volto rivolto alla parte opposta del letto.

Trattenni il respiro e sentii la gola diventare se possibile ancora più secca di quanto fosse già. Accanto a me c’era Edward, rivolto a pancia in giù e con il viso rivolto dalla parte opposta alla mia, la schiena nuda che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro. I lenzuoli che avevo scacciato il minuto prima si erano abbassati fino alle sue ginocchia, rivelando i boxer neri che contrastavano con il bianco latteo del letto.

Il mio sguardo corse immediatamente al mio corpo, e con un sospiro di sollievo accertai che il mio pigiama fosse ancora al suo posto. Tuttavia quello non poteva escludere nulla.

Un’ondata di panico mi sommerse quando provando a ripensare alla serata precedente ricordai solo pochi secondi. Ricordavo di aver bevuto una caipiroska alla fragola, e poi di aver accettato di sfidare Edward a chi riusciva a bere più shot di tequila, nonostante fossi consapevole di sentirmi già confusa. Poi… più niente.

Mi morsi le labbra, guardandomi in giro per cercare qualunque segno che potesse indicare che avevamo fatto sesso: vestiti sparsi in giro, scarpe buttate chissà dove, carte di preservativi - avevamo usato una protezione, gli avevo detto che avevo smesso di prendere la pillola da mesi, vero? - ma tutto sembrava in ordine, tranne la sua camicia abbandonata ai piedi del letto dal suo lato. Forse avevamo rimesso a posto tutto dopo, non potevo saperlo. Quei pensieri non fecero altro che aumentare in maniera spropositata il mio mal di testa, che ormai sembrava deciso a farmi friggere il cervello.

Respirai profondamente e decisi di alzarmi dal letto, cercando di fare il minor movimento e rumore possibile, neanche fossi stata una ragazza che cercava di scappare dal tizio con cui aveva fatto sesso la notte prima e il mattino dopo non ricordava nemmeno il suo nome. Tuttavia, il mio piano andò completamente in fumo quando mettendo il piede destro a terra e provando a fare il primo passo proruppi con un fragoroso «Ahi!» ed una caduta accanto al letto. Mi portai una mano alla testa e l’altra alla caviglia dolorante, maledicendo il mal di testa. In quel momento riuscii a ricordarmi di un momento della sera precedente: ero caduta da dei gradini stortandomi la caviglia, per quello ero crollata provando una fitta pazzesca al piede.

Edward si svegliò subito, e lo vidi alzarsi sui gomiti e guardarsi intorno, intontito. Il suo sguardo si fermò su di me, e si spostò verso il mio lato del letto, il volto preoccupato. Lo fermai alzando una mano prima che si alzasse dal letto e dicesse qualcosa.

«Dimmi che non è quello che penso», dissi, cercando di mantenere un tono di voce basso per non farmi troppo male alla testa. La mia voce era rauca per la gola secca, di sicuro non ero un bello spettacolo in quel momento.

Edward sembrò cadere dalle nuvole. «Non è come sembra», disse solo, anche lui con la voce roca.

La sua risposta mi rincuorò solo in parte. «Vuoi dire che noi non… non abbiamo fatto niente di stupido, vero?»

Edward inarcò un sopracciglio, accigliato. «Se per stupido intendi aver bevuto quegli shot, allora mi spiace dirti che sì: abbiamo fatto qualcosa di molto stupido. Se ti riferisci invece a fare sesso la risposta è no».

Presi un profondo respiro di sollievo, appoggiandomi con la schiena al letto. Grazie al cielo.

Sentii Edward ridacchiare leggermente. «E poi, secondo te, avremmo avuto la forza per rivestirci dopo?»

Sentii le mie guance avvampare, ma ignorai il suo commento. «Posso sapere cosa ci fai nel mio letto, allora?», gli chiesi, cercando di imporre alla mia voce una nota di durezza, fallendo. Nella mia voce l’unica cosa che si poteva sentire era una gola troppo secca e un gran bisogno di silenzio. Ma in quel momento la pace era un lusso che non potevo concedermi, non con tante domande ancora in ballo.

Edward comunque interpretò la mia stanchezza come rabbia, o forse pentimento. «L’avevo detto che mi avresti ucciso», disse, passandosi una mano fra i capelli. Scese dall’altra parte del letto, e si infilò i jeans.

«E allora perché non te ne sei andato?!», sbottai d’impulso, portandomi poi una mano sulla fronte per il dolore. Mi rialzai fino a sedermi sul bordo del letto.

Edward si voltò verso di me, l’espressione seria. Ogni nota di divertimento era sparita dalla sua voce. «Perché mi hai pregato di non farlo», rispose semplicemente, tenendo la voce bassa, probabilmente capendo quale fosse il problema che mi affliggeva in quel momento, o forse perché ne era una vittima anche lui.

Feci una smorfia. Nonostante stessimo entrambi tenendo un tono di voce basso le mie tempie pulsavano come tamburi. «Ero ubriaca. Avrei potuto dire qualsiasi cosa», mi difesi.

Lui si infilò la camicia, lasciandola sbottonata. Mi venne accanto, e in quel momento ero talmente dolorante e stanca che non ebbi nemmeno la forza per fermarlo. «Ieri sera hai detto tu stessa: in vino veritas. Entrambi abbiamo ceduto ad un nostro desiderio, quindi ora non nasconderti dietro alla scusa di essere stata ubriaca», disse, con più durezza di quanto mi sarei aspettata.

Le sue parole fecero scattare i miei ricordi, confusi e annebbiati, di ieri sera: ricordavo di essere stata sulle sue spalle, troppo dolorante al piede per camminare, di averlo osservato mentre mi metteva i pantaloni del pigiama, di averlo pregato di restare con me la notte dicendogli proprio in vino veritas. Mi ero scoperta come non mai, come mi ero ripromessa di non fare per nessuna ragione al mondo prima di partire con lui per quell’avventura.

Alzai lo sguardo su di lui, sentendomi per la prima volta nuda interiormente dopo tanto tempo. Mi ero aperta così tanto con lui sotto l’effetto dell’alcol. Se gli avevo rivelato quello, cos’altro avevo avuto modo di dirgli, che in quel momento non ricordavo? Mi sentii più esposta che mai, fragile e aperta ad ogni suo possibile attacco. Cos’altro era successo quella notte? Se ci fossimo anche solo baciati, però, ero sicura che me lo sarei ricordata. Dovevo ricordarmelo.

Abbassai lo sguardo, e osservai la fasciatura bianca intorno alla mia caviglia destra, fatta con cura - opera di Edward. Si era preso cura di me, e forse quello - insieme all’alcol - aveva fatto scattare qualcosa dentro di me. E lui aveva ragione: non potevo nascondermi dietro la scusa di essere stata ubriaca, perché intendevo ogni singola parola detta. «È vero quello che ho detto: in vino veritas. È vero che voglio ancora stare con te», ammisi, sentendo la mia voce tremare. «Ma questo non cambia le cose. Non so se voglio rischiare ancora, Edward. Non sono… ancora guarita del tutto da quello che è successo l’anno scorso», sussurrai, sentendomi quasi male a dire quelle cose ad alta voce. «E non so se lo sarò mai».

Edward si mosse verso la porta, le mani che allacciavano scompostamente la camicia. Si fermò con la mano sulla maniglia e si voltò. «Forse…» Si interruppe, e scosse lievemente il capo. Quando tornò a guardarmi i suoi occhi mostravano un dolore che non avevo ancora visto. «Mi permetteresti di aiutarti a guarire?»

Nella stanza cadde il silenzio, e quella domanda aleggiò nell’aria, come un’eco. E la risposta che gli detti cambiò tutto fra di noi.

 

«Ditemi che possiamo restare qui fino domani», esalò Jacob, disteso a pancia in sù su un muretto di Plaza Santa Fe, nell’omonima città. In una mano teneva un frullato fresco, e sul viso aveva un paio di occhiali da sole neri come la notte. Anche lui, come me, era ancora afflitto da un bel mal di testa.

Mi sedetti poco distante da lui, resistendo alla tentazione di imitare la sua posizione. Quei mattoni nonostante fossero scomodi sembravano piacevolmente freschi, riparati dalla folta chioma di un albero. La brezza leggera che soffiava nella città era calda, ma abbastanza piacevole se si aveva fra le mani un bicchiere di frullato con i cubetti di ghiaccio che emanavano una piacevole frescura ai palmi. Il mal di testa era diminuito progressivamente, ma era ancora un tarlo persistente nelle mie tempie.

Edward era l’unico ad essersi svegliato con un mal di testa sopportabile, e dopo aver somministrato sia a me che Jacob una pastiglia per calmare il dolore - che fosse benedetta la sua valigetta medica sempre con lui - ci aveva messi in macchina per ripartire alla volta di Albuquerque. Tuttavia, il mix aria condizionata e caldo afoso del New Mexico non furono un’accoppiata vincente: sia io che il meccanico continuavamo a lamentarci del male, così ci ritrovammo costretti a fermarci a Santa Fe, poco dopo essere partiti da Canoncito. La città era solare e molto rustica, e le casette gialle si accastellavano una attaccata l’altra a diversi livelli, con i loro tetti piatti e le loro finestrelle rettangolari che sembravano non avere vetri ed erano prive di balconi. I colori predominanti erano il giallo ocra e il marrone, ma ogni tanto si scorgevano chiazze di color arancione, che davano alla città un tocco in più di colore. La gente che girava per le strade erano per lo più turisti, e le chiacchiere dei cittadini erano un miscuglio di inglese e spagnolo, anche se quest’ultima lingua era quella predominante - dato che del resto era la lingua ufficiale dello Stato.

Edward si allontanò per andare ad una farmacia, alla ricerca di un medicinale che secondo lui avrebbe avuto effetti miracolosi sul nostro mal di testa, e lasciò me e Jacob da soli in piazza, dicendoci di prepararci a rimetterci in viaggio non appena sarebbe tornato.

Jacob sbuffò. «È ingiusto che lui abbia solo un leggero mal di testa. Ha bevuto quanto e più di noi», brontolò, come un bambino offeso.

Se non avessi avuto paura di procurarmi una fitta di dolore avrei alzato gli occhi al cielo. «Ha una resistenza all’alcol migliore della nostra».

«Deve essere abituato a bere spesso, allora», commentò lui, alzandosi per bere il suo frullato.

Lo guardai, pensierosa. «Non credo. È un chirurgo, non può permettersi di bere molto, o rischierebbe di avere le mani che tremano».

Jacob girò con la cannuccia il contenuto colorato del bicchiere. «Mi sembra strano che tutta questa resistenza sia una dote naturale», disse. «Comunque, che cosa è successo questa notte fra di voi?», chiese a bruciapelo, cambiando completamente discorso.

Sobbalzai, sentendo le guance arrossire a tradimento. «Nulla».

Jacob sorrise, divertito. «Allora perché sei arrossita di botto? Se non ricordo male vi ho lasciati davanti alla tua stanza. Avete dormito insieme?»

«Jacob!», strillai, provocando una fitta sia alla mia testa che quella del meccanico.

«Non urlare, ti prego», piagnucolò, portandosi una mano alla tempia. «Volevo solo sapere se grazie all’alcol eri riuscita a scioglierti un pochino, tutto qui».

Aggrottai le sopracciglia, mantenendo un’espressione offesa. «Cosa intendi dire con sciogliermi un pochino

Bevve un sorso di frullato, parlando con la cannuccia a pochi millimetri dalle labbra. «Ho notato che tu che Edward siete ancora attratti l’una dall’altro, e pensavo che con qualche bicchierino avresti lasciato da parte la timidezza e ti saresti fatta avanti».

«Aspetta, fermo un momento», dissi, alzando una mano. Lentamente, ricongiunsi tutti i pezzi alle sue informazioni. «Stai dicendo che ieri sera mi hai spinta a continuare a bere per questo motivo? Perché volevi che mi facessi avanti con Edward?»

Jacob si strinse nelle spalle. «Pensavo di farvi un favore. Non è stato così?», mi chiese, con un tono di voce ed uno sguardo innocente.

La rabbia che iniziai a provare svanì davanti ai suoi occhi scuri, sinceri. Ci conosceva solo da un giorno, eppure si comportava già come un vero amico, sperando di agire nel nostro interesse. Non poteva sapere che la situazione fra me ed Edward era più complicata di quel che sembrava. Aveva intuito facilmente che eravamo ex fidanzati, ma non sapeva i motivi della nostra rottura. Non sapeva che un semplice incontro da ubriachi senza freni non poteva risolvere tutto il caos.

«Non è così semplice», dissi, distogliendo lo sguardo. «Le cose fra me ed Edward sono un po’ complicate. Anzi, è un bene che questa notte non sia successo niente, altrimenti credo che sarebbe una situazione quasi irrecuperabile», ammisi amaramente.

Jacob inarcò le sopracciglia. «Mi dispiace, non volevo peggiorare la situazione», disse, sinceramente dispiaciuto.

Cercai di sorridere. «Non potevi saperlo. È stato un gesto… carino da parte tua, anche se un po’ da impiccione», dissi, con un sorriso.

Jacob rise. «Lo so, è un mio grande difetto immischiarmi negli affari degli altri. Non riesco a farci niente, purtroppo». Poi tornò serio. «Comunque, spero di non aver peggiorato la vostra relazione con la mia trovata di ieri sera».

Scossi il capo, accennando un sorriso. «No, per niente, non preoccuparti. Anzi…», aggiunsi pochi secondi dopo, ritenendomi in dovere di dirgli qualcosa di più dopo quello che aveva fatto per noi, «credo che l’hai migliorata, e il merito è solo tuo».

Jacob aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quel momento riapparve Edward, con un sacchetto della farmacia in mano. «Per fortuna ce le avevano», disse, riferendosi alle pastiglie miracolose. «Se arrivati ad Albuquerque avrete ancora il mal di testa potrete prenderne una».

Jacob sorrise. «Agli ordini doc!», disse, imitando il saluto militare.

Risi leggermente, ma la mia risata si spense presto. Le parole di Jacob erano ancora fisse nella mia mente, ma non erano riferite alla storia fra me ed Edward.

 

Il tratto della Route 66 che connetteva Santa Fe al Albuquerque non era molto lungo: impiegammo poco più di un’ora per raggiungere la nostra meta, e per strada non c’erano altre tappe, quindi procedemmo diretti fino là. Il mal di testa non voleva saperne di diminuire, e sperai solo che l’ora di pranzo arrivasse presto, così da poter prendere la nuova medicina. Non ce la facevo più, e il sole accecante rendeva quella situazione ancora più fastidiosa.

«Guardate!», esclamò Jacob, all’improvviso. Il suo dito puntò verso un punto al di là del parabrezza, nel cielo. Mi sporsi verso i sedili anteriori. «Ecco il simbolo della mia città!»

Una mongolfiera a strisce rosse e giallo pallido spiccava nel cielo azzurro, sopra le case; i colori accesi spiccavano nel cielo azzurro, completamente sgombro di nuvole.

«Benvenuti ad Albuquerque ragazzi!», esclamò il meccanico, orgoglioso.

Guardai Edward, e per un istante il ricordo di quella mattina mi colpì, strappandomi un sorriso e infondendomi una speranza che da quasi un anno non provavo. Sì, le cose sarebbero migliorate, dovevo crederlo.

«Mi permetteresti di aiutarti a guarire?»

Deglutii a vuoto, e quando capii che la voce non sarebbe uscita chiara come desideravo decisi di scuotere semplicemente il capo. Annuii, e guardai il sorriso nascere sulle sue labbra.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Il furgoncino della Volkswagen - sostituisce la jeep di Emmett.

Salveeee! :D

Come qualcuno aveva intuito Bella si è ubriacata, soprattutto grazie a Jacob che le ha dato una spintarella per farlo. Si è lasciata andare con Edward e anche se all'inizio sembra pentirsene poi ci ripensa e cambia idea. Nel capitolo ci sono alcuni punti che potrebbero mettervi la pulce nell'orecchio per iniziare a far capire un po' cosa potrebbero essersi lasciati a Chicago Bella ed Edward.

Anche in questo capitolo il viaggio viene lasciato un po' da parte per fare spazio alla relazione fra Edward e Bella, che finalmente sembra andare per il verso giusto. Nel prossimo capitolo saremo ad Albuquerque, città natale di Jacob. Lo saluteranno o resterà ancora con loro? :D

Grazie a coloro che continuano a seguire questa storia e a recensire!

Alla prossima settimana! :D

   
 
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